6. Natura e arte
p. 132-164
Texte intégral
1A Roma, nel Pantheon, c’è la tomba di Raffaello. La piccola iscrizione tombale, divenuta ormai quasi illeggibile, è del cardinale Pietro Bembo, illustre umanista, e recita così: Ille hic est Raphael. Timuit quo sospite vinci | rerum magna parens et moriente mori. Liberamente tradotta: «Qui giace Raffaello. Da lui vivente temette di essere vinta la grande fattrice di tutte le cose | con lui morente di morire». La magna rerum parens è la natura, o meglio la natura naturans, vale a dire non la quintessenza di tutte le cose, ma piuttosto ciò che produce tutte le cose che non sono fatte dall’uomo. Le produzioni di Raffaello – così sembra presumere il verso – erano buone come quelle della natura, se non addirittura migliori. Ma in qualche modo proprio quel qualcosa che la natura non aveva prodotto – l’arte – era anch’esso natura. Altrimenti non si capirebbe come mai la natura tema di morire quando muore Raffaello. Ci si dovrebbe piuttosto aspettare che sia felice di essersi finalmente liberata di un pericoloso rivale.
2Ma si danno anche altre implicazioni. I dipinti di Raffaello possono competere con le produzioni della natura e addirittura superarle solo se vogliono qualcosa di paragonabile, e quindi possono essere misurati con lo stesso metro. Il che a sua volta presuppone che anche la natura voglia e tenda a qualcosa, in riferimento al quale possa sorgere una rivalità, anche se si tratta di una rivalità che, ancora una volta, è come una parte di lei, anzi addirittura la parte migliore, la cui morte implicherebbe anche la sua morte. Fin dagli albori la riflessione sull’arte ha costantemente ribadito la liceità di questo confronto, considerandolo addirittura costitutivo per l’arte stessa. Se una produzione umana possa dirsi effettivamente artistica o piuttosto priva di arte e arbitraria è questione che dipende da un certo tipo di naturalezza. Come afferma lapidariamente Aristotele1 l’arte imita la natura – il che presuppone chiaramente un primato della natura. Tanto le leggi che l’arte, si afferma nelle Leggi, «provengono dalla natura o comunque da qualcosa di non inferiore a essa»2. Il che significa innanzitutto che l’uomo, colui che produce le opere d’arte, non è prodotto tramite arte, ma φύσει (phýsei), per natura, ovvero è un ente naturale. Ma allora, non si dovrebbe definire naturale anche ciò che egli produce intenzionalmente? Non consideriamo forse “naturali” anche nidi e alveari? È dunque tutto natura? Se così fosse, il concetto di natura e di naturale non perderebbe il suo significato specifico, desumibile solo all’interno di una polarità di concetti, come quando si parla di naturale e convenzionale, di natura e libertà, di naturale e violento, di naturale e razionale, e dunque anche di natura e arte, di naturale e artistico? Che cosa differenzia, infatti, le opere dell’arte umana da nidi e alveari, in modo tale che, come notava Democrito, nel costruire le case, nel tessere e nel rammendare gli uomini vanno a scuola dagli animali e non il contrario? Le costruzioni degli animali non sono naturali nel senso che crescano e si formino da sole. In effetti, esse non vengono generate e non crescono. Non hanno una natura autonoma, ma appartengono alla natura degli animali che le fanno. E ciò per il fatto che la ποίησις (poíesis) degli animali non si è ancora emancipata rispetto alla loro attività vitale. Il fare degli animali, la loro poíesis, non si fonda sul fatto di rappresentarsi un fine per raggiungere il quale si mettono a punto dei mezzi, ma piuttosto la produzione dei mezzi è una cosa sola col tendere al fine. Siamo solo noi che li osserviamo a distinguere le due cose e, in quanto consapevoli del darsi di un fine, siamo pieni di ammirazione per la geniale scelta dei mezzi. Che in realtà non si tratti per nulla di una scelta è dimostrato dal fatto che rondini, ragni e api non modificano mai le loro costruzioni. Non c’è una storia dell’arte degli animali o, se ci fosse, coinciderebbe pienamente con la storia naturale delle specie animali. Già Tommaso d’Aquino aveva richiamato l’attenzione su questa differenza quando, nel suo Commento alla Fisica di Aristotele, scriveva: «Non tutti gli architetti costruiscono una casa allo stesso modo, giacché l’artista sa giudicare e quindi variare la forma dell’edificio»3. La produzione intenzionale di artefatti umani non è dovuta a un qualche istinto naturale, ma alla riflessione, nonché alla capacità, acquisita sulla base di un talento naturale, di fare cose di un certo tipo come le avrebbe fatte la natura se in essa fosse insita la tendenza a fare cose di questo genere. Tale capacità in greco si chiama τέχνη (téchne), in latino ars, in italiano arte, concetto non ancora ristretto all’ambito delle belle arti e tuttora utilizzato in determinati contesti. Si parla infatti di artigianato, di arte medica, di difetto d’arte. L’aggettivo artistico è correlato al concetto estetico di arte, ma le espressioni “ad arte” e “artificiale” lo sono a questo più antico e più ampio. Inoltre, è un fatto che un prodotto artificiale viene tanto più lodato quanto più dà l’impressione di essere naturale. L’arte di produrre fiori artificiali raggiunge l’apice quando non si riesce più a distinguerli dai fiori naturali. Ma è proprio allora che non sono più artistici. E lo stesso vale, guarda caso, per gli atteggiamenti umani. Ogni atteggiamento umano poggia su un’autostilizzazione e di conseguenza è artificiale. La mera spontaneità va celata in quanto non propriamente umana. Eppure dire che il comportamento di una persona sembra artificiale suona come una critica. Lo scopo dell’autostilizzazione è sempre quello di sembrare naturali, come se ciò fosse risultato di pura spontaneità. A tale proposito si parla di “seconda natura”, perché ciò che si imita, in questo caso, non è ciò che la natura da sola produce, ma il come essa lo produce, dunque proprio la spontaneità e l’immediatezza. Come afferma Kleist nello scritto sul teatro delle marionette, la coscienza che ha perso l’ingenua immediatezza dell’inizio per riconquistarla deve compiere un percorso infinito4.
3A quanto pare, il tertium comparationis in ciò che può voler dire “imitare la natura” non è sempre lo stesso. Mi propongo pertanto di distinguere tre modalità dell’imitazione: (1) la simulazione tecnica, (2) la simulazione estetica, (3) la simbolizzazione della natura.
Simulazione tecnica
4Della simulazione tecnica ho già incominciato a dire. È quella che ha in mente soprattutto Aristotele. Che cosa viene simulato in questo caso? Imitare la natura non può voler dire che ciò che è fatto dall’uomo assomigli in un modo qualsiasi a ciò che non è fatto dall’uomo. Sarebbe come non dire niente, dato che, in un certo senso, tutto assomiglia a tutto. Per focalizzare il tertium comparationis è bene rendersi conto che Aristotele, oltre a natura e arte, individua altre due cause dell’essere una cosa così com’è: il caso e la necessità. Una cosa è casuale innanzitutto se è un “qualcosa” e poi se non esiste una causa che, in conformità alla sua specie, normalmente produca un qualcosa del genere. Il fatto che in una determinata stanza una signora con una giacca nera sieda a 2 metri e mezzo di distanza da un signore con un fazzoletto blu non è qualcosa per cui si cercherebbe una causa, non è un evento, a meno che non sia stato previsto da qualcuno. In tal caso, questa circostanza arbitraria, insieme alla sua previsione, acquisirebbe un significato intrinseco, diventando così un “qualcosa” per il quale sarebbe spontaneo ricercare una causa, e se non si trovasse alcun evento la cui natura produca una tale coincidenza, allora si parlerebbe di caso, come è un caso che il vento faccia cadere una tegola dal tetto che, cadendo in testa a un uomo, lo uccida. Ma che un vento di una determinata forza sposti le tegole dal tetto, qualora se ne diano, non è un caso, bensì, secondo Aristotele, è riconducibile alla causalità del quarto tipo, ossia alla necessità. E necessario è anche che una tegola che cada dal tetto a tali condizioni, se cade in testa a un uomo, lo uccida. Ma di per sé l’evento concreto non è necessario né naturale né dovuto a un’arte. Esso poggia tutto sulla casualità che proprio nel momento in cui la tegola cadeva un uomo si trovasse in quel preciso punto, a meno che qualcuno non l’avesse attirato lì con l’inganno, prevedendo la caduta della tegola e simulando così un evento fortuito. Ciò che natura e arte in quanto cause hanno in comune e che le distingue dalle cause di altro tipo, è il fatto che i risultati conseguiti grazie a esse sono la ragione (Grund) di quei processi mediante i quali vengono prodotte. Chiamiamo tali ragioni scopi (Zwecke). Che gli uccelli d’inverno trovino il nutrimento in Africa è la ragione dei processi neuronali al termine dei quali ha luogo la migrazione verso l’Africa. L’approvvigionamento d’ossigeno dell’organismo è la ragione della coordinazione regolare di quei processi causali che servono al formarsi dei polmoni. E il desiderio degli uomini di spostarsi velocemente e senza fatica da un luogo all’altro è la ragione del fatto che esistano le automobili. In quest’ultimo caso, siccome la causa non attiene alla natura ma all’arte, invece che con l’auto ci si può spostare anche col treno, e invece che con motori a benzina con motori elettrici. La storia della tecnica non coincide con la storia naturale dell’uomo, ma ha inizio in una fase successiva di questa storia.
5Dal punto di vista ontologico, il rapporto di somiglianza fra costruzioni naturali e artistiche è asimmetrico. Sono le seconde a imitare le prime e non viceversa. L’immagine assomiglia al modello, e non il contrario. Invece πρὸς ἡμᾶς (pròs hemâs), come dice Aristotele, per noi, ossia dal punto di vista gnoseologico, la somiglianza è reciproca. Noi comprendiamo i processi naturali teleologicamente, ossia in analogia con quelli che sono messi in moto da noi, siamo pieni di ammirazione per come la natura lavori con arte, per poi nuovamente imitare la natura che abbiamo compreso così.
6Kant ha visto per primo che la funzione, il τέλος (télos), ci dischiude lo spazio euristico all’interno del quale indagare come faccia la natura a conseguire quel télos, ci apre insomma lo spazio alla ricerca scientifica delle cause, conformemente all’adagio scolastico cuiuscumque est causa finalis, eius est causa efficiens. E in questa ricerca ci lasciamo guidare dalla domanda come faremmo noi a raggiungere questo scopo. E se vediamo che la natura lo sa fare meglio di noi, allora possiamo anche imparare da lei. Ecco per esempio come la moderna aerodinamica, avvalendosi della simulazione digitale, ci insegna a comprendere la variazione dell’angolazione alare nel volo degli uccelli, cioè ce la fa capire come ottimizzazione delle prestazioni di volo. E viceversa: è stupefacente come sia silenzioso il volo del gufo, e la funzione, lo scopo di questo volo silenzioso non ci sfuggono di certo. È ovvio che i costruttori di aeroplani siano estremamente interessati ad apprendere dagli ornitologi come si realizzi un tale fenomeno, in quanto sperano di trarne profitto per la costruzione degli elicotteri. È per questo che simuliamo i processi naturali: per comprenderli. E, una volta che li abbiamo compresi, li simuliamo una seconda volta mediante la costruzione di apparecchiature che assolvano funzioni analoghe per il nostro profitto. A volte si tratta perfino della stessa funzione, come nel caso delle protesi. Quando costruiamo una casa, scrive Aristotele, procediamo in modo simile alla natura, compiendo passi analoghi a quelli che essa stessa compirebbe se la casa fosse un oggetto naturale. E viceversa: la natura procede secondo passi simili a quelli che faremmo noi se ci trovassimo a fare questa cosa. Ecco perché l’arte, la téchne, costituisce per Aristotele un analogo della φύσις (phýsis). «Se l’arte di costruire navi – egli scrive – fosse insita nel legno, la nave stessa sarebbe phýsei, generata per natura»5.
