4. Che cosa cende persone le persone?
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Texte intégral
Persona e individuo
1Due anni fa tenni una serie di lezioni su temi etici e di filosofia della cultura davanti all’Accademia Cinese delle Scienze Sociali a Pechino. Durante una discussione un collega cinese prese le distanze dall’individualismo europeo affermando che l’uomo è innanzitutto e soprattutto un membro della società. La società possiede quindi un primato sugli interessi e i diritti degli individui. Replicai al collega che condividevo la sua critica all’individualismo della società liberale. Quando John. F. Kennedy in campagna elettorale si rivolse ai suoi ascoltatori dicendo: «Non chiedetevi che cosa l’America fa per voi, chiedetevi che cosa voi potete fare per l’America», fu soprattutto la gioventù a rispondere a questo appello e a votarlo. È dubbio se ancora oggi un politico possa guadagnarsi il voto dei giovani con questo slogan. È però sicuro che una società che si trovi in una situazione di emergenza non può durare se consiste di tanti individualisti per i quali il concetto di sacrificio è divenuto una parola estranea. Non potevo però essere d’accordo con la conclusione che quel collega traeva: “Tu non sei niente, il popolo è tutto”. Durante la mia gioventù nella Germania nazista mi sono imbattuto in questo motto fino a non poterne più e già allora mi chiedevo come dovessi immaginarmi un popolo composto di tanti niente. Zero più zero resta sempre zero, come imparavo nelle lezioni di aritmetica. Chiesi ai colleghi come mai allora a Pechino avessi trovato monumenti e lapidi commemorative di uomini che avevano sacrificato la loro vita per la Cina o per il socialismo. Non si dovrebbe dire che hanno svolto il proprio compito, come ogni formica svolge il proprio, e la loro morte fa spazio a altri? Che essi non contano più? In realtà, dissi a quel collega, lei fortunatamente non la pensa così. Poiché questi uomini si sono sacrificati, sono essi stessi grandi. E andrei oltre e direi: essi sono più grandi di ciò per cui si sono sacrificati. Questa è un’idea tanto vera quanto ardua da pensare. E per pensarlo veramente è necessario proprio quel concetto che tanto il marxismo quanto il collettivismo nazionalistico conoscono poco, il concetto di persona.
2Persona non indica semplicemente l’individuo. L’individuo è una parte della collettività a cui appartiene e che gli rende possibile vivere. Subordinandosi liberamente come parte al tutto, l’individuo, però, è molto più di una parte. Egli stesso è il tutto. Diviene incommensurabile. Due individui sono più di un individuo. Valgono di più. Salvare la loro vita è più importante del salvare la vita di un solo uomo, qualora ci si trovi di fronte a questa alternativa. E nell’assegnare i pochi organi che sono disponibili per essere donati non ci resta altro da fare che una valutazione della vita del possibile ricevente. Così Maximilian Kolbe, il prete polacco, ritenne che la vita di un padre di famiglia condannato a morte per fame fosse più importante della propria stessa vita e così morì in cambio della vita di quell’uomo. Attraverso quest’azione, però, Maximilian Kolbe si sottrae proprio a quella valutazione che stava alla base della sua azione. Essa, piuttosto, chiarisce che cosa significa che le persone non hanno un valore ma una dignità.
3La dignità è tuttavia, a differenza del valore, ciò che non ha prezzo. E colui che detiene tale dignità lo chiamiamo persona. Gli concediamo uno status che ci costringe a essere pronti a giustificare al suo cospetto ogni azione le cui conseguenze lo riguardano. Anche azioni le cui conseguenze riguardano animali hanno bisogno di essere giustificate. Ma non di fronte agli animali, bensì di fronte a noi stessi. Questo perché gli animali non possono distinguere tra offese ai loro interessi che esigono una giustificazione e altre che invece non la esigono. Noi non possiamo attenderci che essi, considerando ciò che è giusto e ciò che non lo è, acconsentano a una qualche lesione ai loro desideri o alle loro esigenze. Gli uomini possono farlo. Questo li rende persone identificabili.
Storia del concetto di persona
4Che cosa rende persona una persona? Che cosa le conferisce lo status di fine in sé, status che proibisce che venga semplicemente sottomessa a fini che per principio non possono essere i suoi? La mia prima risposta, che solo in seguito motiverò, è: l’appartenenza a una specie i cui individui adulti normali sono dotati di quelle qualità in virtù delle quali noi parliamo di persone. Ma di che tipo di qualità si tratta? Per dare una risposta a questa domanda è pressoché indispensabile consultare la storia dei concetti1. Il concetto di ‘persona’ proprio del latino classico non indica infatti ciò che noi oggi intendiamo come persone. Esso indica il ruolo dell’attore e, in un ampliamento metaforico del suo ambito concettuale, il ruolo che qualcuno gioca nella società umana. Sui nostri programmi teatrali questo significato è ancora presente là dove si legge: “Personaggi e interpreti”. Oggi, al contrario, noi chiameremmo persone gli interpreti. E quando l’apostolo Paolo scrive che Dio non guarda alla persona2, si tratta ancora dell’antico uso della parola e vuol dire che Dio non guarda allo stato sociale di un uomo. A che cosa guarda allora? Proprio a ciò che oggi noi chiamiamo persona, all’“uomo stesso”.
5Il concetto di persona sviluppatosi dopo l’antichità e in età moderna ha la sua radice nella teologia cristiana. Qui esso servì, in due occasioni, a risolvere un problema teologico apparentemente insolubile: il problema trinitario e quello cristologico. Ne riferirò solo per sommi capi.
6Per quanto concerne il primo problema, le affermazioni del Nuovo Testamento posero i Padri conciliari dell’età paleocristiana di fronte al compito di pensare l’identità di Gesù con Dio. Per un lato essi non potevano identificare semplicemente Gesù con Dio, che egli stesso chiama Suo Padre, per l’altro essi tuttavia non potevano introdurre tre divinità, ma dovevano mantenere un saldo monoteismo. Il concetto di persona che la Chiesa occidentale, a partire da Tertulliano, utilizzò a tale scopo, non proveniva dal teatro ma dalla grammatica. I grammatici latini parlavano, come del resto facciamo ancora anche noi oggi, di prima, seconda e terza persona. Questo faceva del resto anche Tertulliano quando diceva che Dio possiede un’unica essenza, un’unica essentia e substantia. Ma che egli non è questa essenza, piuttosto la possiede. In un triplice modo. Non nel senso in cui parliamo di tre individui sussumibili sotto uno stesso concetto, di tre esemplari di una specie. Essa è piuttosto l’essenza divina singolare che Dio conosce come la propria e quindi in modo così adeguato che l’immagine del Padre rassomiglia in tutto al Padre, quindi anche nel fatto di essere vivente in se stessa. E lo stesso vale per l’amore del Padre verso il Figlio che ancora una volta contiene l’intera essenza di Dio ma adesso come dono. Anche in questa forma sussiste una terza volta l’unica essenza divina, questa volta come Ἅγιον Πνεῦμα (hágion pneûma), come Spirito Santo. Questi tre modi della sussistenza dell’unica essenza di Dio, che in Oriente furono chiamati ipostasi, in Occidente vennero chiamati persone, le tre persone divine, nessuna delle quali è immediatamente tale essenza, ma la ha in tre modi.
