3. Naturale e innaturale sono concetti moralmente rilevanti?
p. 56-79
Texte intégral
1Quale significato hanno concetti come “natura”, “naturale” o “secondo natura” quanto al giudizio delle modalità di azione dell’uomo? Si capisce che questi concetti giocano un certo ruolo, là dove si tratta di esprimere un giudizio sull’efficacia delle azioni. Agire contro la propria natura è, comunque, faticoso, ammesso che sia possibile. E chi non conosce o disprezza le leggi della natura, fallisce sicuramente nei propri scopi. Niente nella storia dell’umanità ha così allargato la portata delle azioni umane come l’ampliamento delle nostre conoscenze delle leggi della natura. La naturalità è inoltre una specie di criterio estetico rispetto al giudizio delle azioni. Ad azioni che approviamo per altre ragioni diamo un nostro particolare plauso qualora diano l’impressione di essere naturali, cioè quando esse ci sembrano giungere da un impulso spontaneo. E noi tutti di solito ci teniamo molto di più ad assicurarci questo plauso estetico piuttosto che non quello propriamente morale. Chi ha compiuto un’azione degna di rispetto morale, di solito cerca di apparire come qualcuno che, al di là di ogni considerazione morale, ha fatto solo ciò che in ogni caso si sentiva di fare. Rigettando per modestia ogni merito, egli suscita l’impressione che il bene, per cui lo si loda, sia per lui naturale o per lui una specie di seconda natura. Se definisco questo un criterio estetico, mi muovo già nella tradizione di un’etica kantianamente intesa. Per Aristotele, invece, questo criterio è eticamente decisivo: ciò che distingue la virtù è che l’uomo virtuoso operi volentieri e facilmente il giusto.
2Ma come ci si pone riguardo alla determinazione contenutistica di ciò che noi chiamiamo buono o cattivo, buono o malvagio? Esiste qualcosa che sia giusto per natura? Ha senso e, se lo ha, quale senso ha, utilizzare parole come “natura” o “naturale” in relazione al giudizio rispetto alle azioni umane? E qualora noi dovessimo affermare che un’azione sia innaturale, contro natura o contro ciò che per natura è giusto, può questo rappresentare un argomento morale, cioè un argomento ultimo e assoluto, contro un’azione? La nostra posizione in riferimento a questa domanda è contrassegnata da un profondo conflitto tra il common sense morale e i paradigmi dominanti in riferimento alla visione del mondo. Nel nostro utilizzo quotidiano del linguaggio senza dubbio parole come “naturale” o innaturale hanno una funzione morale. Qualificare qualcosa come perverso, cioè contro natura, significa per il common sense esprimere il proprio disaccordo. E, viceversa, affermare che qualcosa sia del tutto naturale significa difenderlo contro le disapprovazioni. Persino il nostro discorso sull’umanità o sulla disumanità fa riferimento a qualcosa come una vera natura dell’uomo: poiché in un certo senso è umano tutto ciò che gli uomini di fatto compiono: se chiamiamo alcune di queste azioni disumane, noi presupponiamo chiaramente un concetto normativo della natura umana, a cui ovviamente non tutto ciò che l’uomo fa corrisponde pienamente. Questi usi quotidiani e normativi di parole come natura o naturale, da un punto di vista teoretico, si trovano ormai da molto tempo sulla difensiva, quando si tratta di proporli al livello teorico. Gli argomenti che vengono portati contro l’utilizzo di tali termini possono, a mio avviso, essere ricondotti a tre tesi principali.
3La prima tesi è quella ricorrente a partire da Hume, cioè il fatto che dall’essere non sia inferibile alcun dovere, e dai dati di fatto non sia inferibile alcuna norma o prescrizione per l’agire. Perché a ogni constatazione di un dato di fatto noi potremmo, così sembra, rispondere: “E allora?”, “so what?”. E là dove non potessimo rispondere così, giacché proviamo una compassione spontanea nei confronti di qualcuno che soffre dolori estremi – proprio questa compassione farebbe anch’essa già parte dei fatti, di fronte ai quali possiamo reagire in un modo o nell’altro; di per sé essi non implicano già in se stessi alcuna prescrizione per una condotta morale: noi dovremmo sempre scegliere se vogliamo, o meno, cedere a tale compassione.
4La seconda tesi – che possiamo dire fisicalistica – contesta che la natura in generale possa essere un criterio per distinguere alcunché, giacché tutto è natura e per questo non c’è nulla che sia innaturale. «Je suis le grand tout» fa dire Voltaire alla natura. Tutto ciò che accade è risultato delle forze naturali, dalle quali è stato generato. Noi chiamiamo natura l’insieme delle leggi e delle forze nel mondo. Perciò innaturale è sinonimo di impossibile. La tempesta che spezza l’albero è naturale quanto il crescere dell’albero; divergenze dalla normalità statistica sono naturali quanto la stessa normalità. E se siamo noi a dissodare la foresta vergine, ciò è naturale tanto quanto le catastrofi primordiali (solo noi le definiamo così) che distrussero le foreste.
5La terza tesi – che io chiamo cultural-antropologica – parte dal fatto che l’uomo è l’unico essere a non essere per natura determinato dagli istinti, l’unico essere che, per sopravvivere, deve ancora crearsi, attraverso la cultura, una specie di seconda natura. Poiché l’orientamento morale appartiene a questa seconda natura, esso è dipendente dallo stampo cultural-sociale che è sempre condizionato dal tempo e dal luogo e che, in ogni caso, trascende la natura e non può per questo essere commisurato a qualcosa come una presupposta invariabile natura dell’uomo.
6Le ultime due tesi traggono dalla prima, cioè dalla tesi che oppone essere e dovere, delle conclusioni opposte. La tesi fisicalistica non lascia infatti alcuno spazio per qualcosa come un’autodeterminazione morale. Tutto è natura. Ciò che si illude essere al di là della natura, quindi soprattutto ogni ipotesi di libertà e di autodeterminazione, è un’illusione che ancora una volta può essere spiegata dal punto di vista naturalistico. L’altra tesi, quella cultural-antropologica, invece, degrada la natura a puro materiale per la prassi, che non può assolutamente essere la misura intrinseca di quest’ultima. L’avventura dello spirito, che culmina nella civiltà della tecnica, non è limitata da alcuno scopo, da alcun τέλος (télos) naturale. La natura può imporre un limite a essa e può farla in ultimo fallire. Ma qui si tratterebbe di un limite soltanto esteriore. Non è, come la parola télos invece suggerisce, un confine intrinseco che possa generare un senso. La morte non è un télos, dice Aristotele. Anche la natura umana appartiene al mondo oggettivo ed è passibile di manipolazione da parte dello spirito. Non è una degradazione, ma un’umanizzazione, il fatto che essa venga strappata alla propria primordialità e venga elevata alla disposizione propria dell’umano. L’«homme de l’homme», per dirla con Rousseau, sta più in alto dell’«homme de la nature».