7Ciononostante Aristotele assegna il primato ontologico a ciò che è phýsei. L’arte umana può solo limitarsi ad arrangiare ciò che proviene da natura, in modo che l’arrangiamento serva a scopi umani. L’auto funziona solo per il fatto che il petrolio è infiammabile. La scienza moderna mette in dubbio questo primato. Voltaire fa dire alla natura: «On m’appelle nature, et je suis tout art»6. Che cosa significa? Per capire il detto di Voltaire occorre sapere che la moderna filosofia della natura ha inizio nel xvii secolo con una polemica contro il concetto di natura, di phýsis. Concetto che sembra disperatamente impregnato di teleologismo, proprio in quanto fa riferimento a un’arte immanente agli esseri viventi. Ma una tale natura, una natura che tende a qualcosa, che per esempio ha un horror vacui, semplicemente non esiste. È vero, le macchine imitano degli esseri naturali, ma questi a loro volta non sono altro che macchine. L’homme machine è il titolo del libro del barone d’Holbach. Questa teoria della macchina venne dapprima difesa a livello teologico da Christoph Sturmius e da Malebranche, per cui concepire phýsis come principio interno di movimento e quiete è una concezione superstiziosa, poiché il principio interno è l’ingegnere divino esterno alla macchina. Successivamente la teoria si ripresenta in senso ateistico. La conseguenza di questo modo di vedere è che la simulazione della natura non è più solo una simulazione, ma un equivalente della cosa simulata. Lo scopo non è più solo quello di renderci comprensibile l’infrastruttura chimica della vita o l’infrastruttura neuronale del pensiero, ma la simulazione e la cosa coincidono, perché la cosa non è altro che un arrangiamento di materia basica, che in via di principio anche noi saremmo in grado di produrre. Ciò che rimane della natura non sono gli esseri naturali, ma leggi fisiche strutturali, ossia proprio quello che Aristotele chiama non phýsis ma ἀνάγκη (anánke), necessità. E con ciò siamo arrivati a qualcosa di non simulabile, ma d’indifferente alla distinzione fra natura e simulazione. Per questo modo di considerare le cose, il concetto d’imitazione della natura perde tutto il suo significato. Ciò che è veramente phýsei non può essere imitato, e tutto ciò che può essere imitato non è già altro che perfetta simulazione. Questa prospettiva, in ogni caso, non è altro che science fiction, e il grande autore Stanisław Lem ha sempre definito ridicola l’idea che le macchine possano effettivamente pensare. Ma lo scopo ultimo della tecnica scientifica moderna non consiste più nella risoluzione di problemi pratici, sebbene ne risolva di continuo; il suo scopo ultimo è descrivibile solo come utopia, science fiction, ovvero ricostruzione della natura. Il che è possibile solo se ha ragione Voltaire, quando appunto fa dire alla natura: “Je suis tout art”.
8In che cosa si differenziano, allora, natura e artificio? A quanto pare non solo per il fatto che la prima non è opera dell’uomo. Anche il caso e la necessità non lo sono. Ciò che i moderni critici del concetto di natura respingono è piuttosto l’idea di un’ἀρχή κινήσεος (arché kinéseos), ossia l’idea che il movimento caratteristico di ciascuna specie si fondi su di un principio interno alle realtà naturali e non consista ultimamente nella funzione di un parallelogramma universale di forze in reciproca collisione. Ciò che si respinge è l’idea che gli oggetti naturali siano autonomi, se tale autonomia (Selbstsein) implica l’emancipazione dalle condizioni generative. E ciò che ha in mente Nietzsche allorché afferma che l’ultimo antropomorfismo che rimane da superare è l’idea che le cose siano delle unità naturali. E Nietzsche ha compiuto anche l’ultimo passo in tal senso: anche l’immaginarsi come unità, l’idea stessa della propria identità, è antropomorfa, e l’uomo stesso non è altro che antropomorfismo. Non dobbiamo pensare le cose in analogia con noi stessi, ma piuttosto noi stessi in analogia con le cose. Ma sono proprio le cose a non esserci, in quanto solo pensate in analogia con noi stessi.
9Non discuterò qui questa concezione. Si tratta di una conseguenza coerente dello scientismo. La scienza contemporanea rientra nella tipologia della ricerca delle condizioni. Un essere autonomo ed emancipato rispetto alle proprie condizioni generative non può essere, come ha ben visto Kant, oggetto di scienza. Questa sua autonomia, infatti, è ἀρχή (arché, inizio). La scienza pensa l’inizio precisamente non come inizio, ma come conseguenza di condizioni antecedenti. A ben vedere, l’imitazione tecnica della natura prescinde e ha da sempre prescisso proprio da ciò che ha fatto cadere in discredito il concetto di natura: il dato dell’identità autonoma (Selbstsein). Non ci si mette a spiare la natura per carpire ciò che è, ma la modalità del suo procedere, dopo aver presupposto nei sistemi viventi una tendenza all’autoconservazione, per quanto fittizia. È proprio dei fini che l’imitazione si disinteressa del tutto. Da essi dobbiamo anzi prescindere, dato che gli apparecchi devono soddisfare fini soltanto nostri. In essi la direzione al fine non è immanente, non è un istinto interno, ma è prodotta dall’arrangiamento esterno di un materiale che viene messo in moto e per mezzo del quale uomini che invece dispongono di un’interiorità e sono orientati in senso preciso possono perseguire i loro scopi. Nella simulazione tecnica la differenza fra simulazione e simulato non viene mai tematizzata, né il carattere dell’imitazione in quanto tale. Al contrario, quanto meno un cuore artificiale si distingue dal cuore naturale, tanto meglio sarà, visto che è fatto per sostituirlo.
10Prima di passare agli altri due significati di imitazione della natura, vorrei soffermarmi su un’altra imitazione, quella dell’arte mediante l’arte. Anche qui non si dà nessuna differenza fra simulazione e simulato. La scarpa del calzolaio si deve all’imitazione dell’arte di fare le scarpe esercitata da questo artigiano. Il modello esemplare di questo tipo di imitazione è il modo in cui il bambino impara a parlare. Non si pronunciano le parole per far vedere come hanno parlato le nostre mamme. Le parole non significano altre parole, ma cose e stati di cose. La differenza fra un copista e un falsario è che il falsario cela il fatto di aver dipinto il quadro di un quadro. Fra le caratteristiche antropologiche dell’uomo c’è anche quella di pronunciare parole che significano a loro volta parole, di compiere gesti che significano gesti. Possiamo raccontare a qualcuno che cosa ha detto qualcun altro e mostrargliene i gesti. Nel recitare una scena possiamo uccidere qualcuno. Ma non per davvero, altrimenti la rappresentazione verrebbe interrotta all’istante. Non faremmo mai qualcosa che assomigli a uccidere, e in effetti non lo facciamo. Non è che simuliamo di uccidere ricorrendo a qualcosa di analogo o a un artificio, tuttavia quello che facciamo sembra un’uccisione. Ma non dobbiamo far credere di stare uccidendo per davvero, altrimenti qualsiasi persona sana di mente si precipiterebbe sulla scena per impedirci di compire un delitto. La simulazione non deve “far credere che”, come avviene invece per l’omicida di un romanzo di Dorothy Sayers, che uccide servendosi della muscarina sintetica per far credere che si sia trattato della muscarina naturale di un fungo velenoso.
Simulazione estetica
11Nella recitazione, nella pittura e nella scultura l’imitazione di ciò che è da natura è resa possibile da due fattori, dei quali uno vale per tutti gli esseri viventi, l’altro solo per gli uomini. Il primo consiste nel dualismo di essere e apparire. Ai viventi gli enti non si mostrano in se stessi, bensì secondo l’adagio scolastico quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur. L’ente si mostra prospetticamente, suscitando un’immagine nella quale apparire. Ecco perché i viventi possono ingannarsi. Perché il fenomeno può essere mera apparenza. E rispetto a ciò, gli animali si comportano in un modo nocivo ai propri interessi. Il secondo fattore è che agli uomini invece non sfugge questa differenza fra essere e apparire. Essa costituisce il tema più vecchio della filosofia. Gli uomini hanno per così dire il concetto dell’essere come in sé, oltre ciò che si mostra. Possono utilizzare questo sapere per ingannare, per produrre consapevolmente apparenza, per esempio tenendo un diapason su una tela di ragno, in modo che le sue vibrazioni inducano il ragno ad avventarsi su una preda inesistente. Gli uomini possono ingannarsi a vicenda. Ma possono anche suscitarsi l’un l’altro delle apparenze delle quali sono entrambi consapevoli. Chi cita le parole di un altro ha tutto il diritto di aspettarsi che chi lo ascolta non ritenga che queste parole siano di chi le pronuncia. Zeusi si vantava del fatto che gli uccelli beccassero i grappoli d’uva che aveva dipinto. È chiaro che non lo facevano. Resta comunque che l’abilità imitativa dell’artista può essere ammirata solo da uno che non si lascia ingannare, o comunque dopo che l’inganno sia terminato. In effetti l’artista non vuole ingannare, ma soltanto che il suo quadro abbia un effetto ingannevole senza ingannare. Già Agostino si trovò a riflettere sul fatto che in gioventù, leggendo Virgilio, gli piaceva piangere sulla morte di Didone. L’apparenza ci conquista al punto da commuoverci fino alle lacrime. Ci provoca tristezza senza farci essere tristi veramente. L’effetto estetico dell’opera d’arte fa trasparire un tratto specifico della personalità: la distanza dalla propria natura, il relazionarsi a sé, la capacità di rapportarsi ai propri sentimenti, pensieri e volontà sentendo pensando e volendo. In tutto ciò vige in ogni caso una strana asimmetria fra sentimenti positivi e negativi. Osservando un’opera d’arte cerchiamo soddisfazione, cioè un certo tipo di godimento. Quale altro motivo potremmo avere per guardarla? Invece, guardiamo volontariamente un uomo che soffre per aiutarlo, oppure per soffrire con lui. In ogni caso non per trarre godimento dal suo dolore. Ma quando guardiamo un’opera d’arte non c’è nessuno da aiutare e anche la compassione sarebbe fuori luogo. Nel momento in cui l’opera d’arte provoca godimento, l’effetto primario e quello secondario vengono a coincidere. Ci comunica uno stato d’animo gioioso. Il modo in cui l’opera d’arte agisce coincide con ciò che provoca.
12Diversamente stanno le cose coi sentimenti negativi come l’avversione e la tristezza. Non coincidiamo con essi e ciononostante li gustiamo, se così non fosse non ci esporremmo liberamente al loro influsso. Si potrebbe paragonarli alle pene d’amore, che nessuno scambierebbe con la noia. Le cose stanno in modo analogo per quanto riguarda la rappresentazione artistica del brutto. Un brutto quadro è qualcosa d’altro che una rappresentazione per immagini del brutto. Un quadro che ritrae il bello può essere brutto e un quadro che ritrae il brutto può essere bello. Aristotele chiamò bello ciò che piace a vedersi. Se guardiamo un’opera d’arte lo facciamo perché è bella. A meno che non la si guardi per criticarla, cioè per spiegare perché non valga la pena di guardarla.
