Carduino. Poemetto cavalleresco in due cantari
p. 32-83
Texte intégral
Primero cantare di Carduino
1.
Guasparre e Marchïonne e Baldasare,
che vi movesti infino d’orïente
per Giesue ch’era nato ritrovare,
dietro seguisti la stella luciente
tanto che tutti a tre vi fè arivare
in Beliemme con vostra nobil giente,
dov’era nato i’ re del vero coro,
che gli oferesti incienso e mirra e oro.
2.
Queste tre cose virtudiose tanto
singnificaron ch’era trinitade,
Padre e Figliuolo e Spirito Santo,
Iddio uscito per divinitade,
tre e due e un si cuopre dell’amanto
della divina e somma podestade;
uno e due e tre sono uno Iddio,
creder si de’ che di Dio Dio uscìo.
3.
Per questo santo e perfetto oferere
che voi facesti a’ re de’ re divino,
per grazia sì vi diede a posedere
l’eterno regno il Padre singnor fino.
Donami grazia, sed-e’ t’è in piaciere
ch’ i’ possa seguitar di Carduino,
qual fue al tempo del gran re Artue;
e udirete di lui gran virtùe.
4.
La storia mi dimostra e ’l dir palese
che ’l grande re Artù corte tenia
in Camellotto, nel nobil paese.
Con seco avea la nobil baronia:
ma un baron ch’era molto cortese,
di senno pieno e di gran gagliardia,
per senno suo, e ch’era d’alto afare,
per tutto il mondo si facìe nomare.
5.
E per lo senno che costui avia
lo re gli diede tutto il suo secreto;
molto l’amava e gran ben gli volia,
e sempre seco sel tenea a cheto;
onde che certi della baronia
grand’astio gli portavan nel secreto.
Per l’astio che portavano al barone
un dì l’ucison con gran tradigione.
6.
Una donna rimasene al ver dire
giovane e fresca e bella di natura,
con un picol fanciullo a lo ver dire,
che nove mesi avie la creatura;
e per paura nol facci morire
ella pensò portarlo alla ventura;
in una selva grande si nascose
e portò pietre e perlle e ricche cose.
7.
E come nella selva fue entrata
nel più profondo luogo ella tenea;
una capanna ebe dificata,
di frasche e di lengname la faciea.
Col suo figliuolo ella si fue posata
più di sette anni, che non si sapea;
nèlla corte né ’re non sa nïente
dove si fusse andata, nè suo giente.
8.
E Giesù Cristo con Santa Maria
la gentil donna fortemente amava,
ch’è suo divota, e gran ben le volia;
con cierte bestie il fanciullo si stava.
Colle bestie si stava notte e dia,
onde colloro il fanciul dimorava.
Questo fanciullo usò tanto colloro
che non crede sia altro che costoro.
9.
Dimorando il fanciullo in questo modo,
cinq’anni e più questo fanciullo avia
che non credea fusse altro che costoro;
colle bestie si stava not[t]e e dia.
E quando di dieci anni era sodo
egli apellò la madre e sì dicia.
E sì diciea: «Carissima madre,
intendo di saper chi è mie padre.»
10.
Ella rispuose dotta: «Figliuol mio,
egli è ’l singnor del cielo e della terra:
il padre tuo, figliuol mio, è Iddio.»
La madre ta’ parole gli diserra:
«Non è più giente se non tu ed io
e lle bestie che sono in questa serra.»
Ond’egli a questo dir no rispondea;
credette quel chella madre diciea.
11.
Or viene un giorno che ’l fanciullo andava
sol perllo bosco sanza conpangnia;
una gran giente v’era che caciava
al bosco, ed erano istati quel dia
per pigliar bestie, sì come s’usava,
porci, cinghiali e cierbi, in fede mia:
onde due ispiedi sì v’avien lasciati;
i caciator gli avien dimenticati.
12.
Andando il damigiel perlla foresta
ingnudo e scalzo, sanza in capo avere,
ond’e due ispiedi trovò alla canpes[tra];
Carduino gli prese con ardire,
e disse: «O padre Iddio, che cosa è questa?»
E alla madre fece suo redire.
Gridando disse: «Madre, i’ò trovate
queste due cose; come son chiamat[e]?»
13.
«O madre mia, deh dimmi inmantanente:
che è questo che lucie e taglia tanto?
Che io voglio sapere il convenente.»
Per alegreza facïe gran pianto.
Allor rispuose la donna piaciente:
«O figliuol mio, i’ ti vo’ dire tanto:
il padre tuo Iddio gli t’à mandati
perché con teco tu gli abi portati.»
14.
E Carduino disse: «Madre bella,
dimmi, madre, quel ch’io ne debo fare.»
Allor rispuose quella damigiella:
«Con e’ le bestie sì debi pigliare.»