7Lo stesso concetto di persona servì poi nelle controversie cristologiche dei primi secoli cristiani per poter pensare Gesù allo stesso tempo come vero Dio e come vero uomo, dunque non come un essere misto, come un semidio. La formula sulla quale la cristianità ortodossa si trovò d’accordo fu: Gesù è una persona divina, la seconda, la quale accanto alla sua natura divina ha assunto anche una natura umana e in questa natura egli può qualcosa che, proprio in quanto Dio, non può: patire. Una persona, dunque, che possiede due nature. Anche qui il punto è, di nuovo, che la persona non s’identifica semplicemente con la propria natura, ma ha la propria natura e, in quanto da lei avuta, dà a essa sussistenza.
8Questo concetto di persona, sviluppatosi in un contesto teologico, dispiegò tutto il suo potenziale antropologico solo nel medioevo e in età moderna. Le persone sono esseri il cui modo d’essere è l’autorelazione. Esseri che non sono semplicemente ciò che sono ma che entrano in relazione con ciò che sono. Il loro essere è l’avere una natura, l’avere un corpo e persino l’avere un’interiorità. Gli uomini sono dei proprietari. Gli animali possono possedere qualcosa ma nel mondo borghese noi distinguiamo il possesso dalla proprietà. Una proprietà è qualcosa che mi appartiene anche se io non ne so nulla e essa compare solo sul registro catastale. La proprietà si differenzia dal possesso anche per il fatto che posso cederla, venderla o regalarla. Habeas corpus è un’antica formula per esprimere il rispetto che è dovuto alle persone.
L’identità della persona
9L’autorelazione che costituisce l’essere persona si chiarisce in ciò che Harry Frankfurt ha indicato come secondary volition, un desiderare e un volere di secondo grado nel quale noi entriamo ancora una volta in relazione con ciò che vogliamo in primo grado3. Possiamo desiderare di non avere determinati desideri che abbiamo. Il caso della dipendenza dalla droga può essere solo un esempio limite di ciò. E le secondary volition non si rapportano solo ai desideri e agli atti di volontà primari, ma all’intero nostro essere fatti in un un certo modo. Possiamo irritarci per il nostro aspetto esteriore e per certi tratti del nostro carattere. E se qualcuno rifacendosi a Leibniz ci rispondesse: “Se tu ne possedessi altri non saresti più tu”, questo non ci farebbe nessun effetto. L’identità della persona è un’identità numerica, non qualitativa. Per questo vi sono sogni, cui è stata data anche una forma letteraria, nei quali qualcuno si trasforma diventando, per esempio, un animale. Ma non nel senso che là dove c’era un uomo ora c’è un animale, ma piuttosto che l’animale sono io. Oppure ci sono sogni nei quali incontriamo qualcuno che conosciamo ma il cui aspetto è completamente alterato. Noi non vediamo ma sappiamo che egli è questo o quell’uomo. L’identità personale, dicevo, è un’identità numerica. Essa è, allo stesso tempo, quanto di più profondo e quanto di più ordinario. Certo noi parliamo di tali e tante “persone” che aspettiamo stasera per cena o parliamo di veicoli riservati al trasporto di persone distinguendoli da quelli per il trasporto di cose, e ci sembrerebbe eccessivamente pomposo e solenne se invece parlassimo di esseri umani. Le persone stanno nel registro anagrafico e lì rimangono – certo non identiche, ma sempre le stesse – a dispetto di tutte le trasformazioni di quella che oggi viene chiamata “identità personale”. L’identità personale non è nulla di psicologico. Al contrario di ciò che pensava Locke, non le devono essere attribuiti solo il bene e il male di cui essa si ricorda4. Le appartiene altrettanto anche ciò di cui altri si ricordano e che si riferisce a lei. L’essere-personale si dà esclusivamente al plurale, come comunità di persone nella quale i soggetti divengono oggettivi l’uno per l’altro. Un monoteismo non trinitario non può realmente pensare Dio come persona poiché non vi è una persona senza un’altra persona, così come non vi è un numero senza un altro numero. Per questo lo spinozismo è la logica conseguenza di un monoteismo non trinitario.
10Per chiarire quanto detto, dopo aver parlato delle secondary volition, vorrei menzionare tre tipi di atti che sono di specifica natura personale, e cioè la promessa, il pentimento e il perdono. È possibile promettere perché noi non siamo semplicemente la nostra natura, ma abbiamo questa natura e in una certa misura possiamo disporre di essa. Se ho annunciato a qualcuno la mia visita per dopodomani sera per aiutarlo a risolvere un problema di carattere tecnico, ciò non significa solo che sono intenzionato ad andare a trovarlo dopodomani sera. Ciò infatti potrebbe benissimo significare che io dopodomani non avrò più l’intenzione di farlo, perché preferirò fare altro. La peculiarità della persona è che essa può decidere già oggi ciò che vorrà dopodomani. Certo, potrebbe rivedere questa decisione già domani. Ma, promettendo all’altro di venire, accorda a costui il diritto di aspettarsi che venga, e così rende l’uomo indipendente dagli umori del momento. La persona che promette consegna il proposito della sua volontà alla comunità delle persone, liberandolo così dalla contingenza della soggettività. È l’espressione suprema della libertà personale. Per Nietzsche il poter promettere è il privilegio di uomini realmente liberi5. Ciò vale naturalmente, in massima misura, per una promessa che lega per l’intera durata della vita, come la promessa nuziale, nella quale ciascuno dei partner lega il proprio sviluppo, nella buona e nella cattiva sorte, a quello dell’altro, come fanno due jazzisti ciascuno dei quali può sviluppare la propria improvvisazione solo in un rapporto funzionale con quella dell’altro. Poter decidere oggi ciò che vorrò domani e, trascendendo questa stessa decisione, trasformarla in una pretesa da parte dell’altro, questo costituisce una specifica espressione dell’essere-persona.
11Il pentimento si riferisce al passato. Mi dispiace aver fatto o avere omesso qualcosa. Ciò non nel senso del rimorso per le conseguenze non volute e forse non previste di un’azione, non perché è poi accaduto ciò che in segreto volevo evitare, eccetera. Bensì mi duole essere stato io colui che ha fatto o ha omesso quella cosa. Il pentimento, cioè, è anch’esso una forma di relazione con se stessi. In esso io muto il mio essere-così. E noi non riporremmo alcuna fiducia per il futuro in un uomo che ha compiuto qualcosa di tremendo, se costui si limitasse a spiegare in modo credibile che in futuro non tornerà a rifarla, ma si rifiutasse di rivolgersi ancora una volta al passato e di provare dolore per essere stato lui colui che ha fatto ciò. Max Scheler, nel suo famoso scritto su Pentimento e rinascita, ha scritto cose illuminanti al riguardo6.
