Il contrasto aristotelico di vista e udito
p. 279-300
Texte intégral
νοεῖν οὐκ ἔστι ἄνευ φαντασμάτων
Come potete vedere
1Il contastorie siciliano recitava la sua storia davanti a un piccolo pubblico di spettatori seduti su panche di legno in semicerchio intorno a lui. La sua esibizione poteva durare anche due ore e l’unico strumento usato era una spada di legno, « con la quale nei momenti di maggiore drammaticità fa mulinelli nell’aria scandendo il suo dire »1. La sua dizione ritmata, i discorsi diretti che spesso si sostituiscono alla narrazione e lo portano a mutare il registro vocalico possono forse in qualche modo suggerirci come si svolgesse la performance spettacolare dell’antico aedo greco. Anch’egli, sembra, teneva in mano un bastone con il quale sottolineava le pause ritmiche della sua dizione. Certamente l’aedo non si giovava di un altro aiuto che ricorreva invece nello spettacolo siciliano: il cartellone. Come il puparo con i suoi pupi, il cantastorie con la sua chitarra, anche il contastorie si giovava abitualmente di un grande cartone o telo riquadrato, fissato accanto a lui, sul quale, a colori vivaci, erano rappresentati i momenti salienti della storia narrata. Ad esso, indicando ogni volta il relativo riquadro, si volgeva il narratore all’inizio di ogni segmento del cuntu, con la formula Comu putiti vidiri. I dipinti nella loro rozza immediatezza avevano l’ufficio di splanari, spiegare cioè la situazione agli ascoltatori mostrando loro i luoghi e i personaggi dell’episodio che stava per essere raccontato.
2Si è detto che l’aedo greco non possedeva questo strumento, la sua narrazione doveva bastare a se stessa per conquistare la comprensione del suo pubblico; ma, se non l’aedo, sappiamo che nell’antica Grecia ci fu chi si giovava dell’aiuto delle immagini, indicandole, per farsi meglio comprendere, qualcuno a cui non si penserebbe: un, anzi il filosofo.
3Da più di un passo delle opere acroamatiche di Aristotele, derivate o preparatorie di lezioni tenute ai propri allievi, si ricavano espressioni che presuppongono gesti indicativi: il maestro appare esemplificare la propria argomentazione mostrando figure che gli ascoltatori potevano vedere dipinte sulle pareti della sala o che, osservate altrove, si erano comunque bene impresse nella loro memoria.
4Nell’introduzione alla sua preziosa summa aristotelica, Ingemar Düring, a proposito dell’Accademia dove il giovane Aristotele incominciò a tenere le sue lezioni, ricorda un vecchio articolo rimasto senza seguito. Lo scritto di Henry Jackson può oggi far sorridere per l’ingenuità con la quale l’autore pretese di ricostruire l’Accademia platonica sulla falsariga del college oxoniense in cui viveva: le sale d’incontro, la biblioteca, il giardino, persino la cappella e, non ultime, le aule in cui si tenevano le lezioni. Tuttavia, nonostante le premesse paradossali da cui lo studioso muove, c’è qualche osservazione interessante ricavata da un’attenta lettura dei testi aristotelici che, con molta probabilità, lì appunto furono prodotti.
5Senza dubbio in più punti l’esposizione di Aristotele presuppone grafici che potevano essere tracciati anche al momento e mostrati agli ascoltatori. E’ il caso della descrizione dell’apparato genitale maschile descritto nella Historia animalium: « Si osservi ciò che si è detto in questo diagramma »2.
6Più interessante è però quel che Jackson mostra – Düring dice addirittura « dimostra » – considerando le esemplificazioni aristoteliche nelle trattazioni di logica. Pur tralasciando il ricorso ai nomi propri Socrate e Callia, che possono corrispondere ai nostri generici Tizio e Caio, credo che non sia insignificante il ricorrere anche in opere diverse dell’immagine di un Socrate seduto intento a far musica. E’ immagine questa che non appartiene affatto all’iconografia tradizionale di Socrate, né appare nei consueti repertori di memorie socratiche; richiama invece la visione che si presenta agli ultimi visitatori del filosofo nel carcere secondo il racconto del Fedone platonico3. A parere, non infondato, di Jackson la scena, in cui « solo Platone mancava », doveva essere stata riprodotta pittoricamente su una parete dell’Accademia e poteva quindi essere mostrata da chi parlava, che ne indicava i personaggi per chiarire quel che andava dimostrando:
Su ogni oggetto una definizione è possibile in quanto unità, quella della sua essenza, ed è possibile in quanto molti, poiché in un certo modo è lo stesso esso ed esso in una particolare condizione, come per esempio Socrate e Socrate musico.
7oppure
Il discorso può avere più premesse false, come per esempio se si assume che chi è seduto scrive e che Socrate è seduto, ne consegue che Socrate scrive4.
8Oltre al ricorso occasionale alle immagini che troviamo in qualche passo, è ricorrente nell’opera aristotelica il richiamo alla pittura del tempo con un chiaro intento esplicativo. Si veda per esempio nella Poetica:
Dal momento che coloro che imitano imitano persone che agiscono, queste di necessità sono o serie o dappoco (i caratteri si conformano in effetti quasi sempre a questi soli tipi, perché tutti differiscono per quanto riguarda il carattere in vizio o in virtù) o dunque migliori di noi o peggiori o anche quali noi siamo, come i pittori: Polignoto li raffigurava migliori, Pausone peggiori, Dionisio simili. E’ dunque chiaro che anche ciascuna delle dette imitazioni presenterà queste differenze e si distinguerà per avere distinti nel modo indicato gli oggetti dell’imitazione5.
9E’ la prima tripartizione dei registri poetici – alto, basso, medio – che Aristotele introduce fin dall’inizio del secondo capitolo; il ricorso ai pittori, piuttosto che una classificazione parallela di poesia e arti figurative come qualche critico ha preteso di vedere, ha una funzione delucidativa: il confronto con dipinti ben noti vuole rendere immediatamente comprensibile quel che chi scrive intende come livello poetico: « come i pittori » è un invito a ricordare i ritratti idealizzanti di Polignoto o le caricature di Pausone6.
10Nella Poetica troviamo almeno un’altra mezza dozzina di richiami all’attività pittorica, sempre introdotti da marche comparative : « come », « come se », « pressappoco » etc. Le immagini possono dunque chiarire i termini di un discorso che si teme non sia sempre trasparente; la loro immediatezza s’impone con maggiore evidenza alla mente dell’ascoltatore e serve a persuaderlo con più sicura efficacia. E’ lo stesso Aristotele che ne spiega il perché all’inizio del De sensu et sensili, la prima delle operette di corollario al De anima, riunite sotto il comune titolo di Parva naturalia:
Per il necessario la più importante in sé e per sé di queste percezioni è la vista, ma per il pensiero, in modo accidentale, l’udito. La facoltà visiva rivela molte varie distinzioni perché tutti i corpi partecipano del colore, sì che è per mezzo della vista che soprattutto si colgono i percepibili comuni (e per percepibili comuni intendo la dimensione, la figura, il mutamento e il numero); l’udito invece percepisce soltanto le differenze del suono e per pochi anche la differenza della voce. Ma accidentalmente è l’udito a contribuire per la maggior parte alla ragione. Il parlare, essendo udibile, è causa dell’apprendimento non in sé e per sé, ma accidentalmente, perché è costituito di parole, e ogni parola è un simbolo. Perciò tra coloro congenitamente privi di una di queste due facoltà percettive i ciechi sono più intelligenti dei sordomuti7.
11Il confronto tra i due sensi è importante, come si vedrà in seguito, per comprendere come Aristotele abbia affrontato nella Poetica il tema dell’unità dell’opera poetica e della tragedia in particolare. Grazie all’attenta indagine dei processi psichici che governano la percezione e alle molteplici mediazioni impiegate, Aristotele può muoversi libero dalla potente ipoteca platonica che negava alla sensazione ogni margine di vera conoscenza.