E fecie un sengno allor quella donzella,
e ’nverso il sengno incominciò allanciare;
«A questo modo pigliera’ le bestie,
e mangiera’ la carne e arèn le veste.»
15.
E Carduino ne prese in mano uno
e perllo bosco incominciò andare.
Bestie selvagie se pigliava alcuno
e’ alla madre sille avie a portare;
onde sicuro più che mai alcuno,
niuna bestia a lui non può scampare;
che l’ucideano ella carne mangiavano,
e delle cuoia poi sì s’adobavano.
16.
La madre le scuoiava, e Carduino,
ch’è grande e grosso e fiero nel visagio,
tutto piloso era quel fantino,
che a vedere parea un uon selvagio.
Di dodici anni era il damegiel fino,
e ben cresciuto egli era di vantagio.
In questo tempo mai non vide giente;
e’ non ne vide cogli ochi niente.
17.
Un giorno i’ re andava alla ventura,
con esso avea gran quantità di giente;
e Carduino sentì la fattura;
della capanna uscì subitamente
con que’ due ispiedi sanza aver paura
di frasca in frasca il damigiel posente,
tanto che dalla giente fu veduto,
chenne venia perllo bosco fronzuto.
18.
A spron battuto quella giente magna,
gridando forte: «Eco un uon selvagio!»
e’ lo scaciaron per la gran canpangna,
ed e’ si fugie per quel gran boscagio.
Di correr forte e’ non si sparangna,
spine né bronchi no gli fan danagio,
tanto che quella giente l’à smarrito:
alla madre tornò isbigotito.
19.
Ella madre, vegiendol che fugia,
fèglisi incontro e presel per le brac[c]ia.
«C’à tu, figliuol, dolcie isperanza mia?
C’à tu, figliuolo? Dimi chitti caccia?»
Ed e’ rispuose: «Dolcie madre mia,
o madre, tummi gabi e tummi incaccia.
Tu di’ c’al mondo nonn’à più gïente
se non no’ due e Cristo ’nipotente.
20.
E io n’ò veduti in questo bosco
una gran giente fatta come noi,
sopra gran bestie, e questo ben conosco,
corenti più che non volan gli uciei;
elle lor veste che portono indosso
sì son luciente assai vie più che noi.
Or t’aparechia, madre, in veritade,
chè ciercar vo’ del mondo quantitade.»
21.
La madre sua vedendo il suo volere
tolse suo gioie e suo vestimento;
di cuoia di bestie era sanza mentire;
tolse danari e perlle e ariento;
e in quel bosco uscì sanza falire,
e tanto camin[ar]o allor talento,
passando selve e boschi e ville e strade,
ch’egli arivarono a una gran cittade.
22.
Quivi nascoso la madre il tenia,
tanto che ’l fè vestire e adobare
sì come allüi ben si convenia.
Arme e cavallo gli fè conperare.
E quando ebel vestito gli dicia
che colla giente incominci a usare.
E’ comincioe a usare colla giente
con questi ispiedi in mano, ongnun tagliente.
23.
Perlla citta[de] Carduino andava
cominciando co’ giovani a usare,
e chi egli era non manifestava.
La madre sua nol volle apalesare.
E quando e’ vuole, a caval montava
co’ garzon della terra d’alto afare;
e sanza que’ due ispiedi non andava;
senpre gli avëa dove dimorava.
24.
A Carduino sì dicie la giente:
«O Carduino, tu se’ istolto e matto:
vattene in corte de’ re Artù posente,
là dove vane ongni barone adatto;
e s’e’ vedrà che tu sia aparisciente,
da lui tu avrai ongni buon patto.
Se tue sarai ardito barone,
grande onor ti farà in suo magione.»
25.
L’un giorno ell’altro Carduino udia,
egli ascoltava ben queste parole:
di questo re Artù ciascun dicia,
che sempre corte mantener la vuole.
Egli apellò la madre, e sì dicia:
«O madre mia, il mio cuor saper vuole;
ongnun mi dice di questo re Artue,
si come egli è singnor di gran virtue.
26.
I’ voglio andare a la ventura mia,
e questo re Artù i’ vo’ servire
colla mia forza ella mia gagliardia,
e servirollo con tutto il mio ardire,
e s’e’ m’ acietta tra suo baronia
farommi cavalier sanza falire.»
Ella suo madre sigli disse: «Figlio,
se tue vi vai forse sarà il meglio.
27.
Se tue vi vai, figliuolo, e’ ti conviene
servir lui come la persona mia,
e ubidirlo, figliuol, sanza pene,
ch’egli è colui che porta singnoria
di tutta la Brettagna, sapi bene.
Or va, figliuolo, e mettiti per via;
e se sugietto sarai elleale,
vendicherai tuo padre naturale.»
28.
E quando egli udì ricordare
il padre suo, rispuose inmantanente:
«Lungo tenpo voluto m’a’ ’ngannare;
dicievi al mondo non era più giente;
ello mio padre fatto m’ài negare
e tenutomi al bosco frodolente.
