5. Essere ed essere divenuto: che cosa spiega la teoria dell’evoluzione?
p. 101-131
Texte intégral
Opporre resistenza ai fatti?
1Hermann Lübbe ha definito la cultura illuministica come il processo per cui i risultati della ricerca scientifica si diffondono fino a diventare ovvietà. Essi vengono accolti senza resistenze perché toccano la nostra vita tutt’al più in modo indiretto, attraverso le trasformazioni tecniche dell’ambiente in cui viviamo, ma non immediatamente attraverso un cambiamento della concezione che abbiamo di noi stessi e del mondo. E Lübbe ha tratto la conclusione che da questo punto di vista la nostra sarebbe un’epoca di illuminismo perfettamente realizzato. I risultati della scienza non sarebbero più oggetto di discussioni ideologiche di rilevanza pubblica. Ammesso che questa affermazione sia corretta, rimane la domanda: perché le cose stanno così? E perché prima le cose andavano diversamente?
2Cominciamo dalla seconda domanda: da dove viene la resistenza di fronte ai risultati della ricerca scientifica? Perché gli uomini in qualche caso non accettano serenamente delle affermazioni a proposito di come stanno le cose? Perché non sono sempre interessati soltanto a conoscere come stanno le cose? Perché desiderano che le cose stiano in un certo modo piuttosto che in un altro? La risposta alla domanda così posta è evidente: certi fatti ci aggradano più di altri. “Non può essere vero!” è un modo di dire che si sente spesso. E tuttavia è un segno di maturità, pur desiderando che i fatti ci aggradino, non desiderare che ci sia fatto credere che i fatti sono quelli che ci aggradano se questo non è vero. Il satrapo antico che faceva uccidere i latori di cattive notizie ci appare infantile. Che cosa gli giova illudersi di aver vinto la battaglia se in realtà l’ha perduta? Essere informati correttamente sui fatti aumenta di solito la nostra capacità di raggiungere gli obiettivi che ci siamo proposti. Però questo non è sempre vero. Vi sono fatti sgradevoli cui non possiamo neppure più reagire perseguendo i nostri obiettivi. Si dovrebbe dare a un monarca che giace sul letto di morte la notizia del crollo del suo regno? Certe persone non vogliono essere informate di una malattia incurabile. Anzi, accade anche che persone che possono ancora agire traggano le conseguenze sbagliate proprio basandosi su informazioni veritiere. Spesso è questa la ragione per cui non si danno ai malati informazioni sulla loro malattia: non si vuole compromettere la volontà di vivere che è tanto importante per la guarigione. E spesso i governi in guerra nascondono ai loro popoli le cattive notizie per non ostacolare l’attivazione di energie che è necessaria per arrivare alla vittoria. Anche la “nobile menzogna” di Platone era intesa in questo senso: non doveva motivare gli uomini a agire contro il proprio interesse, ma doveva motivare a percepire il proprio reale interesse coloro ai quali non si ritiene opportuno cercare di spiegare quale sia tale interesse1.
3Sebbene possa essere un segno di maturità il fatto di non avere bisogno di illusioni per comportarsi razionalmente, vi sono però anche ambiti in cui la resistenza a accogliere talune informazioni è parte di una vita degna dell’uomo. Dice La Rochefoucauld: «È più disonorevole diffidare dei propri amici che essere da loro ingannati»2. Chi accoglie senza pregiudizi una comunicazione che accusa gravemente un proprio caro amico o la propria moglie e si dà immediatamente da fare per controllarne la fondatezza, invece di pensare per prima cosa che si tratti di calunnie, non può essere davvero un buon amico o un buon marito.
4La resistenza religiosamente motivata contro l’immagine copernicana del mondo fu in questo senso una resistenza degna di rispetto, perché per coloro che la esercitarono era in gioco la credibilità dei testimoni della Rivelazione, confidare nei quali costituiva una parte della propria identità. D’altra parte vi erano pure molte buone ragioni per opporsi alla visione proposta da Copernico. Da questa resistenza emerse poi una formula con la quale, come spesso succede, i reazionari, senza saperlo, precorrevano i tempi: essi chiedevano infatti a Galileo di ammettere a proposito della sua teoria che si trattava di un’ipotesi matematica, cioè di una costruzione legata a un determinato paradigma, ovvero precisamente della sola cosa che le teorie scientifiche possono essere secondo la nostra concezione moderna della scienza. Naturalmente da quest’ammissione sarebbe seguito che anche l’immagine tolemaica del mondo non era nient’altro che un’ipotesi. Né Galileo né i suoi oppositori erano in grado di arrivare fino a questo punto. Se fosse stato così, avrebbero potuto confrontare le due teorie considerandone la diversa efficacia. In questo modo sarebbe stato attribuito alla teoria galileiana il vantaggio (che del resto le veniva riconosciuto) di una bellezza e una semplicità incomparabilmente maggiore, come pure dell’incomparabilmente più grande capacità di previsione di fenomeni prima sconosciuti. La teoria tolemaica avrebbe avuto invece il vantaggio di essere in armonia con quello che le fonti della Rivelazione sembravano affermare. Certamente questa sarebbe stata una soluzione conservatrice e anche oggi del resto il pluralismo delle teorie viene accusato di conservatorismo.
5Tale soluzione non avrebbe allora costretto a quella revisione del giudizio sulle fonti della Rivelazione che poté maturare soltanto in seguito al conflitto, portando o al puro e semplice rifiuto dei testi rivelati come fonte di conoscenza o alla loro reinterpretazione teologica. Grazie a un procedimento interpretativo di questo genere le fonti della Rivelazione vennero sostanzialmente rese immuni dai pericoli che potevano venire dai risultati della ricerca scientifica e così i credenti vennero esonerati dall’obbligo di restare ancorati a un determinato paradigma scientifico divenuto del resto infruttuoso. Soltanto questa reinterpretazione ha consentito quella diffusione dell’immagine copernicana del mondo in un modo ideologicamente del tutto neutrale di cui oggi possiamo effettivamente parlare. Che il mondo copernicano non fosse così ovvio, anche a prescindere totalmente dalla questione dell’interpretazione dei testi biblici, nel xvii secolo fu visto soltanto da Pascal. Quando scrive: «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi sgomenta»3, egli rileva che il fatto che tutto diventi ovvio non è esso stesso così ovvio. Potremmo anche dire che il secondo principio della termodinamica è in qualche modo il principio del trionfo dell’ovvietà, della non-significatività. Ma proprio per questo esso è tutt’altro che ovvio per un essere a cui importano la propria conservazione e crescita, ovvero la conservazione di entropia negativa. Quello che spaventa Pascal è proprio l’ovvietà, la “non-significatività del mondo”, che secondo Kolakowski sta alla base di ogni mitopoiesi, ma che paradossalmente aumenta continuamente con il dominio scientifico del mondo. Il significato infinito che l’uomo si è attribuito, in particolare nella tradizione cristiana, non trova più una chiara rappresentazione nella figura spaziale dell’universo. Il luogo dell’Incarnazione di Dio è un luogo periferico nel sistema solare, il sistema solare un luogo periferico nell’insieme del cosmo. Le leggi che strutturano questo universo non sono tali da permetterci di concepire le cose al di fuori di noi in analogia con quello che avviene nei rapporti tra gli esseri umani, ovvero come unità autonome che hanno interessi indipendenti dai nostri ma simili ai nostri. Si tratta invece di leggi che ci permettono di dominare la natura proprio perché la fanno diventare l’ambito di ciò che è privo di senso, dell’ovvio.
Tre modi di reagire alla perdita di senso del mondo
6La concezione che l’uomo si fa di sé può reagire in tre modi a quel processo che Max Weber ha chiamato di «disincantamento del mondo». Innanzi tutto con la resistenza teoretica. Nel xvii secolo questa resistenza venne rappresentata al più alto livello intellettuale da Leibniz, per il quale ridurre la realtà a un continuum passivo privo di senso e strutturato da leggi matematiche significava adottare la prospettiva di chi guarda le cose dall’esterno. In sé il mondo consiste invece esclusivamente di centri di forza che sono i soggetti di tali prospettive. Il mondo vero è una comunità di centri percettivi che sono in diversi gradi simili a noi. Nel xx secolo una visione del mondo di questo tipo è legata al nome di Whitehead.
7La seconda possibilità è quella del materialismo, che concepisce l’uomo stesso come una parte grandemente complessa del mondo oggettuale e come sottomesso alle sue leggi. Non soltanto il mondo non umano è privo di senso, ma è l’uomo stesso che partecipa della sua mancanza di senso, e ogni idea di senso è comprensibile soltanto in funzione della conservazione e del benessere dell’essere che ha tale idea, ma la cui esistenza è altrettanto priva di senso dell’esistenza di qualunque altra cosa. Un rappresentante di questa possibilità è il marchese de Sade. Certamente si tratta di un caso estremo e anomalo, ma coloro che subiscono le conseguenze negative del suo comportamento o lo trovano comunque ripugnante, se condividono la sua visione materialistica del mondo, possono concepire la propria disapprovazione soltanto come espressione di un disagio soggettivo. Questo però è un fatto senza senso in un mondo senza senso così come lo è il piacere del marchese che causa il loro disagio. E il loro disagio rappresenta addirittura una parte del suo piacere.
8La terza possibilità è rappresentata dal tentativo di Kant di concepire la soggettività umana come condizione dell’oggettivazione del mondo e appunto per questo di pensare che l’uomo sia sottoposto alle leggi del mondo degli oggetti soltanto là dove egli stesso si rende oggetto di considerazione teorica. In quanto soggetto di tale considerazione egli si sottrae in linea di principio a tali leggi e in quanto soggetto di azioni volontarie è sottomesso a una legge completamente diversa di libera autodeterminazione. Questo era un modo per rendere la concezione che l’uomo ha di sé immune dai pericoli che venivano dai risultati del processo scientifico senza d’altra parte interferire in alcun modo nel funzionamento di tale processo. Tuttavia Kant non si fermò alla dicotomia di soggettività senza mondo e mondo oggettivato, ma tenne conto del fatto che nel mondo noi abbiamo che fare anche con il vivente, proponendo in merito delle riflessioni degne di attenzione. Kant osserva infatti che non possiamo fare a meno di concepire il vivente in analogia con quella unità che noi conosciamo nell’esperienza che abbiamo di noi stessi, senza però che il riconoscimento di tali totalità organiche sia una condizione necessaria perché noi possiamo parlare di oggetti naturali. Certamente non c’è un Newton del filo d’erba. Nessuno è riuscito e, secondo Kant, nessuno riuscirà mai a ricostruire la realtà di un filo d’erba, perché le sue parti fino all’infinito sono sempre di natura organica.