12Al morente Socrate del Fedone Platone affida, quasi in guisa di consolatio, la recisa negazione del valore di ogni processo percettivo dipendente dai sensi corporei:
Forse che la vista e l’udito procurano una qualche verità agli uomini, oppure è come i poeti ci vengono continuamente ripetendo, che cioè noi non vediamo né udiamo nulla di esatto8?
13Di qui la serena gioia che attende il filosofo di potersi liberare degli inganni che il corpo frappone tra l’anima e la verità e di poter attingere quella purezza che sola permette, con il solo ragionamento, di comprendere l’essenza delle cose:
Non farebbe dunque ciò nel modo più puro colui che più si rivolgesse a ogni cosa con il solo pensiero, lasciando da parte nel suo pensare la vista e senza trascinarsi dietro con il ragionamento alcuna altra percezione, ma usando il puro pensiero in sé e per sé si ponesse a cercare ciascuno degli enti in sé e per sé, rifiutando quel che è degli occhi e degli orecchi e, per così dire, di tutto il corpo, perché esso è di turbamento e non permette all’anima quando gli è unita di acquisire veridicità e sapienza9?
14Percezioni (αἰσθήσεις) e pensiero (διάνοια) appaiono, qui e in parecchi altri contesti, rigorosamente contrapposti: le prime legate al corpo (σῶμα), il secondo proprio dell’anima (ψυχή). Gli impacci, le mediazioni cui le sensazioni corporee obbligano la ragione sono l’ostacolo alla conoscenza del vero, cioè dell’essenza delle cose, la quale si può invece rivelare con immediatezza all’anima quando il filtro del corpo non si frapponga. La conoscenza dell’anima ha dunque il carattere della rivelazione, non si presenta con i tratti di un faticoso esercizio di progressiva conquista come pure la pratica dell’argomentazione dialettica sembrerebbe suggerire, ma possiede l’immediatezza della visione. Non appare dunque sorprendente che il lessico della conoscenza filosofica sia paradossalmente costruito per metafora proprio attingendo al lessico di quella vista cui si nega qualsiasi capacità di vera conoscenza. ὀράω, θεάομαι, θεωρία, σύνοψις etc. finiscono col costituire un compatto campo semantico, nucleo essenziale non solo del lessico platonico, ma di tutta la successiva indagine epistemologica. La vista dell’essere, cioè del reale, del vero, duplica per opposizione la vista dell’apparente, dell’irreale, del falso.
15L’inganno cui soggiace l’occhio e che è esercitato dall’arte che ad esso si rivolge è denunciato da Socrate nella generale condanna della mimesi dell’ultimo libro della Repubblica:
- Ora dimmi un po’ del pittore: ti pare che egli si dia da fare a imitare ciò che ogni cosa è in natura o quanto è foggiato dagli artigiani?
- Le opere degli artigiani. - rispose
- Quali sono o quali appaiono? Chiarisci anche questo.
- Cioè? – chiese.
- In questo senso: un letto, se lo si guarda di sbieco o lo si guarda di fronte, o in qualsiasi altro modo, è diverso da se stesso oppure non è per nulla diverso, ma soltanto appare diverso? E ugualmente per tutte le altre cose.
- Appare in questo modo, ma non c’è alcuna differenza.
- Osserva allora questo: per che cosa è fatta la pittura di ogni cosa, per imitare ciò che è o ciò che appare, come appare? E’ imitazione di un’apparenza o di una realtà?
- Di un’apparenza10.
16Ritroviamo l’opposizione reale – apparente in un contemporaneo di Platone, il grande scultore Lisippo. Ma il vanto di Lisippo è l’esatto contrario della conoscenza platonica. Plinio infatti riferisce che l’artista, per esaltare la propria arte in confronto a quella dei suoi predecessori, « amava dire che quelli avevano rappresentato gli uomini quali sono, lui quali appaiono essere »11.
17Quales viderentur esse: Silvio Ferri, nella sua pionieristica traduzione dei libri di Plinio dedicati alle arti figurative, rende « come all’occhio appaiono essere », e in realtà il merito di Lisippo è proprio quello di aver tenuto conto degli effetti di distorsione della percezione ottica sì da rendere la sua scultura il più fedele possibile a come l’occhio umano percepisce un oggetto in rapporto alla sua posizione e alla relazione con l’oggetto stesso12.
18Nella rappresentazione degli effetti che governano la rappresentazione figurale e nell’escogitazione dei trucchi atti a riprodurre con la massima efficacia tali effetti, consiste dunque la bravura dell’artista, sì che la storia delle arti figurative appare a coloro – artisti ed eruditi – che in Grecia ne scrissero, come la storia di successive innovazioni, le quali, conseguenti l’una all’altra, permisero alla scultura e alla pittura antiche di creare opere apparentemente sempre più compiute, cioè apparentemente conformi alla realtà che intendevano rappresentare. Dall’esposizione di Plinio che si rifà a diversi precedenti trattatisti, primo tra tutti l’ateniese Senocrate, questo percorso lineare di progressive scoperte appare chiaro anche perché perfetta continuazione della rassegna storica dei materiali dagli artisti impiegati.
19Plinio sottolinea schematicamente le tappe dell’evoluzione tecnica della scultura e della pittura parietale scandendole, nell’un caso e nell’altro, con le personalità di alcuni grandi maestri: Fidia, cui si deve lo sviluppo della bronzistica (34. 54), Policleto, che introduce il canone cioè la proporzione tra le diverse parti del corpo (34. 55), Pitagora, attento all’esatta riproduzione anatomica di nervi e vene (34. 59), il già ricordato Lisippo per la scultura; analogamente, per la pittura, Polignoto, che per primo curò l’espressione dei diversi personaggi, seppe rendere la trasparenza di alcuni tessuti (35. 58), Apollodoro cui si devono i principi dell’ombreggiatura (35. 60), Parrasio, maestro dello scorcio che dà profondità alle figure (35. 67)13.
20Su Parrasio Plinio insiste e indulge a ricordare anche un divertente aneddoto:
Si racconta che [Parrasio] fosse venuto a gara con Zeusi e che costui avesse esposto dell’uva tanto felicemente dipinta che gli uccelli erano venuti a svolazzarle davanti; egli invece aveva rappresentato un panno con tale precisione che Zeusi, tronfio del giudizio dato dai volatili, lo sollecitò a togliere il panno e a mostrare il dipinto. Poi però, capito il proprio errore, con onesta deferenza gli concesse la palma della vittoria, dicendo che se egli aveva tratto in inganno degli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui, un artista14.
21Come tutti gli aneddoti, anche questo è significativo per i valori che intende trasmettere: culmine dell’arte è considerata la riproduzione della realtà fino al punto di confondere l’una con l’altra, traendo in inganno anche l’osservatore più accorto. Questa ricerca trova rinnovato successo agli inizi dell’età moderna con la pittura illusionistica di nicchie, cornici, porte e finestre15.
22Dal rappresentare come una cosa appare alla nostra vista all’indurre a credere di vedere qualcosa che non c’è: il passaggio per Platone non potrebbe essere più ovvio; gli occhi dunque ci aiutano a capire o ci inducono inevitabilmente in inganno?
Tempo e rappresentazione
23Anche se non siamo in grado di descrivere i movimenti che hanno luogo quando la velocità corporea supera il limite per la visione distinta pure percepiamo l’accelerazione in modo preciso. E infatti Mirone immobilizza il corpo nel momento dell’accelerazione massima e non in quello dell’assoluta immobilità.
24Nel suo importante libro sulla rappresentazione del movimento, Ruggero Pierantoni formula questa spiegazione della famosa statua dello scultore greco, usando una antica sequenza cinematografica nella quale i fotogrammi si susseguono con intervalli di 0,08 secondi per riprendere un atleta impegnato nel lancio del disco16.
25Mirone ci rappresenta dunque un istante, né potrebbe essere altrimenti, ma è l’istante di più alta tensione, l’istante che suggerisce l’intero svolgersi dell’azione, che potenzialmente la contiene, racchiudendone, si può dire, l’intera durata, non diversamente da ciò che oggi talvolta pare suggerirci una riuscita istantanea fotografica, della quale siamo istintivamente indotti a immaginare un precedente e un conseguente.