Dimmi chi fue mie padre e chi l’ucise.»
La madre gli rispuose in queste guise:
29.
«O figliuol mio, tuo padre fu chiamato
Dondinello, sillo chiamò la giente,
e fue in corte de’ re più ricordato
che niuno altro barone, e ’l più posente;
e Mordarette falso e dispietato
co’ suo fratei l’ucison veramente,
sì che dalloro fue avolenato
cosie fue morto il tuo padre pregiato.»
[Lacuna di otto stanze.]
30.
Lo re Artue udendo il suo parlare
con festa tosto il prese perlla mano;
alato a sè e’ lo si fè’ asettare,
e po’ lo domandò a mano a mano:
«Or mi dì il vero e nòllomi cielare:
chi fue tuo padre, damigiel sovrano?
Onde se’ tue? Dimmi tuo nazione
ella tuo madre ella tuo condizione.»
31.
E Carduin rispuose inmantanente:
«Non so chi fu mio padre, alto singnore:
malla mie madre fu d’una vil giente;
e a voï mi manda con valore
perch’io vi serva e sievi ubidente,
e di servirvi i’ ò senpre nel cuore.»
E’ re a suo baroni à comandato
che fusse ben servito e onorato.
32.
Intanto fur le tavole inbastite
e data l’aqua per voler mangiare;
alato a sè lo puose, come udite,
e molto molto il fè onorare.
A mensa sono le gienti gradite,
ed e’ non parlla e briga di mangiare;
e mangiò sì, che più di se’ baroni
arieno asai di quelle inbandigioni.
33.
Ciascun di que’ baron si maraviglia
vedendol tanto grosso e smisurato,
e l’uno insieme co l’altro bisbiglia;
per più di sei baroni avie mangiato.
Da l’altra parte una dama vermiglia
la qual’ è da uno nano aconpangnato:
e ’n sulla mastra sala fue montata
il nano ella donzella dilicata.
34.
Inanzi a’ re si furo inginochiati;
la damigiella incominciò a parlare:
«Die ti mantenga, re degli altri1 stati,
misiricordia ti vo’ adimandare.
de’ be’ paesi che son disertati.
I’ so c’avete udito ricordare
della cità incantata e della giente
la qual vive in tormento sì dolente.
35.
E vo’ sapete ben, gientil messere,
chella città incantata per ciertanza
ell’è pur vostra, e dovete sapere
senpre servito sì v’à per ciertanza.
Mandavi tosto u’ buon cavaliere,
che sia ardito e sie pien di posanza,
chella difenda da chill’à incantata
c’à tanta giente isperta e disertata.»
Secondo cantare
1.
Misericordia, padre mio benengno
perlla pietà chetti vinse di noi,
che per aprirci le porti de’ rengno
venisti al mondo e fusti morto poi;
volgi gli ochi, Singnore, a tanto isdengno
come volgiesti agli aversari tuoi
quando iscaciasti superbia e avarizia,
e rifrancasti tua dritta giustizia.
2.
I’ vi lasciai del barone posente
Carduino [che] a’ re apresentossi;
maravigliare e’ fe’ tutta gïente
quando a mensa a mangiar trovossi;
e dissi della donzella piaciente
col nano sagio, ongnuno inginochios[s]i.
La damigiella gran pianto faciea,
c’a tutto il baronagio ne ’ncresciea.
3.
«Monsingnor,» disse quella damigiella,
«i’ vi prego che vi prenda pietade
della mia cara e nobile sorella,
la quale vive in tanta aversitade.
Nel mondo non è dama tanto bella;
i’ vi vo’ dir, singnor, la crudeltade:
la mie sorella istà incatenata,
un uon per arte l’à malgovernata.
4.
Un traditore la volea per moglie.
Ed è di tenpo di ben dugient’ anni;
ella non vuole contentar suo voglie,
onde ch’e[gli] l’à messa in grandi afanni,
e con suo arte ci dà tante doglie;
i’ non potreï dire i gravi danni;
le gienti bestie à fatti diventare.
Un baron meco piaciati mandare:
5.
il quale sia valoroso e saciente,
che conbatti col barone incantato;
il nano gli dirà il convenente,
pur ched-e’ sia in arme pregiato.»
Rispuose i’ re: «Di ciò ne son dolente,
che Beatricie dal viso rosato,
la tuo sorella, sia in tal partito:
i’ ti darò un cavaliere ardito.»
6.
Ciascun di que’ baron si proferea
d’andar colla donzella alla ventura
e con quel nano che con seco avea;
ben è la dama nobile criatura.
Lo re Artue allor si rivolgiea
e disse a Carduin: «Nella buon’ora,
tu se’ bell’uomo, or mostra tuo valore:
i’vo’ che tue vi vadi per mio amore.»