13Platone è stato il primo a riflettere sul problema dell’imitazione come produzione di apparenza. Non voleva concedere a questa facoltà il diritto di farsi chiamare arte. Non si tratta di τέχνη (téchne) ma di ἐμπειρία (empeiria), di know how. L’arte invece è la capacità di suscitare l’apparire di qualcosa suscitando ciò che è per natura la ragione di questo apparire. Per esempio, provocare nell’altro una convinzione comunicando il sapere che legittima questa convinzione. A ogni campo del sapere compete una capacità specifica. Chi sa insegnare la matematica non può insegnare la biologia per mezzo della medesima arte. La retorica consiste nella capacità di suscitare convinzione senza che il retore possieda le conoscenze specifiche. Egli sa solo come far credere agli uomini qualcosa. Allo stesso modo Platone considera anche il modo in cui il pittore imita la natura. Non deve intendersi di botanica, zoologia, antropologia o geologia per dipingere fiori, cavalli, uomini o montagne. Deve solo osservare il loro aspetto. Ecco perché il pittore è inferiore rispetto al tecnico, che deve invece intendersi delle cose stesse. Se la natura consiste nella raffigurazione di idee, ne consegue che il pittore è un raffiguratore di raffigurazioni. Le sue piante non crescono nel senso di una γένεσις εἰς οὐσίαν (ghénesis eis ousían). Esse si originano senz’arte, semplicemente distribuendo il colore secondo regole empiriche atte a produrre l’apparenza. Com’è noto, già Aristotele e soprattutto i Neoplatonici la pensavano altrimenti al riguardo. Aristotele dice che l’arte ha la facoltà di far vedere non semplicemente il casuale-contingente, ma l’essenzialità dell’universale. E i Neoplatonici mettevano sullo stesso piano l’artista e la natura naturans, per il fatto che, come quella, contempla l’Idea e i suoi prodotti detengono un rango perfino superiore a quello delle realtà naturali, in quanto non producono soltanto copie inconsapevoli delle Idee, ma copie nel vero senso della parola, ovvero immagini create espressamente con l’intenzione di rammentare i modelli e soprattutto il modello originario del Bello, il che invece non può dirsi degli oggetti naturali. In esse è insita la tendenza, successivamente deplorata soprattutto dai maestri cristiani, di sostituirsi ai modelli e al loro divino santuario rendendoci dimentichi di essi, insomma rendendo possibile un’interpretazione nominalistica di se medesimi. Ma le immagini in quanto immagini non si possono interpretare nominalisticamente. Imitazione della natura in quanto imitazione della natura naturans, ecco uno dei τόποι (topoi) più grandiosi della riflessione sull’arte sviluppata in Europa, fino a Paul Klee, che voleva farsi imitatore della natura proprio in questo senso. Come sia possibile che opere figurative non raffiguranti la natura possano ciononostante o addirittura proprio per questo imitarla, chiedersi insomma in che cosa consista la somiglianza fra l’arte in quanto forza creativa e la magna mater rerum, sono temi sui quali è difficile acquisire un sapere concreto. Soprattutto perché i concetti di magna mater rerum o natura naturans non sono altro che metafore, il cui autentico significato non è a nostra disposizione.
Simbolizzazione della natura
14In che cosa consiste l’aspetto mimetico di un’opera d’arte che non ha per nulla l’aria di raffigurare qualcosa? Ritengo che questa domanda ci faccia approdare a un terzo significato dell’espressione “imitazione della natura” mediante l’arte, anzi al significato primo e fondamentale e, proprio per questo, più riposto. Soffermiamoci dunque su questo punto.
15La prima cosa da fare è riallacciarsi al concetto primario di arte, quello che denota l’abilità dell’artigiano che sa come fabbricare strumenti adatti all’utilizzo. Anche alcuni animali sanno fare ciò. Ho impiegato a proposito il termine strumenti e non oggetti d’uso, in quanto si tratta appunto di strumenti come nidi, ragnatele, alveari eccetera, la cui realtà per gli animali è data appunto dal loro utilizzo. Mai essi diventano “oggetti”, cose. E anche la loro fabbricazione non consiste in una ποίησις (poíesis) sorretta dall’arte, ma affonda in quello che è l’analogato animale della πρᾶξις (prâxis), ovvero nell’esercizio della vita. Fabbricazione degli strumenti da usare e loro utilizzo effettivo costituiscono un continuum. Il fatto che per gli uomini le cose vadano diversamente dipende innanzitutto dal fatto che gli uomini fabbricano tali oggetti per farsene una riserva, prescindendo dal bisogno immediato e anzi a volte mettendo perfino provvisoriamente da parte la soddisfazione di un bisogno immediato. Gli uomini, come ho già detto, sanno relazionarsi rispetto alla propria condizione interiore, dunque anche rispetto ai propri bisogni. Fino a un certo grado, essi hanno la facoltà di posporre bisogni impellenti per anteporre a essi bisogni futuri. Uno stadio ulteriore dell’emancipazione dall’uso è la suddivisione del lavoro. Si fabbricano cose per il bisogno di terzi, le si scambia e quindi le si vende. Platone riconobbe nella suddivisione del lavoro la premessa per lo sviluppo delle arti. Chi fabbrica solo scarpe le farà ovviamente meglio di chi sia costretto a fabbricare tutto ciò di cui ha bisogno per vivere. Ma la poíesis di chi fabbrica scarpe risulta ormai solo indirettamente connessa con la sua prassi vitale. Fabbricare qualcosa allo scopo di venderlo o scambiarlo serve alla propria vita solo attraverso il medium dell’interesse altrui, che è ciò che spinge gli altri ad acquistare i miei prodotti.
16Quest’aspetto fondamentale della condizione umana sta alla base del fatto che la forma degli strumenti dell’uomo è per così dire sovradeterminata. Essa non dipende in modo esclusivo dalle esigenze imposte dall’uso, ma porta piuttosto a elevare l’oggetto allo status di cosa, di cosa in sé, il che equivale a farne degli analogati delle cose naturali, e soprattutto delle cose viventi, che possiedono un essere proprio indipendentemente da quello che vengono a essere per noi. Quest’analogia salta particolarmente all’occhio nel vasellame precolombiano, che spesso presenta la forma di animali o di uomini. Nell’Europa preistorica è dato osservare il fregio ornamentale dei vasi di ceramica, che conferisce loro individualità. Così come, nelle culture arcaiche, gli uomini si dipingono e si ingioiellano per diventare “qualcuno” nell’ambito sociale. Successivamente, presso i Greci e gli Etruschi, accanto o al posto del fregio ornamentale il vasellame viene dipinto con figure umane. Si tratta in prevalenza di vasi il cui design non occulta la funzione, come nel caso dei vasi precolombiani, ma piuttosto la esalta. Le brocche celtiche col becco si contraddistinguono per l’insuperata armonia di funzionalità – in analogia con la finalità naturale – del design raffinato e al tempo stesso essenziale e l’ornamento, che sembra essere sgorgato da solo dalla forma del vaso. Così come nelle età classiche, a differenza che in quelle arcaiche, è dato rilevare l’accentuarsi della tendenza a dipingere e decorare il corpo in modo che ciò sembri naturale, phýsei.
17Si può dire che gli uomini sovradeterminano le cose che usano in modo tale che queste non vanno più solo usate ma rimirate per la loro bellezza. Così facendo essi imitano ancora una volta la natura, non la natura naturata, ma la natura naturans. Gli animali non adornano i loro prodotti. Essi assolvono esclusivamente all’uso. Non devono in più far vedere a che cosa servono, né tantomeno devono farsi vedere per quello che sono in se stessi, indipendentemente dall’utilizzo. Oltre a questo infatti essi non sono nulla. Ma gli animali, soprattutto i maschi, vengono adornati dalla natura. E questo abbellimento assolve, come noto, una funzione incentivante agli effetti della riproduzione. Ma le minuziose ricerche dello zoologo basilese Adolf Portmann hanno dimostrato che i raffinati disegni della superficie di pesci, uccelli e rettili vanno ben oltre ciò che è spiegabile in termini di vantaggio per la selezione. Perché sulle ali degli uccelli si producano determinati motivi, per esempio circolari, c’è bisogno che i colori di ogni singola penna si intonino con estrema precisione al colore della penna successiva, in modo tale che il risultato produca una forma circolare. I singoli stadi intermedi dell’evoluzione in questa direzione non esibiscono vantaggio alcuno rispetto alla selezione. E il riduzionismo funzionalistico ricade semplicemente in un circolo vizioso, se argomenta che la femmina premia con il consenso l’opulenza del disegno ornamentale del maschio, cercando per di più di dimostrare che l’opulenza del disegno ornamentale è correlata ai pregi biologici del maschio. Che cosa prova questo ragionamento? Perché mai ci sarebbe bisogno di mettere in evidenza i pregi biologici ricorrendo a vie traverse così complicate e cifrate? Infatti, la relazione fra i pregi e questa loro particolare forma di rappresentazione è del tutto contingente, è di natura esclusivamente simbolica e non risponde affatto a criteri di economia. La preferenza espressa dalla femmina ha qualcosa in comune con la nostra quando, acquistando dei piatti, prediligiamo quelli che hanno una bella forma e un bel motivo. Può anche darsi che le ditte che producono dei piatti particolarmente belli siano anche ditte particolarmente buone in quanto fabbricano prodotti che durano. Ma se al cliente interessasse solo questo, la ditta potrebbe segnalarlo in modo assai più semplice e risparmiandosi ogni sforzo in vista dell’estetica. Così, se la femmina non avesse alcuna sensibilità per la bellezza del maschio, non ci sarebbe alcun bisogno che la natura mostrasse la forza vitale ricorrendo alla bellezza. Si dice che i grandi pianisti abbiano particolarmente successo con le donne. Forse che per questo dobbiamo spiegare l’essere della musica per pianoforte in funzione di tale vantaggio? Adolf Portmann parla di una tendenza alla rappresentazione e al mettersi in mostra insita nei viventi, e si allontana da Darwin meno di quanto si pensi, poiché Darwin stesso riteneva impossibile spiegare la bellezza della natura in termini darwiniani. Egli riteneva che la bellezza e il senso della bellezza fossero un a priori che assolve indubbiamente una sua funzione nell’evoluzione, funzione che l’evoluzione non è però atta a spiegare, non meno di quanto lo sia a spiegare le leggi della geometria. Un nido d’ape è esagonale e le api lo costruiscono sottostando alle leggi geometriche dell’esagono, ma non si può certo dire che producano queste leggi. Lo statuto della bellezza per Darwin è simile. La bellezza degli ornamenti naturali non ha scopo, e è proprio essa che ci rende plausibile la vecchia storia di una natura naturans. A essere sovradeterminati secondo criteri di bellezza non sono i prodotti degli animali, ma loro stessi, esattamente come per le piante. La forma dei prodotti animali è sempre riconducibile al loro scopo, e se ci appaiono belli questa bellezza non è che il valore soggettivo di un fenomeno al quale in termini oggettivi non corrisponde alcuna qualità che si possa aggiungere a quelle che si lasciano spiegare in termini funzionali.