26Meno familiare per noi può essere invece un altro modo di compressione del tempo che pure si manifesta relativamente comune nella pittura vascolare greca, la modalità che Anthony M. Snodgrass ebbe a definire « metodo sinottico »17. Snodgrass si rifaceva a un importante saggio dell’archeologo tedesco Nikolaus Himmelmann, che nel 1967, riprendendo a propria volta una serie di osservazioni di Carl Robert sulle rappresentazioni del mito nella pittura greca arcaica, definì alcuni tratti necessari a una corretta lettura di molte ceramiche di età arcaica e classica. Le scene dipinte non corrispondono a un momento particolare del racconto, ad esse cioè non è in alcun modo possibile attribuire una didascalia, come si usava per le illustrazioni che corredavano i romanzi ottocenteschi o che tuttora accompagnano il testo di gran parte dei libri per l’infanzia. La storia è ben riconoscibile, e talvolta per maggior sicurezza i nomi dei personaggi raffigurati è inscritto, ma il dipinto nel suo insieme non è collocabile in nessun punto della storia, perché ne suggerisce contemporaneamente parecchi. Himmelmann spiega che le pitture dal punto di vista figurativo sono unitarie, tutti i personaggi rappresentati appaiono elementi di un’unità compositiva perfettamente integrata, ma il modo con cui ciascuno di essi è ritratto, la sua postura, i suoi gesti si riferiscono a momenti diversi del racconto. Grazie ai diversi modi di rappresentazione dei personaggi sono dunque presentati simultaneamente i vari episodi che compongono la storia. Perciò, aveva già osservato Carl Robert, « quel che noi osserviamo con un unico sguardo non può in realtà essere accaduto simultaneamente, non c’è una situazione specifica che possa convenire a tutti i personaggi simultaneamente e non c’è unità d’azione »18.
27La simultaneità della vista a cui si offre il dipinto si sostituisce alla durata necessaria all’ascolto della narrazione poetica; questo ci riporta a uno snodo importante della riflessione aristotelica: tra la vista e l’udito si interpone il tempo. Ma che cos’è il tempo per Aristotele?
28Nel quarto libro della Fisica, a conclusione di una minuziosa argomentazione, se ne può leggere una definizione; la dimostrazione aristotelica tuttavia è meno lineare di quanto vorrebbe apparire, a motivo soprattutto di alcuni scarti terminologici abilmente dissimulati.
29Respinta la tesi che il tempo non consisterebbe in altro se non nel movimento dell’universo, Aristotele nega una semplice identità tra tempo e movimento:
Tuttavia esso non si ha senza mutamento, perché quando non mutiamo nell’animo o ci sfugge di mutare, non ci sembra che sia trascorso tempo, come capitò, secondo la leggenda, a quelli che si destarono dopo aver dormito presso la tomba degli eroi a Sardi. Essi congiunsero l’istante che precedeva il sonno e quello seguente e ne fecero uno solo perché non avevano avvertito l’intervallo. Come dunque, se l’istante non fosse diverso, ma lo stesso e unico, non ci sarebbe tempo, così anche, se non si avverte che è diverso, non sembra che ci sia un tempo intermedio. Se dunque ci capita di pensare che non ci sia tempo quando non sappiamo determinare alcun mutamento, e l’anima sembra restare in un’unica e medesima condizione, e se invece diciamo che è trascorso del tempo quando percepiamo e determiniamo un mutamento, è chiaro che non vi è tempo senza movimento e mutamento19.
30Come si vede, due termini si appaiano, quasi in coppia sinonimica: movimento (κίνησις) e mutamento (μεταβολή), quasi a darsi il cambio: di qui in avanti l’argomentazione aristotelica userà quasi esclusivamente κίνησις, né il passaggio di testimonio in questa sorta di staffetta lessicale si rivela di scarso interesse.
31Lo scarto terminologico è necessario per il seguito del discorso aristotelico: il movimento è sempre il passaggio da un punto (ἐκ τινός) a un punto (ἐς τι). Parlare di movimento piuttosto che di mutamento permette dunque ad Aristotele di introdurre l’estensione (μέγεθος) come elemento di mediazione, e con l’estensione l’attributo della continuità: la continuità dell’estensione comporta la continuità del movimento, e questa la continuità del tempo. E come al mutamento si era quasi tacitamente sostituito il movimento, così all’estensione (μέγεθος) non tarda a sostituirsi il luogo (τόπος), cioè lo spazio. Il tempo è così riportato allo spazio, concetto almeno apparentemente meno esposto a trappole paradossali. La definizione finale cui l’intero ragionamento approda appare perciò pienamente persuasiva: « Il tempo è numero del movimento secondo il prima e il dopo »20; numero, spiega inoltre Aristotele, non in quanto sia strumento di numerazione, ma in quanto è esso numerato.
32« Numero del movimento », se si ricapitola l’intero brano aristotelico, potrebbe anche dirsi « misura del mutamento »; ma la scelta lessicale ha un suo peso perché rispecchia e rende conto del complesso gioco di mediazioni che hanno permesso la sua definizione. Aristotele ha spiegato qui la percezione del trascorrere del tempo come percezione di un movimento-mutamento. Ma di quale processo percettivo sta parlando?
33Ogni percezione ha il proprio organo percettivo e il proprio oggetto: l’occhio vede il colore, l’orecchio ode il rumore, la superficie corporea e soprattutto le mani avvertono il molle e il duro etc. Ma, accanto a queste percezioni che possiamo definire semplici, vi sono processi percettivi più complessi; uno di essi è quello che riguarda i cosiddetti « oggetti comuni » (κοινά); di questi non possediamo un sensorio particolare:
Non è possibile che vi sia un sensorio proprio degli oggetti comuni che noi percepiamo per concomitanza con ogni percezione, intendo il movimento, la quiete, la figura, l’estensione, il numero21.
34Aristotele parla di una « percezione comune » (κοινὴ αἴσθησις), alludendo all’unità in atto dei processi percettivi, senza che a questa unità debba corrispondere un particolare organo di senso. Si potrebbe dire che i κοινά oltre che oggetti della percezione ne siano in qualche modo modalità: il colore è definito da una figura, il tattile risulta in quiete o in movimento etc. Del movimento inoltre si deve osservare che non solo al pari degli altri κοινά esso è insieme oggetto e modalità della percezione, ma anche che lo stesso processo percettivo altro non è che passaggio di uno stimolo dall’oggetto percepito all’organo percettore attraverso un mezzo continuo – aria, acqua o entrambe –, altro non è che movimento.
35Della percezione del tempo non vi è invece enunciazione esplicita, ma soltanto implicita:
Se si ha percezione di sé o di altra cosa in un tempo continuo, non ci può sfuggire in quel momento che si esiste, se invece del tempo continuo c’è una parte completamente impercepibile, è chiaro che in quel momento ci sfuggirà che si esiste, si vede e si percepisce22.
36La continuità del tempo è garantita dalla continuità dell’autocoscienza. La percezione di sé nell’atto di percepire, la percezione cioè della percezione e la percezione del tempo in quanto continuità si sovrappongono, sì che la percezione del tempo appare non essere altro se non la percezione della continuità dell’esistenza. Ciò sembra tuttavia essere contraddetto da quanto Aristotele afferma all’inizio del successivo breve trattato dedicato alla memoria:
Non vi è memoria, come si è detto, dell’istante nell’istante, ma del presente percezione, del futuro attesa, del passato memoria. Perciò ogni memoria comporta tempo23.
37Non dunque la percezione, ma la memoria fa intendere realmente il tempo o, più precisamente, il nesso che collega la percezione alla memoria. Tutti i processi psichici più complessi fanno infatti capo alla ritenzione della percezione, che è in sé e per sé istantanea; hanno cioè una durata e il tempo vi gioca un ruolo determinante. Il prodotto della percezione (αἴσθημα) può perdurare dopo che lo stimolo esterno sia cessato; è il caso dell’effetto protratto di una stimolazione particolarmente violenta:
Ciò risulta chiaramente quando si abbia percezione continuata di qualche cosa: pur mutando percezione lo stimolo permane, come quando ci si volge dal sole all’ombra: accade allora di non vedere nulla per l’impulso che ancora sussiste negli occhi per effetto della luce24.