7.
E ’l nano sì diciea: «O re Artue,
or che è quello ch’io v’odo parlare?
Questi non fia di tanta virtue
ché u’uomo selvagio costui mi pare.
Mandati ven’avete ciento o piue,
contro allo incanto non poson durare.»
I’ re rispuose: «To’ quel ch’io ti dono;
questi sarà barone ardito e buono.»
8.
Il nano e Carduin de la cittade
si dipartiron, se ’l mio dir non falla;
gli spiedi porta sempre in veritade,
l’uno alato ell’altro in sulla spalla.
La donzella gli segue perlle strade;
la sera arivarono in una valla;
e gli arivarono a un nobil castello
tra due montangne, ch’era molto bello.
9.
Questo castello era d’una duchessa
giovane e bella e fresca di natura,
che molta giente avea a pericol messa,
perch’era d’arte maestra sicura.
Chi v’arivava sì dormia con essa,
s’egli è barone che porti armadura.
Qualunque cavalier quivi arivava
con quella gientil donna egli albergava.
10.
Da po’ che giunti son costor la sera
ella duchessa sì conobe il nano;
grande onore gli fecìe [nel]la ciera,
e po’ lo domandò umile e piano;
e sigli disse per cotal maniera:
«Or mi dì il vero, nano mio sovrano.»
E domandollo, se ’l mio dir non erra,
sed-egli andava a conquistar la terra.
11.
«Gientil madonna, questo cavaliere
mi diede i’ re Artue della suo corte,
chella città incantata crede avere,
ch’egli è ardito e valoroso e forte.»
Ella donzella disse: «Egli è dovere,
poi che voi siete dentro alle mie porte,
tu sai l’usanza mia a tutte l’otte:
i’ vo’ che dorma meco istanotte.»
12.
Or venne l’ora ch’egli ànno cienato
ella istagione d’andare a dormire.
La donzella Carduino à chiamato,
e in tal modo sì gli prese a dire:
«Ora m’ascolta, cavalier pregiato,
vo’ che prendi di me gioia e disire:
i’ vo’ che dormi co meco ne’ letto;
di me arai gran gioia e gran diletto.»
13.
E Carduin rispuose: «Volentiere.»
Disse la dama: «Ora m’intenderai.
Quand’io ti chiamo dentro, non venire;
s’ i’ dico, non venire, e tue verai.
Odimi bene e sie sanza falire:
di ciò ch’io dico contradio farai.»
Ma s’e’ sapesse che gli de’ incontrare
e’ non v’andrebe perll’aver del mare.
14.
Mille anni pagli esser colla donna;
ella si parte e ’n mano avie un dopiere,
e sì entrava nella zanbra adorna;
e disse: «Or passa dentro, cavaliere.»
E Carduino nïente sogiorna;
subito allei n’andò per tal mestiere:
e come nella zanbra volle entrare,
la donna cominciò forte a mughiare;
15.
no mugghiò mai il mar sì perttenpesta
perlla fortuna, quando egli è cruciato,
ché ’l vento pelegrin gli dà molesta,
quando colle grande onde egli à gonfiato.
E Carduino in su l’uscio s’aresta
e nel cuore fu tutto inpaurato;
e perlla zanbra in qua e’llà procura,
e non vi vede nè casa nè mura.
16.
E come alquanti passi oltre fu ito
inanzi allüi sì aparve un fiume;
e quel dopiere fue ispento e finito,
il fium’è grosso, e di gran vilume.
Quattro giuganti aparvon sopra ’l lito,
e preso l’àn, cosìe era il costume;
e ’n sulle forche sì l’ànno inpicato
con quegli ispiedi ch’egli avi[e] a lato.
17.
Le forche sopra l’aqua sono altane,
colle punte de’ piè l’aqua tocava,
e inpicato perlle braccia istane.
Non dicìe nulla nè non favellava.
Così istando in questa opera istrane
com’io vi dico così dondolava;
tutta la notte istette insino a die;
come fue giorno ell’arte sì finìe.
18.
Il nano ella donzella s’è levato
sì come il giorno fue al mondo aparito;
trovaron Carduino solanato,
ed era tutto quanto isbigotito.
Il nano a Carduino ebe parllato,
e sì gli disse: «Intendi il mio partito:
a caval tosto sì dobian montare,
partianci tosto sanza dimorare.»
19.
Ed e’ rispuose: «Molto volentieri,
ciò che vi piace, sì come magiore.
Ma questa notte son stato in pensieri
e ’n pena grande co molto dolore.»
Il nano rise di cotal mestieri,
e sì gli disse: «Caro mio singnore,
questa pena è avenuta a più giente,
perch’ell’è d’arte maestra saciente.»
20.
E con pensieri sissi dipartiro,
subitamente si misson per via;
ver la città incantata sene giro
tutti a tre costoro in conpangnia.