18Ciò vale del resto esclusivamente per i prodotti materiali della poíesis animale. L’espressività vitale degli uccelli, il loro comportamento, i suoni che emettono, sono caratterizzati da un mettersi in scena che sembra trascendere la mera funzionalità. L’uccello ha voglia di cantare e, a quanto pare, non sempre e non solo in subordine alla comunicazione. Ma anche se fosse, si porrebbe pur sempre la domanda perché mai il medium della comunicazione possieda coloriture così ricche, capaci di ispirare musicisti come Olivier Messiaen. Lo stesso vale per la danza di richiamo del gallo cedrone che serve a far colpo sulla femmina e a predisporla all’accoppiamento. Ma il fine non si lascia più nemmeno riconoscere nelle vie traverse seguite dal rituale. Si tratta semplicemente di una sovradeterminazione. È chiaro che i movimenti e il canto non sono una poíesis aggiunta allo svolgimento della prâxis, ma appartengono totalmente alla natura del vivente e pertanto sono prodotti della natura naturans.
19Se ora ci volgiamo a considerare nuovamente la componente estetica degli artefatti umani, possiamo affermare che ciò che imita l’artista non sono le produzioni degli esseri viventi naturali, ma la natura naturans che produce questi esseri viventi. Le opere artistiche non vogliono assomigliare ai prodotti degli animali, ma agli animali, oppure alle piante o agli uomini. Il vasellame precolombiano lo fa vedere molto bene. Esso non ha nulla in comune con l’arte illusionistica. Non si deve scambiarli per animali, ma per vasi che assomigliano ad animali, e devono avere questo aspetto perché non sono semplicemente una fase nel processo di approvvigionamento dell’acqua, ma sono qualcosa in se stessi, ovvero cose che possiedono in se stesse un significato, anche se questo significato consiste nell’assolvere un determinato servizio per l’uomo.
20Gli oggetti d’uso possiedono un’autonomia estetica, analogamente l’uomo possiede un’autonomia etica, si intende l’uomo che presta un servizio e che – contrariamente allo schiavo – lo fa con un orgoglio e senso dell’onore tutti particolari. C’è un ἔθος (éthos) del servire che protegge colui che serve dalla strumentalizzazione. Il soldato valoroso non è certo un semplice funzionario e non è disponibile a tutto: «La mia vita appartiene al re, ma non l’onore» rispose quell’ufficiale prussiano al re che avanzava nei suoi confronti una richiesta contraria al suo onore. Naturalmente uno strumento bello non ha né orgoglio né onore. Ma non possiamo descrivere il diletto che ci procura se non in analogia col diletto che proviamo nei confronti di esseri viventi che possiedono lo status personale di essere “qualcuno”. E una persona si comporta in modo “bello”, non semplicemente funzionale allo scopo.
21Per caratterizzare la gioia che ci procura il bello, Kant parla di godimento disinteressato. Disinteressato (interesselos) nel linguaggio del xviii secolo significa più o meno “non rispondente a criteri di utilità personale” (uneigennützig). Disinteressato è il tratto caratteristico dell’amor benevolentiae, che non correla l’altro al proprio benessere, ma piuttosto se stesso al benessere dell’altro. In questo contesto, la spiegazione che Leibniz fornisce di questo tipo di amore è sorprendente. La definizione tipo che Leibniz dà dell’amore è: «[A]mare est alterius felicitate delectari»7. Egli la commenta a più riprese, come per esempio in una lettera a Spanheim del 20 febbraio 1699: «Si j’achetois un beau tableau de Raphael pour le revendre avec gain, je serois intéressé. Mais si c’étoit seulement pour le plaisir que le trouverois à le voir, cela repondroit au pur amour»8. Sorge subito spontanea l’obiezione che un quadro non può provare felicitas. Leibniz stesso ne fa cenno in una lettera al Magliabecchi, nella quale afferma che la gioia per un quadro di Raffaello è imago quaedam amoris, poiché il quadro stesso felicitatis non capax est. Che cos’è dunque l’analogo della felicitas nell’opera d’arte? Leibniz risponde: la perfectio. Conformemente alla buona tradizione platonica, la gioia è infatti per Leibniz nient’altro che il riflesso soggettivo della perfezione, ovvero dell’intensità dell’essere. Per Leibniz a ciò si aggiunge il fatto che egli ascrive a ciascun essere una sorta di soggettività, ovvero di “percezioni”, cosicché la felicità per la fortuna dell’altro e quella per la perfezione dell’altro strutturalmente è la medesima (in modo simile Alfred North Whitehead, che attribuisce a ogni actual entity uno stato di satisfaction). E perciò Leibniz parla spesso, nelle sue lettere, di plaisir ou satisfaction dans la félicité ou dans la perfection d’autruy. E in un testo pubblicato dal Grua modifica la definizione dell’amore sostituendo félicité con perfection: «Aimer est trouver du plaisir dans la perfection d’autruy»9. Eccoci dunque fornita la ragione dell’analogia fra la felicità per le cose belle e la benevolenza disinteressata, che riserviamo agli esseri viventi ma in particolar modo alle persone. L’opera d’arte è un analogo di “ciò che è per natura”, in quanto ha una significanza della quale noi siamo ben in grado di accorgerci e che non si esaurisce nel significato che essa viene a assumere per il nostro contesto vitale. Come ogni essere vivente, così anche ogni cosa bella instaura un suo proprio orizzonte di significanza. È solo per questo che essa è pienamente reale e, come per ogni oggetto reale, la sua determinatezza è infinita.
22Ma il tratto caratteristico dell’uomo è proprio quello di distinguere fra essere e apparire e di riferirsi al reale che sta al di là del suo apparire. Noi sappiamo che l’altro è di più di quello che sappiamo di lui, e facciamo questo di più oggetto della nostra considerazione. Il che significa: ne abbiamo considerazione in quanto persona. I semplici esseri naturali non conoscono alcuna natura oltre alla propria – e dunque non conoscono neppure la propria. Non riescono a concepire se medesimi come l’ambiente di qualcun altro. È solo per gli uomini che si dà qualcosa del tipo dei φύσει ὄντα (phýsei ónta). È solo nell’uomo che la natura perviene a se medesima. Pertanto, il fatto che l’arte imiti la natura ha il suo significato più profondo nel fatto che l’arte produce delle realtà analoghe ai phýsei ónta, oggetti che non si lasciano definire dal significato che hanno per noi, ma che avanzano piuttosto nei nostri confronti la pretesa di essere trattati con giustizia, che nella fattispecie significa di essere capiti adeguatamente. Ma cosa potrebbe voler dire capire (verstehen) adeguatamente un concreto, se non coglierlo (begreifen) adeguatamente come un infinito di determinatezza?
23In tutto questo è insito un paradosso. Rispetto alle realtà viventi, noi distinguiamo fra ciò che una cosa è per noi e ciò che è per sé. Distinguiamo fra essere e apparire. Ora, sembrerebbe che i quadri siano definiti esclusivamente dal rapporto con un possibile osservatore e che non siano per-sé quadri. Quindi non avrebbero un essere-in-sé, o meglio, il loro essere-in-sé sarebbe proprio la faccia che ci presentano. Ma come possono allora diventare simboli della realtà, simboli del φύσει ὄν (phýsei ón)? Si tratta dello stesso paradosso che ritroviamo in teoria della conoscenza e in etica. Conoscenza è autotrascendersi del conoscente. Come va inteso questo autotrascendersi? Non va affatto inteso, disse Hume. Ciò che è per me è per me e basta: «[W]e never really advance a step beyond ourselves»10. Così dicendo si sottrasse al paradosso insito nella consapevolezza normale del conoscere. Come vi si sottrassero i teorici dell’amore del xviii secolo, che negarono a priori la possibilità di un amore disinteressato. Se l’amore è gioia per la felicità dell’altro – così il loro modo di argomentare – allora quello che interessa all’amante è la propria gioia, non diversamente che per l’egoista. Il fatto che il godimento sessuale dell’altro sia compreso nel proprio piacere non cambia nulla al carattere egoistico del provar piacere. E se l’altro simula il godimento in modo così perfetto da ingannarci, ci sta bene. We never really advance a step beyond ourselves – ciò vale anche per l’amore.
24Il tentativo della prima età moderna di sottrarsi al paradosso della trascendenza mediante il selfish system trova un corrispettivo nell’arte figurativa, nella tendenza a sollevare l’arte dalla pretesa di rendere presente simbolicamente il reale in quanto se stesso. Ciò che essa invece espressamente e consapevolmente rappresenta è il fenomeno, dapprima la prospettiva centrale a partire da un unico osservatore, quindi l’impressione ottica soggettiva, infine l’espressione della libera immaginazione, sciolta da qualsiasi nesso oggettivo. Con l’ultimo passo però si realizza qualcosa di dialettico. Esso infatti può tornare a essere inteso come imitazione della natura nel senso sopra ricordato, di rendere visibile l’invisibile. È così che l’hanno inteso Kandinsky e soprattutto Paul Klee, che scrive: «L’oggetto si allarga oltre il proprio apparire mediante il nostro sapere della sua interiorità. Il sapere che la cosa è più di ciò che dà a conoscere il suo esterno». Klee parla addirittura di un’umanizzazione dell’oggetto (Vermenschlichung des Gegenstandes) che porta l’io a entrare in risonanza (Resonanzverhältnis) con esso. Questa relazione si fonda sul fatto di essere entrambi radicati nella terra e di appartenere a una comunità cosmica: «L’artista è uomo, egli stesso natura e un pezzo di natura nello spazio della natura, creatura sulla terra e creatura nel tutto». Qui la contrapposizione cartesiana soggetto-oggetto viene di principio abbandonata. Il senso dell’imitazione della natura di cui parlo è esattamente quello per cui si entusiasma Klee, quando scrive che l’artista partecipa «alla creazione di opere che in qualche modo eguagliano (Gleichnis) l’opera di Dio».
25A fatica riusciamo ad apprezzare il significato di Cézanne riguardo a questo punto. Ciò che egli chiama réalisation e in cui si cimenta tentando e ritentando, è l’imitazione della natura in quanto imitazione della natura naturans. Imitazione creatrice, nuova creazione di ciò che si mostra phýsei, ossia a partire da sé medesimo, utilizzando del semplice colore su di una tela bidimensionale. Si tratta di fare in modo che la natura penetrata dallo sguardo scaturisca di nuovo in un medium differente. Cézanne uscì dalla logica del selfish system e preferì fallire nel paradosso della trascendenza piuttosto che sottrarsi a esso in direzione del soggettivismo. Costituisce ben più di un curioso aneddoto il racconto che Cézanne rinunciò fin dalla seconda seduta al tentativo di dipingere Clémenceau, in quanto – come disse – non si sentiva in grado di dipingere qualcuno che non credeva in Dio.
26Nello spazio dell’adorazione di Dio, al contrario, il paradosso emerge in tutta la sua visibilità. Le icone dell’Oriente e le immagini di culto dell’Occidente, da quelle ispirate, costituivano la presenza simbolica del santo stesso. Lo scienziato, teologo, filosofo e teorico dell’arte russo Pavel Florenskij considera tutto lo sviluppo dell’arte occidentale a partire dalla scoperta della prospettiva nel Rinascimento come una caduta rispetto all’autentico compito dell’arte, come un ritorno all’antica arte illusionistica, derivata dalla pittura scenica. Una critica in tutto e per tutto platonica. Ma Florenskij non fu soltanto uno strenuo difensore dell’arte delle icone, bensì anche uno dei primi che aiutarono l’avanguardia russa, e specialmente Malevicˇ, ad affermarsi. Con il Suprematismo gli sembrava che l’arte compisse finalmente una svolta dopo trecento anni di errori. Anche se ovviamente non poteva sottrarsi al fascino dei grandi. Ma come studioso delle leggi ottiche richiamava l’attenzione sul fatto che erano stati proprio i grandi, a differenza degli epigoni, a contravvenire non di rado alle leggi della prospettiva, per fare davvero un’opera d’arte che, come le cose reali, non consente mai un’unica veduta.