9Ma il programma di tale ricostruzione, nel senso di un’infinita approssimazione, in sé non è contraddittorio. Con questa riserva, è anzi il solo programma legittimo di una scienza biologica. Riconoscere qualcosa come in qualche modo uguale a noi non è un atto di scienza teoretica, ma rimane sempre un atto di libero riconoscimento che può anche essere rifiutato. Anche la cosiddetta evidenza del tu può essere offuscata da una teoria che la dichiara illusoria, e nessuno è costretto a riconoscere che un altro prova dolore. In termini kantiani, il riconoscimento sarebbe un atto della facoltà del giudizio riflettente, il che mostra soltanto che Kant non è arrivato a comprenderne adeguatamente la natura. La soluzione kantiana del problema dello scientismo con l’immunizzazione della soggettività rispetto all’attacco della scienza oggettivante ha portato all’atteggiamento di cui abbiamo parlato all’inizio, per cui la diversità delle visioni del mondo non appare rilevante quando si considerano le teorie e i risultati di questa scienza.
La sfida da parte della teoria dell’evoluzione: genesi versus validità
10Kant ha risposto in modo chiaro alla domanda sul perché lo scientismo rappresenti una sfida alla concezione che noi ci facciamo di noi stessi. Lo scientismo conosce soltanto nessi condizionali. L’esperienza di un incondizionato – che per Kant si presenta nell’esperienza morale fondamentale – non si può interpretare adeguatamente nel quadro di una visione scientistica del mondo. Da questa tale esperienza dev’essere reinterpretata in un modo tale che non può più riconoscersi essa stessa nell’interpretazione data. Per questo, come dice Kant, dev’essere limitato il sapere, cioè deve essere respinta l’interpretazione realistica delle proposizioni scientifiche.
11La nuova sfida rappresentata dalla teoria dell’evoluzione mi pare stia nel fatto che questa avanza una duplice pretesa: innanzi tutto la pretesa di arrivare per la prima volta a ricostruire nel quadro di una scienza ateleologica proprio la genesi di quella soggettività di cui parlava Kant, e in secondo luogo la pretesa di interpretare in modo realistico questa ricostruzione. In fondo la seconda pretesa deriva dalla prima. Infatti il rifiuto del realismo teoretico anche in Kant è strettamente legato all’intenzione di poter interpretare in modo realistico la coscienza della libertà, ovvero la soggettività. Quando i soggetti diventano oggetto dell’esperienza propria o altrui perdono per ciò stesso ciò che li costituisce come soggetti. Per questo l’esperienza oggettiva non può essere interpretata in modo realistico. Quando però una teoria si presenta con l’ambizione di ricostruire teoricamente appunto quella soggettività che costituisce l’oggetto, sembra allora che tale teoria debba necessariamente combinarsi con un’interpretazione realistica, perché altrimenti oltre la soggettività così oggettivata se ne dovrebbe presupporre un’altra, il “vero” soggetto di questa oggettivazione.
12La teoria dell’evoluzione interpretata realisticamente sembra però mettere fine alla strategia kantiana di immunizzazione della soggettività. Essa sembra trascinare anche questa nell’elemento omogeneo dell’indifferenza e banalizzarla. Il verso di Matthias Claudius «Ringrazio Dio e mi rallegro come un bimbo davanti ai regali di Natale, per il fatto che io sono (sono!) e ho te, bel volto umano»4 appare ormai soltanto come un’illusoria esaltazione poetica. Appunto questa banalizzazione della soggettività non è essa stessa banale.
13Quello che stupisce è che la non banalità di questa teoria negli ultimi anni non sia stata evidenziata da coloro che hanno difficoltà a pensare la propria identità nel contesto della teoria dell’evoluzione, ma dai nuovi promotori del paradigma evolutivo. Le discussioni più recenti, rispetto all’epoca di Darwin e Haeckel, sono caratterizzate dal fatto che il progetto darwiniano si applica ormai all’intero processo cosmico, cioè anche all’origine della vita, e inoltre dal fatto che adesso si cerca veramente di realizzare a livello concettuale la ricostruzione genetica della vita da una parte e della soggettività dall’altra. Dopo una fase di latenza dal punto di vista ideologico-politico, i nuovi teorici dell’evoluzione si presentano ora con un certo fervore missionario e fondano associazioni per la divulgazione delle proprie idee, senza manifestare però l’intenzione di attaccare la religione tradizionale, ma piuttosto quella di integrarla nel proprio progetto. La religiosità, quando non si presenti con ambizioni cognitive, costituisce ormai essa stessa un elemento essenziale della macchina della sopravvivenza ricostruita dalla teoria. Sarebbe interessante indagare dal punto di vista della storia della scienza quale risultato ci si aspetti da quest’opera di divulgazione. In generale la nuova fase della teoria dell’evoluzione è caratterizzata dal fatto che essa non lascia più da parte la soggettività come qualcosa di irriducibile, tuttavia non tenta neppure più di eliminarla mostrando che si tratta di un’illusione, ma cerca invece di ricostruirla in rapporto al sistema nel suo complesso come funzione utile alla sopravvivenza. I teorici dell’evoluzionismo non sembrano spaventati dalla circolarità di cui la loro impresa viene accusata, soprattutto dal punto di vista della filosofia trascendentale. In effetti l’argomentazione trascendentale dovrà pure essere a sua volta ricostruita.
14Da chi? Chi è che definisce la conoscenza a priori come risultato dell’adattamento? E come può questa tesi pretendere di essere vera se è essa stessa a sua volta il prodotto dell’adattamento? La risposta decisiva a tutte queste obiezioni è quella che è stata data da Quine: la risposta di un olismo scientista. La conoscenza è conoscenza scientifica. Non c’è un soggetto della scienza che sia in grado di comprendere se stesso al di fuori della scienza. Esiste soltanto il processo della scienza nel suo insieme, ed è solo all’interno di questo che a poco a poco vengono chiariti dalle diverse scienze particolari concetti come quello di “soggetto” e “oggetto”. La teoria dell’evoluzione è uno di questi paradigmi scientifici che, in particolare, ci porta a comprendere meglio la questione di quello che noi siamo. L’espressione “ci porta a comprendere meglio” dev’essere intesa soltanto come un’espressione provvisoria per indicare quel processo complessivo della scienza cui si può applicare nel modo più appropriato il modello evolutivo: non vi è in questo processo alcun τέλος (télos) che potrebbe essere definito indipendentemente dallo stato del processo e non vi è alcuna definizione invariabile e indipendente dal processo dei criteri in base ai quali si potrebbe dire che cosa significhi avvicinarsi alla comprensione di qualcosa, migliorare la comprensione che abbiamo di qualcosa. La definizione di tali criteri è invece parte del processo impersonale che ha perciò nel suo insieme il carattere di un destino che si sottrae a qualsiasi tentativo di comprensione. Ma già quest’osservazione, in realtà, rientra in una qualche sordida periferia del linguaggio, che finirà per scomparire grazie all’opera di risanamento portata avanti dalla cultura scientifica.
15L’affermazione di sé da parte della soggettività di fronte alla sua ricostruzione scientifica sembra condannata a quel mutismo che il Wittgenstein del Tractatus ha constatato e proclamato nella sua celebre sentenza su ciò di cui si può parlare e ciò di cui non si può parlare. Ma nel nostro linguaggio comune non ci rassegniamo a questa mancanza di parole. È vero però che nella mentalità odierna è ampiamente diffuso il sentimento che il linguaggio comune sia soltanto una sorta di forma intuitiva primitiva del discorso scientifico. Come tale esso viene usato anche dalle persone colte, presupponendo tacitamente che vi possa essere una traduzione di quello che si dice più adeguata dal punto di vista cognitivo. Quest’idea deve essere però abbandonata quando si tratti di quelle espressioni con cui si parla dell’assoluto, cioè quelle espressioni in cui le parole “buono” e “cattivo” vengono usate in un senso diverso dal senso di “buono per x, se x vuole y” o “buono in vista del raggiungimento o del mantenimento di una determinata condizione”. L’interpretazione evoluzionistica dell’etica intende l’uso della parola “buono” in questo secondo senso. Anche in questo caso è vero che essa non rifiuta l’uso della parola “bene” nel senso di qualcosa di assoluto, però non offre neppure una traduzione adeguata dal punto di vista scientifico di questi modi di esprimersi, ma ne offre invece un’interpretazione funzionalistica. Accade qualcosa di analogo a quello che accade con la danza della pioggia degli indiani hopi: certamente i più ritengono che essa non causi la pioggia, ma tuttavia riconoscono che essa svolge una funzione importante per la coesione della tribù. Analogamente, al discorso sul bene simpliciter non corrisponde niente di credibile, ma si potrebbe mostrare come questo discorso sia nato e quale ne sia l’utilità. Per un essere capace di riflessione la motivazione che spinge ad assolvere funzioni di carattere sovraindividuale in buona parte non è affidata a istinti, ma a imperativi coscienti. Affinché la riflessione non sospenda o metta in dubbio continuamente i contenuti di questi imperativi in favore della soddisfazione immediata dei propri desideri, a essi viene attribuito un carattere di assolutezza che è equivalente all’istintività e fa da contrappeso alla potenziale infinitezza della riflessione che li mette in dubbio.
16Se si vede la cosa così, la teoria dell’evoluzione dovrebbe però essere concepita a sua volta come vittoria appunto di questa riflessione che fa dubitare di tutto. Affermando la funzionalità dell’incondizionato per la conservazione di un fenomeno evidentemente condizionato come per esempio la vita dell’uomo sulla terra, essa toglie all’incondizionato la sua incondizionatezza. Dichiarando che questa è utile e che la sua utilità è il suo essere, essa elimina questo essere. La proposizione secondo cui è bene conservare la vita umana significa ormai soltanto che questo è utile alla conservazione della vita. Ma questa non è una traduzione adeguata, come ha mostrato G.E. Moore.