7Per quanto queste due tesi siano contrapposte, esse restano legate l’una all’altra giacché si generano sempre di nuovo reciprocamente come i due poli della visione del mondo moderno, da secoli presenti: materialismo e idealismo, o meglio, naturalismo e spiritualismo. La coscienza, che riconosce nella natura il proprio costrutto e per la quale anche la natura umana è solo un’entità oggettiva e strumentale, liberamente manipolabile da una soggettività priva di mondo, proprio questa coscienza, d’altra parte, riporta se stessa totalmente alla natura in quanto semplicemente prodotto dell’evoluzione e stato di aggregazione materiale, e diviene essa stessa per se stessa nient’altro che un oggetto tra tutti gli altri oggetti. Un’ermeneutica e una filosofìa del linguaggio, che ponga l’immanenza della comprensione e del comunicare attraverso il linguaggio come inoltrepassabile, si ritrova inerme contro un’interpretazione di questa immanenza dall’esterno, contro un’interpretazione come mentalistica forma soggettiva dell’apparire di processi fisici privi di senso. A loro volta, questi processi sono certamente ciò che sono soltanto in quanto appaiono a esemplari della specie umana. William Quine deduce da questa dialettica un olismo scientistico, nel quale le sezioni di una scienza che si dividono il lavoro si passano in eterno l’un l’altra le domande a cui non hanno potuto trovare risposte. Una volta la natura viene spiritualisticamente depotenziata, un’altra volta lo spirito viene ridotto naturalisticamente. Solo una cosa non doveva mai accadere nell’orizzonte della moderna concezione del mondo: la natura non doveva mai pervenire a una propria dimensione spirituale, né lo spirito a una dimensione naturale. L’etica di una tale civiltà è un’etica utilitaristica o consequenzialistica. Per una tale etica non esiste qualcosa come una giustezza intrinseca e soprattutto nessuna intrinseca erroneità delle azioni. La moralità di un’azione è una funzione della totalità delle sue conseguenze, messa a confronto con la totalità delle conseguenze di ogni possibile, alternativa azione. Il divieto di torturare, di ingannare o di rompere una promessa non è fondamentalmente di natura diversa da quella del divieto per il passante di attraversare la strada quando è rosso. Non esiste qualcosa come un’intrinseca natura delle azioni, che limiti l’universale e fantasioso imperativo dell’ottimizzazione. E ogni concreta responsabilità umana è solo un elemento variabile dell’unica responsabilità reale dell’agente, la responsabilità per l’ottimizzazione del corso del mondo.
8Certamente il pensiero moderno ha cercato – e ciò dal xvi secolo – di eliminare il concetto di natura, il concetto di φύσις (phýsis), e di rimpiazzarlo con quello di meccanismo. Fin dall’origine, nella filosofia greca, phýsis non significa, infatti, la pura oggettività di una materia passiva quanto un essere sussistente, pensato in analogia all’esperienza di sé propria dell’uomo: e cioè nel senso di una distinzione di un essere naturale da tutti gli altri, di un sistema vivente, come si direbbe oggi, da un ambiente, inteso come limitazione attiva, come autoaffermazione e autorealizzazione spontanea. Phýsis, natura, è secondo Aristotele l’essenza delle cose che hanno il principio, l’inizio del movimento in se stesse. In questo senso phýsis è certamente un concetto che fin dall’origine serve alla distinzione. Nel Corpus Hyppocraticum, il codice dei medici dell’antica Grecia, il concetto di phýsis serve per stabilire la differenza tra il sano come normale e il malato come anormale. Ma la normalità non è qui un concetto statistico. Se il 90 per cento degli uomini soffrissero di mal di testa, non sarebbero essi i sani ai quali il restante 10 per cento dovrebbe adattarsi, ma il contrario, perché il mal di testa è opposto a ogni naturale tendenza alla conservazione di sé e al benessere, propria a ogni essere naturale. E dal momento che i costumi umani, il νόμος (nómos) umano, la costituzione dell’umana società possono certamente essere o meno consoni a queste elementari tendenze naturali, sofisti come Archelao, Antifonte e Ippia (di Elide) poterono contrapporre la natura alla legge, la phýsis al nómos, ma soprattutto poterono designare il nómos e la costituzione della tirannide come innaturale.
9È segno di un grande fraintendimento quando si legge, come spesso accade, che il concetto di qualcosa che sia giusto per natura si basi su un’originaria ignoranza della diversità delle culture e delle usanze umane. Ciò si può trovare perfino in Pascal. Eppure, è vero l’opposto. Il concetto di qualcosa che sia giusto per natura si sviluppa solo in connessione con questa scoperta. Perché solo la diversità dei costumi e delle culture sollecita la domanda se noi forse possiamo disporre di un criterio che ci permetta di distinguere i costumi migliori da quelli peggiori. Chi di noi ritiene che la tortura non dovrebbe esistere, con ciò non vuole solo affermare che egli stesso non ricorrerebbe mai alla tortura o che la tortura nella nostra civiltà rappresenti un corpo estraneo, ma vuole anche criticare una civiltà in cui essa non sia un corpo estraneo. Per capire che la tortura sta in netta contraddizione con la stessa natura umana, basta chiedere a un torturato. E se Aristotele considerò una πόλις (pólis) di liberi cittadini essere per l’uomo la naturale condizione di vita, ciò deriva dal fatto che per lui libero e naturale sono praticamente dei sinonimi. Il libero movimento di un essere è il movimento secondo la sua natura, in contrapposizione al forzato movimento impostogli dall’esterno contro la sua natura. Così anche noi parliamo ancora della morte naturale di qualcuno, se egli muore per debolezza dovuta all’età, e non per un violento intervento dall’esterno. E, in questo senso, anche il crescere dell’albero è un movimento naturale, ma l’essere spezzato dalla tempesta o l’abbattimento sarebbe un movimento violento; l’essere predata per l’antilope è innaturale, ma la preda per i leoni è naturale. Solo la fisica moderna ha abolito per l’ambito degli esseri inanimati la differenza tra moto naturale e moto forzato dall’esterno, perché ha abolito il concetto della natura come principio intrinseco del movimento. Ogni movimento è solo il risultato passivo di un parallelogramma delle forze, in rapporto al principio d’inerzia.
10In coincidenza con questo, Leibniz ha creato, per così dire, una metafisica dello specchio rovesciato, che cancella anch’essa questa differenza: per la monadologia ogni movimento viene dall’interno. Tutto ciò che accade a una monade, ogni incidente e ogni costrizione appartiene alla sua definizione, così per ogni monade vale il detto di Angelo Silesio: «Non c’è nulla che ti accade. Tu stesso sei la ruota che da sé si gira e non ha alcun riposo». Ma questa metafisica resta senza conseguenze non solo per le scienze naturali – ciò che forse è una sua prerogativa –, essa non offre nemmeno un appiglio contro il riduzionismo fisicalistico nel campo della teoria delle azioni. In quanto dichiara essere connaturale tanto il mancare i fini da parte degli impulsi quanto il raggiungerli, una siffatta metafisica non può più nemmeno accedere alla comprensione concettuale dell’esperienza del fallimento.