27Ho detto che il paradosso rimase visibile nello spazio del culto a Dio. L’immagine cultuale del Medioevo si trasformerà, dal xvi al xviii secolo in Gnadenbild, oggetto sacro e prezioso simbolizzante la “cosa stessa”, e intorno al quale si costruirono le chiese barocche, la cui pittura è pittura illusionistica, che mira a produrre un effetto particolare sull’osservatore, garantito al meglio solo da determinati punti d’osservazione. Le colonne sembrano di marmo, e le sculture sul dietro sono cave e non lavorate, se il dietro si sottrae alla vista dello spettatore. Quest’arte si sottrae al paradosso. Perde la sua vicinanza al sacramento, alla presenza reale del Rappresentato nel simbolo. D’altronde, il calvinismo si era allontanato già da tempo da questa comprensione sacramentale della realtà.
28Ma il paradosso ritorna in modo paradossale. Col diventare l’arte contemporanea sempre più soggettiva e col comprendersi sempre meno in quanto simbolo della realtà del phýsei ón, tanto più aumenta di converso l’importanza del dipinto come realtà unica, come “originale”, e la consapevolezza del fatto che questo dipinto concreto è uscito dalle mani di un determinato artista, cioè di un essere vivente concreto. Per quanto perfetta e indistinguibile dall’originale possa essere un’imitazione, nel momento in cui non si dichiara come copia si tratta di una falsificazione punibile poiché, a quanto pare, ciò che conta non è tanto il quadro come tale, ma il quadro come oggetto reale, la sua “aura”, per esprimersi come Walter Benjamin. E ciò che questo dipinto simbolizza non è più la realtà delle cose, ma la realtà dell’autore. L’opera d’arte viene a perdere, da un lato, la sua vicinanza al sacramento che è simbolo reale, per diventare al tempo stesso una specie di parodia naturalistica del sacramento. Giacché la validità del sacramento dipende dal fatto che chi lo somministra riceva la propria legittimazione in una serie ininterrotta di contatti fisici con Colui che lo ha istituito. L’arte che non simbolizza la realtà del phýsei ón diventa riflessiva. Diventa essa stessa la realtà che rappresenta. Le ultime forme d’arte non vogliono illustrare come appare al soggetto ciò che si mostra della natura, né tantomeno vogliono riprodurre una seconda volta la natura nel suo mostrarsi. Ciononostante, nel produrre cose che sono come dei ritagli di realtà sottratti all’uso e alla disponibilità immediata, cose che grazie a una cornice visibile o invisibile sono un in sé o, più precisamente, che noi dobbiamo cogliere come un in sé, quest’arte rimane imitazione della natura che produce tutte le cose. La perseità dell’opera d’arte, infatti, è sempre una “perseità per noi”, una perseità rappresentata. E la trascendenza alla quale sollecita è una trascendenza immanente, una mera finzione della trascendenza autentica. L’art ou la finte passion, come recita il titolo di un bel libro di Nicolas Grimaldi. Ora l’opera d’arte può essere il ritaglio di un oggetto qualsiasi. Ciò che lo rende opera d’arte, come l’urinoir di Marcel Duchamp, non è ormai nient’altro che la cornice e il fatto di sapere che si tratta di una cornice posta intorno al ritaglio da un certo uomo, nella speranza di fare di questo ritaglio una cosa che non appartiene più al nostro ambiente quotidiano ma che, come tutto ciò che è vivo, istituisce un contesto di rilevanza. L’opera d’arte rimane sempre un’opera di pura poíesis. Anche quando tematizza la pratica, emerge dal contesto pratico per divenire oggetto di un atto di pura contemplazione. Vale comunque per molte opere d’arte contemporanea che questo atteggiamento contemplativo è ormai privo del carattere di godimento spontaneo e disinteressato. Molti di questi oggetti non sono formazioni concepibili quali risultati di processi teleologici, ovvero come quasi natura. Il principio che qui l’arte imita non è più la natura, ma il caso. Gli utensili di pulizia che troviamo allineati in un museo non permettono di stabilire se si tratti di utensili messi lì per caso o di parti di una mostra, nel qual caso non li si potrebbe usare proprio per pulire. Per saperlo non ci rimane che consultare la targhetta. A mio avviso ciò è un risultato del fatto che la concezione scientista dominante ha messo a tacere l’analogato dell’imitazione della natura, ossia la natura teleologicamente intesa. L’unico motivo per cui la natura poteva essere imitata dall’arte risiedeva nel fatto che essa stessa veniva pensata in analogia con l’arte. E il télos dei processi naturali consisteva nella produzione di forme specifiche. Ma ora le forme specifiche sono diventate stadi intermedi di un processo evolutivo privo di scopo. Il corrispettivo è un’arte figurativa che non tiene in nessun conto la forma e tantomeno si ingegna di far sparire le tracce della produzione, come fa la natura per esempio quando produce un fiore. Adesso avviene proprio il contrario: ciò che conta è il work in progress, le cui tracce devono tutte essere ben documentate. Proprio così: spesso l’opera non è null’altro che la documentazione della sua produzione. Ciò che quest’arte imita non è la phýsis come forma, ma la natura come processo, nel quale le forme non sono altro che stadi di un percorso, ai quali si potrebbero applicare le parole di Goethe: «Man geht nie weiter, als wenn man nicht mehr weiß, wohin man geht»11.
29Non posso concludere senza prima richiamare l’attenzione sul fatto che l’arte figurativa, con alcuni dei suoi esponenti attuali, si sta riproponendo la messa in scena della trascendenza secondo una modalità radicale e a sua volta paradossale. Una modalità che pone in questione la stessa definizione tradizionale di arte.
30Penso, per esempio, ai coniugi Christo, che impacchettano grandi edifici cercando di risvegliare la consapevolezza del reale col rendere invisibile un oggetto. Anche qui si tratta di imitare un rito antico della Chiesa, che proprio nel tempo liturgico della passione nasconde la croce sotto un drappo viola. O al coniglio pasquale di Beuys, esposto alla Staatsgalerie di Stoccarda. Si tratta di un coniglio d’oro, evidentemente fuso nella tipica forma dei conigli di cioccolata. Ma il colmo è che, come si viene a sapere, lo si è ricavato fondendo il metallo di una corona reale, che a sua volta era stata approntata appositamente a questo scopo. Ma ciò non si vede. Bisogna crederci, così come bisogna credere che l’ostia nel tabernacolo è un’ostia consacrata. Ciò che l’arte vuole mostrare rimane invisibile. A tale riguardo non si può non menzionare anche Walter de Maria che crea delle scene particolari, per esempio tre lunghe rotaie fatte di blocchi di marmo bianco provenienti da tre diverse parti del mondo. Questo non si vede. Ma quando lo si viene a sapere, ciò è in grado di suscitare un’impressione simile a quella che si prova quando si sa di trovarsi su uno spartiacque, dal quale l’acqua può scorrere verso il Mare del Nord o verso il Mar Nero. Si avvertono delle dimensioni spazio-temporali e il darsi di differenze presenti in ciò che si vede, ma senza apparire. La cosa diventa ancora più evidente nella stanga d’acciaio della lunghezza di alcune centinaia di metri che Walter de Maria ha fatto inserire in un buco appositamente trivellato per una Dokumenta di Kassel. Tutto quel che si vede è un disco nel terreno di 5 centimetri di diametro. Che si tratti dell’estremità di una stanga bisogna saperlo, così che si risvegli l’impressione della profondità della terra sotto i nostri piedi. Ciò che quest’arte mostra è solo una facciata insignificante di quello che è in gioco veramente. In questo si potrebbe vedere un ritorno all’éthos artistico da cui si sprigionarono le miriadi di figure che adornano le cattedrali medievali. Nel nostro caso, però, ciò che conta è sapere quello che non si vede. Col che sembra di essere pervenuti al superamento del concetto stesso di arte figurativa. L’arte sembra davvero voler prendere il posto del sacramento, di cui Tommaso dice: «Visus, tactus, gustus in te fallitur. Sed auditu solo tuto creditur»12. Questi esempi mi sembrano come delle reazioni alla crescente virtualizzazione del mondo, il cui Leitmotiv potrebbe trovarsi nelle parole di Hume che abbiamo sopra citato. L’arte stava all’inizio di questo sviluppo, all’inizio dell’emancipazione dell’apparire che è diventato apparenza, se non è apparire di qualcosa che rimane in se stesso invisibile. In un mondo che diventa sempre più messa in scena, in cui affoghiamo nelle immagini e in cui le forme di sessualità consone ai tempi sono la fecondazione in vitro e l’onania, all’arte spetta il compito di ricordare. Ma di un ricordare che non è più mediante immagini, e che è privo di concetti. Quando la natura, essere-per-sé e che per sé si genera, viene stravolta dalle immagini, all’arte tocca il compito di lasciarsi dietro dei tratti scabri, come delle tracce che portino chi le segue al luogo da cui sgorgano la vista, l’udito e il tatto. Alla sorgente della vita, dunque. Ma la vista non si vede, l’udito non si sente, il tatto non si tocca. L’imitazione dell’arte è imitazione dell’invisibile, che è la realtà fondamentale.
Approfondimenti
Arte, significato, trascendenza
31Possiamo parlare di arte quando qualcosa ha significato in se stesso e viene guardato così, come qualcosa che non è solo funzione di altro, come lo sono, normalmente, i nostri oggetti d’uso. Una volta un conoscente chiese a Robert Schumann, che aveva appena suonato una propria composizione, di spiegarne il significato. Schumann rispose: «Va bene», si rimise a sedere, la risuonò e al termine affermò: «questo era quello che volevo dire». Gli artisti delle idee invece fanno anche happening volendo dire qualcosa. E la spiegazione di ciò che essi vogliono dire è parte integrante di ciò che fanno.
32L’opera d’arte possiede una significatività che, in un modo singolarmente analogo al significato che hanno per me altre persone, mi rivolge una richiesta. Vi è una poesia di Rilke dedicata al torso di Apollo al Belvedere che recita: «ecco: ti guarda | con occhi innumerevoli. E costringe | chi la contempli, a rinnovarsi tutto»13. Chi mi osserva qui è una scultura, pietra, la quale naturalmente non osserva nessuno, ma è la trascendenza simulata. Essa consiste nel fatto che l’opera d’arte, improvvisamente, pretende da me qualcosa. Io devo intenderla adeguatamente e ciò significa forse che devo anche cambiare qualcosa della mia vita. È uno sconvolgimento, una catarsi dell’opera d’arte che poi successivamente ha anche un significato per la vita. Se la natura stessa non viene più intesa teleologicamente, anche il concetto di specie viene eliminato e tutto diviene solo uno stadio provvisorio di un processo di evoluzione privo di fine. E anche l’arte diviene caso. Anche il fatto di non cancellare le tracce ma rendere visibile il processo realizzativo corrisponde a un concetto di natura. Ma se la natura scompare come avvenimento teleologico, allora anche l’arte non può più essere teleologica ed è qui forse che s’inserisce il concetto di happening. Forse persino il confine tra arte e non arte non può essere netto.
33L’opera d’arte come simbolo della natura non imita più la natura nel senso che essa crei qualcosa che appare come è in natura, ma qualcosa che ne prende il posto. Come diceva Paul Klee, l’artista prende il posto della natura creatrice, diviene egli stesso creatore, creando qualcosa che sta in se stesso. Qualcosa dal quale proviene un invito rivolto a me, come si dice nella poesia di Rilke, a rinnovare la propria vita. È un simbolo della natura. La natura dell’essere umano è tale che da essa viene qualcosa, una richiesta a divenire giusto. Allora diciamo: “Si deve esser giusti con gli uomini”.