12Infine ciò che intendiamo quando parliamo di persone appare con chiarezza nell’atto del perdonare. Non si perdonano gli animali né vi è bisogno di farlo perché essi non possono diventare colpevoli per il loro comportamento. Sono come sono e ciò che fanno deriva secondo necessità da ciò che sono. Perdonando, un altro mi permette e rende possibile che io non debba essere definito dalla somma delle mie azioni. Chi perdona non dice al suo debitore: “Sei fatto così. Tu sei e rimani per me colui che ha compiuto o omesso quest’azione”. Ma dice: “Tu non sei per sempre colui che ha fatto questo. Per me tu sei un altro”. E in forza del perdono mi è effettivamente possibile ricominciare di nuovo e seppellire il passato. Perdonare è un atto eminentemente creativo, qualora sia qualcosa di diverso dall’indifferenza o dalla pigrizia. Del resto, quando qualcuno ha recato offesa a un altro, al “Sei fatto così” privo di misericordia, corrisponde, dall’altra parte, il caparbio e insolente “Sono fatto così, che ti piaccia o no. Mi devi prendere così come sono”. Lo si chiama anche “rimanere fermo nella propria posizione” ma si tratta in questo caso di un uso improprio di quest’espressione. Prendere le proprie difese significa attribuirsi e lasciarsi attribuire ciò che si è fatto. Ma non si deve idealizzare quell’insolenza con la quale qualcuno rifiuta di rivedere il proprio essere-così e di lasciarsi perdonare.
La natura della persona
13Le persone non costituiscono una specie che è indifferente nei riguardi del numero degli esemplari che le appartengono. La persone costituiscono una comunità a priori di persone. Gli uomini sono una specie. E, come ogni essere vivente, ogni uomo, vivendo, occupa il centro del proprio mondo. In quanto persona, però, egli esce da questo centro e vede se stesso, per così dire, dal di fuori. Se viaggiamo in barca sull’oceano siamo sempre al centro dell’orizzonte che ci circonda. Ma come esseri pensanti vediamo noi stessi con una view from nowhere. La bandierina sulla carta di bordo ci mostra ogni giorno la posizione della nostra nave. E come persone sappiamo che gli uomini a bordo della nave che si scorge piccolissima all’orizzonte sono anch’essi il centro del loro mondo e che noi, ai loro occhi, appariamo piccolissimi. Ciò significa che le persone sono esseri capaci di verità. Poiché esse hanno la loro natura e non sono la loro natura, possono fuoriuscire dal centro dal quale riferiscono ogni cosa a se stessi. Possono concepire se stesse come parte del mondo degli altri. Molto tempo fa vidi su un’automobile un adesivo su cui era scritto: “Pensa a tua moglie, guida con prudenza!”. Questo illustra ciò che desidero dire. La cura e la preoccupazione che riserviamo a un essere che ci è prossimo è qualcosa di comune a tutti gli esseri viventi più evoluti. Ma badare a me stesso perché sono parte del mondo di un altro e desidero risparmiargli una perdita, questo contraddistingue l’uomo come persona. Contraddistingue la sua “posizione eccentrica”, come l’ha chiamata Helmuth Plessner7. Proprio questo è anche il senso del “fare la verità”, espressione con la quale il Vangelo di Giovanni indica l’amore personale.
14L’autorelazione che caratterizza le persone è il fondamento della loro capacità di verità. Solo il fatto che sanno della prospetticità della loro percezione della realtà li eleva oltre questa prospetticità. Tale fatto non elimina la prospetticità. Le persone finite non sono Dio. E quando credono di esserlo, proprio quello è il momento in cui lo sono meno. Questo vale, per esempio, per gli utilitaristi come Peter Singer, per il quale il dovere etico fondamentale consiste nell’ottimizzazione del mondo8. Se due bambini cadono in acqua e io posso salvarne solo uno, secondo Singer non è un mio diritto salvare innanzitutto il mio. Devo salvare il bambino che vale di più, quindi il più dotato e provvisto delle maggiori possibilità di beneficiare della vita. Prossimità e lontananza sono per lui concetti eticamente irrilevanti9. Non esiste quello che la tradizione a partire da Agostino chiama ordo amoris. Se l’essere della persona è un’autorelazione, quindi un avere la natura, allora la persona non si realizza nell’ignorare la natura. Le inclinazioni immanenti alla natura – la fame, la sete, il desiderio sessuale, il bisogno di calore e di un tetto sopra la testa – fondano dei doveri prima facie allo stesso modo in cui la nostra percezione primaria della realtà fonda ipotesi di verità. E la soddisfazione dei bisogni elementari che ho citato non è qualcosa di animale, ma avviene in azioni personali come il mangiare, il bere, il rapporto sessuale eccetera. Il concetto di persona è proprio ciò che proibisce di dividere l’uomo in due parti, quella inferiore, animale e, sopra a questa, una ragione pura. L’uomo non è né un animale, né un angelo. Neppure è contemporaneamente entrambe le cose. La sua natura biologica è già una natura umana e la sua ragione è biologicamente condizionata. Essa sa di questo condizionamento e cerca di liberarsene. La nostra libertà è il desiderio di libertà di esseri naturali.