11Gli antichi conoscevano il concetto di peccato di natura, ἁμαρτία της φύσεως (hamartía tes phýseos), di fallimento o sbaglio della natura. Come dobbiamo comprendere questo pensiero? In esso viene pensato che qualcosa può venire dall’interno e essere ugualmente sbagliato, cioè non naturale. E ciò vale per tutti gli esseri viventi, almeno per quelli più evoluti. A differenza delle cose prive di vita, essi possono commettere errori. Com’è possibile questo? È possibile dal momento che la differenza interno-esterno – in contrapposizione con le monadi di Leibniz prive di finestre – non è propriamente una barriera inoltrepassabile, ma il limite di un continuo scambio con la natura circostante. Questo scambio non avviene secondo una pura e meccanica legge; in esso, piuttosto, è in atto un momento della spontaneità del vivente. Il vivente non subisce semplicemente effetti meccanici, ma reagisce rispetto a un mondo interpretato. Traduce, come dice il sociologo Luhmann, anzitutto la complessità esteriore in complessità interna. E qui può essere ingannato oppure sbagliarsi. L’inganno tuttavia è più vicino a ciò che chiamiamo violenza, piuttosto che a ciò che chiamiamo naturale, dal momento che anche da esso, come dalla violenza, viene impedito il raggiungimento del fine dell’impulso. Se noi poniamo un diapason sulla tela del ragno, e per la vibrazione questo si precipita, noi sappiamo, da osservatori, che lo scopo dell’impulso del ragno, l’alimentazione, viene raggiunto tanto poco quanto se noi avessimo trasportato il ragno a forza in un altro posto, verso il quale non era affatto attratto. Per ogni essere, tra il quale e l’ambiente circostante si dà qualcosa come una percezione, esiste la possibilità di una falsa percezione e con ciò di attività che, sebbene conseguano da uno stimolo interno, tuttavia mancano il senso di questo stimolo.
12Ciò vale in ugual modo per le azioni umane. Uno beve di propria iniziativa da un bicchiere. La limonata è avvelenata. Si può dire allora: egli ha fatto ciò che voleva? Chiaramente no, egli non voleva avvelenarsi. Potremmo ancora pensare a un altro esempio: un tale sa che una bevanda è avvelenata, ma egli ha terribilmente sete e infine beve la bevanda senza riguardo al veleno. Ha fatto ciò che voleva? Egli ha appagato immediatamente il proprio impulso, ha messo a tacere la propria sete. Ma la funzione oggettiva della sete è il mantenimento della vita. Quando il bere conduce alla distruzione della vita, non potremmo facilmente dire: “L’uomo ha fatto ciò che voleva”. E non potremmo nemmeno affermare che la sua azione era naturale. In un certo senso, anche nell’ultimo esempio essa si basava su un inganno. L’impulso non interpreta se stesso. Solo l’uomo, l’essere dotato di ragione, interpreta l’impulso, comprende il suo senso, cioè in questo caso l’autoconservazione. Nel caso del bevitore incontrollato, però, l’interpretazione, per così dire, non riesce a imporsi: l’uomo chiude gli occhi davanti all’interpretazione, non agisce propriamente, ma si abbandona al cieco impulso. Non fa ciò che vuole, ma rinuncia piuttosto a volere.
13Si può affermare a ragione, che ogni azione che noi chiamiamo sbagliata, cattiva o malvagia, si basa su un non-sapere, o sulla chiusura degli occhi, su una disattenzione. Qui, però, non posso sviluppare e motivare meglio questo pensiero: può sembrare che ci siamo già troppo allontanati dal nostro tema, cioè dalla domanda circa il significato morale della differenza tra naturale e innaturale. In realtà, non è così: abbiamo infatti nel frattempo guadagnato il concetto centrale per la risposta a questa domanda, il concetto di istinto – l’inclinatio, come dicevano gli autori medievali. L’istinto non ci è mai dato in una percezione esterna. L’impulso è qualcosa di interno. Possiamo classificare una reazione osservata dall’esterno come guidata dall’impulso, solo quando noi la interpretiamo in qualche modo in analogia a quella tendenza che è la struttura del nostro proprio essere. E questo lo possiamo fare perché il nostro esser tesi verso qualcosa viene da noi percepito come qualcosa che precede ogni autocoscienza e ogni cosciente porre dei fini, cioè come qualcosa di naturale. E così non abbiamo nessun motivo per ritenere che ciò che noi sperimentiamo come sete sia qualcosa di totalmente diverso da ciò che spinge il cane a correre verso la ciotola e bere.
14In relazione alle nostre azioni, l’istinto occupa una posizione che non può essere descritta con lo schema essere-dovere. Anzitutto, il comportamento umano non è semplicemente un accadere di pulsioni. L’agire comincia anzi proprio là dove ci mettiamo in relazione al nostro istinto e quando non siamo semplicemente esposti a esso. Se ho fame, non devo per forza mangiare. Posso avere dei motivi per non farlo. Posso avere cose più urgenti da fare, posso voler fare una cura dimagrante, può essere Quaresima o ci si può trovare in uno sciopero della fame. La fame non mi costringe a mangiare. Ma la fame non è nemmeno un fatto neutrale che necessiti di un’ulteriore premessa per diventare motivo per un’azione. Non si ha bisogno di alcuna premessa generale del tipo: “Ogni volta che ho fame devo mangiare a meno che qualche altro importante principio sia contrario”. A questa massima si potrebbe obiettare: “E perché dovresti farlo?”. L’istinto si differenzia dagli altri fatti per il fatto che esso stesso possiede già un carattere vettoriale. Esso spinge, rende incline (inclinatio), il che significa: esso stesso è già il motivo per azioni che servono al suo soddisfacimento. Se, come esseri liberi, fossimo a confronto con un mondo di puri matters of fact, noi non potremmo scoprire in questi fatti alcuna motivazione per il nostro agire. E non troveremmo alcun fondamento per poter formulare delle massime che a loro volta potrebbero condurre a indicazioni per l’agire. Solo perché siamo esseri viventi dotati di impulsi, ai quali già e da sempre importa di qualcosa, allora dei fatti esterni possono divenire motivo per delle azioni.
15Ma è l’istinto anche la causa sufficiente per le azioni? È una sufficiente causa per mangiare il fatto che io abbia fame? Qualche volta può essere un motivo sufficiente. Nel caso in cui non ci sia alcun altro motivo che si opponga. Ma cosa può essere un altro motivo? Non è possibile anticiparlo mai in astratto. Come motivo contrario può bastare che qualcuno voglia dimostrare a se stesso di non dipendere dal proprio istinto. Fichte parla di un istinto alla libertà, che consiste semplicemente nel desiderio di un essere libero, di divenire cosciente della propria libertà. L’istinto stesso è dunque per noi causa sufficiente per fare qualcosa quanto al suo appagamento solo quando noi lo rendiamo tale, cioè quando noi accogliamo con libertà quel senso vettoriale che in esso risiede. E questo possiamo farlo solo nel caso in cui percepiamo questo senso come tale, non come factum brutum, come semplice dato di fatto, ma come qualcosa di accessibile a un’interpretazione, come qualcosa che è già una specie di linguaggio.
16L’interpretazione dell’istinto non avviene da sé. Non è affatto natura. È ciò che noi chiamiamo il razionale. Solo nella ragione la natura si manifesta come natura. La bestia ha fame, ma non le si svela il fine naturale della fame, cioè di garantire la propria sopravvivenza, e nemmeno il fine naturale dell’istinto sessuale, cioè la continuazione della specie. Il senso dell’istinto si rivela solo là dove l’istinto stesso perde la sua immediata forza determinante ed è compreso come qualcosa di traducibile in un linguaggio. La bestia senza appetito non vuole predare. Non esiste il bisogno che sopravviva oltre l’appagamento. Noi, invece, pensiamo la fame come un segnale naturale, come funzione della nostra sopravvivenza. Certo, mangiamo per mettere a tacere la fame, ma ci preoccupiamo se di tanto in tanto siamo senza appetito, dal momento che la fame stessa è un mezzo per il fine della sopravvivenza e il mangiare un nutrimento. Così l’autoconservazione di esseri liberi è, da un lato, garantita per lo più dall’istinto, ma, dall’altro lato, è di nuovo legata a un atto libero, il bere e il mangiare, che, a differenza dal respirare, non avviene per natura, cioè da sé.