38Tuttavia neppure in questo caso la conservazione è indefinita; il prodotto della percezione (αἴσθημα) può però trasformarsi in φάντασμα. Il φάντασμα, l’immagine, è il prodotto dell’immaginazione (φαντασία), non presuppone la presenza di un oggetto materiale, ma è la persistenza nell’anima della sola forma di quanto si è precedentemente percepito. Esso è perciò sempre successivo e, seppur dipendente dall’αἴσθημα, ne è distinto temporalmente. Inoltre, ed è questa la sua caratteristica peculiare, non trae diretta origine da una stimolazione esterna, ma è prodotto dall’interno, dal processo che appunto si definisce immaginazione.
39Ancora un passo:
Come l’animale dipinto su una tavola è sia un animale sia una figura (εἰκών), e la stessa e unica cosa è entrambi, ed è possibile considerarlo e in quanto animale e in quanto figura, così si deve supporre che l’immagine (φάντασμα) che è in noi sia vuoi qualcosa in sé e per sé vuoi relativo a qualche cosa d’altro. Pertanto in quanto cosa in sé e per sé è un oggetto di considerazione (θεώρημα) o di immaginazione (φάντασμα), ma in quanto relativo a qualche cosa d’altro è come una figura (εἰκών) e un ricordo (μνημόνευμα)25.
40Il φάντασμα in sé e per sé è un φάντασμα, un’immagine, un prodotto della percezione liberato dalla contingenza del processo percettivo, il φάντασμα che fa riferimento ad altro, cioè alla realtà che configurò l’αἴσθημα da cui esso dipende, è figura di qualcosa d’altro che non c’è più, ma è stato, è ciò che chiamiamo prodotto della memoria, ricordo. Il ricordo è, così conclude Aristotele, « il possesso di un’immagine, in quanto figura di ciò di cui è immagine »26.
41Ma poiché tutti i processi che noi definiamo psichici, secondo Aristotele, appartengono insieme all’anima e al corpo, anche la memoria, come la percezione, ha un supporto corporeo; esso è definito « primo percettore », non è esplicitamente dichiarato e lo si è voluto riconoscere nel cuore o addirittura nel sangue, perché se ne parla in termini di maggiore o minore fluidità. La ritenzione della κίνησις che costituisce la memoria è spiegata infatti come modificazione relativamente stabile di una sostanza fluida. Il ricordo è così paragonato da Aristotele a un’impronta lasciata da un oggetto solido nella cera o a un vortice di forma determinata venutosi a creare in un liquido:
L’impulso che si produce segna all’interno come un’impronta della percezione simili ai sigilli fatti con gli anelli. Anche per questo coloro che si trovano o per qualche accidente o per l’età in stato di eccessiva mutabilità non hanno memoria, come se si volesse imprimere l’impulso, cioè il sigillo, in acqua corrente. In altri, a motivo dell’usura, come gli antichi palazzi, e per la rigidità della parte che deve ricevere lo stimolo, l’impronta non si forma. Per questa ragione sia i troppo giovani sia i vecchi sono smemorati27.
42Funziona qui un modello fisiologico fondato sull’opposizione secco – umido, condiviso anche da una parte notevole della tradizione medica e perciò facilmente integrabile nel sapere comune.
43Alla maggiore o minore attitudine del soggetto è da aggiungere un maggiore o minore grado di ricordabilità dell’oggetto, ci sono cioè cose più facili e cose più difficili da memorizzare:
Sono facili da ricordare tutte le cose che hanno un certo ordine, come i termini matematici, mentre quelle alla rinfusa sono anche difficilmente ricordabili28.
44E’ questo il presupposto di qualsiasi tecnica della memoria e anche nella trattazione che nella seconda parte dell’opera Aristotele dedica al richiamo alla memoria, ricorrono echi della mnemotecnica sviluppatasi in Atene con l’affermarsi della retorica29.
45Nella Retorica aristotelica si legge:
Chiamo periodo una elocuzione che abbia in sé e per sé un principio e una fine e un’estensione facilmente abbracciabile con uno sguardo (εὐσύνοπτον). Un’elocuzione siffatta è gradevole e di facile comprensione ; gradevole perché ha il contrario dell’indefinitezza e perché l’ascoltatore avverte di possedere qualcosa e che qualcosa gli è stato definito, mentre è sgradevole non prevedere nulla e lasciare le cose incompiute; di facile comprensione perché facilmente memorizzabile (εὐμνημόνευτον), e questo perché l’elocuzione possiede il numero, che di tutte è la cosa meglio memorizzabile. Anche per questo tutti ricordano i versi meglio delle parole sciolte, perché ciò con cui si versifica possiede il numero30.
46Appaiono in questo brano due aggettivi, che, pur non essendo sinonimi, indicano due qualità strettamente affini: εὐσύνοπτος e εὐμνημόνευτος. Indicano i tratti indispensabili di un discorso che voglia essere di facile comprensione (εὐμαθής), che voglia cioè riuscire efficace.
47Neppure questo è nuovo. Isocrate, all’inizio dello scritto in cui traccia il bilancio del proprio lunghissimo magistero retorico e il senso stesso della propria attività di scrittore di discorsi, riflette sulla difficoltà di costruire questa sintesi:
Non è piccola impresa abbracciare con uno sguardo un discorso di così grande ampiezza, e conciliare e armonizzare tanti temi, tanto differenti gli uni dagli altri31.
48Abbracciare con uno sguardo, avere cioè visione simultanea di un discorso: la vista sembra usurpare il dominio dell’udito, gli si sovrappone, e lo fa per affermare la sua proprietà specifica: l’istantaneità della percezione, la sottrazione del percepito all’inevitabile fluidità della durata.
49Platone riporta la metafora alla similitudine che la sottende. Così Socrate al dubitante Fedro:
Ma questo credo che tu possa dirlo: che ogni discorso debba essere costituito come un essere vivente avente un proprio corpo, così che non riesca né privo di testa né privo di piedi, ma possieda la sua parte centrale e le sue estremità, scritte in modo conveniente le une alle altre e all’intero32.
50L’essere vivente, l’animale (ζῷον) è il termine di confronto del discorso (λόγος) scritto o pronunciato, in questo caso scritto per essere pronunciato, e la congruità del primo che ci si manifesta con lo sguardo deve essere il modello per la conformazione del secondo che possiamo percepire solo con l’ascolto.
51La similitudine dell’animale si ripresenta in uno dei capitoli più importanti della Poetica:
Occorre dunque che i racconti ben composti non incomincino a caso né finiscano a caso, ma usino delle forme dette. Inoltre, ciò che è bello, sia animale sia ogni cosa composta di alcune parti, non soltanto deve averle ordinate, ma anche essere di grandezza non casuale, ciò che è bello lo è infatti in grandezza e disposizione, perciò un bell’animale non può essere estremamente piccolo, perché la visione si confonde avvicinandosi a tempi impercettibili, né estremamente grande, come se per esempio fosse un animale di diecimila stadi, perché non si potrebbe averne una visione simultanea, ma chi guarda perde di vista l’unità e l’interezza. Pertanto, come per i corpi e gli animali ci deve essere una grandezza e questa deve essere facilmente abbracciabile con uno sguardo, così anche per i racconti ci deve essere una durata e questa deve consentire una facile memorizzazione33.
52Ritornano qui i termini della Retorica e l’analogia di Platone: come la grandezza (μέγεθος) dell’animale deve essere abbracciabile con uno sguardo (εὐσύνοπτον), così la durata (μῆκος) del racconto, che è l’ossatura della tragedia, deve essere facilmente memorizzabile (εὐμνημόνευτον).