15Se riflettiamo su quanto detto finora potremmo giungere alla conclusione che riconoscere gli uomini come persone dipenda dall’effettiva disponibilità di quelle qualità che definiscono l’essere-personale. Sembra evidente considerare persone solo gli esseri che effettivamente dispongono di una qualche forma di autocoscienza e quindi di una relazione cosciente con sé e con la propria vita. Questa pretesa, nei dibattiti degli ultimi decenni, è stata continuamente avanzata. Si è cioè negato l’essere-persona degli embrioni, degli infanti, di chi soffre di un grave ritardo mentale, di chi è affetto da demenza senile e si è richiesto di sostituire, nelle carte fondamentali dei paesi europei e dell’onu, il concetto di dignità dell’uomo con quello di dignità delle persone. Quest’orientamento di pensiero non è del tutto privo di radici nella tradizione europea. Di certo esso ha chiaramente contro di sé il sommo rivoluzionario Immanuel Kant. Però trova un certo sostegno in Tommaso d’Aquino, il quale riteneva che tutti gli uomini eccetto Gesù Cristo, nelle prime decadi della loro esistenza embrionale, avessero innanzitutto un’anima animale che Dio, successivamente, con un atto creatore sostituisce con un’anima umana, quindi personale. Per motivi scientifici oggi questa concezione non ha quasi più sostenitori. Sempre più dominante tuttavia è divenuto il modo di intendere la persona elaborato da John Locke. Locke vuole limitare strettamente il suo ontological committment ai contenuti della percezione empirica interna o esterna e così esclude ogni risultato ontologicamente trascendente così come ogni risultato della riflessione trascendentale. Per questo per lui l’essere-personale non è un modo d’essere che diviene conoscibile attraverso determinati stati di coscienza ma non è altro che tale stato di coscienza. È lo stato di una soggettività che vive se stessa come identica lungo il flusso del tempo10. Dal momento che per l’empirismo vi sono solo oggetti esperibili internamente o esternamente ma non vi sono però i portatori di tali oggetti, così non vi sono neppure persone prive di coscienza o dormienti. David Hume ha poi compiuto un passo ulteriore e ha negato del tutto l’essere-personale11. Questo perché – egli pensava – a ben vedere non vi è alcuna esperienza che si dilati nel tempo. Certo, c’è il ricordo, ma ogni ricordo accade come vissuto presente qui e ora. Il ricordo non è la presenza del passato ma la presenza di un’immagine attuale di ciò che noi ora riteniamo essere il passato. Per questo il ricordo può anche ingannare. Vi sono infatti sempre e soltanto vissuti attuali e istantanei, ma non un’identità che si dilata nel tempo alla quale si riferisce il pronome personale “io”. Nella linea di Locke si colloca oggi per esempio Derek Parfit con il suo libro Reasons and Persons12. Per Parfit non vi è alcuna continuità della persona oltre il sonno. Chi dorme non è persona e colui che si sveglia non è la stessa persona che in precedenza ha preso sonno. Ogni volta che qualcuno prende sonno termina l’esistenza di una persona. Colui che si desta eredita i contenuti di memoria da colui che si è addormentato grazie all’identità fisiologica dell’essere vivente uomo e del suo cervello13. È interessante il fatto che Parfit, in questo modo, fornisce una nuova fondazione dei doveri degli uomini nei confronti di se stessi, doveri che altrimenti potrebbero venire fondati solo attraverso la religione. I doveri legati al provvedere alla mia salute sono, secondo questo modo concepire, doveri nei riguardi di un essere distinto da me, quindi per una sorta di discendenza.
16Qui, dunque, l’essere-personale viene chiaramente separato dall’uomo. Vi sono uomini – nel senso di esseri viventi – e vi sono stati personali di molti, ma non di tutti questi uomini. L’essere della persona quindi non inizia con la sua esistenza come organismo vivente, ma solo con il graduale destarsi di determinati stati di coscienza. Quanto ampiamente questa concezione si sia impercettibilmente diffusa lo si può rilevare nel fatto che anni fa niente di meno che il presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, riferendosi al dibattito sulla cosiddetta morte cerebrale, dichiarava che può anche darsi che la morte cerebrale non sia la morte dell’uomo, ma essa costituisce in ogni caso la morte della persona.
17Desidero portare argomenti contro questa concezione e difendere la tesi secondo la quale l’essere-persona non è una qualità, bensì l’essere stesso dell’uomo e perciò esso non ha inizio successivamente all’esistenza di una vita umana non identica all’organismo dei genitori. Le persone non sono una specie naturale che possiamo identificare attraverso una descrizione. Nessuno può imporci quando possiamo usare la parola persona e quando non possiamo. Si tratta di una questione che non è di carattere teoretico ma pratico, etico. Chiamare qualcuno “qualcuno” e non “qualcosa” è un atto di riconoscimento al quale nessuno può essere costretto. Ciononostante questa decisione non è arbitraria. L’atto con il quale riconosciamo qualcuno come “qualcuno” e non come “ qualcosa”, quell’atto, che è connesso con il nostro uso della parola persona, possiede una logica immanente. Una limitazione ingiustificata della cerchia di coloro a cui viene conferito questo riconoscimento modifica la natura di questo atto anche rispetto a coloro che vengono riconosciuti come persone. Se al principio della vita si fissa arbitrariamente un momento in cui inizia tale riconoscimento, si porrà pure arbitrariamente un termine di tale riconoscimento nell’ultima fase della vita.
18Una persona è qualcuno, non qualcosa. Non vi è alcuna continuità dal qualcosa al qualcuno. Non sarebbe corretto affermare: “‘qualcuno’ è qualcosa che possiede queste o quelle caratteristiche”. Qualcuno non è qualcosa. Per questo per dire che cosa intendiamo per qualcuno dobbiamo affermare tautologicamente: “chiamiamo ‘qualcuno’ qualcuno che ha queste o quelle caratteristiche”. Ma neppure così è corretto. Infatti consideriamo qualcuno anche alcuni esseri, e in particolare uomini, anche se di fatto non possiedono in alcun modo queste caratteristiche. La nostra posizione è forse descritta nel modo migliore dalla affermazione di David Wiggins: «Una persona è ogni animale la fisionomia fisica della cui specie costituisce i membri tipici come esseri pensanti intelligenti, con ragione e riflessione, e tipicamente li pone in grado di considerare se stessi come se stessi, le medesime cose pensanti, in tempi e luoghi differenti»14. Di questa definizione non approvo solo il termine “cose pensanti”. Nessuno di noi chiamerebbe cosa un essere pensante.
Persona e intersoggettività
19Che la presenza effettiva dei tratti distintivi tipici della persona non sia la condizione dell’essere-personale possiamo facilmente chiarirlo guardando all’uso dei pronomi personali io e tu. Ognuno di noi dice: “Io sono nato il giorno tale del tale anno”, oppure, “Io sono stato concepito in tale città”, sebbene l’essere che a quel tempo venne concepito e partorito non potesse dire “io”. Il pronome personale io non si riferisce a un “io” – l’“io” è un’invenzione dei filosofi –, ma a un essere vivente che più tardi e in un certo momento ha iniziato a dire io. E l’identità di questo essere vivente è indipendente da ciò che egli effettivamente ricorda. Qualcuno può essere il destinatario di gratitudine o di rimprovero per atti che egli stesso ha dimenticato. E una madre spontaneamente dice al suo bambino: “Quando ero incinta di te”, oppure “Quando ti ho partorito” eccetera. E non dice invece: “Quando portavo dentro di me un organismo dal quale poi sei venuto tu”. Ogni tentativo di staccare l’essere-personale dall’essere-vivente, dall’esistenza di un organismo umano è controintuitivo. È inconciliabile con l’uso linguistico di ogni uomo normale.
20Questa normalità, del resto, è la condizione perché gli uomini sviluppino quelle qualità che sono caratteristiche della persona. Nessuna madre ha la sensazione di condizionare attraverso il proprio parlare una cosa, un qualcosa finché questo non inizia esso stesso a parlare. Anche per questo un bambino non impara a parlare da un computer. La madre, piuttosto, nel rapporto con il piccolo, regredisce a livello infantile e si relaziona con lui da uomo a uomo. Dice “tu” al bambino, lo tratta come una piccola persona e solo perché il bambino viene già trattato da persona egli diviene ciò che era fin dall’inizio e come fin dall’inizio è stato guardato. Chi separa l’essere-persona dell’uomo dal suo essere-vivente recide il legame interpersonale nel quale soltanto le persone possono diventare ciò che sono. Questo perché le persone ci sono solo al plurale. Usare la parola “persona” per riferirsi a Dio ha senso unicamente nel contesto della dottrina della Trinità.