17Inclinazione non vuol dire costrizione. Che cosa ne deriva? Come azione libera, come actus humanus, come dicevano gli Scolastici commentando Aristotele, bere e mangiare si inseriscono in un contesto culturale. Essi vengono coltivati, culturalmente plasmati. Il cucinare il cibo è in molte culture, come Lévi-Strauss ha mostrato, il paradigma culturale per eccellenza. Mangiare e bere si trasformano nel pranzo, nel pranzo familiare, con gli amici, nel banchetto di nozze. Il fine naturale dell’assunzione di cibo diventa quasi invisibile in queste trasformazioni culturali e in queste nuove funzioni del mangiare e bere. Può divenire quasi invisibile, perché il raggiungimento di questo fine naturale avviene, per così dire, da sé e non deve essere da noi appositamente tematizzato. E tuttavia è decisivo, per il senso umano del mangiare e bere, che la basilare funzione naturale non venga eliminata in modo sistematico, perché, proprio solo in quanto elementari azioni mirate alla sopravvivenza fisica di persone libere, il mangiare e il bere possono guadagnare la propria fondamentale funzione sociale, anche se è solo la loro polivalente codificazione che conferisce a essi il loro significato umano. Se i Romani della tarda antichità estendevano a tal punto i loro banchetti che, dopo aver mangiato a sufficienza, andavano nel vomitorium, e vomitavano per continuare a mangiare subito, così questo distaccare la funzione naturale del mangiare da quella culturale non eleva il mangiare a un piano più alto e più umano, ma lo fa discendere invece a uno più basso. Al posto del nutrimento subentra la vuota sollecitazione del palato.
18Proprio perché l’uomo conosce la naturale funzione dell’istinto, egli può eliminarla. Le bestie non conoscono la funzione naturale, e proprio per questo la realizzano di regola. La latenza assicura la funzione, come Luhmann una volta scrisse. Le funzioni manifeste sono meno assicurate. Esse possono essere eliminate. La separazione del raggiungimento del piacere dal relativo bene oggettivo è già uno dei temi centrali nella Respublica platonica. Mangiare è essenzialmente qualcosa che, mentre realizza una naturale funzione, normalmente fa piacere. Se noi ci immaginiamo che l’umanità potrebbe appagare il proprio atavico bisogno di un allegro e festoso mangiare e bere attraverso il masticare e ingoiare sostanze deliziose ma indigeribili, e assicurarsi il proprio nutrimento attraverso una piccola iniezione giornaliera, è ovvio cosa ciò significherebbe: mangiare e bere cesserebbero di esistere, perché nessuna di queste due azioni sarebbe più degna di questo nome. Un elemento centrale della cultura umana andrebbe perduto. Perché questo elemento non è scindibile dalla sua naturale funzione. Cultura significa originariamente coltivazione della terra, cultura significa natura umanizzata, non annullata.
19Ho volutamente portato questo esempio, perché non appartiene per nulla ai temi solitamente trattati nell’etica, anche se riesce a rendere evidente con particolare chiarezza il nesso tra umanità e naturalità. Al tema della sessualità e della conservazione della specie, che ovviamente sono di un’attualità infinitamente superiore, voglio solo accennare. Se la continuazione a lungo termine della specie umana sia garantita, qualora la si separi dall’appagamento dell’istinto sessuale, a tutt’oggi nessuno è in grado di dirlo. A me sembra improbabile. L’umana e personale sublimazione e integrazione della sessualità umana trasforma questa in un semplice elemento naturale all’interno di un rapporto personale. Ma la separazione sistematica del raggiungimento del piacere sessuale dal naturale contesto funzionale della procreazione della vita umana priverebbe l’amore tra i sessi della sua specifica dimensione umana. Spiritualismo da un lato, naturalismo dall’altro, porterebbero alla scomparsa di ciò che è propriamente umano. Nel momento in cui Max Horkheimer ha indicato nella pillola la fine dell’amore – forse un’affermazione esagerata – aveva davanti agli occhi questo nesso. La cosa ha tuttavia anche un altro risvolto. È pensabile che la continuazione della specie umana in futuro venga assicurata dallo stato, e cioè attraverso la produzione di uomini in provetta. Si deve essere coscienti del fatto che questa produzione in provetta è diversa dalla procreazione, nella misura in cui è un’azione umana finalizzata al raggiungimento di uno scopo, una ποίησις (poíesis), una fabbricazione, non il naturale risultato di una πρᾶξις (prâxis), di un rapporto, di una frequentazione interumana. «Ma non illudetevi», scrive il poeta Gottfried Benn, «che io abbia pensato a voi quando andavo con vostra madre. I suoi occhi si facevano sempre così belli quando facevamo all’amore». Un bambino creato attraverso poíesis è un bambino prodotto, è creatura dei suoi genitori, del medico o dello stato in una misura qualitativamente diversa rispetto al bambino che è debitore della sua esistenza alla natura. Un giorno questo bambino potrebbe con ragione domandare a coloro che lo hanno ‘costretto’ all’esistenza, come essi potevano assumersi una tale responsabilità. Che cosa gli si dovrebbe rispondere? Nessuno può assumersi la responsabilità della vita o della morte di un altro uomo. Si possono avere delle ragioni sufficienti per non voler generare figli, ma un motivo sufficiente per generare un bambino non si può dare, perché l’esistenza di un soggetto autonomo nel fondare le proprie azioni non può essere fondata da altri soggetti. Senza entrare nella casistica, potremmo dire, riassumendo: l’origine naturale dell’uomo e la sua dignità sono inscindibilmente connessi tra loro, e l’umanizzazione dell’istinto naturale non consiste nella sua denaturalizzazione, bensì nella sua cosciente integrazione in un contesto di vita umana e sociale.
20Si obietta spesso contro il concetto di qualcosa di giusto per natura o di una legge morale naturale, dicendo che l’uomo è, in sé e per sé, un essere razionale. Non la natura, ma la ragione dovrebbe essere per lui la misura del giudizio delle azioni. E per questo, al posto del diritto naturale si dovrebbe parlare, piuttosto, di un diritto razionale. Ho cercato di dimostrare che la natura viene a sé solo come ragione. Il diritto naturale non consiste nell’imitazione di una natura esterna all’uomo. Di fatto nella natura al di fuori dell’uomo esistono molte forme di comportamenti parassitari, di sfruttamento di un altro individuo della stessa specie, di perversione dell’istinto; per non parlare del fatto che, per l’animale rapace, l’animale da predare appare semplicemente come un oggetto dell’istinto, totalmente sconosciuto nel suo essere centro autonomo di pulsioni. Si potrebbe provocatoriamente affermare che solo nell’azione razionale il concetto del naturale viene pienamente riscattato. Non tuttavia per porre semplicemente la ragione al posto della natura. La ragione umana è ricettiva. Per sé essa è pura forma. E che il suo imperativo sia puramente formale, viene spesso posto come obiezione contro di essa. E a questo proposito non serve affatto ricorrere alla formula del carattere particolare dell’uomo in quanto fine in sé, perché in un primo momento essa pure resta vuota.