17La teoria dell’evoluzione può certamente ricostruire in chiave funzionalistica gran parte dei contenuti elementari dell’etica umana. Può persino dare un contributo alla correzione di certe forme di morale, mostrando come forme di comportamento che avevano un tempo una funzione positiva abbiano ormai cessato di averla. Questo è tra l’altro l’interesse prevalente nelle pubblicazioni più recenti nell’ambito dell’etologia umana. Quello che la teoria dell’evoluzione non può fare in alcun modo è far derivare da altro la forma specifica dell’etica umana, la forma dell’incondizionatezza che si esprime nell’uso della parola bene in un senso non-relazionale. L’evoluzionismo deve misconoscere il reale significato delle parole con cui esprimiamo la nostra ammirazione morale per la bellezza di un modo di agire o la nostra disapprovazione di fronte a un comportamento mostruoso. Tali giudizi di approvazione o di disapprovazione nella prospettiva evoluzionistica significano sempre soltanto che quel modo di agire è funzionale o non-funzionale in rapporto a una condizione in sé irrilevante che, per cause anch’esse irrilevanti, appare invece desiderabile a colui che esprime l’approvazione o la disapprovazione. Tutti i richiami morali di cui sono piene le opere dei sostenitori delle teorie evoluzionistiche non possono cambiare nulla al fatto che quelle stesse opere hanno tolto a quei richiami tutta la loro forza.
18La conciliazione di una prospettiva che considera gli imperativi morali dal punto di vista della loro genesi e di una prospettiva che ne riconosce invece la validità incondizionata sarebbe possibile soltanto sulla base di un presupposto platonico, ovvero concependo l’evoluzione in un modo tale che l’esercizio di certe forme di comportamento, per quanto spiegabile in termini funzionalistici, sia però una condizione perché a un certo momento, improvvisamente, si possa spalancare una dimensione di esperienza affatto nuova, la dimensione dell’assolutezza del Bello. È questo il modo di vedere di Platone e di Aristotele, quando, in consonanza l’uno con l’altro, scrivono che lo Stato nasce dalla necessità della pura vita, ma una volta nato esiste per permettere la vita buona. E che cosa sia la vita buona non si può più dedurre dalle condizioni di tale genesi. Ciò che è caratteristico dei pensatori antiteleologici moderni come Hobbes sta nel fatto che per loro la legittimazione dello Stato non si separa mai dalle funzioni definite dalle condizioni della sua genesi.
19Per quanto riguarda la scoperta della dimensione dell’assoluto, noi possiamo ancora addirittura ricostruire le condizioni della sua genesi: gli imperativi dell’istinto per gli animali sono soggettivamente incondizionati nel senso che essi non sono capaci di riflettere sulla loro possibile relatività. Soltanto noi, gli osservatori, possiamo constatarne la relatività e concepirli semplicemente come il risultato dell’applicazione delle leggi naturali alle condizioni di partenza. Ma poiché gli animali non riflettono sulla relatività, per essi ovviamente non vi è neppure un assoluto. Soltanto riflettendo sulla relatività delle nostre motivazioni nasce per noi l’alternativa di relativo e assoluto. Prima della riflessione teoretica l’assoluto non può esistere come un assoluto per noi, cioè relativamente assoluto, senza diventare un puro “come se”. La dimensione esperienziale dell’assoluto si può dunque ricostruire ricercando quali siano le condizioni della sua genesi, ma essa è per definizione tale che nel momento stesso della sua genesi le condizioni che l’hanno resa possibile diventano irrilevanti.
L’irriducibilità della negatività
20Fintanto però che l’idea dell’assoluto si presenta soltanto sotto forma di una teoria della validità incondizionata degli imperativi morali, il problema di fondo rimane in ultima analisi irrisolto. Si arriva a una situazione di stallo tra la visione relativista di ispirazione scientistica e il pensiero che riconosce la validità assoluta delle norme morali. Il fautore di quest’ultima posizione può sempre sostenere che tale validità viene distrutta dal riduzionismo, poiché questo non riuscirà mai a tradurre in modo adeguato gli enunciati valutativi, cioè non riuscirà mai a ricondurre il dovere all’essere (inteso come esistere di fatto). Lo scientista interessato alla genesi dei fenomeni può replicare che il giudizio di validità implica però il riferimento a soggetti per cui qualcosa vale, che esso rappresenta un momento nella vita di questi soggetti. Chi ipostatizza un mondo di valori si espone all’obiezione che già Aristotele aveva sollevato contro chi ipostatizzava la “camusità”: «questa non esiste se non esistono i nasi»5. E ogni necessità puramente ideale rimane una necessitas ex suppositione. Per quanto si confuti lo psicologismo in logica, resta il fatto che le leggi logiche sono valide soltanto in quanto esistono soggetti pensanti che possono regolare il proprio pensiero sulla base di tali leggi.
21Questo significa che la logica bivalente è soltanto un prodotto specifico dell’adattamento del nostro cervello al mondo esterno? Questa domanda ci porta di nuovo nel circolo vizioso di cui abbiamo già detto. Se infatti rispondiamo di sì, anche questa risposta sarebbe soltanto un prodotto dell’adattamento. E questo potrebbe ancora andare. È ben nota l’osservazione secondo cui le scimmie che hanno una falsa immagine del ramo su cui saltano non potrebbero sopravvivere. In realtà però tale osservazione misconosce completamente dove sta il problema. Il fatto che un essere che ha un’immagine di qualcosa ne abbia un’immagine corretta può indubbiamente essere inteso come un risultato adattativo. La questione è piuttosto come sia possibile, partendo da un mondo in cui siano date soltanto certe condizioni puramente materiali, ricostruire che cosa significhi avere un’immagine di qualcosa, vera o falsa che sia. Anche un’immagine falsa presuppone già la nozione di immagine corretta. Nessuna teoria del riflesso condizionato può riuscire a fare il salto necessario per passare dal meccanismo associazionistico alla rappresentazione di qualcosa che non è questa rappresentazione. Un essere vivente può attraversare una serie di stati che rappresentano una reazione adeguata a mutevoli condizioni ambientali. Ma perché questi stati dovrebbero essere immagini di tali condizioni, cioè immagini di qualcosa che essi non sono?
22Possiamo formulare la stessa domanda in termini più astratti, chiedendoci come sia possibile ricostruire in una prospettiva evoluzionistica la genesi della negatività senza cadere in una petizione di principio. Come è noto, si può sempre esprimere l’affermazione logica come doppia negazione, mentre non si può invece esprimere la negazione usando operatori che non contengano già la negazione. Ora, noi possiamo certamente interpretare la bivalenza della logica come risultato funzionale dell’adattamento, analogamente a quanto accade nei sistemi digitali. Tuttavia in un sistema digitale i valori “vero” e “falso” sono entrambi due stati positivi, uno dei quali può poi essere interpretato come negazione da un osservatore vivente che possieda già lui stesso la dimensione del negativo.
23Quando Russell giustifica la verità di una proposizione come “Non vi sono ippopotami in questa stanza” considerando l’assenza di ogni ippopotamo come una cosa reale, questo è un tentativo di eliminare la negatività, parallelo al suo tentativo di eliminare le affermazioni di esistenza. Il fatto è che la negatività riemerge quando si tratti di spiegare la parola “assenza”. Russell potrebbe dire: “Tutti gli ippopotami si trovano in luoghi diversi da qui”. Ma in questo caso avremmo di nuovo la parola “diversi” per cui non vi può essere una definizione di tipo naturalistico.
24La negatività si presenta a tre livelli:
251) come dolore;
262) come diversità, come non-io;
273) come l’idea dell’assoluto.
28Che l’emergere del dolore sia estremamente utile alla vita e favorisca la conservazione degli organismi che sono capaci di provare dolore è un fatto incontestabile. Questo basta al sostenitore della teoria dell’evoluzione e basta anche allo sperimentatore che studia il comportamento degli animali sofferenti. Per un essere che lo patisce, il dolore ha essenzialmente il significato del negativo, di ciò che non dovrebbe essere. E nella misura in cui questo significato è parte essenziale del comportamento di chi soffre, il dolore non può essere definito né come comportamento di un certo tipo (secondo l’interpretazione behavioristica) né, come ha dimostrato recentemente Kripke, come stato neurofisiologico.
29Ogni riduzionismo naturalistico fallisce a questo punto. E fallisce soprattutto là dove si tratti della negatività del conoscere, il fieri aliud in quantum aliud. Quello che intendiamo dire quando ci riferiamo a una realtà diversa da noi non si può in alcun modo concepire in termini naturalistici, come stato o proprietà del soggetto che si riferisce. La passeggiata sognata con l’amico sognato non si distingue dalla passeggiata reale con l’amico reale per qualche predicato, per l’intensità dell’esperienza eccetera. L’esistenza non è un predicato reale. La differenza sta soltanto nel fatto che nel secondo caso l’amico ha anche lui fatto una passeggiata con me e questo non è vero soltanto per me. La posizione di un altro in quanto altro, cioè di un essere tale che non è in sé perché è per me, l’essere per me del fatto che anch’io sono per lui, questo atto di riconoscimento si può certamente presentare dal punto di vista della sua funzionalità come utile alla sopravvivenza. Ma questo modo di presentare la questione non riesce a cogliere ciò che s’intende in quest’atto. Quello che si intende non può essere tradotto senza perdite in un linguaggio evoluzionistico.
30Per quanto riguarda la nozione di assoluto non c’è bisogno di mostrare ulteriormente come sia impossibile ricostruirla a partire dalla sua genesi. Una volta presupposto che possediamo tale nozione, possiamo forse addirittura mostrare (e in effetti si è cercato di farlo) in che modo anch’essa abbia una funzione positiva in rapporto alla conservazione della specie Homo sapiens. Ma che tale nozione non sia definibile attraverso tale funzionalità è una verità per così dire tautologica: la nozione di assoluto contiene per l’appunto la negazione di ogni relatività e indica una forma di senso che viene prima di ogni possibile fine, qual è per esempio la conservazione della vita umana. Le riflessioni precedenti servivano soltanto a preparare la tesi che intendo adesso esporre.