E Carduino sì fecie rimiro,
e vide un cavaliere che venia
inverso loro; e costui chi egli era?
Di lui diròvi tutta la maniera.
21.
Agueriesse sì era chiamato,
era fratello di messer Calvano;
questi fu quegli che fue sì spietato,
che ’l tradimento sì fè sì vilano,
che il capone mandò avolenato,
onde morinne Dondinel sovrano,
qual fue padre di questo Carduino.
Riscontrati si sono in sul camino.
22.
Agueriesse vide la donzella,
pensò torla per forza a Carduino,
perché la vide sì pulita e bella.
A parliare si prese in ta’ latino:
«Partiti tosto,» a Carduin favella,
«che questa dama voglio a mio dimino:
se non la lasci e vanne sanza resta
col brando mio ti taglierò la testa.»
23.
E Carduino udendo sì parllare,
sanza rispondere punto al suo detto,
prese lo spiedo sanza dimorare
e subito glie’ lancïò nel petto.
Arme c’avesse nol potè canpare,
insin dirieto lo passò di netto,
e del destriere cade morto in terra.
Onde che caro gli gostò tal guer[r]a.
24.
Il nano disse: «Omè! che à’ tu fatto?
Quest’è nipote dello re Artue;
ma in far tradimenti egli era adatto,
senpre in tradire mettea suo virtue;
e vo’ ti dir di lui a questo tratto
quel c’una volta da lui fatto fue:
un cavaliere e’ fecìe avolenare
che Dondinello si facìe chiamare.»
25.
E Carduin diciea: «I’ lodo Iddio.»
Sanza dir nulla pensò fra suo cuore:
«Quest’è quegli ch’ucise il padre mio,
chella mie madre men disse il tinore.»
A nulla rispondea il baron pio,
se non che disse: «Questo traditore
questa donzella ci volea furare,
ma io gliel’ò fatta conperare.»
26.
Ora cavalca Carduino e ’l nano
colla gientile e nobile pulzella.
Tutto quel giorno cavalcàr per piano,
giunson la sera in una selva fella.
Un rico padiglione a mano a mano
d’una soma sì trasse la donzella;
e teson tosto il padiglion gradito
in su un prato ch’è di fior fiorito.
27.
E trason fuori l’esca col fucile,
e sotto il padiglion sì fecion fuoco
per iscaldarsi a così fatto istile,
ch’era la sera, e giorno v’avie poco.
La damigella col coragio gientile,
disse: «Istian quie tanto che trovian loco.»
E sì aparechiaron per cienare:
ed e’ sentirono una bocie gridare.
28.
La vocie dicie: «O Vergine groliosa,
guardami, madre, di crudele afanno,
che io non muoia cotanto penosa
né mia verginità non ronpa panno.»
E Carduino co mente gioiosa
diciea al nano: «Dimmi, col buon anno,
che vocie è quella ch’io sento gridare?»
Ed e’ rispuose: «Per Dio non parllare.
29.
Spengnamo il fuoco, per Dio, istà zitto;
omè! Che noi non posian canpare;
chè se tu fussi da’ giuganti udito
l’oro del mondo non ci avrà scanpare.
Duo gran giuganti ci usa a tal partito,
d’uribil forza, e di grande afare.»
La bocie rialzò un’altra volta,
e Carduino la parola ascolta:
30.
«Vergin madre di Dio, ora m’aita,
mandami l’angiel tuo che mi difenda.»
Carduino ta’ parol’ à sentita,
e co tal bocie par che ’l cor gli fenda;
e disse al nano: «I’ vo’ perder la vita,
o cotal vocie convien ch’io difenda.»
Prese gli spiedi sanza dimorare,
e nel bosco corea sanza tardare.
31.
E come e’ fue a mezo a quella selva,
ed e’ guardò, e vide un gran giugante
a un gran fuoco, ch’arostia ’na ciervia
con tutto il cuoio e con tutte le zanpe;
e po’ più là e’ vide una donzella,
un altro giugante la tien davante.
Però faciea la dama ta’ lamento;
di quindici anni era, com’io sento.
32.
La damigiella era delle contrade,
figlia d’un conte di somo valore;
que’ due giganti l’avìen tolta al padre
per farle villania e disinore.
E l’un di lor vedendo tale afare,
que’ c’arostia l’arosto, a gran valore
in piè si fue levato inmantanente
per fedir Carduin ch’era presente.
33.
E con quello arosto ch’egli avea
in piè si fu levato inmantanente,
e levollo alto quanto più potea
per fedir Carduin ch’era presente:
ed e’ lo schifa, e po’ sì traea
l’un degli ispiedi furïosamente:
ferì il giugante per mezo nel petto
che ’l petto e’l cuore gli passò di netto.
34.
E morto cade in terra quel giugante.
Po’ n’andò oltre a que’ ch’alla donzella,
che nelle braccia la tenie davante,
e posto in terra avie la pulzella.