21Un ulteriore argomento contro chi vincola l’essere-persona al darsi effettivo di determinate qualità è questo: questa condizione trasforma l’atto del riconoscimento delle persone in un atto di cooptazione. Esso consegna i nuovi arrivati all’arbitrio di coloro che già si riconoscono l’uno con l’altro. E sono proprio costoro coloro che definiscono le qualità sulla base delle quali qualcuno viene cooptato nella comunità delle persone. Fino a che punto si tratti qui di arbitrio lo vediamo constatando quanto estreme siano le divergenze d’opinione degli scienziati circa l’inizio dei diritti delle persone. Alcuni vogliono iniziare a difendere la vita dal terzo mese di gravidanza, altri dall’istante della nascita, altri ancora dalla sesta settimana successiva alla nascita e Peter Singer, coerentemente, nega ai neonati un qualche diritto alla vita15. Se noi rinunciamo a considerare come unico criterio l’appartenenza alla specie homo sapiens e la discendenza da altri membri di questa specie, a quali uomini spettino i diritti della persona e a quali no, diviene allora una mera questione di potere. Appartiene alla dignità della persona che essa prenda il proprio posto nell’universale comunità delle persone non per cooptazione ma per diritto di nascita.
22Ogni uomo appartiene a questa comunità per il fatto di appartenere alla famiglia umana, quindi per il fatto di essere imparentato con uomini. La biologia evoluzionistica rappresentata, per esempio, da Ernst Mayr, ha cessato di definire le specie come classi a cui gli esemplari appartengono per somiglianza, come invece accade nella classificazione delle cose inanimate. Al posto del concetto di classe subentra il concetto di popolazione. A una popolazione, però, un animale appartiene attraverso il legame genealogico, dunque attraverso una discendenza comune e attraverso l’interazione sessuale. I legami di parentela tra gli uomini, però, non sono qualcosa di solamente biologico. Sono sempre allo stesso tempo legami personali. Padre e madre, figlio e figlia, fratello e sorella, nonno e nonna, cugino e cugina, zio e zia, cognato e cognata sono luoghi precisi in una struttura interpersonale. E chiunque occupi tale luogo lo possiede dall’inizio della sua esistenza biologica e lo mantiene per tutta la durata della propria vita e addirittura oltre. Questo lo distingue radicalmente da quasi tutti gli animali. Un embrione è figlio dei suoi genitori fin dal primo istante della sua esistenza. Come membro di una famiglia umana, tuttavia, egli è membro di una comunità di persone, come membro di una comunità di persone, però, egli è persona, in modo del tutto indipendente da qualsivoglia qualità. Di Peter Singer sappiamo che si prende amorevolmente cura di sua madre malata di Alzheimer. Quando, nel corso di un’intervista, gli è stato domandato come questo comportamento si conciliasse con la sua convinzione secondo la quale questa malattia dissolve l’essere-personale, egli ha ribattuto che si trattava pur sempre di sua madre16. Questo è il punto: la madre resta madre e il figlio resta figlio. Questo legame, tuttavia, è un legame personale del tutto indipendente dal fatto di venire messo in atto sul piano soggettivo dalle due persone, e per questo la madre resta persona finché vive, allo stesso modo in cui il figlio è figlio da quando vive. Se la parentela biologica non fosse allo stesso tempo qualcosa di personale, come si potrebbe spiegare allora il fatto che i figli nati da relazioni extraconiugali o quelli adottati sviluppano al più tardi nella pubertà il desiderio di conoscere i loro padri naturali o i loro genitori naturali? Essi guardano al legame con un parente che non conoscono affatto come a una parte della loro identità personale. Qualcosa di analogo vale, del resto, per il rapporto sessuale tra uomo e donna. Anch’esso non è qualcosa di meramente biologico. Se si riduce a esserlo, si tratta di una depravazione.
L’origine della persona
23La domanda circa l’inizio nel tempo dell’essere-persona dell’uomo s’interroga in realtà attorno a qualcosa cui non si può dare risposta. Questo perché l’essere-personale è qualcosa di sovratemporale. Attraverso di esso l’uomo partecipa del mundus intelligibilis e significa che l’uomo è un essere capace di verità. La verità, tuttavia, è sovratemporale. Che noi oggi siamo riuniti qui è sempre stato vero e rimarrà vero per sempre. Poiché l’essere-personale è partecipazione alla sovratemporalità, è vano ogni tentativo di indicarne un istante di inizio nel tempo. Allo stesso modo noi non stabiliamo l’istante della morte di qualcuno, ma possiamo solo dire, retrospettivamente: “Adesso quest’uomo non è più in vita”. Così noi, quando abbiamo che fare con un essere umano, possiamo sempre solo dire: “Questa è una persona”. Del resto questo è esattamente ciò che ha visto Immanuel Kant quando scrive: «Poiché ciò che è generato è una persona ed è impossibile farsi un concetto della generazione di un essere provvisto di libertà per mezzo di un’operazione fisica, è allora un’idea del tutto corretta dal punto di vista pratico, e anche necessaria, considerare la procreazione come quell’atto attraverso il quale abbiamo messo al mondo una persona»17. Far equivalere il diventare persona alla generazione è, si potrebbe dire, la conseguenza dell’impossibilità di fissare in alcun modo un inizio della persona nel tempo. Chiunque proponga un momento successivo a questo pretende, in fondo, di sapere più di quanto può sapere.
Approfondimenti
24Ho menzionato alcune caratteristiche in base alle quali si chiamano “persone” le persone. Direi che da una parte abbiamo la questione che riguarda la definizione della persona, dall’altra la domanda circa chi sia una persona, a chi spetti esserlo. Sembra chiaro che una gran parte degli uomini non ha le caratteristiche attraverso le quali definiamo una persona come tale e allora dobbiamo chiederci: sono esse, nonostante questo, persone? E perché? In Sameness and Substance Wiggins afferma che noi consideriamo persone quegli esseri che appartengono alla specie i cui membri adulti normali dispongono di caratteristiche personali. Si tratta di approfondire ulteriormente se sia proprio così, se noi riconosciamo come persone tutti i membri di questa specie.