Evoluzione e concezione di sé
31La questione da cui siamo partiti è se la teoria dell’evoluzione abbia qualche rilevanza per la concezione che l’uomo si fa di sé. Possiamo adesso precisare la questione nei seguenti termini: la teoria dell’evoluzione consente la ricostruzione della negatività? E se non la consente, obbliga a una reinterpretazione riduzionistica dell’esperienza della negatività che è incompatibile con l’interpretazione che essa dà di sé? Alla prima domanda abbiamo già dato una risposta negativa. Ma dovremmo osservare che questa risposta negativa è abbastanza ovvia. Certamente la teoria dell’evoluzione cerca oggi di ricostruire la genesi delle cellule viventi, ma di tale tentativo non è il caso che ci occupiamo in questo momento. Essa non cerca però di spiegare la genesi di nuove proprietà, ma soltanto la loro conservazione. Per questo non ha bisogno di interpretare fenomeni di un tipo radicalmente nuovo, le mutazioni o “folgorazioni”, come semplici modifiche di strutture preesistenti, ma semplicemente di prendere atto del fatto che ci sono. (La questione in quale misura vi siano effettivamente mutazioni transpecifiche resta fino a oggi controversa anche fra gli stessi biologi.) In questo senso la teoria dell’evoluzione è in qualche modo neutrale dal punto di vista ontologico, in quanto essa non dice nulla a proposito delle mutazioni su cui poggia l’evoluzione. E quando la teoria dell’evoluzione dice che questa non ha alcuna direzione non fa altro che applicare il rasoio di Ockham. Il senso di quest’affermazione è che la selezione basta per spiegare a posteriori la direzione dell’evoluzione.
32Si sente spesso ripetere che la tesi secondo cui le mutazioni non hanno una direzione definita comporterebbe una qualche offesa alla coscienza che l’uomo ha di sé. Questo non è affatto vero. Fa parte di quest’autocoscienza il fatto che l’uomo consideri l’uomo come fine ultimo, nel senso precisamente che l’uomo è in sé fine ultimo, cioè rivendica un diritto a essere considerato come fine in sé da tutti gli esseri capaci di perseguire fini. Non discuto qui questa forma di autocoscienza né il fondamento del diritto così rivendicato. Quello che voglio dire è che il carattere dell’uomo come fine in sé è del tutto indipendente dal fatto che egli si consideri o no fine della natura, cioè come risultato di un processo evolutivo indirizzato in forza di un qualche principio metafisico alla produzione dell’essere che egli è. Se anche le cose stessero così, questo non rappresenterebbe comunque un fondamento adeguato per l’idea di dignità umana, ovvero per il carattere dell’uomo come fine in sé. Infatti in virtù della sua capacità riflessiva l’uomo ha la peculiarità di poter prendere le distanze dai fini naturali e porsi in un atteggiamento di affermazione o di negazione nei confronti di essi. Le radici dell’idea di dignità umana sono in questo acosmismo.
33L’idea metafisica secondo cui l’uomo, ogni singolo uomo, è una creatura di Dio espressamente voluta come tale, non dice nulla sul modo in cui questa volontà divina realizza il proprio fine. L’atteggiamento religioso verso il mondo ha da sempre venerato proprio nella causalità la mano di Dio. Il senso di un testo scritto a macchina non dipende dal fatto che la macchina da scrivere sia programmata per scrivere precisamente quel testo. Dal punto di vista di chi ha deciso di considerare il testo soltanto in relazione alla macchina da scrivere, prescindendo da ogni aspetto soprannaturale, cioè, nel caso specifico, da tutti gli aspetti che vadano al di là di quelli relativi alla macchina da scrivere, il testo è e rimane completamente casuale.
34La teoria meno plausibile è quella sorta di pseudoteleologia che è stata proposta per esempio recentemente da Carsten Bresch rifacendosi a Teilhard de Chardin. Bresch propone di considerare il processo di formazione di strutture sempre più complesse e sempre più comprensive come qualcosa che è in sé degno di ammirazione, anche là dove il processo porta oltre l’uomo e inserisce l’uomo soltanto come elemento in un’unità più ampia. L’errore di questa concezione sta in un’inferenza inammissibile. In un primo momento viene attribuito un valore positivo al processo che ha condotto alla nascita dell’uomo. La ragione di questa valutazione positiva a posteriori sta nel fatto che il risultato di questo processo è la soggettività. Però, poiché d’altra parte questo processo appare privo di qualsiasi significato rispetto a questo suo risultato casuale, ci si domanda quale sia la legge in base alla quale si è potuti arrivare a questo risultato e questa legge viene giudicata come una crescita e un progresso. In che cosa consiste questa legge? Consiste nella tendenza a costruire strutture sempre più complesse. E così viene attribuito di conseguenza anche a questa tendenza un valore positivo, ma non perché produce la soggettività, ma perché produce complessità, come se questa fosse qualcosa di positivo per qualche altra ragione a parte il fatto di essere una condizione perché ci sia la soggettività. Anzi, paradossalmente questa tendenza viene ora presentata come qualcosa da guardare con ammirazione persino quando porta a strutture più ampie, prive esse stesse di coscienza, che contengono le persone ormai soltanto come elementi, sebbene in effetti un processo di questo tipo che va al di là dell’uomo e lo assoggetta debba invece essere valutato negativamente oppure si sottragga a ogni valutazione. Tutte le generalizzazioni dell’idea di un’evoluzione di valore positivo che vada oltre l’uomo contengono questo paradosso. Infatti noi non sappiamo se con l’uomo non scompaiano anche i criteri di valore in base ai quali questo superamento dell’uomo viene valutato positivamente. Queste teorie del progresso che vorrebbero superare l’uomo ricordano gli ebrei berlinesi della storiella raccontata da Adorno che nel 1933 si presentarono in strada con il cartello: bisogna farla finita con noi!
35Dal punto di vista della concezione che l’uomo si fa di sé il paradigma scientifico dell’evoluzione è neutrale fintanto che non si lega a una determinata interpretazione filosofica che, seguendo Hans-Eduard Hengstenberg, desidero chiamare evoluzionismo6. Quello che è in discussione nei dibattiti odierni è in realtà proprio quest’interpretazione. Non sarebbe altrimenti comprensibile per quale ragione da qualche tempo si voglia propagandare la teoria dell’evoluzione con tanta enfasi invece di continuare a provarne l’efficacia come programma di ricerca. Dietro gli sforzi per la diffusione dell’evoluzionismo dev’esserci una motivazione di carattere ideologico.
36Si potrebbe riassumere l’intera problematica in un solo punto, ovvero l’uso della parola evoluzione al posto della più vecchia parola “discendenza”7. La parola evoluzione è una metafora che quasi inevitabilmente suggerisce un’interpretazione erronea. Il termine è tratto dai cambiamenti che si verificano in un organismo dal momento del suo inizio fino al conseguimento della maturità. Questo termine viene usato in senso traslato per indicare la genesi degli organismi. Quest’applicazione metaforica a una sequenza di organismi viventi suggerisce innanzi tutto un’interpretazione lamarckiana di questa sequenza. Soprattutto però essa suggerisce l’idea che la storia della natura consista in una serie di cambiamenti di stato che avvengono in un sostrato che rimane identico. Suggerisce l’idea che esista un “qualcosa” che “si sviluppa”.
37Questo però è incompatibile con la nostra esperienza dell’identità. Nessuno di noi userebbe un’espressione del tipo: “Mio padre si è sviluppato fino a diventare me”. Questa maniera di esprimersi sarebbe eventualmente ancora accettabile nel caso di organismi monocellulari che si riproducono per scissione. In realtà il rapporto che c’è tra mio padre e me è quello che c’è tra due individui indipendenti. E questo è anzi qualcosa di fondamentale importanza perché l’uomo possa diventare uomo. Si diventa uomo soltanto grazie alla comunicazione con una persona con cui si entra in un rapporto di reciproco scambio. Stati di un sostrato omogeneo si susseguono l’uno dopo l’altro, non agiscono l’uno sull’altro. Il loro succedersi viene piuttosto modificato dall’azione di agenti esterni. L’evoluzionismo concepisce però le cose, le unità sostanziali sempre soltanto come stati di qualcos’altro. Di che cosa? Di un sostrato sottostante. La questione decisiva mi pare che stia qui. Si può affrontare la questione anche dal punto di vista dell’analisi linguistica, chiedendosi se alla differenza tra termini sortali e altri predicati corrisponda qualcosa di extralinguistico. La traduzione della proposizione “Un leone ruggisce” nella proposizione “Esiste un x tale che x è un leone e x ruggisce” non fa emergere la differenza tra i due predicati che vengono qui attribuiti a un x. Aristotele ha espresso questa differenza nei seguenti termini: se il leone smette di ruggire, fa qualcos’altro invece di quello; se smette di essere leone, non è qualcos’altro invece di quello, ma non è più, ha cessato di esistere; esiste qualcos’altro invece di quello. Mentre nel primo caso si tratta di un cambiamento ἀλλοίωσις (alloíosis) che riguarda l’essere in un certo modo o l’essere in un modo diverso, nel secondo caso si tratta di generazione γένεσις (génesis) e corruzione φθορά (phthorá), nel qual caso si tratta di essere e non essere. La logica dei due processi, la logica di essere in un certo modo e essere in un modo diverso e la logica di essere e non-essere non è la stessa.
38Si fa oggi il tentativo di sussumere generazione e corruzione sotto il concetto di cambiamento. Non si genera più niente se l’esistenza non viene più intesa in senso temporale, ma il tempo viene assegnato come indice al predicato cui viene attribuita l’esistenza. Quando invece Aristotele disse vivere viventibus est esse8 espresse la stessa esperienza che Matthias Claudius espresse con la sua gioia per il fatto «che io sono (sono!)»9, un’esperienza che invece Bertrand Russell a causa della sua diversa logica ebbe difficoltà a esprimere. Quando uno dei suoi molti corrispondenti gli chiese se non avesse paura della morte, egli rispose: «Perché dovrebbe preoccuparmi il fatto che io cessi di vivere? È ben vero che per tutto il tempo prima della mia nascita io non sono vissuto senza che questo mi desse alcuna preoccupazione». Naturalmente si tratta di un modo elegante per non affrontare seriamente la questione, ma questo atteggiamento in Russell riveste la forma di una logica che ignora la direzione temporale dell’esistenza, perché ignora che per l’uomo vivere significa lo stesso che esistere. Secondo la logica di Russell, Russell esiste sempre. Esiste come qualcosa che vive in un determinato ambito temporale.