E Carduino parllò in tal senbiante,
a quel giugante in tal guisa favella,
e sì gli disse: «Falso traditore,
non fare alla donzella disinore.»
35.
E quel giugante nogli parve giuoco,
levossi e tosto prese un gran tizone
d’una gran guercia c’ardea nel fuoco,
ellevolla alta il malvagio fellone.
E Carduino, che nol cura un moco,
egli ischifò quel colpo del bastone;
e quel gran colpo si ebe ischifato,
ell’altro ispiedo nel mezo à pigliato.
36.
E Carduino lo spiedo brandia,
ferì il giugante per mezo le coste;
del forte braccio quello ispiedo uscia
che tutto lo pasava sanza soste.
Per mezo il cuore lo fer[r]o gli uscia
sicome a quegli che volgìe l’aroste.
Morto il giugante, ella nobil donzella
rimase a Carduin, ch’era sì bella.
37.
E Carduin la prese a dimandare
laonde ell’era e di che giente nata.
Ella gliel disse, e po’ sanza tardare
gli spiedi suoi prendea quella fiata;
e quella cierbia c’avie per mangiare
in sulla spalla sì se l’à asettata;
dall’altra avie gli spiedi ella donzella:
al padiglione ritornaro in quella.
38.
Il nan si maraviglia fortemente
quando e’ vide lui colla donzella,
e poi cienaro insieme alegramente
di quella cierbia ch’era grossa e bella.
Dimanda il nano di tal convenente,
chi era il padre di quella donzella.
Ella gli racontò tutto il tinore,
onde che ’l nano le fè grande onore.
39.
Vedendo il nano la sua gagliardia
più che inprima il serve di coragio.
Passò la notte essì ne venne il dia,
e Carduino, che nonn’à paragio,
con quelle due pulcielle si partia
e con quel nano grazïoso e sagio;
e tanto per più giorni cavalcaro
ch’alla città incantata egli arivaro.
40.
E come giunti sono alla cittade
e ’l nano sì diciea a Carduino:
«Or ti bisogna provar tuo bontade,
or ti bisogna essere paladino.
Quest[a] è la cittade in veritade.»
E Carduino disse: «Singnor fino,
che dite voi? I’ non vegio niente.»
E ’l nano gli rispuose inmantanente.
41.
Diciea il nano: «Vedi tu que’ sassi
che son sì alti e grandi in quella serra?
Quelle son torri, e que’ sono i palassi,
case comun che sono in quella ter[r]a;
perllo incantesmo ti paion sì bassi
(ogni cosa gli disse che non erra)
e que’ sentier del mezo son le vie
ove le gienti andava notte e die.
42.
E vedi tue que’ duo sassi belli?
Quell’è una porta di quella cittade,
ove singnori, donne e damigielli
usciano e entravano in quantitade.
Attè conviene far come gli ucielli.»
E Carduin rispuose: «In veritade
ben proverommi co’ miei argomenti.»
Incontro gli si fè draghi e serpenti.
43.
E Carduino incominciò a fugire,
e disse al nano: «Che è quel ch’io vegio?
Draghi e serpenti verso me venire!
I’ ò paura di non aver pegio.»
Il nano allora gli prendea a dire:
«Tu andrai tra leon che stanno in gregio,
draghi e serpenti e lupi fallaci,
serpi, leopardi e orsi rapaci.
44.
E quando tutti iscontri ne’ dragoni
passa più oltre, e non dubitare;
e’ non son draghi, anzi son baroni
di quella dama che ài singnoregiare.
Gran torme poi troverai di lioni:
tutti son cavalier d’arme portare;
e gli orsi e cinghiar, che son sì belli,
giudici e notai s’apellan elli.
45.
E cerbi e leopardi e cavriuoli,
son gente comunal di quella ter[r]a
e lepri con conigli e cierviuoli
sì son tutti fanciulli, i’ non erra:
e di costoro poco te ne duoli.
(Ongni cosa gli disse in quella serra)
E quelle bestie bianche così belle
son tutte don[n]e e belle damigielle.
46.
E mostreranti tutte i’ lor dolore;
passa pur oltre e troverai il palazo
con alte torri e fatte con valore;
allor ti fermerai in sullo ispazo,
e grida forte: «Esci fuor, traditore,
che tien questa città i’ mal solazo.»
Egli uscirà di fuori un cavaliere
armato di tutte arme in sul destriere.
47.
E ’nverso te verà ferociemente
e d’una spada e’ sìtti vorà dare.
Fa che tu sia ardito e posente,
ch’egli è colüi che così fa stare
quella città e tutta quella giente,
per chella dama nollo volea amare.
A guisa d’un giogante è grande e grosso,
ferociemente ti verà adosso.
48.
E se si fugie, non entrar per quella
porta ond’egli entra, sella vita à’ cara.