34Anche un’opera d’arte, come un essere umano, dev’essere trattata giustamente. Se qualcuno appendesse un’opera d’arte di grande significato in un posto qualsiasi in un caffè, assieme a quadri che non dicono assolutamente niente, bisognerebbe dire che ciò che viene fatto è ingiusto. Ma ingiusto nei confronti di chi? Nei confronti di questo quadro, che esige un determinato contesto e non può essere messo ovunque. Naturalmente un esponente della performance art potrebbe dire che il punto della questione è proprio questo: si appende quest’opera importante in un luogo di nessun valore e con ciò si vuole dimostrare che si può anche fare così. Ma di norma, innanzitutto, un’opera d’arte simula se stessa, ha un’identità. Questo, come si è visto, è ciò che ha detto in modo assolutamente corretto Leibniz. Posso amare la perfezione dell’altro, ma anche l’opera d’arte può avere una perfezione e il modo in cui la guardo simbolizza l’amore.
35Un simbolo non significa semplicemente una somiglianza, ma l’imitazione della cosa in sé. La realizzazione di un oggetto artificiale si rivolge o all’uso di quest’oggetto o al fatto che questo venga percepito in se stesso. Perciò ho iniziato parlando delle decorazioni sui vasi. Queste sono le più antiche forme d’arte. Certo ci sono anche i dipinti rupestri ma ancora oggi non sappiamo esattamente quale significato essi avessero. Che cosa si voleva decorando i vasi invece è chiaro: dovevano apparire belli. Perché? Una brocca d’acqua deve trasportare acqua; perché deve anche essere bella? Eppure la si trovava bella. Ho spiegato tale fatto ricorrendo a una considerazione sociologica, dicendo che ciò derivava dallo scambio, dalla divisione del lavoro. Gli oggetti non venivano più usati direttamente, ma per la prima volta venivano comprati o regalati. Questo faceva sì che non avessero soltanto più un uso pratico, poiché li si metteva volentieri in camera o in casa pensando che si trattasse di un bel recipiente. In quel momento – quando tale oggetto era dipinto in modo bello – riceveva un altro significato. Potrei dire: “Ho abbastanza recipienti, questo lo posso buttar via”, e qualcuno potrebbe obiettare: “Un momento, non buttarlo, guarda com’è bello”. In quel momento lo sottraggo alla sottomissione ai miei fini e lo osservo in qualche modo come un fine in se stesso. Si può peccare contro un’opera d’arte trattandola in maniera impropria o distruggendola. Ma essa esige qualcosa. È una trascendenza finta. Non è autentica trascendenza, per questo anche un uomo molto cattivo, un vero egoista, può nonostante ciò praticare questa trascendenza simulata. Può apprezzare molto un’opera d’arte, contemplarla volentieri, ma la trascendenza finta è una specie di preparazione alla vera trascendenza, come aveva visto per esempio Schiller, nelle sue Lettere sull’educazione estetica. Qui egli affermava che fintanto che si scontrano l’una con l’altra la natura impulsiva biologica, impulsiva ed egoistica dell’uomo da una parte, e dall’altra il mondo morale, non è possibile una costituzione civile secondo libertà, una libera repubblica. Questa infatti si fonda sul fatto che gli uomini sono divenuti morali già nei loro impulsi primari, e ciò avviene grazie all’arte. Si può dunque dire che un uomo che ha senso per il bello è più facilmente disposto a superare il proprio egoismo di colui che non dispone di tale senso. È un esercizio di trascendenza, ma essa è, come sempre, una trascendenza finta, e per questo non necessariamente rende morali gli uomini. Vi è un racconto magnifico di Franz Grillparzer, Il povero musicante – a mio giudizio uno dei più bei racconti della letteratura europea – che mostra un uomo che vive totalmente per la musica e suona il violino per strada. Egli però suona in modo orribile. Vuole servire l’arte, vuole dare gioia agli uomini, e deve guadagnarsi da vivere suonando per strada. Ma quando torna a casa suona per sé. Il suo atteggiamento è del tutto giusto e alla fine – anche questo è interessante – muore salvando dei bambini dall’annegamento. Muore cioè realizzando un atto di reale trascendenza, non quella finta propria dell’arte. Una trascendenza più importante di quella dell’arte. La trascendenza finta può infatti contraffare quella reale. Vi è l’egoista, che pur essendo un buon conoscitore dell’arte, resta un puro egoista. L’egoismo infatti può elevarsi a livelli sempre più raffinati. L’atto simulato dunque può essere un esercizio in direzione di ciò che è giusto, ma può avvenire anche il contrario. Schiller ha visto bene anche su questo: non vi è alcuna garanzia che attraverso l’arte si divenga migliori. Ma è più facile.
L’effetto dell’arte
36I confini tra l’arte e altre specie di attività non sono così chiari. E costituisce un problema il fatto che noi propriamente usiamo la parola arte per indicare tutto ciò che qualcuno fa, posto che questi abbia l’intenzione di fare arte. Ciò significa: posto che faccia qualcosa affinché questa stessa cosa venga manifestata. Ma che cosa distingue la performance art dalle azioni abituali? Perché la si chiama arte? Essa naturalmente non è parte della vita normale, ma l’artista esige che venga considerata arte. Beuys aveva fatto una composizione di cera molto grande che sembrava spazzatura, e una donna delle pulizie, che non aveva capito ciò che aveva davanti, la buttò via. Beuys sporse denuncia e si arrivò a un processo. Ma questa cosa, che sembra del tutto priva di arte e che chiunque può fare, continua in ogni caso a essere considerata arte. Ed è pure molto costosa. Se non si trattasse di arte non avrebbe alcun valore, la si potrebbe buttar via subito. Quindi quando qualcosa pretende di essere arte? Si è detto: quando procura una determinata esperienza. È arte tutto ciò che è orientato a un ampliamento dell’esperienza. Non si può però dire neppure così. Forse dovremmo smettere di utilizzare tanto spesso la parola arte. I confini sono diventati così fluidi da non essere più chiaro di che cosa si tratti. Nella performance art si opera una delimitazione e probabilmente l’artista a casa sua compie la medesima separazione, tratta la sua toilette in un modo e la sua sala da pranzo in un altro. Si tratta quindi di spazi delimitati. Ho proposto in precedenza di considerare soltanto questo come tratto distintivo dell’arte. Prendiamo l’urinoir di Marcel Duchamp. Egli ha soltanto preso una cornice, ci ha attaccato sopra una targhetta e l’ha strappato dal suo normale contesto. Non sta più in bagno, ma nel museo e per questo passa per arte. Lo ritengo un fenomeno problematico. Ritengo problematica ogni arte che mira a produrre negli uomini determinati stati psichici. Essa è, al fondo, kitsch. Kitsch è qualcosa che mira direttamente all’emozione, a evocare un movimento emozionale. Anche questo è un confine sottile, non sempre chiaro. Vi sono però melodie di Mozart, l’Ave Verum per esempio, che sono così dolci che ci si potrebbe chiedere se non siano anch’esse kitsch. Ma se si ascolta qualcosa di veramente kitsch, allora si capisce che quelle melodie mozartiane non lo sono affatto.
37È una distinzione sottile anche nelle scuole. Vi sono infatti scuole nelle quali la musica viene considerata da un punto di vista fortemente pedagogico, e tutti devono poter partecipare, che sappiano o meno cantare. Ho osservato nei miei figli che avere un maestro di musica, che è un musicista entusiasta – e non solo un pedagogo particolarmente preparato –, che mette in scena con i bambini un’esecuzione in cui si attiene a criteri elevati, dove si ha una certa idea di perfezione e tutti si mettono al suo servizio, dà luogo a risultati eccellenti. Così l’effetto pedagogico è molto più elevato di quanto non lo sia quello della musica pedagogizzata. L’effetto pedagogico non può essere qualcosa da perseguire direttamente, proprio come l’educazione. Se dico: “Nel prossimo quarto d’ora educherò mio figlio”, che cosa può significare questo? Che gli voglio dare una buona razione di scapaccioni? L’educazione è una forma di rapporto che non si persegue direttamente, ma che emerge da un giusto rapporto con i bambini. E questo mi sembra valga anche per la musica. Essa forma la vita quanto più ci si dimentica in certo modo completamente di se stessi, così che i bambini tentino di presentare un’opera compiuta. Mi sembra che l’elemento non artistico consista sempre nel fatto che si cerchi di generare direttamente un’emozione. È ciò che trovo per esempio nella musica di Carl Orff. Vi sono sue opere molto belle, per esempio i Carmina Burana, ma vi sono suoi lavori tardi che appaiono notevolmente poveri da un punto di vista musicale, pur producendo grandi effetti, per esempio con l’utilizzo di gong. Essi mirano solo all’emozione, vogliono indurre in chi ascolta una condizione di ebbrezza. Si tratta di κολακεία (kolakeía), nel senso indicato da Platone. Al contrario di quella musica che è arte, una musica in fondo povera viene agghindata mediante la strumentazione in modo tale che si raggiungano determinati stati emotivi. Questa è la sua intenzione. Ma quando in me questo obiettivo non viene raggiunto mi torna sempre in mente il detto di Goethe: «Senti l’intenzione e ti disturba». C’è poi un altro aspetto da considerare. Un’opera della performance art dalla quale non deriva nient’altro che un certo stato emotivo dovrebbe forse chiamarsi in altro modo. Alcune opere d’arte moderna che sono in qualche modo prossime alla performance art occupano così tanto posto che viene da chiedersi che cosa accadrà tra 20 anni. Tali oggetti continueranno a essere prodotti e non vi sarà posto per metterli tutti in mostra. La mia idea è che si debba rinnovare completamente la concezione del museo. Per quell’arte che è in senso proprio performance art si devono realizzare edifici dedicati e tali opere devono essere esposte qui per un certo tempo e poi venire demolite. Esse cioè saranno fotografate da ogni angolazione, documentate con estrema precisione, ma poi altri oggetti prenderanno il loro posto. Penso che ciò renderà molto più giustizia alle opere. Non verranno più visitatori che scuotendo la testa diranno “Ma questa è arte?”. Questi oggetti si troveranno in edifici diversi e forse non li si chiamerà neppure più arte. Ciò che viene retribuito è la performance e non importa l’opera che ne deriva. Se l’opera vuole comunicare una certa idea, l’avrà comunicata e non ci sarà bisogno di tornare più volte a guardarla, a differenza di quello che accade per l’arte nel senso tradizionale della parola.
38Ho visto in questi giorni qui a Torino il Santuario della Consolata. È incredibile che cosa è riuscito a fare l’architetto di questa chiesa. Si tratta di qualcosa di così raffinato che è necessario studiarla a lungo per vedere con quanta arte sia stata costruita. Anche l’arredamento interno fa un effetto straordinario, eppure l’architetto che l’ha progettata non ha pensato alla gente nel momento in cui l’ha ideata. Naturalmente voleva fare impressione sui visitatori, ma ha dovuto dimenticarsene mentre agiva. Come il chirurgo che fa un’operazione: vuole restituirmi la salute, eppure durante l’operazione non deve pensare alla mia salute, ma a risolvere il problema tecnico nel modo più efficace possibile, e tanto più è abile come artigiano, tanto meglio è per me. Questo mi sembra che accada anche nell’arte. L’effetto, cioè, viene raggiunto per vie traverse.