39Per l’evoluzionismo non vi è cessazione dell’essere di qualcosa, ma soltanto cambiamento. Allora è chiaro che noi siamo scimmie trasformate e naturalmente questo crea delle difficoltà all’immagine che noi abbiamo di noi stessi. D’altra parte le scimmie sono i precursori delle scimmie che si sono trasformati e così via: non arriviamo mai all’ente. Quello che esiste è soltanto il processo del divenire. Esiste soltanto il continuum di questo processo, non esistono unità discrete che siano identiche a sé e differenti dagli altri. Le espressioni sortali non possono allora essere prese troppo alla lettera. Esse indicano soltanto un certo modo di percepire la realtà. E se consideriamo la cosa puramente nella prospettiva dell’analisi linguistica, la si può anche vedere così. In sé, infatti, un lampione non è naturalmente una cosa identica a sé stessa in misura maggiore di un qualsiasi aggregato casuale di oggetti. Aristotele riteneva che vi siano oggetti a cui ci possiamo riferire soltanto usando espressioni sortali. L’esempio paradigmatico di realtà di questo genere siamo noi stessi. Noi non possiamo concepire noi stessi come proprietà di qualcos’altro. È vero però anche che abbiamo buone ragioni per considerare altri organismi come simili a noi da questo punto di vista. Le espressioni sortali hanno poi la particolarità di rendere distinguibili gli oggetti che cadono sotto di loro. La parola “rosso” non ci dà un criterio per distinguere un pezzo di rosso da un altro. Chi invece affermasse di aver compreso la parola “mela” ma di non sapere dove finisce una mela e dove ne inizia un’altra, dimostrerebbe che in effetti non ha compreso quella parola.
40È chiaro che non si può costringere nessuno a optare per una visione del mondo che ammette l’esistenza di sostanze invece che per una visione del mondo che non l’ammette. Certamente la prima è la visione naturale del mondo, ma vi è addirittura una grande religione, il buddhismo, che la respinge considerandola un’illusione. Quello che ci ha portato ad affermare l’esistenza di sostanze individuali è stata l’esperienza della negatività nella sua triplice forma, come dolore, come esperienza dell’altro e come idea dell’assoluto. Tutte queste tre forme di esperienza o di pensiero vengono considerate illusorie dal buddhismo. Il buddhismo, come è noto, non ha una nozione di Dio. Il buddhismo rigetta altresì l’idea dell’altro in quanto altro. L’illusione dell’alterità, l’illusione dell’identità che si distingue da ciò che non è identico deve essere superata attraverso la compassione. E la spinta decisiva in questo senso viene dal dolore, dalla sofferenza. Questa può essere superata soltanto se quello che è il presupposto della sofferenza, ovvero il soggetto della sofferenza, capisce di essere lui stesso un’illusione e si supera. Non posso e non voglio qui entrare in un’analisi del buddhismo. Esso sarebbe conciliabile con la visione evoluzionistica più di qualsiasi altra concezione del mondo, ma sarebbe anche superiore a quella. Infatti l’evoluzionismo non riconosce la contraddittorietà che sta nel fatto di ipotizzare una serie di stati che in un’ultima analisi non sono stati di nulla. Questo per lo meno è il modo di vedere la cosa del buddhismo. Dal punto di vista buddhista l’evoluzionismo sarebbe soltanto una tappa intermedia sulla via che porta dal sostanzialismo alla comprensione della nullità di tutto il mondo oggettuale. Se noi vogliamo continuare a concepirci come soggetti e vogliamo continuare a associare un qualche senso alla nozione di dignità umana, allora il compito di un’ontologia adeguata dovrà essere formulato, parafrasando una nota espressione di Hegel, nei seguenti termini: “Quello che importa è concepire i soggetti come sostanze”. Lo possiamo anche dire in modo più semplice, in inglese, con Michael Dummett: «Man is a self-subsistent thing».
Approfondimenti
Evoluzione, mutamento, negatività
41La tesi di fondo nelle mie riflessioni sulla teoria dell’evoluzione è che il problema filosofico non sia quello della selezione ma quello della mutazione. Non uso volentieri il termine evoluzione, preferisco quello di discendenza. Se si concepisce la discendenza come evoluzione il motore di tutto diviene la selezione. Tuttavia ci sono molte mutazioni che sono tutte in qualche modo inutili. Ve ne sono pure alcune che in maniera contingente risultano vantaggiose per la sopravvivenza e che appunto sopravvivono. E dalla sopravvivenza di ciò che è adatto a sopravvivere si deduce il processo dell’evoluzione. Mi chiedo se sia possibile pensare che grazie al processo di mutazione, una mutazione priva di direzione di una struttura esistente, sorga improvvisamente qualcosa come la negatività. Si potrà notare che uso la parola negatività all’incirca come la usa Hegel. Anche per Hegel la negatività è il termine preciso per caratterizzare lo spirito, lo spirito che può guadagnare una distanza da ciò che è meramente fattuale. La mia tesi è che dove compare la negatività ciò non può essere assolutamente spiegato ricorrendo a una mutazione priva di direzione. Essa emerge improvvisamente.
42Sorge qualcosa e non abbiamo una causa che lo spieghi? Si tratta di un problema di sempre della storia della scienza, come hanno mostrato Kuhn e Lakatos. Generalmente le teorie non vengono superate dal fatto che vengono mostrati errori contenuti in esse o perché vengono offerti controesempi che depongono a sfavore di tali teorie. A ciò è sempre possibile ribattere, si possono cioè fare ipotesi aggiuntive che rendono di nuovo plausibile la teoria. Tali ipotesi sono naturalmente artificiali, sono ipotesi ad hoc. Esse vengono formulate volta per volta, ed è anche sensato farlo, come ha mostrato Quine, poiché noi possediamo una serie di convinzioni di fondo, idee scientifiche fondamentali che non lasciamo volentieri che vengano messe tutte in crisi. Un singolo controesempio non ci basta. Nella storia è generalmente successo che le teorie non siano state superate per via di confutazione, ma in virtù dell’emergere di una nuova teoria che possiede una capacità esplicativa maggiore. Ciò è accaduto, per esempio, nel caso della teoria della relatività in rapporto a quella di Newton. La teoria della relatività spiega ciò che anche Newton spiega, ma essa spiega anche altro. E allora si sostituisce la vecchia teoria con la nuova, che la rimpiazza. Vi sono però casi nei quali si mostra in modo piuttosto conclusivo che una teoria non può essere corretta, anche se non se ne possiede una migliore. Allora, di norma, si mantiene la vecchia teoria e il problema si risolve per via biologica, con la morte di coloro che sostenevano la vecchia teoria. Non si tratta di una soluzione teorica del problema, ma biologica.
43Ma a questo punto la questione che pongo è che non è concepibile come sia possibile che da un mondo di pura fatticità emerga improvvisamente un meno, un non-essere, un non-dover-essere o un essere-altro o il dolore. Non è concepibile, non è possibile compiere un passo di pensiero verso la negatività. Per mantenere la teoria dell’evoluzione – ossia una teoria secondo la quale nella storia si seleziona ciò che serve alla sopravvivenza – bisognerebbe allora ammettere che anche l’emergere della negatività abbia valore per la sopravvivenza. Ciò implicherebbe che la teoria della selezione possa spiegare quale funzione per la conservazione degli esseri viventi possieda il dolore, quale funzione abbia l’alterità e persino quale funzione abbia il pensiero dell’incondizionato. Ma la selezione di questi fenomeni non spiega la loro comparsa. Come si giunge a essi? A mio parere, ci imbattiamo in questo caso in una lacuna così grande, che si deve dire che la teoria dell’evoluzione, che sia corretta o meno, ha una capacità di spiegare ciò che c’è uguale a zero. Se si chiede che cosa eravamo quando non eravamo ancora ciò che siamo la risposta è: non c’eravamo ancora.
Trascendenza e negatività
44La trascendenza è una forma di negatività. La trascendenza non rimane al semplice e fattuale esser-così-e-non-altrimenti. È assolutamente impossibile definirla senza utilizzare un qualsiasi vocabolo che contenga un “non”. Affermare un dato che sta al di là di ciò che è dato significa non rimanere al puro dato, quindi la trascendenza non può essere concepita come il semplice accadere fattuale di qualcosa. La trascendenza non accade in un modo qualsiasi. Vi è un’interpretazione, anzi una reinterpretazione immanentistica di essa, secondo la quale anch’essa è un’illusione. L’autointerpretazione della trascendenza e la sua interpretazione naturalistica sono opposte l’una all’altra. Per decidere a quale delle due interpretazioni aderire bisogna innanzitutto chiedersi come la trascendenza intende se stessa. Se è possibile ricostruire la trascendenza allora si deve dire che il naturalismo ha vinto. Ma ciò, a mio parere, per i motivi che ho già indicato, non è possibile.