53Nell’ultimo capitolo, abbozzando uno schematico confronto di epica e tragedia, Aristotele porta l’ultimo dirimente motivo della superiorità di questa:
Ancora: per il compiersi il fine dell’imitazione in minore ampiezza: ciò che è più concentrato è più gradevole di ciò che è diluito in molto tempo, intendo come se si ponesse l’Edipo di Sofocle in versi epici quanti ne ha l’Iliade. L’imitazione epica è inoltre meno unitaria – ne è prova che da qualsiasi imitazione possono prodursi più tragedie – sì che, quando si compone un unico racconto, esposto alla svelta risulta scarno, adeguato alla durata del metro, annacquato. Intendo parlare di quando da più azioni se ne componga una, come l’Iliade comprende molte parti siffatte e l’Odissea ne ha che anche da sé possiedono grandezza; eppure queste opere sono composte come meglio non si può, e sono il più possibile imitazione di un’unica azione34.
54Lo sguardo istantaneo della pittura non è concesso alla poesia perché il tempo è necessario alla sua esecuzione; tuttavia un tempo esteso può comprometterne l’efficacia. Essa infatti non riposa, secondo Aristotele, sulla riconosciuta funzione sociale della tradizione poetica greca, sulla sua fluida continuità temporale, ma sulla chiara determinazione del singolo componimento, che deve potersi chiaramente riconoscere nella sua unità e completezza, come un oggetto che ci stia « davanti agli occhi ». Quest’espressione metaforica, ricorrente in Aristotele e non attestata altrove fino al suo tempo, completa efficacemente quanto la similitudine dell’animale aveva suggerito35. L’unità discreta dell’opera di poesia diventa così il centro della riflessione aristotelica e non tarda a trasformarsi in principio condiviso grazie anche alla conferma del dettato oraziano simplex dumtaxat et unum36.
Somiglianze e universali
55Nel 1694 lo scienziato olandese Nikolaas Hartsoeker, inventore del microscopio, osservando con il nuovo strumento lo sperma umano, scoprì l’esistenza dello spermatozoo e formulò l’ipotesi che il suo aspetto fosse una miniatura del bimbo in posizione fetale. Non pare che Hartsoeker abbia mai affermato di aver proprio visto quello che presto fu definito l’homunculus, ma così ai più piacque credere; si costruiva così in effetti un ottimo apologo: il primo strumento che permetteva all’uomo di infrangere le barriere dell’impercepibile lo traeva in inganno sulle sue stesse origini.
56Hartsoeker aveva probabilmente solo creduto di vedere e la prudenza dello scienziato lo aveva trattenuto dal dire di avere effettivamente visto; più spesso questa prudenza manca, e chi è testimone di un fatto è pronto a giurare sull’assoluta obiettività di quel che personalmente « ha visto ». Eppure, più di due millenni prima di Hartsoeker, Tucidide ammoniva sui pericoli di ricostruzioni dei fatti affidate solo a testimonianze individuali. Così egli scrive nel breve paragrafo dedicato all’inizio della sua opera ai principî seguiti nella realizzazione della ricerca intrapresa:
La scoperta è stata laboriosa perché coloro che erano stati presenti ai singoli fatti non ne parlavano allo stesso modo, ma come condotti dal favore per gli uni o per gli altri ovvero dalla loro memoria37.
57Quel che è abitualmente difficile da ricostruire con esattezza diventa pressoché impossibile quando si deve descrivere nei particolari la battaglia notturna combattuta da Ateniesi e Siracusani sull’altipiano dell’Epipole e la cui ricostruzione indiziaria è considerata a ragione uno dei momenti più felici della sapienza storiografica tucididea:
Allora gli Ateniesi si ritrovarono in grande confusione e incertezza, e non è facile venire a sapere neppure dagli altri in che modo si sia svolto ciascun fatto. Se infatti quando di giorno le cose sono più chiare, tra coloro che vi hanno preso parte ciascuno conosce a mala pena quel che lo riguardava, in una battaglia notturna – questa fu la sola tra grandi eserciti in questa guerra – come si potrebbe sapere qualcosa di certo? C’era sì plenilunio e ci si vedeva gli uni gli altri, ma come al lume di luna è verisimile si veda dinnanzi a sé un uomo, con il dubbio però se si tratti di un compagno o no.
58Se, in queste circostanze, poco serviva la vista, non era di maggior aiuto l’udito: la parola d’ordine, spesso ripetuta, fu presto nota ai nemici e il canto di guerra divenne motivo di grande confusione:
Di massimo danno fu poi il canto del peana che, essendo molto simile da entarmbe le parti, non produceva che incertezza38.
59La polemica tucididea ha, come si sa, un obiettivo: è rivolta a chi, come Erodoto, dominato dallo spirito del racconto, ama spesso affidarsi a singole testimonianze, salvo aggiungere una nota di dissenso fondata sulla propria opinione personale, oppure superare ogni incertezza affermando la propria diretta constatazione dei fatti, quella che una successiva tradizione ha voluto definire autopsia.
60Su tale autopsia hanno prosperato molte generazioni di viaggiatori, giornalisti, persino antropologi, e l’autofiducia del testimone oculare non è affatto superata nel campo delle scienze umane. Scrive Clifford Geertz in un breve ma incisivo saggio:
Gli etnografi hanno bisogno di convincerci (i nostri due esempi ne danno una dimostrazione quanto mai efficace) non soltanto del fatto che sono veramente « stati là », ma anche del fatto che (come è evidente ancora nei nostri due esempi, benché un po’ meno evidente), se a nostra volta noi fossimo stati là avremmo visto ciò che essi videro, sentito ciò che essi sentirono, concluso ciò che essi conclusero39.
61La presenza sul campo dell’etnologo è sembrata per molto tempo garanzia sufficiente dell’assoluta obiettività di tutto quel che è riferito nelle sue opere, nonostante in questa operazione di apparente trascrizione si celi l’elaborazione interpretativa di chi non solo ha visto e ascoltato, ma anche non di rado ha creduto di vedere e di ascoltare.
62Tuttavia, se lo scetticismo è atteggiamento necessario allo scienziato, esso non è forse così salutare a chi intende dare significato ad altre immagini; questo almeno è il pensiero di Lessing, che pure, da buon illuminista, riponeva la massima fede nella ragione:
Quanto più noi vediamo, tanto più dobbiamo sapervi aggiungere col pensiero. Quanto più vi aggiungiamo col pensiero, tanto più dobbiamo credere di vedere. Ma in tutto il corso di una passione non vi è alcun momento che abbia meno questo privilegio che il suo grado più alto40.
63Il Laocoonte, nell’interpretazione lessinghiana, rappresenta perciò non lo spasimo estremo della sofferenza, al di là del quale non c’è che la fine, bensì il momento di massima tensione, che prefigura, ma senza rappresentarla, anche la tragica conclusione. E’ il punto della klimax da dove è possibile intendere l’intero percorso.
64La riflessione di Lessing ci riporta alla contraddittorietà cui induce l’osservazione di un movimento bloccato, simile a quello del discobolo mironiano, la quale presuppone un’integrazione nella mente di chi guarda. Per dare coerenza al proprio pensiero, anch’egli crede di vedere quel che non vede: si può dire che, al pari dell’autoptico fiducioso, l’osservatore della scultura sia indotto a costruire la coerenza della visione sulla base di segni che i suoi sensi percepiscono. Ma, mentre il primo confida nella propria memoria, il secondo si affida all’integrazione del pensiero. L’ostacolo da superare è però il medesimo, il tempo, e medesimo il criterio: la verisimiglianza.
65Di tempo e memoria parla anche, seppure in modo abilmente dissimulato, Ernst Gombrich in un saggio dedicato all’interpretazione della fisionomia. Gombrich parte dal confronto di due immagini, perfettamente omogenee nell’ultima resa tipografica, ma separate l’una dall’altra da ottantasei anni, due ritratti di Bertrand Russell, fotografato a quattro e a novant’anni:
Vogliamo sapere se riusciamo a vedere la somiglianza, o, se il nostro è un atteggiamento mentale di scetticismo, vogliamo provare a noi stessi che non riusciamo a vederla. In ogni caso, coloro cui sono familiari i tratti assai caratteristici di Bertrand Russell leggeranno inevitabilmente la comparazione da destra a sinistra, e cercheranno di scoprire il vecchio nel bambino; sua madre, se fosse viva, cercherebbe nei tratti del vecchio le tracce del bambino, e avendo vissuto lungo tutta questa lunga trasformazione, avrebbe più probabilità di riuscire41.