21Si è cercato di mostrare che tanto la formula dell’essere un fine in sé quanto il riferimento alla dignità dell’uomo non possano essere traducibili in termini operativi. Ma quando noi analizziamo come Kant li abbia usati e abbia da essi tratto delle conclusioni molto concrete, possiamo constatare come egli abbia raggiunto tali conclusioni, perché suppone con molta naturalezza che l’uomo abbia qualcosa come una sua natura: che non è da intendere come puro strumento della sua libertà, ma che è, invece, manifestazione della propria personalità nel mondo dei fenomeni. L’uomo deve essere rispettato nell’orizzonte di questa natura – se mai può essere rispettato –, e solo in questa sua natura egli e la sua dignità sono inviolabili. Non gli si può sputare in faccia e dire, nello stesso momento, che con questo gesto non lo si voleva assolutamente ferire nella sua persona. E soprattutto: la tortura è totalmente inconciliabile con il rispetto dell’uomo in quanto soggetto, giacché non solo, cosa che può essere necessaria, può impedirgli un agire dannoso, ma anche lo costringe all’abdicazione in quanto soggetto libero, e mette al posto del suo agire un processo istintivo che intende ridurre l’altro a livelli di reazione da sotto-uomo. Esercitare un’azione sul corpo umano significa pur sempre esercitare una coercizione sull’uomo.
22L’uomo non è una soggettività senza mondo, che ha a propria disposizione qualcosa come un organismo naturale. Il corpo umano è lo stesso uomo. La contrapposizione di natura e persona misconosce il fatto che le persone possiedono una natura nella quale si rappresentano se stesse e nella quale diventano visibili e percepibili a se stesse. Ho già accennato al fatto che l’autoconservazione fisica dell’organismo umano dipende da una libera azione, dal mangiare e dal bere. In questo fatto è di nuovo prefigurato un divieto morale. Non può essere conciliabile con il rispetto per l’uomo in quanto soggetto dotato di libertà, procedere, contro la sua espressa volontà, a un suo nutrimento forzato e con ciò trasformare la conservazione fisica di un uomo in una coercizione dall’esterno, mentre essa è, per sua natura, sempre di nuovo un risultato di libere azioni. Perché la natura di cui qui si tratta, è la natura di una persona, di un essere razionale. Violarla significa violare la dignità dell’uomo. Senza una tale natura la ragione umana in quanto ragion pratica rimarrebbe totalmente formale. Essa non arriverebbe mai dai fatti a degli orientamenti per l’agire. E le sue massime formali si lascerebbero riempire con qualsivoglia contenuto.
23La natura, però, non porta certamente da sé a qualcosa come un dovere. Ciò che essa contiene sono solo tendenze. Con l’emergere dell’istinto la produttività della natura si esaurisce, come dice Fichte. Solo a un essere razionale, capace di riflessione e libero, l’impulso si rivela come tale, la natura si rivela in quanto natura. Solo là dove si guadagni distanza dalla natura attraverso la riflessione, la natura può essere riconosciuta nello stesso momento con libertà e può divenire fonte di vedute morali. Il riconoscimento dell’essere se stessi da parte di esseri naturali, e quindi appunto di ciò che “per natura” sarebbe il giusto comportamento, non succede per natura, non si dà automaticamente o da sé. Ogni essere naturale abbassa tutto ciò che si trova al di fuori di sé ad ambiente circostante. Ogni fiera vive nel centro del proprio mondo. Come esseri fisici, da un punto di vista meramente ottico, anche noi siamo sempre al centro del nostro mondo. L’orizzonte disegna sempre un circolo, nel quale io mi trovo al centro. Ma come esseri razionali noi sappiamo allo stesso tempo che ogni altro uomo è allo stesso modo centro di un mondo. Io ho coscienza di me in quanto essere tra altri esseri. Noi sappiamo di noi stessi in quanto capiamo di essere “l’ambiente” per altri. E nel sapere questo noi sporgiamo proprio dal punto centrale. Io mi so come un’essenza tra le altre. La preoccupazione per una persona amata che viaggia in macchina è, per così dire, semplicemente naturale. Ma l’adesivo che dice: “Pensa a tua moglie. Guida con prudenza”, si appella alla ragione umana. Essa esorta a pensare a se stessi come a persone che sono importanti per altre persone.
24Questo uscire, nel proprio vissuto, dalla posizione centrale non fa sparire ciò che c’è di naturale, ma permette che esso divenga cosciente: tanto la propria natura come quella degli altri uomini. Rispettarli come persone significa dire di sì a loro, proprio nella loro natura. Promuovere quindi non la moralità altrui, ma la felicità altrui è l’espressione primaria della propria moralità, scrive Kant.
25Per concludere voglio proporre due riflessioni. La prima riguarda l’interrogativo circa il criterio per il quale un essere naturale è da rispettare come persona. La seconda, invece, riguarda il problema di una possibile manipolazione della natura umana.
26Quanto al primo quesito: quando un essere vivente è un uomo? La prima risposta è: se appartiene geneticamente alla specie dell’Homo sapiens. Questa risposta sembra essere biologistica. Se il rispetto nei confronti dell’uomo fosse semplicemente una specie di solidarietà di genere, questa risposta potrebbe anche essere sufficiente. Ma una tale solidarietà di genere o è un fatto biologico oppure non si dà. Nei confronti di chi si dovesse comportare in maniera non solidale, non aiuterebbe per nulla ricorrere al fatto che una tale solidarietà si trova qua e là anche nel regno animale. In realtà, lo specifico rispetto morale che dobbiamo all’uomo, non è da concedere al compagno di specie ma alla persona, all’essere razionale, libero e capace di autodeterminazione, a un essere potenzialmente morale. Esso viene concesso a un essere che è in grado di relativizzare se stesso e di assumere una prospettiva al di là della propria centralità, di accettare limitazioni ragionevoli. Proprio per questo può pretendere di essere rispettato nel suo stato di soggetto e di non essere usato come puro oggetto. Ma chi è dunque l’uomo inteso in questo modo? Da dove sappiamo che un essere è veramente una persona? E che esso è capace di autodeterminazione razionale? Non deve per questo darci prima una prova di questo? Forse potremmo rispondere: capace di un’autodeterminazione razionale è un essere capace di parlare, un essere con il quale noi possiamo intrattenere una reciproca comunicazione simbolica. Ma basta questo? Di quale genere deve essere questa comunicazione? E non posso intrattenere un certo tipo di comunicazione anche con il mio cane? Forse addirittura in un modo più intenso di quanto non sia possibile con un malato di mente o con un lattante.