45Trascendenza è una parola che ha vari significati. Possiamo intenderla nel senso che un essere compie un passo emozionale o cosciente al di là di se stesso. Ciò significa che nell’esercizio della vita di un essere ciò che egli non è o non è ancora diviene per lui un motivo o un contenuto. Si può allora dire che egli non ha solo i suoi stati interni, ma anche sa della limitatezza della propria prospettiva e per questo la oltrepassa anche magari solo tentativamente. In questo caso la chiamerei certo una “trascendenza immanente”, riferendo però tale espressione solo all’intenzionalità. Nel mio libro Persone ho dedicato un capitolo all’intenzionalità e uno alla trascendenza. Se si concepisce il termine trascendenza in senso più ampio è possibile chiamare trascendenza ogni forma di intenzionalità. E questo proprio perché in ogni pensiero che pensiamo viene pensato qualcosa che non sorge con l’essere pensato, ma che è il contenuto di ciò che è pensato. Prendiamo per esempio una formula matematica o il teorema di Pitagora che descrive il rapporto tra i quadrati dei lati di un triangolo rettangolo. Ciò che esso descrive non è solo uno stato interno del cervello. Se analizzassi il cervello e tutti i milioni di cellule che in esso lavorano non potrei riuscire a fissarle tutte. Se qualcuno pensasse al teorema di Pitagora, non troverei una specifica condizione del cervello che corrisponde a quel teorema. Altrimenti a ogni pensiero dovremmo poter assegnare un determinato stato cerebrale. Ma ciò è del tutto impossibile. E lo è per motivi interni: per quanti stati cerebrali noi possiamo eventualmente ricostruire, non abbiamo infatti ancora mai ricostruito il contenuto di ciò che è pensato. Io credo che ci sia un testo nel quale si trova già risolto l’intero problema che ci presentano oggi i neurobiologi. È il saggio di Husserl sullo psicologismo in logica contenuto nel primo volume delle Ricerche Logiche10. Allora non erano i neurobiologi ad avanzare pretese ma gli psicologi, e vi era una forte tendenza a concepire la logica a partire dalla psicologia. Si pensava cioè che vi fosse una particolare configurazione dello spirito umano in virtù della quale esso deve pensare in un certo modo. Husserl ha mostrato che è un’idea sbagliata. Si tratta, a mio avviso, di uno dei pochi testi della storia della filosofia che fornisce una risposta chiudendo in modo realmente definitivo una questione. Mi è difficile pensare che qualcuno riesca a mostrare che Husserl ha avuto torto. L’intenzionalità quindi prende in considerazione qualcosa che non è essa stessa. Io non sono il teorema di Pitagora, esso non è neppure uno stato del mio cervello. Il teorema di Pitagora esprime cioè una verità che esiste indipendentemente da me. Per questo è possibile chiamare ‘trascendenza’ l’intenzionalità. Ma da un altro punto di vista essa è propriamente una non-trascendenza perché io resto nello spazio del mio pensiero anche se gli oggetti intenzionali non sono spiegabili come miei stati. Eppure è così: che io non possa afferrare nulla che sia al di là del mio spirito lo si può vedere nel fatto che gli oggetti intenzionali possono venire determinati solo in relazione a un pensiero. Max Scheler, trattando dell’oggettività dei valori, ha affermato che i valori sono indipendenti dall’arbitrio degli uomini. Poi però un suo allievo e concorrente, Nicolai Hartmann, ha sviluppato una teoria nella quale i valori formano una sfera a sé stante. Nella prefazione alla terza edizione del Formalismus Scheler afferma che egli respinge tale teoria come estranea per principio all’ambito stesso della filosofia. E ciò perché io posso determinare che cosa è un valore solo in relazione a un essere che prova sentimenti e che pensa. Questo vale anche per i numeri: se voglio sapere che cosa è un numero, non posso definirlo se non in riferimento a un’intelligenza che pensa i numeri. Questo tuttavia non significa che i numeri siano relativi, ma piuttosto che si tratta di qualcosa di relazionale. Non che uno ha questi numeri e un altro ne ha altri, ma che vi è una relazione attraverso la quale i numeri possono venire conosciuti come oggetti intenzionali di un pensiero matematico e tale relazione può sempre essere solo come è. E così è anche per i valori. I valori dell’amore, della sincerità o del coraggio non sono relativi. Sono grandezze univoche ma relazionali, il che significa che istituiscono relazioni stabili con le persone o anche con gli esseri viventi, relazioni che sono così e non possono essere altrimenti. Il valore dell’utilità è relazionale a un essere per il quale qualcosa è utile. Se non vi è nessun essere vivente allora non vi è neppure nulla di utile.
46Ho detto che gli oggetti intenzionali si possono indicare come qualcosa rispetto al quale si dà una trascendenza, tuttavia ciò che viene comunemente inteso quando si parla di trascendenza è qualcosa di diverso. È il riferimento a qualcosa che è al di là di me stesso e che non è definito in relazione a me, come lo sono invece i numeri o i valori. In questo senso si può parlare di trascendenza immanente riferendosi a oggetti intenzionali, di vera trascendenza in riferimento a oggetti reali e di trascendenza assoluta se la trascendenza si riferisce a un incondizionato che è assolutamente al di là del mondo empirico. E non solo al di là del mondo empirico, ma anche del mondo delle persone intelligenti, qualcosa, cioè, che sta in se stesso come incondizionato. Questo è ciò che si chiama trascendenza in senso stretto. Karl Jaspers, per esempio, parla di trascendenza sempre solo in riferimento al divino, ma noi abbiamo propriamente che fare con una triplice trascendenza: la trascendenza degli oggetti intenzionali, la trascendenza dell’altra realtà intramondana e la trascendenza del divino. Nessuna di esse è definibile in termini evoluzionistici. Forse, mediante la teoria dell’evoluzione, è possibile scoprire una teoria intelligente su come tutto questo si sia conservato. Ma si tratta di una questione tautologica. Qualcosa è sopravvissuto e i teorici dell’evoluzione si immaginano come e perché sia potuto succedere. E allora si trova sempre qualche motivo perché ciò sia potuto succedere. Io posso spiegare qualsiasi sopravvivenza con l’attitudine alla sopravvivenza di ciò che è sopravvissuto, ma ciò non ha alcun valore esplicativo. Certo, si può affermare che le giraffe hanno un collo così lungo perché hanno vissuto in qualche luogo della savana dove le foglie sono attaccate alle piante talmente in alto che c’è bisogno di un collo così lungo. Forse è così e forse no. Ma il valore esplicativo della cosa è scarso.
L’origine delle specie
47Sul concetto di specie vi è attualmente dibattito, anche in biologia, e vi è una tendenza a eliminare tale concetto. Se si procede in modo puramente nominalistico allora si può dire che ogni individuo è ciò che è, e che se ne offro una descrizione completa, allora l’ho definito e non devo ricorrere al concetto di specie. In tal modo, però, si trascura il fatto che noi possiamo identificare le cose individuali esclusivamente basandoci su un concetto di classe. Inizio prendendo in considerazione innanzitutto le classi: non è la stessa cosa di specie. Dobbiamo avere dei concetti di classe, dobbiamo poter dire “questa bottiglia”. Io non dico solo “questa qui” perché se dico “questa qui” non so affatto dove “questa qui” inizi e dove finisca, se intendo questo punto qui oppure il tavolo intero o altro. Cosa intendo? Io intendo questa bottiglia. E allora è chiaro che cosa voglio. Se quindi non dispongo di un concetto di classe, se non ho espressioni sortali, non posso raccapezzarmi nel mondo, perché il linguaggio possiede la peculiare capacità di poter raccogliere molteplici individui sotto concetti universali. I nominalisti dicevano: “Sì, ma sono classi che facciamo noi”. Anche a noi sembra così. Prendiamo per esempio la parola cane. Poniamo che io mi trovi di fronte a un grosso San Bernardo e poi a dei piccoli cagnetti, chiamati anch’essi cani. Si può dire che sono talmente dissimili, che questi ultimi sono più simili a un gatto o a un ratto di quanto non lo siano a un cane da pastore. Nonostante ciò, tuttavia, li si chiamano cani. Perché? Ernst Mayr, il grande biologo, ha affermato che in biologia dobbiamo sostituire il concetto di classe con quello di popolazione. Ciò significa classificare l’individuo non più in virtù di qualche somiglianza con una classe ma in virtù di relazioni di parentela, in base a una parentela più stretta o più lontana. Questo è caratteristico anche del concetto di specie, esso indica quegli esseri che sono capaci di riprodursi tra loro. Se è così allora li chiamiamo una specie. La specie non è una classe ma una popolazione. E questo si addice anche alle relazioni di parentela; negli uomini le relazioni umane e personali sono infatti, allo stesso tempo, anche relazioni biologiche. Torniamo allora alle specie: non possiamo rinunciarvi, ma neppure possiamo definirle nominalisticamente in base alla somiglianza. Dobbiamo definirle come appartenenza a una popolazione di esseri che hanno tra loro una relazione di parentela. La domanda è allora: “Come si spiega la comparsa delle specie?”. Darwin è stato il primo a sostenere che le diverse specie derivano le une dalle altre. La questione è controversa ancora oggi. La maggior parte dei teorici dell’evoluzione vogliono derivare le specie da un grande e comune albero genealogico e ce ne sono altri, come per esempio il biologo Illies, che affermano che l’evoluzione – intesa come una mutazione e selezione priva di direzione – si dà solo all’interno dei grandi generi. Qui vi sarebbe un’evoluzione sulla base di leggi evoluzionistiche note, ma salti da una specie all’altra non sarebbero spiegabili in termini di evoluzione. Possiamo utilizzare i due concetti distinti di generazione e di mutamento. All’interno di una specie ci sono mutamenti. Dunque non sorge qualcosa di nuovo. Il sorgere di qualcosa di nuovo, per Illies, non si lascia spiegare evoluzionisticamente. In alcuni musei è ancora possibile vedere piccole immagini che pretendono di mostrare come muta un pesce, come una scimmia lentamente muta fino a diventare un uomo. Passi così piccoli che, alla fine, conducono tutti a una nuova specie. I bambini possono anche giocare con queste immagini, ma si tratta di un gioco privo di valore esplicativo.
48L’interesse a concepire il processo come un processo di mutamenti senza prendere in considerazione qualcosa come un mutamento sostanziale, è a mio avviso sempre lo stesso: trovare teorie per mezzo delle quali posso intervenire nel processo. Ciò che noi infatti possiamo fare è causare mutamenti nel mondo. Posso strappare un foglio di carta o posso piegarlo e così ho prodotto un mutamento. Questo possiamo farlo, ma non possiamo creare alcuna sostanza. È quello che dice Kant riferendosi al Newton del filo d’erba. Ciò però non dà soddisfazione. La teoria che afferma il sorgere di qualcosa di nuovo non mi fa progredire, se il mio problema è quello di fare qualcosa. Invece la teoria del mutamento mi dà la possibilità di intervenire nel processo. Sta qui la ragione dell’enorme preferenza per le teorie materialistiche e anche per la teoria evoluzionistica. Si tratta infatti di teorie al servizio del mutamento e dell’intervento sulla realtà. Ritroviamo cioè ancora qui i due interessi della ragione.