Per uno androne e’ si fugie in quella
e po’ riesce, la persona amara.
E ferirebiti dentro alle ciervella
con un bastone e vinciere’ suo gara.
E nonne entrare dentro nel palazo,
chè in uno fuoco faresti tramazo.
49.
Se tullo abatti a terra del destriere
nogli lasciare la vita per niente;
ucidil tosto e ciercagli il braghiere,
e speza quel che truovi inmantanente.
A’ ritornar che fai, o cavaliere,
la biscia grande che vedrai presente
in sulla piaza allei ten’anderai
e nella bocca silla bacierai.
50.
Or va, che ïo t’acomando a Dio
chetti die grazia di poter canpare.
Nella terra non posso venire io,
s’i’ no volessi bestia diventare.
Mai non v’andò niuno, o baron pio,
che mai indreto potesse tornare.»
Ed e’ rispuose colla mente acorta:
«Idio m’aiuti!» E sì passò la porta.
51.
E come dentro e’ fue, in sullo entrare
aparve nella terra un romore
di lioni e serpenti allor mughiare.
che non si sarie fatto alcun sentore
se il mondo avesse auto a perfondare
giù nel nabisso co molto furore:
tanti draghi e serpenti ongnun venia,
poco fallì c’a dreto no redia.
52.
Inprimamente venero i leoni
dinanzi a Carduino tutti a schiera,
e poi secondo venero i dragoni,
tutti mughiando co malvagia ciera.
Orsi e liopardi a ta’ cagioni,
tutti s’apresentaron dov’egli era;
e rimiravan lui e suo destiere
e par’ che ’l vedeser volentiere.
53.
Il suo cavallo forte dubitava
quando vide venir tanti lioni,
e per paura ispeso si fermava
se non fusse la forza degli isproni.
Questa pena più volte gl’incontrava,
tanto che giunse alla porta a’ petroni.
Dio gli dia grazia di non favellare2,
ch’egli era morto e non potìe canpare.
54.
E quando e’ fue a mezo alla cittade
e Carduin si ferma e puose mente;
in sulla piaza egli à veduto stare
una gran bestia fatta adornamente;
e no ristava il baron di guatare,
e ’n sua senbianza era molto piaciente,
con tre catene a collo d’arïento,
e facie gran tenpesta e gran lamento.
55.
Le catene son grandi della biscia
che ’ntorno intorno alla piaza andava.
In punta della coda ella si riza
e ’nverso luï ella s’afoltava,
e di parlare facïe gran vista
nella senbianza ch’ella dimostrava;
e pur gitta[va] a Carduino un motto;
disse: «Baron, fa che sia ardito e dotto.»
56.
E Carduino non risponde niente,
se non che grida: «Esci di fuor, fellone.»
E d’un palagio di marmo luciente
uscì allora u’ nobile barone
armato tutto in sul destrier corente,
e mise mano subito al galone,
e sinne trasse fuori u’ rico brando,
e ’nverso Carduin venne spronando.
57.
Verso di lui ne vien ferociemente:
sinne venia il barone incantato
per dagli morte, quel uon frodolente.
E Carduin lo spiedo gli à lanciato.
Lo scudo gli passò il baron posente,
ed e’ si fugie ed àllo inaverato:
e sì entrava alor per quella porta.
E’ si fermò, come persona acorta.
58.
Quel cavaliere sì era fedito,
credette a ’nganni Carduino asalire;
perll’altra porta e’ fue riuscito.
Con una iscure si ’l volie ferire.
E Carduino, cavaliere ardito,
l’altro ispiedo lanciò sanza falire;
lo scudo ello isbergo gli à pasato,
e morto in piana terra fu cascato.
59.
E Carduin disciese giue al piano,
la testa dallo imbusto gli partia;
e po’ lo cierca, il cavalier sovrano,
a quel braghier che ’l nano detto avia.
Come gli disse, trovò a mano a mano
un rico anello che d’oro lucia.
Sì tosto come e’ l’ebe trovato
subitamente sì l’ebe ispezato.
60.
Sì tosto come quello anel fu rotto
tutte le bestie di quella cittade
intorno al corpo morto fur di botto,
e dimostraron quivi crudeltade:
ciascuno il morde e sì sel mette sotto,
non è niuno che abi pietade:
lioni e draghi, ongnun sanza sogiorno
mordendo tutti sì gli son dintorno.
61.
E quando Carduino à riguardato
una gran pezza quella gran trafitta,
rimontoe a cavallo e fue montato
in sulla piaza ov’è la biscia afritta.
Quando ella il vide levossi di stato,
a salto a salto verso lui si gitta:
come l’aguglia quando va a ferire,
così fa quella biscia allo ver dire.
62.
E Carduino non s’ardia apressare,
ma ’l suo cavallo sì ebe fermato.