Persona e pluralità d’atti
25Elementi particolarmente importanti vengono della riflessione di Max Scheler. Particolarmente interessante è, a mio parere, la sua affermazione secondo la quale sono persone coloro che dispongono di una pluralità di tipi di atto. Se quindi ipotizziamo un essere che, per esempio, possiede solo l’intelligenza ma non ha volontà, non ha appetito, dispone quindi solo della pura conoscenza teoretica, allora, direbbe Scheler, questa non è una persona. Anche un essere che è pura volontà senza intelligenza, un essere che dunque è solo istinto, anche costui non sarebbe persona, poiché in questi casi la persona è sempre solo qualcosa che è un elemento dell’atto. L’atto ha un soggetto, ma se vi è solo un tipo di atto questo soggetto è solo un momento, un elemento di questo atto. Tuttavia in una pluralità di atti sorge la domanda circa il soggetto di tali atti; il tratto peculiare consiste nel fatto che le persone sono soggetti di una varietà di atti i quali vengono ascritti tutti a un’unica e medesima persona. Dunque di fronte a un essere che è pura intelligenza senza alcuno stimolo, volontà o altro, Scheler non si porrebbe la domanda sulla sua identità al di là degli atti. Molte obiezioni sono state mosse a Scheler riguardo a questa tesi, alcune non completamente a torto. È stato criticato quello che si può chiamare il suo attualismo, ossia la tesi secondo la quale la realtà della persona consiste solo nell’attuazione, nella realizzazione di determinati atti. Si è affermato che non vi è continuità. Invece c’è continuità, e l’aspetto peculiare è che, come detto, lo stesso identico soggetto viene considerato come soggetto di atti differenti. E questo è per Scheler l’elemento caratteristico della persona e ciò mi pare estremamente illuminante poiché il punto che sostengo è proprio il fatto che la persona non è semplicemente la propria natura, ma la ha, e che la persona può avere atti molteplici. Essa non è definita semplicemente dal fatto di essere il soggetto di questi atti; è soggetto di atti differenti. Con ciò possiede una certa indipendenza da ciascuno di essi.
26Penso che tutti i modi di definire ciò che intendiamo per persona – dal punto di vista giuridico, da quello morale, da quello biologico – siano caratterizzati dal fatto di rimandare tutti quanti a questo medesimo principio di fondo, vale a dire la non identità dell’uomo con la propria natura. Si tratta di una questione difficile e bisogna guardarsi dagli errori. Esiste infatti una tesi secondo la quale la persona dispone liberamente della propria natura e può anche modificarla a proprio piacimento. Intesa in questo modo l’indipendenza dalla natura o la non identità con essa significherebbe semplicemente che la natura diviene qualcosa d’indifferente. Jean Paul Sartre affermava che siamo noi a stabilire chi siamo. Ma in questo caso la conseguenza è chiara: «L’inferno sono gli altri»18. Gli altri sono infatti coloro che mi vincolano a un determinato modo d’essere. Loro sanno chi sono. E quindi io non sono più libero di determinare liberamente da me stesso chi essere. Per poter essere realmente libero dovrei allora vivere in un mondo che di fatto è solipsistico. Questa concezione misconosce il fatto che l’uomo è libero e diventa persona proprio grazie agli altri. Solo all’interno di questi legami giuridici, come anche di quelli biologici, trae origine l’indipendenza del soggetto nei confronti della propria natura. Ciò significa che noi non siamo la nostra natura né siamo semplicemente qualcosa di altro rispetto a essa, non significa che la natura sia qualcosa d’indifferente. Questo è il motivo per il quale insisto sull’idea che la persona ha la sua natura.
Persona e riconoscimento
27Ho parlato della pluralità degli atti come di ciò che rende possibile che il soggetto non venga semplicemente identificato con uno dei suoi atti. Questa pluralità, in senso proprio, non è qualcosa di descrivibile per via puramente fenomenologica. Possiamo descrivere fenomenologicamente gli atti, possiamo anche dire che a un atto appartiene un suo esecutore. Ma che l’esecutore di quest’atto sia allo stesso tempo l’esecutore di altri atti – che si tratti quindi sempre della stessa persona – credo sia un elemento costitutivo del concetto di persona, concetto che, tuttavia, eccede la possibilità della fenomenologia. Tale elemento, infatti, non è qualcosa che semplicemente si mostra, e lo si può vedere nel fatto che c’è bisogno di un atto libero per cogliere questa connessione. Noi non conosciamo le persone nello stesso modo in cui conosciamo le cose: nella nostra conoscenza delle persone entra già sempre un momento della volontà. Posso rifiutarmi di reputare persona una persona, posso trattare le persone come cose. Il caso estremo è ciò che i nazisti hanno fatto con gli ebrei, la forma del loro assassinio. Qualcuno potrebbe dire che le camere a gas sono state un modo di eliminarli meno crudele di quanto non lo sarebbe stato il percuoterli a morte. In realtà in queste esecuzioni di massa essi sono stati semplicemente presi come una massa di oggetti, senza considerazione alcuna per il loro essere persone. E, a differenza del Marchese de Sade e del sadismo, chi ha fatto ciò non era, nella maggior parte dei casi, un sadico. Il sadico deve attenersi al concetto di persona perché il suo piacere deriva proprio dalla distruzione dell’essere persona. La specifica soddisfazione procurata da un uomo divenuto mera cosa non è neppure interessante per il sadico. L’elemento malvagio del sadismo consiste infatti proprio nel fatto che egli percepisce l’essere persona e gode della sua negazione. In questo caso, però, si oltrepassa una descrizione puramente fenomenologica. La fenomenologia, infatti, a mio parere, incontra il proprio termine nella descrizione degli atti. Ma au de là de l’être, dunque al di là degli elementi qualitativi, questo al di là che è la persona ci è dato nel riconoscimento di essa, e proprio nel riconoscimento si realizza l’essenza della persona. La persona realizza la propria essenza riconoscendo anch’essa gli altri come persone. Per questo motivo l’intersoggettività è costitutiva per la persona. Tuttavia, a mio giudizio, è della stessa persona che stiamo parlando anche se lo facciamo da differenti punti di accesso.
28Credo che il diventare reale dell’altro per me avvenga nell’amore. Il mal di denti del mio amico, per esempio, mi fa male come se si trattasse dei miei stessi denti e se gli sono veramente amico e lo amo molto, provo quasi una cattiva coscienza per il fatto che io sto bene bene, che non provo dolore come lui. Soffro il suo dolore ma non esattamente come lui, e ciò vuol dire che lui non è per me così reale come io lo sono per me stesso. Del resto il buddhismo trae da questo fatto la conseguenza che io sono così poco reale come lo sono gli altri: nessuno di noi è reale, devo imparare che il mio mal di denti è tanto irreale quanto quello dell’altro. Nel cristianesimo si afferma, in modo specularmente rovesciato, la medesima cosa: l’amore giunge al proprio compimento quando l’altro diviene così reale per te come tu lo sei a te stesso. Il comando che prescrive di amare il prossimo come amiamo noi stessi significa appunto che egli dev’essere per noi così reale come lo siamo noi a noi stessi. Le conseguenze, nel buddhismo e nel cristianesimo sono in parte le stesse, ma non sotto ogni aspetto.