Scienza e filosofia
49Se ci chiediamo quale sia propriamente la relazione tra scienza e filosofia, questa mi sembra risieda proprio nel fatto che le scienze, per loro essenza, si interrogano sui mutamenti e non pongono la questione sulla generazione e sulla corruzione. Credo che la filosofia si distingua dalla scienza per il fatto di porre domande che la scienza lascia da parte e che non si pone perché non è in grado di darvi risposta. E la domanda circa la generazione di qualcosa di nuovo è una domanda di questo tipo. La scienza ha l’interesse a sviluppare teorie che siano traducibili in operazioni, e per questo motivo essa s’interrogherà sempre attorno ai mutamenti, dal momento che si può descrivere ogni trasformazione sostanziale anche in termini di mutamento. Ipotizziamo di osservare come una lepre assimila la materia dall’erba immaginando di essere ciechi nei riguardi del fenomeno della vita. Potremmo analizzare e descrivere i processi fisici e chimici che avvengono. Lo scienziato vuole esattamente vedere come funziona tutto questo. Se a un certo momento nascesse un nuovo essere, allora egli lo vorrebbe descrivere come un processo di mero mutamento. Ed è possibile farlo. Se prendiamo in considerazione una lepre è possibile prescindere dal fatto che sia una lepre, si può anche prescindere completamente dal fatto che si tratta di una sostanza e dire: “Nell’imponente corso dei processi chimici e fisici vi sono strutture che si costituiscono e che chiamiamo lepri. Questa lepre è nata e muore ma ‘nascere’ e ‘morire’ sono espressioni che usiamo noi”. Un apparecchio che svolge solo rilevazioni fisiche non rileva nessuna lepre ma solo i molti processi e le loro interferenze. La filosofia è quella riflessione che conduce proprio a pensare così. Ciò significa che la filosofia è aperta allo sviluppo scientifico. Se uno scienziato mostra che una cosa funziona in un determinato modo, allora il filosofo ne prende atto. Egli però deve restare critico, perché nella scienza vi è pure molta fantasia. Se la scienza è guidata da determinati interessi, essa tende volentieri a condurre a risultati che soddisfano tali interessi. E quando dicevo che l’apparecchio che svolge solo rilevazioni fisiche vede solo processi fisici, allora bisogna dire che lo scienziato stesso non può concepirsi in questo modo. Questo è ciò che fa notare il filosofo. Oggi ci s’interroga spesso sulla questione dell’applicazione degli esiti dell’indagine scientifica all’attività stessa dello scienziato. Spesso ci si trova a osservare che egli non può comprendere se stesso in questo modo, non può comprendere se stesso come lo stato di qualcos’altro. Questo è ciò che il filosofo ricorda e ciò su cui riflette. Così chiede a uno scienziato se in tal caso sia ancora possibile sostenere la sua teoria. Ma torno ancora al tema della negatività. Penso infatti che si tratti di una considerazione convincente che solo la filosofia mette in gioco. Si può eludere tale questione e affermare che la negatività non può sorgere dal nulla. Essa però non cade dal cielo ma dev’essere qualcosa di autonomo. Resta in ogni caso indeducibile dai processi che conducono a essa. La sensibilità al dolore non può essere ricostruita dalla fisica né dalla biologia.
50Sono continuamente in dialogo con gli scienziati, oggi in particolare con i neuroscienziati, e spesso noto che risultano assolutamente indifferenti alle domande che la filosofia pone alla scienza. Domande che in verità sono le più importanti, ma che il ricercatore non ha gli strumenti per affrontare. Essi infatti affermano: “Sì, sì, forse c’è un problema con la negatività, ma che cosa me ne faccio? Io vedo che c’è qualcosa di nuovo che compare qui e là, ma ho deciso di vedere tutto ciò che accade come mero mutamento di ciò che sussiste”. Si pensi a Daniel Dennett, il famoso neuroscienziato e filosofo, il quale, nella prima parte del suo libro sulla coscienza, dichiara di sostenere una posizione monistica e materialistica e di rigettare in linea di principio ogni dualismo11. E per dualismo Dennett non intende solo il cartesianismo, ma anche Platone e Aristotele. Tutto per lui è dualismo e naturalmente questo è un concetto falso. Dichiara di non essere neppure disposto a discutere argomenti a favore del dualismo. Egli ritiene ovvia questa posizione. Bene. Se ne può solo prendere atto. Si tratta infatti di un dogmatismo assoluto. Egli può anche aver ragione quando afferma di voler considerare le cose solo sotto l’aspetto per cui la comparsa di qualcosa di nuovo è in realtà sempre solo il mutamento di qualcosa di vecchio – si possono vedere le cose sempre sotto questo punto di vista – solo che egli non è più competente per intrattenere un dialogo con un filosofo. Il filosofo, invece, tende a non fare alcuna presupposizione, ma a procedere da ciò che tutti percepiamo immediatamente, dalle nostre intuizioni e poi gradualmente far luce chiarendo concettualmente tali intuizioni. Nel far ciò il filosofo non fa presupposizioni alle quali egli pretende che si debba credere.
51La peculiarità della filosofia consiste proprio nel fatto che essa chiarisce realmente i suoi stessi presupposti. Continua a far riferimento a se stessa e quindi il filosofo continuamente s’interroga: “Posso comprendere me stesso in questo modo?”. Il neurobiologo non può farlo. Naturalmente vi sono neurobiologi che sono persone ragionevoli, ma oggi sono molti i neuroscienziati che diremmo essere completamente usciti di senno. Essi, infatti, sostengono una teoria e allo stesso tempo affermano che le teorie non sono altro che stati cerebrali. Una volta, a Tubinga, ho avuto una discussione con un collega più giovane, un biologo, che aveva presentato in una conferenza la propria posizione, una posizione naturalistica estrema. Nella discussione dissi: «Se il collega ha ragione in ciò che ha detto, allora egli ci ha fornito lo stato del suo cervello. Ma non siamo certo venuti qui per avere informazioni sul cervello di qualcuno, ma per imparare qualcosa sull’argomento in questione». Come posso sperare di imparare qualcosa riguardo a una certa questione, se colui che mi istruisce mi dice che la sua intera dottrina non è altro che un’esternazione dei suoi stati celebrali? Questa semplice obiezione, che ogni bambino può capire, alcuni non la vogliono neppure prendere in considerazione.
52Se abbiamo che fare solo con uno stato del nostro cervello allora non possiamo neanche affermare che una proposizione è falsa. Anch’essa infatti è uno stato cerebrale. I predicati vero e falso non hanno nessun senso e il nostro agire non risulta, secondo chi sostiene quelle tesi, determinato da motivi ma da cause. Agire in base a motivi è infatti un’illusione. Ho partecipato recentemente a una tavola rotonda con Richard Schröder, pensatore di cui ho molta stima. Riflettevamo proprio su questi temi. Se per ipotesi qualcuno sostenesse di fronte a me la tesi che siamo tutti apparecchiature pilotate, allora potrei tirargli un gran ceffone e dirgli: “Io funziono così. La mia macchina è programmata in questo modo. Stai attento se capiti nelle mie vicinanze”. La questione diviene quindi assurda, sembra una barzelletta. Ma con serietà gli ideologi di questa nuova ideologia mettono al bando quest’argomento e dicono: “Si possa o meno applicare la teoria a se stessi, questi sono i nostri risultati”. Ritengono cioè di potere dimostrare qualcosa con i risultati delle loro indagini, come avviene con l’esperimento di Libet. È molto facile affermare che l’esperimento di Libet non dimostra niente. Libet ha stabilito, misurando gli impulsi cerebrali, che, quando qualcuno prende coscientemente una decisione, per esempio di battere un colpo sul tavolo, qualcosa è già accaduto in precedenza nel suo cervello. Nel momento cioè in cui egli dice coscientemente: “Voglio fare questo” il dado è già tratto. Per questo Libet afferma che quell’uomo non è libero. La libertà infatti la si vede solo nell’istante nel quale egli esegue l’azione consapevolmente. Ma se il dado è già tratto, se qualcosa è già avvenuto prima, l’azione evidentemente non è libera. Si tratta di un argomento molto modesto, perché suppone che la libertà sia una cosa puntuale, attivata in un momento preciso. Quando al mattino mi alzo dal letto la decisione di alzarmi e l’azione reale di me che mi alzo sono nettamente distinte l’una dall’altra. Talvolta però accade il contrario. Dico: “Adesso devo proprio alzarmi” e, prima che abbia deciso di farlo, mi sono già alzato. Agire liberamente significa agire in base a motivi, e talvolta possono volerci ore perché un motivo arrivi a muoverci. Si può ridurre a tal punto la libertà a un istante da farla scomparire. Questo vale per tutti i fenomeni del mondo. Il mondo è un processo dinamico. L’intero mondo scompare come fenomeno se viene ridotto a un istante puntuale. Così è anche per la libertà. Un motivo agisce, magari lentamente, e poi viene presa in qualche modo la decisione. Può ben essere che nel cervello la decisione sia già stata presa e che essa venga ricompiuta nella coscienza. Ciò non dimostra assolutamente che non vi sia libertà. Che non vi sia libertà significherebbe che noi non agiamo in base a motivi, ma veniamo soltanto determinati da cause. Questo, naturalmente, non viene in alcun modo dimostrato.