La serpe allui facìe grand’afoltare,
e ’l suo cavallo è forte inpaurato;
ma gli sproni il facieno oltre andare:
non sa che farsi il cavalier pregiato;
in sé dicea: «I’ nolla vo’ baciare.»
Egli à paura e non sa chessi fare.
63.
Ma pur del suo caval fu dismontato
e ricordossi del detto del nano,
e colla ispada i’mano ne fue andato
presso alla serpe il cavalier sovrano.
Nella man destra il brando à inpugnato;
la serpe istava allora umile e piano;
e Carduino la basciava in bocca:
odi quie chenn’avien com’e’ la tocca.
64.
Deh odi quie una nuova novella:
chè come quella serpe fu basciata
ella si diventò una donzella
legiadra e adorna e tutta angielicata;
del paradiso uscita pare ella,
d’ongni bellezza ell’era adornata;
e draghi e leoni e serpenti
diventar come prima, ch’eran gienti.
65.
Aparve nella terra un ta’ romore,
come saetta che da ciel si parte,
quando la dama tornò in suo valore,
perchè l’era conpiuta e guasta l’arte.
Ella ringrazia Cristo Salvatore,
e Carduin da lei non si diparte.
Ella tenea il braccio a Carduino
diciendo: «Tu sarai l’amor mio fino.»
66.
Or chi potrebe contar l’alegreza
che fanno a Carduino in su quel’ora?
Se tutto il mondo fusse in gran tristeza
non si ricorderebe in tanta glora.
Sentendo il nano di ciò la cierteza
nella città n’andò sanza dimora
colla donzella c’avea in conpangnia.
Nella città gran festa si facia.
67.
La novella n’andò perlle contrade,
e re Artue che ’ntese la novella,
che liberata era quella cittade,
tutta la giente di questo favella,
di Carduino c’à tanta bontade,
ma Carduino a’ cittadin favella,
che mai in corte e’ non vuole tornare,
ché ’l padre suo volea vindicare.
68.
E quando i·re Artù sepe chi era,
mandogli anbasciadori e fèl pregare
che per suo amore venga alla suo ciera,
e grande singnoria e’ gli vuol dare;
e facci pacie con ongni manera,
per lo suo amore facci tale afare,
e per amor della gran baronia,
po’ ch’ucise chi ’l padre morto avia.
69.
E Carduin si partì della terra
com’egli udì gli anbasciador parllare,
e per amor de’ re finì la guerra
contro a color che gli ucisono il padre.
Gli anbasciador co lui montaro ’n sella,
vennono a corte sanza dimorare.
E’ mandò per la madre inmantanente,
ed ella venne a corte arditamente.
70.
Messer Calvan con ciascun suo fratello
in cinochioni a Carduin si messe,
e perdonanza chier di Dondinello.
benchè Agueri[e]sse l’ucidesse;
ma Carduin di lui fece maciello,
com’ ïo dissi ucise Agueri[e]sse;
laonde Dondinel fu vendicato;
e Carduino alloro à perdonato.
71.
Lo re Artue lo fè suo consigliere
e cavaliere il fè in suo magione,
e diègli la donzella per mogliere,
della città incantata il fè canpione.
Ella donzella dal vago piaciere
la rimandò al padre per ragione.
Alla città tornò la madre ed elli
con giente assai, baroni e donzelli.
72.
E po’ furon più savi che Merlino,
secondo che raconti la scrittura,
e ’n poco tenpo gli naque un bambino,
miglior di lui non portò armadura.
Lo re Artù amava il paladino,
e fue de’ cavalier della ventura
il più prod’uomo e ’l più forte di corte.
Tutti vi guardi Idio dalla ria morte
Finito. Amen.
Notes de bas de page
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Arthur, Gauvain et Mériadoc
Récits arthuriens latins du xiiie siècle
Philippe Walter (dir.) Jean-Charles Berthet, Martine Furno, Claudine Marc et al. (trad.)
2007
La Quête du Saint Graal et la mort d'Arthur
Version castillane
Juan Vivas Vincent Serverat et Philippe Walter (trad.)
2006
Histoire d'Arthur et de Merlin
Roman moyen-anglais du xive siècle
Anne Berthelot (éd.) Anne Berthelot (trad.)
2013
La pourpre et la glèbe
Rhétorique des états de la société dans l'Espagne médiévale
Vincent Serverat
1997
Le devin maudit
Merlin, Lailoken, Suibhne — Textes et études
Philippe Walter (dir.) Jean-Charles Berthet, Nathalie Stalmans, Philippe Walter et al. (trad.)
1999
La Chanson de Walther
Waltharii poesis
Sophie Albert, Silvère Menegaldo et Francine Mora (dir.)
2009
Wigalois, le chevalier à la roue
Roman allemand du xiiie siècle de Wirnt de Grafenberg
Wirnt de Grafenberg Claude Lecouteux et Véronique Lévy (trad.)
2001