66Occorre dire che, a facilitare l’operazione, la fotografa che ritrasse il Russell novantenne aveva probabilmente considerato la fotografia del bimbo perché inquadra il suo modello nella medesima postura, il capo leggermente inclinato e lo sguardo orientato nella stessa direzione; la rassomiglianza è in ogni modo impressionante, come se nel lungo tempo intercorso e di cui il viso del nonagenario reca con grande dignità i segni, fosse passato ininfluente a mutare la struttura profonda del suo sguardo.
67Il caso Russell è eccezionale; le altre rassomiglianze di cui si occupa Gombrich sono infatti di minore distanza temporale, ma il problema è lo stesso e serve a spiegarne il significato un’ipotesi impossibile che l’autore introduce:
Per porre la questione in termini più rozzi – se la cinepresa invece del cesello, del pennello, o perfino della lastra fotografica fosse stato il primo registratore delle fisionomie umane, il problema che la lingua nella sua saggezza chiama « cogliere l’espressione » non si sarebbe mai imposto alla nostra coscienza in tal misura42.
68Cogliere l’espressione può dunque significare rappresentare l’espressione che in qualche modo racchiude potenzialmente in sé tutte le altre, quella che garantisce la rassomiglianza del soggetto con se stesso, la permanenza a se stesso, pur nella fluidità delle vicende che gli occorrono e delle reazioni che queste vicende provocano in lui. Per questo Gombrich può avvicinare l’espressione di un ritratto alla « situazione artificiale del movimento arrestato »43. Quella che si usa definire l’intensità di un ritratto è dunque le capacità di concentrare nell’attimo il fluire delle espressioni della persona ritratta, in modo analogo a quello con cui Mirone e l’autore del Laocoonte seppero bloccare nelle loro opere il punto massimo di tensione di un movimento.
69Gombrich però non coinvolge soltanto durata e movimento; in apertura del suo saggio afferma: « La percezione ha sempre bisogno di universali »44. Egli accenna a questo proposito alla « metafisica platonica », ma è ad Aristotele che forse è ancora più utile rivolgerci. Aristotele usa frequentemente il termine καθόλου, in cui è trasparente l’attributo dell’interezza (ὅλον) e che dai latini fu coerentemente reso con universalis. Καθόλου si presenta all’inizio del De interpretatione con i rigorosi caratteri del predicato:
Definisco universale ciò che può predicarsi di più cose, particolare ciò che non può, come per esempio uomo è universale, Callia particolare45.
70E analogamente nei Primi analitici:
Definisco universale ciò che è di ciascuno o di nessuno, particolare ciò che è di qualcuno sì e di qualcuno no o non di ciascuno, indeterminato l’essere o il non essere senza riguardo per universale o particolare, come per esempio che la scienza dei contrari è la medesima e che il piacere non è un bene46.
71Si tratta, come si vede, sempre di un atto linguistico – predicato o enunciato che sia – pertinente alla mera pratica discorsiva. Ma il termine ricompare anche in differenti contesti aristotelici.
72Così Ingemar Düring:
Aristotele non scrive dei trattati : per lo più i suoi logoi sono conversazioni per l’insegnamento con le quali egli prende parte a un dibattito attuale, e che hanno, in conseguenza di ciò, finalità diverse. Se ad esempio egli usa il termine katholou in An. Post. I 2, parla allora del concetto generale astratto. Usando il medesimo vocabolo in Phys. I e in An. Post. II 19 intende il fatto evidente, dal punto di vista della psicologia della conoscenza, che si percepisce qualcosa di « generale » prima di poterlo determinare con maggiore precisione47.
73Il passo suggerito da Düring è il seguente:
Dalla percezione si produce il ricordo, come diciamo, e dal ricordo spesso ricorrente dello stesso oggetto l’esperienza, perché i numerosi ricordi costituiscono un’unica esperienza; dall’esperienza poi o da ogni universale che si fissa nell’anima – l’uno di fronte ai molti – ciò che in tutti questi è il medesimo, il principio dell’arte e della scienza48.
74La conclusione che segue poco appresso può apparire per certi versi sorprendente:
E’ chiaro che ci è necessario acquisire la conoscenza delle cose prime per induzione, perché anche la percezione fa nascere nel modo che si è detto gli universali49.
75Meno strana tuttavia appare l’affermazione se si considera come Aristotele motiva la superiorità conoscitiva della poesia sulla storia nel nono capitolo della Poetica:
La poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari. E’ universale a quale persona convenga dire o fare quali cose conformemente a verisimiglianza o necessità, ed è questo che ha come obiettivo la poesia, imponendo poi i nomi50.
76Si può dire che lo storico Tucidide, seppur con diverso linguaggio, dichiara di aver compiuto un’operazione in qualche modo simile quando spiega il valore dei discorsi diretti inseriti nel suo racconto:
Quanto a ciò che ciascuno di essi disse o in attesa della guerra o quando già vi si trovava, sarebbe stato difficile ricordare compiutamente sia quel che ebbi a udire personalmente sia quel che in qualche modo altri mi riferirono; è stato dunque scritto come mi sembrava che ciascuno avrebbe dovuto soprattutto dire (τὰ δέοντα μάλιστα) nelle diverse circostanze, tenendomi quanto più vicino al senso complessivo (ξυμπάσης γνώμης) di ciò che realmente fu detto51.
77Certo, l’apparato teorico aristotelico è molto più complesso: la rappresentazione poetica non è la semplice riproduzione di un’immagine, ma diventa la rappresentazione di quel che è universale in quell’immagine ; questo universale è riconosciuto nel verisimile (εἰκός). L’analogia di universale e verisimile è chiaramente definita nella Retorica:
Il verisimile è ciò che avviene per lo più, non però così semplicemente, come alcuni lo definiscono, ma, nell’ambito di ciò che può essere altrimenti, sta a ciò di cui è verisimile come l’universale al particolare52.
78« Ciò che può essere altrimenti » sono gli avvenimenti della sfera del possibile, come per esempio i comportamenti umani; anch’essi possiedono qualche cosa che si può assimilare all’universale: si tratta di un universale probabile (« per lo più »), che è la norma orientativa del possibile.
Il contrasto di vista e udito
79Dopo aver fatto distinguere a Glaucone i diversi tipi di musica e le proprietà di ciascuna nell’educazione dei giovani, Socrate osserva:
Soprattutto il ritmo e la melodia penetrano all’interno dell’anima, la toccano con maggior forza e con la loro nobiltà la rendono nobile53.
80La funzione paideutica della musica e la distinzione dei suoi diversi registri, tradizionalmente legati alle differenti occorrenze della vita sociale, apparteneva alla comune conoscenza dei Greci; anche Aristotele perciò, a conclusione dei libri VII-VIII della Politica, dedicati alla descrizione della miglior forma di costituzione, giunto a tracciare un sintetico quadro educativo della città, non manca di parlare dell’istruzione musicale dei giovani:
Poiché accade che la musica appartenga alle cose piacevoli, mentre la virtù riguarda il saper godere, amare e odiare in modo corretto, è chiaro che nulla si deve apprendere e a nulla abituarsi così come al giudicare rettamente e a prender piacere delle nobili disposizioni d’animo e delle belle azioni. Nei ritmi e nei canti vi sono corrispondenze quanto mai prossime alle nature reali dell’ira e della benignità, e anche del coraggio, della temperanza e di tutti i loro opposti, come di ogni altra disposizione dell’animo, e ciò è chiaro da quel che avviene, perché ascoltandoli noi mutiamo nell’anima54.