29L’atto del riconoscimento non è allora un atto teoretico, ma una forma rudimentale di amore. Per questo il sadismo costituisce un caso particolarmente interessante. Esso è l’esplicita negazione dell’amore, che si manifesta nel non riconoscimento della persona. Il sadico non la riconosce, tuttavia vede che c’è qualcosa che resiste al non riconoscimento e vuole imporre il suo non riconoscimento e godere proprio di quest’imposizione. Si può naturalmente dire che il riconoscimento avviene innanzitutto da sé. Il bambino viene già riconosciuto dalla madre quando ella gli parla. Ho già richiamato ciò. Avviene come una regressione: la madre usa con il proprio bambino un linguaggio umano come se egli fosse un essere cosciente di sé. Il bambino ancora non lo comprende, ma questo riconoscimento del bambino piccolo come persona è ciò che solo lo fa diventare ciò che è. Questo avviene senza conflitti.
30D’altra parte, originariamente, la realtà si dischiude a noi nel linguaggio. Con il linguaggio si origina quel significato che è alla base del dischiudersi della realtà per noi. Le cose si dischiudono per noi solo attraverso il linguaggio. Una cosa non è assolutamente nulla finché non viene dischiusa nel linguaggio. Non possiamo semplicemente affermare che è la visione del mondo a fare il linguaggio. È invece il linguaggio a fare la visione del mondo. Per questo il linguaggio ci è dato originariamente: noi diveniamo ciò che siamo esclusivamente attraverso il linguaggio. Questo è il motivo per cui ritengo sia giusto partire dal linguaggio corrente. Ciò non significa che esso sia sempre corretto; può contenere contraddizioni che il filosofo può chiarire e così correggere. Resta tuttavia necessario partire innanzitutto da esso. Ho proposto alcuni esempi con l’uso della parola io per ricordare che non diciamo io soltanto quando ci riferiamo a un essere cosciente. Diciamo infatti “Io sono nato” in quell’anno o in quell’altro riferendoci a chi allora era un bambino piccolo, che non diceva io. Ciò nonostante dico io riferendomi a colui che allora era un bambino piccolo, non lo considero come un’altra persona, né dico: “Una volta c’era un essere umano, ma adesso vi è una persona”. A mio parere nel Medioevo si è compiuto un errore quando non ci si è lasciati orientare a sufficienza dal linguaggio corrente. Tommaso d’Aquino seguì Aristotele nel pensare che l’uomo ha innanzitutto un’anima vegetativa, la quale poi scompare, viene annullata e al suo posto subentra un’anima animale, e poi, alla fine, arriva l’anima umana. Il nostro linguaggio corrente si esprime in maniera differente. Noi non diciamo che c’era un animale che, a un certo momento, è divenuto un uomo, ma piuttosto: “Quello ero io”. Come ho già osservato, un bambino piccolo chiede alla madre: “Com’era quando io ero nella tua pancia?”. Egli, cioè, dice “io” e la mamma dice “tu”. È assolutamente evidente che un membro della famiglia umana può essere indicato con io o con tu. Non si inizia a parlare di io soltanto nel momento in cui qualcuno dice egli stesso “io”. Riferendosi al passato, una persona può dire: “I miei genitori erano a Torino e io sono stato generato lì”. Nel momento immediatamente successivo alla procreazione non c’era assolutamente alcun io, nessun essere che dicesse io. Eppure dico “Io sono stato generato”, e si tratta di un modo normale di parlare che tutti comprendono immediatamente.
31Quindi con io non intendiamo qualcosa, una determinata qualità, ma un organismo e quindi innanzitutto qualcosa di puramente biologico. Così si pensava anche nel Medioevo. Si pensava che si trattasse di una specie particolare di anima. Noi però non diciamo in questo modo, diciamo che è la stessa cosa. E se qualcuno afferma che di quei momenti non si ricorda, che non ha alcun legame con quell’essere che era allora, a tale riguardo faccio presente quanto ha detto Thomas Reid criticando Locke. Locke sosteneva che le persone sono esseri che si ricordano delle azioni che hanno compiuto e, attraverso questo ricordo, creano la loro identità. Ma Thomas Reid scrisse che non era così, che anche altri possono ricordare quanto io ho fatto. Posso, per esempio, aver fatto qualcosa di male e averlo rimosso, oppure un’altra persona può dirmi che ho compiuto l’una o l’altra azione, oppure qualcuno può raccontarmi di quando ero bambino, dicendomi che ho fatto cose di cui non ho più memoria. Basta allora che altri sappiano queste cose. L’argomento di Reid è infatti il seguente: all’essere-personale non è necessaria la propria memoria, ma basta quella di un altro che sappia ciò che ho fatto e chi sono. È infatti possibile stabilire l’identità di una persona anche solo recandosi all’ufficio dell’anagrafe. Qui trovo scritto un determinato nome che indica me. Certamente si può dire che si tratta di una faccenda meramente biologica, ma naturalmente non è così. L’immissione al registro dell’anagrafe costituisce già il riconoscimento di una persona, un riconoscimento che consiste nel fatto che essa viene registrata. Non si deve allora psicologizzare il concetto di persona. Al giorno d’oggi la psicologia si è a tal punto impadronita del concetto di identità che tutti sono in cerca della loro identità. A mio parere non si tratta di un buon uso del linguaggio, poiché l’identità delle persone è comunque fissata. Ciò che si cerca è in realtà una certa unità con se stessi, un’amicizia con se stessi, come dicevano gli antichi. Se cercare la propria identità significa questo, va bene. Bisogna tuttavia tener presente che in senso proprio il concetto logico di identità è un’altra cosa. A tale riguardo non è lo psicologo a essere competente circa l’identità, ma lo può essere chiunque. Si potrebbe dire che lo è innanzi tutto il funzionario dell’anagrafe.
Riconoscimento e conflitti
32Il riconoscimento non avviene solo dove vi è libertà dal conflitto. Vi è infatti anche un riconoscimento che avviene tra nemici. Esso possiede, a mio parere, un ruolo rilevante, che nei grandi conflitti del xx secolo e nelle guerre ideologiche è andato perduto. Il riconoscimento del nemico è un elemento presente in tutta la grande tradizione europea. Carl Schmitt si è occupato di questo tema, il tema del justus hostis.
33Esso significa che contro il nemico non è lecito fare ogni cosa. Racconto talvolta la storia di quel castello che doveva essere saccheggiato dopo la conquista. Il generale vittorioso non voleva procedere al saccheggio. Il re lo minacciò che, qualora non lo avesse fatto, lo avrebbe fatto fucilare. Il generale allora rispose che la sua vita apparteneva al re, ma non il suo onore. In questo caso il generale esige riconoscimento e, a certe condizioni, è anche disposto a pagare un prezzo per questo, financo la morte. Il riconoscimento è quindi sempre un rapporto interpersonale, che tuttavia non sempre avviene pacificamente. Il riconoscimento può essere addirittura estorto, per esempio portando qualcuno in una situazione in cui deve risolversi a riconoscere il nemico. Nel capitolo su servo e padrone della Fenomenologia dello Spirito di Hegel il servo, che all’inizio non è riconosciuto, alla fine estorce il proprio riconoscimento. Esso resta comunque un atto libero. È solo in un senso radicale che il riconoscimento non può essere estorto: quando qualcuno vuole realmente mantenersi nella posizione del non riconoscimento. A certe condizioni bisogna pagare con la vita questo fatto, ma se non lo si vuol fare, allora direi che si muore per la propria cattiva volontà. Bisogna però anche tenere conto del fatto che non tutti i motivi per i quali gli uomini sono pronti a morire sono dei buoni motivi.