27Chi definisce dove inizia l’uomo come persona? Nella tradizione aristotelica la risposta non era difficile. In essa si traeva la conclusione da ciò che si mostra per lo più, dall’ὡς μάλιστα (hos málista), a ciò che è l’essenza di una cosa. Quale sia l’essenza di ogni uomo, dunque anche quella di coloro che nella loro attuale esistenza non la mostrano, lo si apprende dagli uomini adulti e sani della propria cerchia culturale e deve per questo essere riconosciuto anche in chi non la attualizza adesso. Questa risposta è teoreticamente assai ricca di presupposti. Non è conciliabile per esempio con delle premesse nominalistiche. Ma nella stessa direzione ci conducono anche delle riflessioni che potremmo definire trascendental-pragmatiche. Se si deve dare qualcosa come i diritti umani, questo può accadere solamente a partire dal presupposto che nessuno è autorizzato a giudicare se io sia un soggetto di tale diritti. Quindi la riflessione sui diritti umani significa propriamente che ogni uomo non è cooptato come membro della società umana in base a definite proprietà, ma che entra in tale società in virtù del proprio diritto. “In virtù del proprio diritto”, questo può significare soltanto: in base alla sua appartenenza biologica alla specie umana. Ogni altro criterio significherebbe rendere alcuni giudici di altri. La società umana diverrebbe un closed shop e così l’idea dei diritti umani verrebbe annientata dalle sue radici. Solo quando l’uomo viene riconosciuto come persona in base a ciò che è solo per natura, il riconoscimento va a lui e non a qualcuno che rientra in una categoria che altri hanno stabilito come criterio per tale riconoscimento. Da ciò consegue evidentemente che ogni limite temporale per l’originario riconoscimento dell’uomo in quanto tale è solo convenzionale e quindi tirannico. Là dove siamo in presenza di un individuale dna umano, siamo in presenza di un uomo.
28Da quanto detto risultano già chiari anche i criteri per la valutazione della manipolazione genetica dell’uomo. Per la libertà di manipolazione si fa valere che l’uomo, come esiste oggi, è il risultato di una storia dell’evoluzione naturale e che il mirato intervento sistematico dell’uomo non è certo di minore qualità rispetto alle mutazioni casuali a causa di irradiazioni cosmiche. Perché l’homme de l’homme dovrebbe essere peggiore dell’homme de la nature? La risposta può di nuovo essere solo una di tipo trascendental-pragmatico. Gli uomini non sono soggetti trascendentali, che hanno a disposizione uno strumento, cioè un corpo, capace di un eventuale perfezionamento. Migliorabile per cosa? Per scopi umani. Ma che cosa siano gli scopi umani risulta dalla natura dell’uomo, per quanto questa possa essere contingente. Non possiamo separare una parte non contingente di noi stessi, chiamata persona, soggettività eccetera, da una parte contingente a disposizione per ogni possibile trasformazione. A servizio di quali scopi dovremmo operare tale cambiamento? Perché con la trasformazione verrebbero modificati anche gli stessi scopi. Una tale modificazione della natura umana, per esempio allo scopo di una migliore attitudine a soggiorni interplanetari, significherebbe ridurre gli uomini futuri a puri mezzi per la realizzazione degli scopi degli attuali manipolatori, anche se ciò avverrebbe solo per l’appagamento delle loro fantasie creative o delle loro aspettative rispetto a ciò in cui dovrebbe consistere, secondo loro, la felicità dell’uomo. La dignità dell’uomo risulta così inscindibile dalla sua naturalità. La sua natura è contingente, certamente. Ma ogni intenzionale e programmata trasformazione della natura umana non ridurrebbe certo tale contingenza; la accrescerebbe, invece, fino all’insopportabile.
Approfondimenti
Natura e azione
29La situazione dell’uomo imprime una caratterizzazione al suo agire. Essa, cioè, offre ragioni che sono prima facie, il che vuol dire che al termine di un’ulteriore riflessione vi possono essere ragioni per procedere in direzione contraria. Da questo stato di cose si tira la conclusione che noi disponiamo di fatto fin dall’inizio di libere opzioni di fare questo o quello, senza che nessuna di queste diverse possibilità sia avvantaggiata rispetto alle altre. Ciascuno decide quale scegliere. Questo sarebbe un puro decisionismo. La nostra situazione, però, di norma, non è questa. La natura dell’uomo ci mette a disposizione ragioni prima facie. Se ho fame mangerò, qualora non vi sia alcun motivo cogente a fare il contrario. Non sarebbe giusto dire che vi è la fame, che è un fatto – come del resto altri – ma che io sono libero, e dunque posso scegliere se placare o no questa fame, dal momento che un fatto vale come un altro e se uno ritiene che la fame non vada saziata semplicemente sceglie un’opzione diversa da quella di chi pensa che debba esserlo. Una corretta descrizione di tutto questo parte invece dalla constatazione che l’impulso in noi possiede un significato essenziale in quanto contiene una proposta, una proposta dotata di autorità. Questo è ciò che significa una ragione prima facie.
30Se noi la escludiamo non sappiamo più che cosa dobbiamo fare, ma allora la domanda che si pone non è neppure più quella circa l’agire retto e l’agire scorretto, ma va a finire che ciascuno fa quello che gli pare. Assumere la posizione secondo la quale ognuno fa quello che gli pare ci conduce tuttavia a grandi difficoltà. La posizione morale si presenterà infatti anch’essa come una tra le altre. Al cospetto di chi, seguendo la propria coscienza, afferma: “Il mio desiderio sarebbe questo, ma la mia coscienza m’impedisce di realizzarlo” si direbbe: “Bene, lui parla di coscienza ma anche lui fa ciò che desidera. Egli infatti desidera seguire la sua cosiddetta coscienza e questa è esattamente una libera opzione come qualsiasi altra”. Ma questo costituisce un profondo fraintendimento di ciò che significa “coscienza”. Se si dicesse che chi segue la sua coscienza lo fa perché gli piace farlo, si fornirebbe una falsa descrizione di ciò che accade, perché la descrizione, anche quella psicologicamente corretta, è che l’uomo, contro il suo desiderio primario, fa questo e non altro poiché ritiene che ciò sia il suo dovere. Se si pone questo sullo stesso piano di ogni altra possibilità, allora quell’uomo fa solo ciò che gli piace fare. Questo, però, costituisce un fraintendimento di che cosa voglia dire agire secondo coscienza. Il relativismo attuale è contraddistinto in modo molto marcato dall’idea secondo la quale noi partiamo da zero optando per questo o per quello. Jean Paul Sartre per primo ha introdotto l’idea che siamo noi a decidere chi siamo, che non vi è una natura dell’uomo ma ciascuno sceglie chi vuole essere ed è responsabile di questa scelta. Ma la parola responsabilità così non ha alcun senso, perché se ciascuno è libero di optare in un modo o in un altro che cosa significa allora responsabilità? A qualcuno che dice che devi essere responsabile si può rispondere: “E perché mai? Perché mai devo essere responsabile di qualcosa? Ho fatto questa scelta, punto”. Ma ciò è lontanissimo dalla nostra esperienza, poiché anche il desiderio di un uomo di essere differente da ciò che è rappresenta un desiderio possibile, che però non produce due opzioni o opzioni di pari rango, bensì opzioni che fanno sentire la loro voce contro quello che costituisce il primo darsi dell’impulso che non seguono. Quindi neppure in questo caso giungiamo a una distribuzione del dovere di fondazione.