39La filosofia è come la nottola di Minerva che inizia il proprio volo solo al crepuscolo. La filosofia non può dire che cosa viene. L’arte, invece, anticipa ciò che viene. Gli artisti del barocco lo hanno fatto, hanno virtualmente anticipato il mondo: davanti si vede un angelo, dietro si vede una cavità, contrariamente alla scultura medioevale, dove le figure sono piene in egual modo sia davanti che dietro. L’artista infatti non pensava al fatto che la gente non potesse vedere il retro delle opere, e che dunque non vi fosse bisogno di riempire.
40Conoscevo una signora che realizzava accessori per i costumi di teatro e d’opera, collane, perle eccetera. Io ho visto con quale cura li realizzava e pensavo: «È realmente l’éthos dell’artista medioevale». Le dissi: «Ma quelle piccole cose non si vedono, il pubblico non può vederle!». Lei mi rispose: «Certamente non vedono le singole cose, ma l’intero farà tutt’altro effetto se lo avrò costruito così nel dettaglio». Il lavoro non dev’essere ridotto a ciò che si vede, si deve far più di quanto possa essere visto. L’éthos di quell’opificio era orientato in modo diverso. Lì non si pensava a che cosa le persone potessero o non potessero vedere. Si producevano gli oggetti nel modo più perfetto possibile, pensando che in tal modo avrebbero poi anche prodotto un effetto. L’effetto, quindi, è sempre ottenuto indirettamente. Dove ci si orienta direttamente a esso, come in alcuni quadri barocchi che mirano immediatamente solo all’effetto, si ha già una specie di decadenza. Questo lo ha già detto Florenskij per il quale tutta la storia dell’arte europea da Giotto agli impressionisti era arte decadente. Egli era un platonico, aveva dunque un concetto normativo di arte, là dove io considero la questione anche sotto l’aspetto dell’anticipazione. L’arte è un’anticipazione della condizione spirituale di domani, di quella condizione che concettualmente non è oggi ancora a disposizione. Ma l’arte barocca può essere vista anche sotto l’aspetto da cui l’ha considerata Florenskij.
Il doppio codice
41Nella poesia il linguaggio è imitazione nello stesso senso in cui un quadro è imitazione. Prendiamo le opere d’arte sacra oppure una poesia o un’opera teatrale di Bertolt Brecht. Brecht ha scritto pezzi che servono a veicolare l’ideologia comunista in maniera molto esplicita. È propaganda comunista. Però ha anche scritto testi molto buoni. Che cosa significa qui buoni? Perché sono buoni pur trasportando idee che sono meno buone? Lo stesso avviene nell’arte religiosa. Prendiamo per esempio un pittore devoto come il Beato Angelico. Possono apprezzare al meglio i suoi dipinti anche coloro che non condividono affatto la sua fede. Anche un uomo del tutto areligioso può apprezzarli. Ciò significa che il quadro (o l’opera d’arte o l’opera teatrale o la poesia) non compie il proprio servizio solo veicolando un’idea, ma è in se stesso qualcosa di buono e di dotato di senso. Per questo guardiamo con gioia un’opera di Brecht anche se non siamo comunisti, o un’opera di Claudel anche se non siamo cattolici. L’opera d’arte non serve solo allo scopo cui serve il discorso normale, vale a dire a informare gli uomini o a scambiarsi ricordi, ma questa determinata formulazione – come in una poesia – è proprio ciò che ha un senso in se stesso. Lo si può vedere molto bene in Hölderlin, che talvolta correggeva le sue stesse poesie. La redazione finale ha un effetto quasi sempre più naturale, genuino e immediato di quello che della prima versione: è stata raggiunta un’immediatezza artistica, e ciò vale sia nel caso della poesia, sia in quello di un’opera d’arte in generale. Pensiamo alla poesia. È sempre possibile continuare a recitarla a se stessi. In una determinata situazione viene da recitarla, la si dice a se stesso e si gode del fatto che essa sia come è; anche se ciò che dice l’ho compreso da lungo tempo. Essa è però più di quanto mi dice. È se stessa, e se qualcuno mi chiede che cosa vi trovi, io posso solo rispondere come fece Robert Schumann: «Ascolta ancora una volta». Non posso dir molto se costui non capisce il significato della poesia. Non posso neppure aiutarlo, anche se c’è un’educazione all’ascolto e alla visione. Kant, per esempio, era dell’idea che la soddisfazione estetica fosse priva di concetti (questo naturalmente non è il caso dell’arte evento, che non è priva di concetto, ma lo supera) e pensava che le questioni riguardanti il gusto non fossero risolvibili attraverso il concetto. Si potrebbe dire che esse siano soggettive e anche che non lo siano. I giudizi estetici infatti hanno una pretesa di oggettività, ma di un’oggettività tale che non passa attraverso concetti. Ci si può chiedere allora attraverso che cosa essa passi e la risposta è: attraverso l’esercizio. Bisogna aver visto molto per poter valutare se un quadro sia bello o no. Qualcuno che, per esempio, abbia visto raramente opere d’arte moderna non può vedere la differenza tra un quadro di Tàpies e uno sgorbio qualsiasi. La differenza, però, è gigantesca. In una mostra d’arte contemporanea il 90 per cento è robaccia, il 10 per cento sono buone cose. Ma chi lo vede? Bisogna aver visto molto e, per quanto riguarda la poesia, bisogna aver letto molto e, lentamente, il senso si sviluppa. Ciò lo si può vedere nel fatto che quando ci si riferisce al significato dell’opera d’arte le persone che veramente se ne intendono sono concordi. Questo concordare non si fonda sul fatto che essi abbiano tutti il medesimo gusto. Può infatti anche darsi che qualcosa a me personalmente non piaccia. Ci sono quadri molto importanti che però io non vorrei avere in casa. Non mi piace quel genere. Ciò nonostante vedo che sono di grande qualità. Non è quindi, semplicemente, una questione di preferenze personali.
42È assolutamente necessario fare questa distinzione. È come quando c’è una magnifica giornata di sole ma io sono molto triste perché mi è capitata una disgrazia. Sbaglierebbe chi dicesse per questo che percepire il sole come qualcosa che dà gioia e la luce come qualcosa di bello dipende solo dal modo di sentire soggettivo. Se sono molto triste, posso sentire un sole magnifico come una beffa. Ma potrei però dire: “È così bello, un tempo magnifico, ma non posso assolutamente sentire tutto questo perché sono troppo abbattuto”. Non si tratta semplicemente di una proiezione del mio umore, in quanto posso distinguere tra un evento splendido e il fatto che non mi sento affatto disposto verso di esso.
43In poesia mi sembra chiaro che l’imitazione della natura consista semplicemente nel fatto che il discorso è in se stesso indipendente da ciò che viene detto. Nella musica vale qualcosa di simile. Dalla massa degli strepiti che mi invadono se ne sollevano alcuni che proprio in quanto tali devono essere ascoltati e che si ascoltano volentieri indipendentemente dal pensiero che essi veicolano. Esiste anche la musica a programma. Una musica, cioè, ascoltando la quale ci si devono figurare certe cose. È presente fin dalla prima età barocca. Basti pensare alle Quattro Stagioni di Vivaldi, in cui sono presenti molti elementi di programma. Ma pure in questo caso che si tratti di un’opera d’arte si mostra nel fatto che anche colui che non conosce assolutamente il programma, che cioè non sa che qui Vivaldi pensa ai pastori o a qualcos’altro, può ascoltare con gioia questa musica. Agisce qui ciò che ho chiamato “sovradeterminazione”. Essa è una doppia codificazione. Le cose possono avere un doppio codice. L’esempio più impressionante, a mio giudizio, è il seguente. Tutti sanno che Bach ha talvolta cifrato dei testi all’interno delle sue composizioni. In età barocca esisteva un codice, una cifratura che si chiamava gematria. Si trattava di un gioco fatto di numeri e parole che potevano essere scambiati gli uni con le altre. Alcuni anni fa una musicologa e violinista di Düsseldorf ha scoperto che nella sonata per solo violino in sol minore di Bach, se si connette la prima nota di ogni battuta con la successiva e così via, dando alle note il significato che ha dato loro la gematria, allora, improvvisamente, compare il testo Ex Deo nascimur, in Christo morimur, per Spiritum Sanctum reviviscimus («Da Dio nasciamo, in Cristo moriamo, attraverso lo Spirito Santo riviviamo»). Sembra impossibile. Un’opera musicale che contiene al proprio interno questa cifratura del testo. Si potrebbe dire che se si vuole inserire qualcosa di simile è impossibile che ne venga fuori della bella musica. Ma a Bach è bastato che la prima nota potesse venir tranquillamente fissata, e poi ha trovato le successive quattro battute che si adattassero alla cifratura. E ne è uscita una musica magnifica. Ciò significa che non possiamo né dobbiamo assolutamente percepire questa doppia codificazione. E sono secoli che ascoltiamo con gioia questa sonata non sapendo che esiste una seconda chiave, un secondo codice di questo tipo. Mi sembra quindi che nell’arte si dia un doppio codice. Da una parte noi usiamo parole per trasmettere informazioni, dall’altra vi è il codice estetico in cui, d’un tratto, le parole ricevono un senso completamente diverso. E nella musica mi sembra che accada questo.
Arte e morale
44Aristotele dice che la virtù è ciò che gli uomini virtuosi trovano virtuoso. In apparenza, è un’affermazione perfettamente circolare. Ma Aristotele vuol dire che io so più chi sia un uomo virtuoso di quanto sappia che cosa è il bene. Se qualcuno sia un uomo buono non si può sapere neppure considerando le singole azioni. La virtù, invece, consiste nel fatto che il bene è divenuto una certa ovvietà, che avviene spontaneamente, senza particolari sforzi. Che cosa è un uomo buono? Vi è una percezione immediata degli uomini, una percezione tale che diciamo: “Sì, questo è un uomo buono”. Dobbiamo conoscerlo un po’ a lungo, ci si può sempre ingannare sugli uomini. Anche un uomo buono può far cose che non sono buone, non vi sono uomini perfetti, per questo ci si chiede: “Come ha potuto far questo? È un uomo così buono!”. Ma non penso che sia neppure possibile delimitare l’esser buono da ciò che è morale in maniera tale, che anche un uomo totalmente amorale sia e possa essere un uomo buono. Ciò che è morale non significa infatti altro che la descrizione di azioni buone, di intenzioni buone. Allora un uomo, anche se ha compiuto azioni viziose, forse è buono. C’è un racconto di Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore, nel quale un uomo ha la debolezza di ubriacarsi sempre. Egli è però chiaramente un uomo buono. Come può essere un uomo buono se è schiavo del bere? Roth mostra che è possibile. Questo “santo bevitore” in fondo non è che un uomo povero, ma anche un uomo povero può essere buono. Nell’insegnamento di Gesù i poveri hanno persino più chance di essere uomini buoni. Ma non vorrei stabilire delle opposizioni. Direi che è buono un uomo nel quale le buone azioni sono la regola, buone azioni che egli non deduce da un principio. In lui il bene accade senza mediazioni. Lo stoico non può avere alcuna mediazione, non può neppure divertirsi con gli altri. Ma lo stoico agisce solo in base a principi. Paolo dice «E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe»14, si potrebbe allora forse dire che l’uomo buono è quello che ha la carità. Anche Agostino afferma dilige et fac quod vis, «ama e fa ciò che vuoi»15, farai ciò che è giusto. Questo non è immoralismo, per cui colui che ama può comunque far di tutto. Agostino invece intende che se uno ama veramente non farà nulla di sbagliato. Eppure, se qualcuno è un essere che ama non lo si vede dalle azioni che compie. Non vi sono azioni buone, scrive Tommaso d’Aquino, che non possano venire compiute anche a partire da un motivo non buono. Prendiamo la liberalità, l’assistere i poveri. Si può fare per vanità, unicamente per la coscienza di considerarsi bravi rispetto agli altri, come il fariseo di cui parla il Vangelo, che ringrazia Dio perché non è «come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri»16. Vi sono molti motivi in base ai quali si possono compiere azioni buone senza essere buoni. In ogni caso non vi è simmetria. Si può dire che un uomo può fare molte buone azioni e non essere un uomo buono. Non credo però che sia possibile il contrario. Un uomo non può fare continuamente azioni cattive ed essere comunque buono. Credo che l’esser buono dell’uomo debba mostrarsi in ciò che fa, ma anche che possa venir simulato. Anche le azioni che avvengono per amore possono avvenire senza amore. Allora esse sono solo buone azioni simulate.