34Anche nell’amore vi è una lotta per il riconoscimento. Si tratta di una lotta che quando non è distruttiva può condurre a qualcosa di positivo e portare una delle parti ad accorgersi improvvisamente di aver sempre fatto mancare all’altro un vero riconoscimento. Ciò avviene una volta che ci si confronta con quanto si è fino a quel momento trascurato. E tale confronto può essere carico di conflitti.
35Là dove vi è una vera relazione di riconoscimento l’uomo deve insistere sul fatto che l’altro è un soggetto e che costui può difendere il suo essere persona anche contro di me. È un tratto distintivo anche dell’amore quello di riconoscere incondizionatamente l’altro. Ma per quanto si creino prescrizioni morali su ciò che l’uomo non deve fare, esiste tuttavia una volontà di potenza. Vi può essere anche un rivolgimento, gli uomini possono cioè ribellarsi alla possibilità di venire assoggettati dalla volontà di potenza di un altro e il conflitto diventa allora inevitabile. Penso che neppure la filosofia possa mostrare una strada priva di conflitti e di battaglie. Resta un conflitto, il conflitto per il riconoscimento. Anche nella dialettica hegeliana tra servo e padrone, una volta che la situazione è stata rovesciata e i servi hanno formato un partito, si realizza la dittatura dei servi. Questa può essere orrenda. La volontà di potenza sta dall’una come dall’altra parte. E la lotta continua.
36Rousseau, nell’émile, scrive che già il bambino esercita la volontà di potenza. Se vuole qualcosa, urla e attende che accada ciò che desidera. Rousseau indica una regola che può impedire che costui divenga un piccolo tiranno. Egli fa l’esempio di una mela e di un bambino che la vuole. La madre deve portare il bambino verso la mela e non la mela verso il bambino, affinché impari che se vuole qualcosa dev’essere lui a darsi da fare e che le cose non obbediscono alle sue urla. In Rousseau vi sono anche molti altri punti di vista ma tale regola tocca esattamente la questione di come si possa impedire agli uomini di divenire tiranni. Certo, già all’inizio vi è una volontà di potenza. Ma qual è il suo fondamento? È la debolezza. Anche questa è un’idea profonda di Rousseau. Quando egli s’interroga sull’origine del male risponde che la sua causa più profonda è la debolezza. Il debole infatti necessita degli altri per soddisfare i propri bisogni. Per questo egli ha la tendenza a strumentalizzare gli altri. Chi è veramente forte non ha bisogno degli altri e sopratutto forte è colui che più di ogni altra cosa si adopera per ridurre al minimo i propri bisogni. Meno ne ha, più possibilità ha di soddisfarli. Chi dunque sviluppa bisogni eccessivi cercherà sempre di strumentalizzare gli altri uomini. Ritengo che la tesi che individua l’origine del male nella debolezza sia una tesi degna di grande considerazione. La debolezza è, per Rousseau, uno squilibrio tra i bisogni e i mezzi della loro soddisfazione. Non si tratta di qualcosa di assoluto. Un verme può essere forte e un uomo debole. Dipende da quale equilibrio vi è tra bisogni e mezzi di soddisfazione. Il riconoscimento s’inserisce nel momento in cui gli esseri si difendono dalla strumentalizzazione. Fintanto che il riconoscimento avviene solo da una delle parti – il signore è stato riconosciuto, l’altro è colui che riconosce ma non è a sua volta riconosciuto – siamo di fronte a una situazione che produce uno squilibrio destinato a durare. Naturalmente esso può anche non durare, se gli uomini si difendono da questo squilibrio.
Notes de bas de page
1 Cfr. a tale proposito R. Spaemann, Personen. Versuche über den Unterschied zwischen etwas und jemand, Stuttgart, Klett-Cotta, 20063, pp. 26 e sgg.
2 Cfr. Rm 2, 11.
3 Cfr. H. Frankfurt, Freedom of the Will and the Concept of a Person, cit.
4 Cfr. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, II, P.H. Nidditch, Oxford, Clarendon Press, 1975, p. 27.
5 Cfr. F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, Bd. V, hrsg. G. Colli und M. Montinari, Berlin - New York, p. 293.
6 M. Scheler, Reue und Wiedergeburt, in Idem, Vom Ewigen im Menschen, Gesammelte Werke, Bd. 4, Bonn, Bouvier, 2006, pp. 27-59.
7 Cfr. H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, Berlin - New York, Gruyter, 1975, pp. 288 e sgg.
8 Cfr. P. Singer, Praktische Ethik, Stuttgart, Reclam, 1994, pp. 30 e sgg.
9 Ivi, p. 220.
10 Cfr. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, P.H. Nidditch (ed.), Oxford, Oxford University Press, 1975, p. 335.
11 Cfr. D. Hume, A Treatise of Human Nature, Editor L. A. Selby-Bigge, Oxford, Oxford University Press, 1978, Book I, part VI, sect. VI.
12 Cfr. D. Parfit, Reasons and Persons, Oxford, Oxford University Press, 1984.
13 Ivi, p. 275: «L’esistenza di una persona in un certo periodo consiste solo nell’esistenza del suo cervello e del suo corpo, nel succedersi dei suoi pensieri, nel compimento delle sue azioni e nel ricorrere di molti altri eventi fisici e mentali». Anche ivi, p. 279: «L’identità non è ciò che conta. Ciò che conta è la relazione R: la connessione psicologica e/o la continuità psicologica dovute al giusto tipo di causa».
14 D. Wiggins, Sameness and Substance, Oxford, Oxford University Press, 1980, p. 188.
15 Cfr. P. Singer, cit., p. 219.
16 «Credo che ciò mi abbia fatto vedere quanto siano realmente molto difficili le situazioni di chi ha questo tipo di problemi. Forse è più difficile di quanto pensassi prima, perché è diverso quando si tratta di tua madre», in M. Specter, The Dangerous Philosopher, in “The New Yorker”, September 6, p. 55.
17 I. Kant, Metaphysik der Sitten, Bd. 6, Berlin, Königliche Preußische Akademie der Wissenschaften, 1797, pp. 280 e sgg.
18 Cfr. J.-P. Sartre, Porta chiusa, trad. it. M. Bontempelli, Milano, Bompiani, 1984, p. 145.
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