31Mi sembra una questione filosofica molto importante quella che possiamo apprendere dai giuristi, ossia quella che si interroga sul significato della distribuzione dell’onere della prova. Ipotizziamo che io vada da qualcuno dicendogli: “Mi hai rubato il portafogli, il portafogli che hai in tasca è il mio”. E costui mi risponda: “No, non c’entro nulla”. Se si andasse a finire in tribunale, che cosa dovrebbe fare il giudice? Come dovrebbe decidere se si tratta del mio o del suo portafogli? Il giudice deve partire da zero? No. La legge dice potior est conditio possidentis – una posizione già sviluppata nel Medioevo – che significa che innanzitutto procediamo dalla presunzione di diritto secondo la quale il portafogli che ho in tasca è il mio. Colui che affermasse che tale portafogli gli appartiene deve dimostrarlo. Se non può farlo, se dice: “dimostra tu che il portafogli che tieni in tasca è tuo”, allora io gli risponderei: “io non devo dimostrarlo. È qui nella mia tasca. Forse tu puoi dimostrare che io l’abbia rubato. O forse non puoi”. Il giudice può pervenire a una decisione solo se vi è una disuguale distribuzione dell’onere della prova. Questo mi pare accada anche nel caso dell’agire umano. Noi abbiamo una presunzione a favore della natura, di ciò che è naturale. Questa presunzione può forse venire smentita, ma colui che vuole smentire tale presunzione, e non l’altro, ha il dovere di fondare la propria pretesa. Questo è a mio giudizio un fattore elementare e importante per ogni teoria dell’agire umano: la giustificazione della presunzione di diritto, di un pregiudizio, cioè, per la prescrizione di ciò che è naturale. Se allora qualcuno dice che si tratta di una libera opzione, con ciò elimina il concetto di naturale.
32Si può obiettare che vi sono differenti opinioni attorno a ciò che è naturale. In realtà tali opinioni non sono poi così varie se ci mettiamo a svolgere una discussione vera e seria. Vi sono forse desideri che si oppongono alla ragione e ciò in qualche caso muta effettivamente l’onere della prova: se qualcuno ha un intenso desiderio orientato contro ciò che è giusto per natura, allora egli può dire di avere questo forte desiderio e quindi l’onere della prova si sposta. Tale onere ricade su colui che vuole criticare il suo desiderio. Io non affermo quindi che l’onere della prova ricade sempre su colui che critica il concetto di naturale. Il concetto di naturale è controverso e dunque non si può dire che esso abbia una presunzione di diritto in favore di se stesso. Attraverso una forte tensione soggettiva l’onere della dimostrazione può spostarsi ma ciò significa, allora, che vi è un controargomento contro i desideri ed esso è ciò che io ho chiamato l’impulso interpretato.
33L’impulso umano non è per me semplicemente qualcosa di cieco, ma è interpretabile. Questo è ciò che troviamo nella Repubblica di Platone. Questi più di ogni altro ha esaminato a fondo l’idea che gli impulsi siano buoni per qualcosa. Egli ha anche mostrato che noi possiamo comprendere qualcosa riguardo a ciò per cui essi sono buoni e che la sistematica messa fuori gioco del contenuto naturale dell’impulso produce una società nella quale non vi è più alcun posto per il concetto di bene. Platone la chiama κολακεία (kolakeía), adulazione. Nel Gorgia radicalizza il valore di questa posizione. Platone è persino dell’idea che anche l’arte culinaria sia kolakeía. Vi è infatti un sapore che i cibi possiedono per natura e che anche gli uomini gustano. I cibi buoni e sani sono anche gustosi. L’arte culinaria tuttavia può rendere gustosi anche cibi completamente avariati, può prepararli in maniera tale che non ci si accorga che sono cattivi. Platone offre molti esempi di quest’idea. Indica l’arte culinaria ma anche la cosmetica. Egli afferma che un aspetto sano appare normalmente bello ma può darsi il caso che anche un uomo assolutamente non sano appaia allo stesso modo. Si può cioè intervenire con la cosmetica in maniera tale che si dica: “Magnifico! Come è bello!” sebbene sia tutto merito della cosmesi. Una tale società, alla lunga, non è una buona società. Ciò che è naturale dovrebbe sempre allo stesso tempo darsi come ciò che offre una soddisfazione soggettiva. Naturalmente Platone sa che alla lunga non accade questo, ma la sua critica alla cultura si basa interamente sull’idea che gli impulsi hanno fini naturali e che tuttavia tale fatto può essere ignorato o rimosso. Anche Luhmann ha mostrato in modo altrettanto chiaro il fatto che la latenza del fine dell’impulso è importante per la sua conservazione. L’uomo che conosce tale funzione può metterla fuori gioco. Prendiamo l’esempio della pillola contraccettiva. Essa ha prodotto quello spostamento nell’onere della dimostrazione di cui parlavamo. Vi è sempre stato chi diceva di non voler figli, che ne aveva abbastanza oppure che in quel momento non voleva averne o donne che volevano decidere quando averne. Che cosa ha portato di nuovo la pillola? La novità è che non si deve più solo decidere di non avere bambini o di volerne avere uno adesso, ma ora devo anche decidere di volerne avere. Questo è il fatto nuovo: la simmetria. Perché se la pillola è divenuta un’abitudine, allora bisogna prendere una decisione: non devo usarla adesso. Ma questo produce una simmetria che rende difficile prendere una decisione giusta poiché, come dicevo, non posso, in ultima analisi, giustificare l’esistenza di un uomo, se egli è un soggetto di libertà. La giustificazione o la non giustificazione sarebbe infinita. Quello che Platone vuole mostrare è che l’impulso assicura che non vi sia simmetria: che si debba fondare il fatto di non voler avere figli ma che non si debba fondare il fatto di volerne avere uno. E se si deve anche dare un fondamento a questo, allora la questione aperta è quella se l’esistenza dell’umanità venga assicurata nel lungo periodo qualora essa non si basi più su un impulso potente, una ragione prima facie, ma divenga solo un libero atto di decisione. Una ragione prima facie è una ragione che io non devo a mia volta fondare, ma che costituisce un dato originario della natura. Una civiltà veramente umana, a mio giudizio, esige che la distribuzione dei doveri di giustificazione non venga messa fuori gioco dal desiderio di realizzare una completa simmetria e d’intendere la libertà dell’uomo come una decisione senza fondamento in favore di una cosa qualsiasi.
34Nella valutazione delle evidenze naturali e nell’argomentazione vi sono certamente sempre dei rischi. Ci sono evidenze di cui disponiamo. C’è la fede, ma abbiamo anche altre evidenze che contrastano le conclusioni dei nostri ragionamenti. Può anche darsi il caso che noi continuiamo a cercare argomenti a supporto di qualcosa del quale sappiamo già che è vero o che crediamo di sapere che è vero. C’è tuttavia un’abitudine molto diffusa a ingannare se stessi, cioè a comportarsi come se, nella ricerca di argomenti riguardo a ciò che è giusto, ci si avvicinasse alla realtà completamente liberi da pregiudizi. Sotto molti aspetti noi abbiamo invece già un’anticipazione istintiva di ciò che riteniamo giusto, anche se può accadere che nella ricerca di argomenti la mia evidenza originaria sia scossa. Cerco le ragioni ma noto che essa non ne ha e l’evidenza originaria inizia a vacillare. Certo, il pericolo dell’argomentazione è che, se essa non è concludente, si pensa allora che anche le conclusioni siano false. Ma da un punto di vista logico ciò non è corretto perché è possibile fondare erroneamente una cosa giusta e la cosa non diviene sbagliata se la giustificazione è sbagliata.