81Compare in queste righe, e ritornerà in quelle che seguono, il termine ὁμοιώματα, che etimologicamente vale « cose fatte a somiglianza », ma che ho preferito rendere con « corrispondenze ». La parola non è attestata prima di Platone, dove ricorre tre volte in opposizione a ἰδέαι, o comunque a ciò che appartiene a un altro mondo e resta occulto ai nostri occhi; le traduzioni hanno variamente reso con « copie », « copie rassomiglianti » etc., perché è sempre presente il presupposto di una corrispondenza tra realtà parallele, di un’equivalenza fondata su un’apparente identità55.
82Lo stesso uso ne fa Aristotele quando, nel primo libro della Metafisica, critica la dottrina pitagorica di una corrispondenza tra alcuni numeri e i concetti di giustizia, anima, morte, occasione56. Non diversamente nell’EticaNicomachea se ne serve per sottolineare il parallelismo esistente tra le funzioni dell’organizzazione della casa e quelle della costituzione cittadina57. Il passo però forse più interessante è quello posto all’inizio del De interpretatione:
Le espressioni della voce sono simboli delle emozioni dell’anima e quel che si scrive simbolo di quel che si esprime con la voce. E come non per tutti è uguale ciò che si scrive, così neppure i suoni sono gli stessi. Le emozioni dell’anima invece, dei quali questi sono segni, sono le stesse per tutti e le stesse sono le cose delle quali esse sono corrispondenze58.
83Qui si fa una distinzione di non poco conto: mentre i suoni sono simboli (σύμβολα) delle emozioni, e la scrittura, le lettere, segni (σημεῖα) dei suoni, il rapporto che lega le emozioni (παθήματα) con la realtà esterna (πράγματα) è un rapporto di corrispondenza, analogico cioè, non indiziario. Vediamo come questa differenza sia presente anche nel brano della Politica, che così prosegue:
L’abitudine di addolorarci e di rallegrarci per ciò che è simile è molto vicina all’avere lo stesso atteggiamento di fronte alla realtà, per esempio se si gode vedendo l’immagine di qualcuno non per altra ragione se non per la sua stessa forma, deve riuscire piacevole anche la vista di colui del quale essa è l’immagine. In nessun altro degli oggetti percepiti tuttavia, come in ciò che si tocca o si gusta, c’è una corrispondenza delle disposizioni dell’animo, salvo che in ciò che si vede; vi sono infatti forme siffatte, ma limitatamente e non tutti partecipano di tale percezione. Non si tratta inoltre di corrispondenze delle disposizioni dell’animo, ma le forme e i colori sono piuttosto segni delle disposizioni, che si producono sul corpo soggetto alle emozioni. Tuttavia, in quanto anche nella vista di queste cose c’è differenza, occorre che i giovani non guardino le opere di Pausone, ma quelle di Polignoto e di ogni altro pittore o scultore di disposizioni morali. Nei canti invece ci sono le imitazioni delle disposizioni dell’animo, e questo è chiaro: la natura delle musiche è differente, sì che chi ascolta muta di disposizione e non è nello stesso atteggiamento di fronte a ciascuna di esse59.
84Anche qui torna la distinzione tra ὁμοιώματα e σημεῖα, il rapporto di corrispondenza però non è tra la realtà e le emozioni dell’anima, ma tra queste e la musica, che le sa riprodurre perfettamente, mentre alla pittura necessita l’intermediazione della rappresentazione di un corpo, i cui tratti fisiognomici sono segno dell’emozione dell’anima. Ricompaiono Polignoto e Pausone, il primo preferibile al secondo perché produttore di immagini nobili, ma entrambi, così nel bene come nel male, inferiori alla musica e alle sue diverse melodie nella capacità di incidere sull’anima.
85Tra vista e udito la partita resta dunque aperta: entrambi sono sensi nobili, si distinguono dagli altri perché, pur necessitando di un supporto corporeo, non producono piaceri a soddisfazione del corpo, ma del pensiero:
86Coloro che godono degli oggetti della vista, come dei colori, delle forme o di un disegno, non si definiscono né temperante né intemperante, seppure anche di queste cose sia dato di godere come si deve o di più e di meno. E lo stesso è per quel che riguarda l’udito60.
87Talvolta sembra affermarsi il primato della vista, per esempio quando è ricordata come condizione necessaria e quasi principio dell’innamoramento:
[La simpatia] è il principio dell’amicizia, come dell’amore lo è il piacere della vista, perché nessuno ama se non ha prima goduto della forma dell’amato61.
88o in un passo dedicato all’immaginazione:
Perché la vista è la percezione per eccellenza, e [l’immaginazione (φαντασία)] ha tratto il proprio nome dalla luce (φάος), in quanto senza luce non è possibile vedere62.
89« Percezione per eccellenza » (μάλιστα αἴσθησις), cioè percezione nel vero significato della parola, la vista sembra dunque essere il senso a partire dal quale si costruiscono i processi psichici superiori; eppure, all’inizio del primo libro della Metafisica leggiamo qualche cosa di diverso:
Tutti gli uomini per natura sono attratti dal sapere; ne è segno la gioia prodotta dalle percezioni. Essi ne godono anche senza necessità, e più di tutte le altre di quella che si produce con gli occhi. Preferiamo infatti il vedere si può dire a ogni altra cosa, non soltanto per agire ma anche quando non siamo intenti a far nulla. Il motivo è che questa è la percezione che più delle altre ci fa conoscere e ci mostra molte differenze. Per natura dunque gli animali nascono capaci di percezione, ma da essa in alcuni non si produce la memoria, in altri sì, e grazie a ciò questi sono più capaci di intelligenza e di apprendimento di quelli che non sanno ricordare. Intelligenti senza apprendere sono tutti quelli che non possono udire i suoni (come le api e tutti gli altri animali di questo genere), mentre invece apprendono tutti quelli che, oltre alla memoria, sono provvisti anche di questa percezione63.
90Appare dunque difficile riportare i sensi ad una classificazione unica e rigorosa, perché qualsiasi modulo classificatorio aristotelico si organizza intorno a uno specifico asse assiologico: da un più a un meno o da un meno a un più, dove il più comprende sempre anche le potenzialità del meno. In questo caso invece non abbiamo un riconoscibile assetto gerarchico, ma piuttosto un altalenante bilanciamento che percorre l’intera opera aristotelica. Esso contraddice la visione di un rigido sistema di progressive consequenzialità e suggerisce piuttosto una molteplicità fenomenica che solo l’intuizione analogica è in grado di ordinare.
91Di fronte a questo scarso aristotelismo di Aristotele dobbiamo stupirci? Non credo. Forse non è inutile ricordare che una parte non indifferente delle sue argomentazioni si regge, a ben vedere, su analogie; esse cioè suggeriscono un ricorrente modello di tipo proporzionale: a : b = c : d. Lo stesso Aristotele, nel corso della lunga trattazione sul rapporto atto/potenza svolta nel nono libro della Metafisica, ammonisce sull’impossibilità di procedere costantemente per dimostrazioni deduttive:
Ciò che vogliamo dire è chiaro per quanto riguarda i particolari per mezzo dell’induzione, perché non si deve cercare la definizione di ogni cosa, ma considerarla anche per mezzo dell’analogia: il costruire sta all’arte di costruire come il desto al dormiente, chi vede a chi ha gli occhi chiusi, ciò che della materia è foggiato alla materia, e ciò che è modellato a ciò che è modellabile. In queste distinzioni una parte sia considerata l’attualità definita, l’altra la potenzialità. Non di tutte le cose si dice in atto nello stesso modo, ma piuttosto per analogia: questo in quello o questo in rapporto a quello; alcune in quanto mutamento rispetto alla potenzialità, altre in quanto essenza rispetto a una materia64.