45L’arte vive di ciò che è nuovo. L’arte che viene sempre solo copiata e procede secondo i medesimi schemi cessa di essere propriamente arte. Non penso che con il bene sia così, penso cioè che nelle diverse culture, nei diversi contesti, dobbiamo fare applicazioni differenti dei nostri principi morali. Ma i punti di vista basilari alla luce dei quali valutiamo il bene e il male sono propriamente sempre gli stessi da quando c’è l’uomo. Nel mio libro Felicità e benevolenza la prima affermazione recita così: «È mia speranza che questo saggio sull’etica non contenga nulla di fondamentalmente nuovo: dove l’argomento in questione è la vita retta soltanto il falso può apparire realmente nuovo»17. Penso che ciò che è retto sia già stato trovato e che le sue applicazioni siano differenti. Attorno a ciò possono anche sorgere contrasti, ma se giunge qualcuno che pretende di aver scoperto una morale completamente nuova, rimane il fatto che egli è ancora un uomo, ha la medesima natura umana, ha la ragione e da ciò si orienta al bene e al male. Nella mia vita ho fatto esperienze con uomini di culture differenti e ho visto che le differenze non sono così profonde come talvolta si pensa. Si può mettere l’accento su questo o su quello. Le differenze sono interessanti e per questo la nostra attenzione è sempre rivolta alle differenze nelle concezioni morali. Ma la stragrande maggioranza delle nostre rappresentazioni sono ovunque sempre le stesse. Gli uomini di altre culture sono commossi dagli stessi esempi di condotta umana. La storia di padre Kolbe (cfr. supra, cap. IV) posso raccontarla in una capanna africana o nella foresta vergine brasiliana, e la gente ne resterà meravigliata e la troverà straordinaria. I sociologi, i politici, arricciano il naso ascoltando la storia di Madre Teresa, ma la gente normale la trova meravigliosa, come anche noi. In conclusione, nella morale non bisogna assolutamente essere creativi, nell’arte sì. Nella morale no, in quanto essa è un’espressione della natura dell’uomo.
Arte e filosofia
46Hegel ha coniato il concetto di immediatezza mediata. Penso che dietro a esso vi sia un’intuizione profonda. È come se l’immediatezza dovesse essere preparata, come se dovesse esserci un esercizio per giungere a un’intuizione immediata. Ciò è particolarmente chiaro nell’arte. Kant parla di una soddisfazione senza concetti. Per lui i concetti estetici sono giudizi che non passano attraverso concetti. Il paradosso sta nel fatto che un giudizio estetico esige una validità universale. Non è semplicemente come accade con gli spinaci, che possono piacere o non piacere. Quando dico che qualcosa costituisce un’opera d’arte di valore voglio dire qualcosa di universalmente valido. E discuto con chi mi contraddice, mentre con chi mi dice che a lui gli spinaci piacciono non discuto. Al contrario nei giudizi estetici vi è la pretesa che ognuno debba propriamente concordare con quelli, e si ritiene che chi non lo fa non abbia ancora realmente guardato la cosa. Quest’immediatezza, tuttavia, è mediata. Bisogna per prima cosa essere entrati in rapporto con molte opere d’arte, bisogna essersi scambiati opinioni con altri uomini e allora quelle evidenze appaiono. L’evidenza all’inizio non c’è. È alla fine. Ho già citato de Bonald, il quale fa una distinzione tra l’homme natif e l’homme naturel. Leibniz, Fénelon, Bossuet – egli dice – sono hommes naturels, uomini naturali, e l’irochese, l’indiano di una tribù americana è un homme natif, un uomo originario. In lui non si è ancora sviluppato ciò che è radicato nel potenziale dell’uomo.
47Nella scienza non vi è immediatezza. Nella filosofia sì. La scienza è sempre mediata dai metodi. Le sue sono intuizioni ottenute seguendo un metodo. Il metodo è ciò che in essa si frappone tra la conoscenza e la nostra condotta di vita. Al contrario la filosofia riflette sul metodo. Essa non è definita in virtù di qualche metodo sul quale è proibito riflettere. La filosofia ha proprio quest’immediatezza mediata come fine. Lo si può vedere già molto bene in Platone, per esempio nella Lettera VII dove parla dell’idea del Bene. Egli dice qui che l’idea del Bene viene conosciuta solo in un’intuizione immediata priva di concetti. Ma quest’intuizione immediata non sta all’inizio, ma alla fine. E, sempre nella Lettera VII, egli dice che quindi non è possibile esprimere ad alcuno il significato della parola “bene” ricorrendo a espressioni di scuola, poiché solo in lunghe conversazioni familiari ciò diviene progressivamente chiaro, come una luce che si accende nell’anima e si apre la strada. Ho detto che in filosofia al posto del metodo vi è la benevolenza, il principle of charity, a partire dal quale ognuno cerca d’interpretare ciò che l’altro dice. Questa è la condizione per fare esperienza dell’immediatezza e penso che la risposta in filosofia sia simile a quella nell’arte. La scienza, tuttavia, credo abbia solo conoscenze mediate.
48Al contrario, in filosofia la convinzione di ciò che propriamente essa desidera non viene raggiunta attraverso l’argomentazione. Essa precede l’argomentazione. Se giungiamo alla filosofia ciò è determinato innanzitutto da fattori contingenti: tendo a una validità universale e desidero quindi imparare la filosofia in un modo da guadagnare intuizioni universalmente valide. Ma in questa ricerca si mostra che gli uomini sono sempre diversi, che vi sono differenti opzioni che tuttavia non sono arbitrarie. Ma questo, come dicevo, non è indipendente da fattori contingenti. Dipende dal mio carattere, dall’educazione che ho ricevuto, da quali libri mi è capitato di leggere per primi, da quali professori mi è capitato di trovare in università. Uno poi mi è piaciuto più di un altro e così via. Alla fine sta l’uomo che fa filosofia, e ciò che egli pensa ha una quantità di tali condizionamenti. Il compito allora di ogni vita umana è propriamente quello di integrare i molti fattori contingenti in un insieme coerente e dotato di senso, cosicché si possa dire retrospettivamente che tutto doveva andare in quel modo. Così si raggiunge pressappoco il fine della propria vita. Penso ai discepoli di Emmaus che dicevano che tutto era perduto, che Cristo era stato crocifisso e a Cristo, che loro non avevano riconosciuto, che dice loro: «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?»18. Questo significa che le cose assurde accadute fino a quel momento, divengono successivamente elementi di una necessità immanente. Questo penso sia anche il processo della filosofia. I fattori contingenti progressivamente divengono trasparenti, manifestando un insieme coerente e dotato di senso, del quale però la persona è parte attiva. Io stesso devo far qualcosa per raggiungerlo, e qui subentra il momento creativo e anche il nesso con l’esperienza estetica, perché la creazione di un senso che raccoglie i diversi fattori contingenti in una totalità di senso è qualcosa di creativo e anche nuovo, perché ogni individualità è diversa. Il compito è per tutti lo stesso. Si potrebbe dire che ho solo descritto con altre parole ciò che gli antichi chiamavano “amicizia con se stessi”. Questa è al fondo l’espressione adatta per ciò che io ho detto. Ma non ogni uomo riesce a raggiungere l’amicizia con se stesso. Uno mi dice che gli è capitato questo e quest’altro, che ha avuto un’infanzia difficile, che gli sono successe tutte queste cose negative e che non è riuscito a ricavarne nulla. Penso allora che il compito sia molto simile a quello estetico, e che la valutazione e la soluzione di questo compito possa essere accostata all’opera d’arte e al giudizio estetico. Quest’integrazione di molti fattori in una totalità non è infatti, in fondo, una categoria morale, un compito morale, una moralità delle singole azioni – che sono indipendenti da tutto questo – e penso che un uomo infelice può nonostante ciò essere un uomo buono, anche se la sua vita è fallita. Questa è la vicinanza con l’arte. Nelle Lettere sull’educazione estetica Schiller distingue tra valutazione morale e valutazione «antropologica totale» di un uomo, e afferma che può essere che un uomo si affatichi molto a fare il bene, sia moralmente più reale e di valore, e ciò nonostante la sua vita fallisca. L’integrazione non gli è riuscita. Al contrario vi sono uomini guardando i quali si sente che hanno lavorato per trovare un tale senso totale. Goethe è l’esempio di un uomo di questo tipo. Egli è riuscito a comporre i molti fattori e le molte circostanze casuali della sua vita in una biografia completa, della quale si può dire: “Questa è stata una vita riuscita!”. Ma io avrei dei dubbi, se mi si proponesse di affermare che Goethe è stato un uomo buono.
Notes de bas de page
1 Cfr. Aristotele, Physica, 194 a 21 e sgg.
2 Platone, Leggi, 890 D 6.
3 Aristotele, In octo libros Physicorum Aristotelis expositio, liber II, lectio 13, n. 5.
4 H. von Kleist, Aufsatz über das Marionettentheater (1810), in Sämtliche Werke, Band 3, Frankfurt/M., 1990, p. 563.
5 Aristotele, Physica, 199 b 28 e sgg.
6 Voltaire, Oeuvres, XX, cit., p. 116.
7 G.W. Leibniz, Opuscules et fragments inédites, L. Couturat (éd.), Paris, 516.
8 Idem, Akademieausgabe von Leibniz’ Schriften, XVI, p. 602.
9 Idem, Textes inédites d’après le manuscripte de la bibliothéque provinciale de Hanovre, publiés et annotés par G. Grua, vol.III, Paris, Puf, 1948, p. 579.
10 D. Hume, A Treatise of Human Nature, Oxford - New York, Oxford University Press, 1978, p. 67.
11 «Non si va mai così lontano come quando non si sa più dove si sta andando», J.W. von Goethe, Maximen über Literatur und Ethik, in Goethes Werke, Band 42, Weimarer Ausgabe, Weimar, 1907, p. 225.
12 Quinto e sesto verso dell’inno Adoro te devote.
13 R.M. Rilke, Arcaico torso di Apollo, trad. it. V. Errante in Idem, Liriche e prose, Firenze, Sansoni, 19546, p. 279.
14 1Cor 13, 3.
15 In Io. Ep. tr. 7, 8.
16 Lc 18, 11.
17 Cfr. R. Spaemann, Glück und Wohlwollen. Versuch über Ethik, Stuttgart, Klett-Cotta, 20095; trad. it. M. Amori, Felicità e Benevolenza, Milano,Vita e Pensiero, 1998, p. 5.
18 Lc 24, 26.
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