53La questione della relazione tra filosofia e scienza quindi oggi si ripropone. In essa però domina una marcata asimmetria, dovuta al fatto che la disponibilità dei filosofi a prendere realmente in considerazione i risultati della scienza, a imparare realmente dagli scienziati, è decisamente sproporzionata rispetto alla disponibilità degli scienziati a imparare una qualsiasi cosa dalla filosofia. Questa è infatti spesso uguale a zero. Gli scienziati arrivano persino a pensare di non aver più bisogno di leggere nessun libro di argomento filosofico. Sono così inebriati dei risultati delle loro ricerche da credere che così tutte le questioni sono risolte. Naturalmente questo è un cattivo presupposto per il dialogo. La scienza può concedersi di rinunciare a questo dialogo, la filosofia no. Anche per questo la filosofia è più debole, perché è più dipendente di quanto lo sia la scienza. Ma un dialogo da uomo a uomo con uno scienziato, per esempio su una teoria scientifica, dovrebbe essere possibile. E nella nostra situazione culturale non è una buona cosa se l’espressione delle cose più semplici rappresenta, in questo mondo, un corpo estraneo. Se cioè si può propriamente continuare a dire solo cose superficiali perché le altre sono – come viene detto – non scientifiche. Se dico che il mio cane ha sete e vuol bere, questa non è un’affermazione scientifica, e se abbiamo realmente purificato il nostro linguaggio non parleremo più di sete e di cani. Nessuno però neppure terrà più un cane.
54È anche vero però che la modalità di lavoro propria dell’attività scientifica è certamente in linea di principio differente da quella della filosofia. La scienza può infatti lavorare in team, ogni scienziato può cioè lavorare adottando i risultati di altri scienziati. Deve solo chiedersi come li hanno ottenuti, se hanno ingannato, se hanno veramente effettuato esperimenti. Se non potessimo adottare i risultati della ricerca scientifica svolta da altri non vi sarebbe progresso. Nella filosofia accade diversamente. Nella filosofia non vi è propriamente alcuna divisione del lavoro. Non si può dire: “Sì, questo l’ha già sbrigato lui”. Quando dicevo che Husserl ha scritto un saggio sul quale si può fare affidamento, ciò è solo perché esso risulta convincente per me. Il criterio ultimo, cioè, è se convince me, se le sue ragioni convincono me. E di questo ognuno risponde personalmente. Un filosofo non può dire: “Si, si tratta di un errore, ma questo l’ha detto lui e ho pensato che fosse vero e quindi l’ho adottato”. In filosofia questo non vale. Sotto quest’aspetto la filosofia è anche un’impresa di tipo arcaico. L’intera forma moderna di divisione del lavoro e di lavoro in team non può funzionare. All’interno della ristretta cerchia di una scuola filosofica si possono certamente produrre lavori che prevedono uno scambio reciproco dei risultati, e questo perché i modi in cui tali risultati vengono ottenuti sono molto simili. Ma già confidare così nel metodo è problematico per i filosofi. Lo scienziato può invece dire: “Costui ha lavorato secondo questo o quest’altro metodo, quindi possiamo adottare i suoi risultati”. In medicina, per esempio, un omeopata lavora con metodi differenti rispetto a un sostenitore della medicina classica, il quale non adotterà i risultati presentati dagli omeopati in quanto – dirà – non riconosce il metodo con il quale sono stati ottenuti. Se, però, s’inizia a parlare di metodi, allora ha inizio la filosofia. Perché è la filosofia a riflettere sui metodi. Tommaso d’Aquino diceva che a differenza di tutte le altre scienze, la metafisica disputat contra negantem sua principia12. Essa, cioè, argomenta contro coloro che mettono in discussione le sue premesse, i suoi principi. Questo non lo fa nessun’altra scienza. Per esempio, egli dice, la fisica parla del movimento. Vi sono filosofi che affermano che il movimento non esiste, come i filosofi della scuola eleatica. Il fisico non può discutere con loro di questo tema, dice Tommaso. Il fisico infatti presuppone che vi sia il movimento e che tutti lo vediamo, e riflette su come lo si possa definire, pensare e così via. La filosofia invece deve continuamente giustificare i propri fondamenti e non può semplicemente adottare un metodo. Naturalmente ci si può chiedere come possano funzionare lavori filosofici comuni. La mia convinzione personale è che essi possono funzionare se, al posto del metodo, subentra la benevolenza, il principle of charity, come dicono gli anglosassoni. Nella filosofia, infatti non siamo noi a determinare le parole o il linguaggio, come invece accade nella scienza, dove si hanno definizioni esatte. Nella filosofia le definizioni stesse sono controverse; è controverso persino che cosa sia filosofia. Tutto è controverso. E, naturalmente, non si va da nessuna parte se nessuno è disposto ad ascoltare e a cercare di comprendere che cosa l’altro intende – anche in un libro – secondo un principle of charity. È il contrario di quanto Popper afferma riguardo agli scritti di Hegel, come di una collezione di affermazioni completamente senza senso. Ricordo che una volta il filosofo del diritto Norbert Horster mi disse: «Sa, per me una poesia di Hölderlin è una serie di parole senza senso». Dicendo così egli non seguiva il principle of charity. Quando leggo un libro penso per prima cosa che l’autore debba aver pensato qualcosa di ragionevole. Magari alla fine della lettura giungo alla conclusione contraria, ma se parto già da questa conclusione non mi metto a leggere il libro. Credo quindi che in filosofia benevolenza e amicizia siano la condizione per poter procedere. Ciò è del tutto opposto al metodo affidabile degli scienziati i quali ci garantiscono che l’altro può pensare quello che vuole, avere un’altra visione del mondo, avere un’altra religione, avere posizioni estremamente diverse, ma, se ha lavorato secondo il metodo, si può adottare il suo lavoro. Questo in filosofia non funziona.
Benevolenza e conoscenza personale
55Bisogna però tener presente un aspetto interessante: tanto più è grande la pretesa di universalità di qualcuno, tanto più condizionata è la sua prospettiva. Chi non solleva fin dall’inizio alcuna pretesa universale, ma s’inserisce in una posizione determinata nell’ambito di una ricerca scientifica metodicamente sicura, costui può pretendere che si prescinda dalla sua personalità e dire di aver lavorato correttamente. Nella misura in cui qualcuno lascia da parte la condizionatezza del suo lavoro e tenta di pervenire a una visione universale su ciò che, come dice Hegel, è in verità, costui, paradossalmente, porterà a espressione proprio la sua individualità. Penso che questo fatto sia stato correttamente visto dai filosofi dell’esistenza, anche da Karl Jaspers, che su questo punto ritengo abbia visto giusto. Se facciamo un test su un uomo, per esempio un pilota, per valutare le sue caratteristiche fisiche e caratteriali utilizzando diverse procedure psicologiche, possiamo alla fine dire di aver raccolto una serie di conoscenze affidabili, che tuttavia non sono andate in profondità. Abbiamo misurato la sua reazione alla velocità e altre cose, ma non possiamo dire di conoscere l’uomo su cui abbiamo svolto le nostre ricerche. Costui, infatti, potrebbe rispondere: “Non mi conoscete, mi avete fatto dieci test, ma non avete idea di chi io sia”. Per poter avere una conoscenza penetrante e profonda di una persona, una conoscenza che realmente possa pretendere di essere adeguata, devo mettere in gioco me stesso. Devo compromettere me stesso con questa persona. Qualcuno potrebbe però dire che il somministratore di test è proprio colui che deve tenere la propria personalità al di fuori di ciò che indaga. E così vi è anche oggi nella scuola la tendenza a che gli insegnanti usino metodi il più possibile oggettivabili nella valutazione degli studenti e dei loro risultati. A tale riguardo si può solo dire che quanto più si vuole oggettivare questi metodi, tanto più si diviene ingiusti. È infatti necessario mettere se stessi in gioco. Bisogna quindi anche assumersi il rischio di mancare completamente l’obiettivo. Se dunque in una relazione umana voglio conoscere veramente un uomo, devo, come dicevo, mettere in gioco la mia stessa persona; in questo modo il risultato ottiene una coloritura del tutto particolare. Ma non è possibile evitarla. Se voglio tralasciare questa coloritura personale non posso più vedere nulla. Si deve allora anche mettere in conto il rischio che le opinioni a cui si arriva siano completamente sbagliate. Se si vuole la sicurezza, la cosa non funziona. Bisogna assumersi il rischio di sbagliare e allora anche la possibilità di avvicinarsi realmente alla verità diventerà maggiore. Non vi è alcun legame univoco tra verità e sicurezza.
56La mia tesi è che le idee filosofiche, nella misura in cui penetrano profondamente nella verità, perdono in sicurezza. Intendo sicurezza nel senso di dimostrabilità, non nel senso di certezza personale, che può invece aumentare grazie alla filosofia. La dimostrabilità all’opposto si restringe e con colui che non presuppone ciò e che non s’interessa per come stanno le cose non vi è neppure il bisogno di parlare. Qui non si realizza nessun dialogo. A meno che non si tratti di persone che, diciamo, discutono di logica o di qualche problema tecnico. Discussioni queste che possono essere condotte senza interessarsi alla realtà.
Notes de bas de page
1 Cfr. Platone, Repubblica, III, 414b-c.
2 F. de La Rochefoucauld, Maximes, n. 84.
3 B. Pascal, Pensées, n. 206 (ed. Brunschvicg).
4 M. Claudius, Täglich zu singen, in Sämtliche Werke, München, Winker, 1976, p 149.
5 Cfr. Aristotele, Metaphysica, VII, 5, 1030b 16-19.
6 Cfr. H.-E. Hengstenberg, Evolution und Schöpfung: Eine Antwort auf den Evolutionismus Teilhard de Chardins, München, Pustet,1963, pp. 28 e 33-39.
7 II termine discendenza è stato usato raramente in italiano in questo senso, ma è in effetti una traduzione, forse un po’ troppo letterale, del termine descent usato dallo stesso Darwin nella celebre opera in cui espone per la prima volta la sua teoria (On the Origin of Species by Means of Natural Selection, 1859) e poi già nel titolo dell’opera successiva sull’origine dell’uomo (The Descent of Man, 1871) [N. d. T.]
8 Aristotele, De anima, II, 4, 415b 13.
9 M. Claudius, Täglich zu singen, cit.
10 Cfr. E. Husserl, Prolegomena zur reinen Logik, in Logische Untersuchungen, hrsg. Elmar Holenstein, in “Husserliana”, 18, The Hague, M. Nijhoff, 1975; trad. it. di G. Piana, Prolegomeni a una logica pura, in Ricerche Logiche, vol. I, Milano, il Saggiatore, pp. 21-263.
11 Cfr. D. Bennett, Consciousness Explained, New York - Boston - London, Little, Brown and Company, 1991.
12 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I, 1, 8.
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