92Questo brano induce a una considerazione: il lavoro teorico aristotelico si fonda essenzialmente sull’intuizione di rapporti analogici che si possono stabilire tra i diversi campi del sapere, è un lavoro più complesso e articolato di quanto ci faccia credere la tradizione scolastica, una serie di indagini di rigorosa coerenza, ma nello stesso tempo aperte a numerose vie di fuga di grande suggestione65. La riflessione aristotelica, sempre attenta al valore dei « fatti » (πράγματα), si sviluppa in costante dialogo con le teorizzazioni dei pensatori più antichi come dei suoi contemporanei, talvolta polemico, talvolta pronto a far proprie e a riformulare nel suo linguaggio quanto può servire a definire il problema impostato. E’ il procedere di chi si muove attento alle analogie e insieme rispettoso delle diversità, non di chi è impegnato nella compilazione di un omologante trattato enciclopedico.
93Scrive Düring:
Le numerose contraddizioni, per lo più di scarsa importanza, che si trovano nelle sue opere, dipendono di regola dal fatto che in opere diverse discute lo stesso problema da diversi angoli di visuale66.
94E l’angolo visuale muta spesso nelle molte considerazioni di cui sono oggetto i due sensi che ho preso in esame, sì che dai passi aristotelici si potrebbe ricavare una sorta di dialogo a distanza sul primato di ciascuno dei due, un vero e proprio confronto, o contrasto, come era definito il dialogo poetico medioevale tra due entità personificate: l’inverno e la primavera, la rosa e il giglio, ma anche la misericordia e la giustizia o la vita e la morte. Talvolta questi contrasti si concludevano con un vincitore, talvolta no, e l’equilibrio che ne risultava indicava eloquentemente la necessaria complementarietà degli antagonisti. Non diversa è la suggestione ricavabile dalla complementarietà, talvolta conflittuale, di vista e udito, che le indagini aristoteliche vengono delineando, senza mai imporre una definitiva gerarchia di questi due sensi che sono alla base di ogni processo di elaborazione intellettuale.
Bibliographie
Laddove esista una traduzione italiana delle opere citate, ci riferiamo sistematicamente a quest’ultima.
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Geertz C. (1990), Opere e vite. L’antropologo come autore, Bologne.
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Snodgrass A. M. (1982), Narration and Illusion in Archaic Greek Art, Londres.
Stoichita V. I. (1998), L’invenzione del quadro, Milan.
Notes de bas de page
1 Li Gotti 1957, p. 49.
2 Arist., Hist. an. 510a 29-30; cf. la stessa formula in Meteor. 346a 32 e 363a 26. Si veda inoltre il ricorso a uno schema in An. pr. 51b 35-8 e 52a 31.
3 Plat., Phaed. 60a-c.
4 Arist., Metaph. 1024b 29-31 e Top. 160b 25-28.
5 Arist., Poet. 1448a 1-9.
6 Giuliani 1997, p. 983ss.
7 Arist., De sensu 437a 2.
8 Plat., Phaed. 65 a-b.
9 Id. 66a
10 Plat., Resp. 598a-b.
11 Plin., Nat. Hist. 34. 65. Realtà e apparenza non esauriscono tuttavia le possibilità della mimesi. Quasi a conclusione della Poetica, Aristotele annota: « Dal momento che il poeta è un imitatore come il pittore o un altro fabbricatore di immagini, è inevitabile che egli imiti sempre in uno dei tre modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come dicono e sembra loro che siano, o come dovrebbero essere » (1460 b 8-11); poco appresso riporta l’apoftegma sofocleo diventato poi celebre: « Sofocle disse di rappresentare gli uomini quali avrebbero dovuto essere, mentre Euripide li rappresentava quali erano » (1460 b 33-4).
12 Si veda al riguardo quanto scriveva poco meno di ottant’anni fa Schuhl 1994, p. 53ss. (1933).
13 Sinteticamente lucida l’esposizione di questa sequenza e delle sue implicazioni teoriche svolta da Harari 2000, soprattutto p. 13s.; sui precedenti di Plinio si veda il sempre valido saggio di Schweitzer, Senocrate di Atene (1932), in Schweitzer 1967, p. 255ss.
14 Plin., Nat. Hist. 35. 65.
15 Un attento studioso di questi artifici pittorici mostra con chiarezza come lo sviluppo dell’illusionismo sia intrinsecamente legato alla nuova attenzione rivolta da alcuni pittori alla cosiddetta « natura morta », che ritroviamo implicita anche nel nostro raccontino; cf. Stoichita 1998, p. 29ss.
16 Pierantoni 1986, p. 150 ss.; vengono usati i fotogrammi di Muybridge (1887).
17 Snodgrass 1982, p. 5.
18 N. Himmelmann, Erzählung und Figur in der archaischen Kunst (1967), tradotto in Himmelmann 1998, p. 67ss.; ivi anche in appendice, da cui cito, tradotti brani da C. Robert, Bildund Lied (1881). A Robert si richiamava già Fraccaroli 1903, p. 107ss., ma interpretando la rappresentazione sinottica come fenomeno di irrazionalità analogo al trattamento riservato al tempo nelle narrazioni della poesia arcaica.
19 Arist., Ph. 218b 21-35. Cat.15a 13-14: « Ci sono sei specie di movimento (κίνησις): la generazione, la corruzione, la crescita, la diminuzione, l’alterazione, il mutamento di luogo (μεταβολὴ κατὰ τὸν τόπον) ». I movimenti qui elencati sono di fatto dei mutamenti, e curiosamente è definito mutamento di luogo proprio quello che si potrebbe definire movimento.
20 Arist., Ph. 219b 1-2.
21 Arist. Ph. 425a 13-15.
22 Arist., De sensu 448a 26-30.
23 Arist., De mem. 449b 25-29.
24 Arist., De insomn. 459b 7-10.
25 Arist., De mem. 450 b 20-27.
26 Arist., De mem. 451 a 15-16.
27 Arist., De mem.450 a 30-b 7.
28 Arist., De mem. 452 a 2-4.
29 Al μνημονικὸν τέχνημα di Ippia allude non senza ironia Platone (Hipp. min. 285e: « e mi dimenticavo proprio della tua arte del ricordare, nella quale pensi di essere il più brillante », cf. anche Xenoph., Symp. 62.
30 Arist., Rhet. 1409 a 35-b 8.
31 Isocr., Antid. 11.
32 Plat., Phaedr. 264c.
33 Arist., Poet. 1450b 32-51 a 6.
34 Arist., Poet. 1462 a 13 – b 11.
35 L’espressione πρὸ ὀμμάτων ricorre quattordici volte in Aristotele, nove nella sola Retorica: in unione con i verbi ποιέω o τίθημι, sta a indicare metaforicamente la capacità dell’immaginazione di rappresentare idee o di evocare avvenimenti passati o futuri per suscitare un’emozione più potente.
36 Hor., Epist. II 3. 23.
37 Thuc. 1. 22.
38 Thuc. 7. 44.
39 Geertz 1990, p. 23.
40 Lessing 1954, p.18s.
41 Gombrich 1992, p. 11.
42 Id., p. 24.
43 Id., p. 37.
44 Id., p. 6.
45 Arist., De interpr. 17a 39-b 1.
46 Arist., An. pr. 24 a 18-22.
47 Düring 1976, p. 261.
48 Arist., An. post. 100 a 3-8.
49 Arist., An. post. 100 b 3-5.
50 Arist., Poet. 1451 b 5 – 7.
51 Thuc. 1. 22. 1.
52 Arist. Rhet. 1357 a 34 – b 1.
53 Plat., Resp. 401 d.
54 Arist., Pol. 1340 a 14 – b 23.
55 Cf. Plat., Phaedr. 250 ab, Soph. 266d, Parm.133d.
56 Arist., Metaph. 985 b 27–29.
57 Arist., Eth. Nic. 1160 b 22.
58 Arist., De interpr. 16 a 3-8.
59 Arist., Pol. 1340 a 23-42.
60 Arist., Eth. Nic. 1118 a 3-7.
61 Arist., Eth. Nic. 1167 a 3–5.
62 Arist., De an. 429 a 2-4.
63 Arist., Metaph. 980 a 23–b 25.
64 Arist., Metaph. 1048 a 35–b 9.
65 Un buon esempio di ricerca resta al riguardo quello di Gastaldi 1994.
66 Düring 1976, p. 32.
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