35Io conoscevo un contadino della Westfalia che aveva nascosto un ebreo salvandogli la vita. Questo contadino non era un uomo particolarmente intelligente. Conosceva gli argomenti della propaganda nazista secondo cui gli ebrei erano dannosi per l’umanità, erano parassiti e ovunque la loro attività era finalizzata alla distruzione dell’unità del popolo e così via. Il contadino non aveva controargomenti, diceva solo: “Non è possibile, non si possono trattare degli esseri umani così come i nazisti trattano gli ebrei. Per favore chiudete la bocca, non voglio affatto ascoltare i vostri argomenti. Io nascondo quest’uomo e lo aiuto a vivere e basta!”. Ho provato grande rispetto per quest’uomo. Lui disprezzava gli argomenti e seguiva la propria evidenza e così si comportava da uomo poiché quegli argomenti erano argomenti per criminali. Si tratta quindi di un’immediatezza. La deduzione da massime non è la forma normale del discernimento morale. Questa è piuttosto un’evidenza immediata la quale successivamente viene supportata da argomenti. Ma bisogna fare attenzione, poiché se si hanno cattivi argomenti s’indebolisce la cosa stessa.
Il problema del criterio di valutazione
36Come arriviamo di fatto a giudicare un certo modo di vivere o di comportarsi? Consideriamo le situazioni in cui vediamo qualcuno che fa qualcosa che noi al suo posto non faremmo. Notiamo che occorre fare una distinzione. Ci sono infatti modi d’agire, si pensi agli omicidi a sfondo sessuale o all’abuso sui bambini, che non voglio assolutamente seguire. Si tratta di esperienze che non vogliamo assolutamente fare. Poi ci sono altre esperienze di fronte alle quali pensiamo che si tratti di qualcosa di strano (come potrebbe essere per esempio la vita in un monastero di clausura), che non si possa vivere in quel modo, ma per le quali non ci sentiremmo di escludere che, se mai una volta facessimo quell’esperienza, potrebbe rivelarsi qualcosa che arricchisce molto la nostra vita. Ciò esige che ci si interroghi sul criterio che usiamo per decidere quali esperienze desideriamo fare e quali non desideriamo fare. L’esempio di altri uomini gioca in questo contesto un ruolo rilevante.
37C. S. Lewis ha discusso il problema della qualità in letteratura: qual è un buon libro e qual è un cattivo libro dal punto di vista estetico e letterario?1 Egli afferma che la gioia che provo leggendo un libro veramente buono è qualcosa di incomparabile con il piacere che provo leggendo un altro libro – magari un romanzo poliziesco anche bello e che leggo volentieri – terminato il quale però penso: “Bene, adesso so chi era l’assassino, non devo leggere il libro un’altra volta”. Vi sono dei casi però in cui, anche se capisco chi è l’assassino, il libro è così buono che lo leggo due o tre volte. C. S. Lewis afferma che ci sono poi dei casi nei quali un libro – ma può essere anche un dipinto – non viene apprezzato da una persona, questa non capisce neppure che cosa vi trovi di interessante la gente, eppure si rende conto che c’è gente che lo legge e ne riceve grande gioia. Lo legge e lo rilegge perché lo fa volentieri. C’è, per esempio, un libro che io rileggo almeno una volta ogni sette anni. Si tratta di Nachsommer di Adalbert Stifter. Devo rileggerlo. Qualcuno può dirmi al riguardo: “Mi sono annoiato leggendo le prime venti pagine e ho messo da parte il libro. È noioso!”. Dove sta allora il criterio? È puramente soggettivo? Lewis risponde di no. È la gioia che qualcuno prova di fronte a esso, una gioia che lo porta a desiderare ogni volta di rileggerlo volentieri e che appaga completamente anche gli strati più profondi della persona, non solo per un momento come accade per ciò che è piacevole, perché il libro lo ha realmente commosso. Se io vedo questo in un altro, penso che il libro abbia delle qualità che ancora non ho scoperto ma che deve avere, perché non è possibile provare quella gioia senza che a essa corrisponda un certa qualità reale.
38L’esempio di altri uomini dunque gioca un ruolo rilevante riguardo alla questione se noi vogliamo fare o non vogliamo fare determinate esperienze. Se un uomo, che io stimo molto, apprezza grandemente un’opera d’arte che io invece non apprezzo allo stesso modo, allora mi darò da fare per scoprire che cosa egli apprezzi in tale opera. Io infatti so che quest’uomo possiede realmente un senso della qualità e allora tenterò di vedere se anch’io non posso eventualmente fare questa scoperta. Forse la farò, forse no. Penso allora che essere aperti a esperienze che non abbiamo ancora fatto dipende molto dai rapporti personali, dall’osservazione dell’uomo che fa questa esperienza.
39Dobbiamo andare in cerca delle esperienze buone e non di quelle cattive. Che cosa però mi consente di sapere se si tratta di un’esperienza buona o cattiva? Devo, appunto, guardare agli uomini. Aristotele, per esempio, dice che la virtù è ciò che appare virtuoso a un uomo virtuoso. Si direbbe che è una tautologia: io dovrei già sapere chi è virtuoso. Ma non si tratta di una tautologia. Aristotele piuttosto muove dal fatto che noi percepiamo più immediatamente, se così si può dire, chi è un uomo buono che non qual è il bene. E se si dice: “Fai ciò che fanno gli uomini buoni!” non si tratta di una vuota tautologia, ma significa che tu conosci uomini buoni, ne hai fatto esperienza. Un uomo saggio è un uomo che offre aiuto, che è anche coraggioso, ha un carattere forte. Si tratta di qualità che ci stimolano ad andare a vedere come quell’uomo vive, quali esperienze fa. La circolarità apparente di questa condizione esiste solo se si assume un falso concetto di opzione, quello che pretende di esercitarsi a partire da un punto zero che in realtà non c’è, e non c’è già solo per il fatto che io sono in rapporto con altri uomini e solo così si va avanti facendo nuove esperienze.
40Già Platone affermava che non si diviene migliori grazie all’esperienza di ciò che è cattivo, grazie ad azioni cattive. Si potrebbe dire al riguardo che io stesso devo aver conosciuto come sia commettere un delitto per poterlo giudicare tale. Platone, però, risponde che ciò è sbagliato, che vi sono cose cattive di cui non devo far esperienza io stesso per sapere che sono tali. Alcuni poi pensano che l’io in quanto soggetto resti sempre l’io e che le impressioni che riceviamo, i libri che leggiamo, gli uomini con i quali entriamo in rapporto, i film che vediamo riguardino tutti solo uno strato che non è quello dell’io. Ma non è così. Noi veniamo trasformati da ogni impressione che riceviamo dal di fuori e ci esponiamo a queste trasformazioni. Ed è ragionevole vedere quale tipo di trasformazioni io valuti desiderabili e a tal fine l’esempio di altri uomini, di nuovo, gioca un ruolo importante. Dunque un uomo che non conosce nessun altro che egli stimi meglio di se stesso non potrà fare determinate esperienze. È per questo motivo che può esserci un vizio fondamentale che è veramente cattivo e che consiste nel provare risentimento nei confronti di uomini che sono migliori di noi. Vi sono gradi di questo risentimento che Max Scheler ha analizzato in modo pregevole e che anche Nietzsche ha descritto. A un primo livello io parlo di un uomo virtuoso dicendo a qualcun altro: “Osservalo bene! Anche quell’uomo in realtà è un egoista scaltro e raffinato e tu non te ne sei accorto”. E questo significa che non si vuole accettare che qualcuno sia un uomo realmente migliore. Ma il livello successivo è che io dico che la sua virtù non è affatto una virtù, che si dovrebbe vivere in tutt’altro modo. Non si nega quindi solo l’essere virtuoso di quell’uomo ma il valore stesso, e il risentimento mi impedisce di riconoscere quegli uomini che posso trovare migliori di quanto sia io e dai quali posso imparare qualcosa. Un uomo, quindi, che è capace di ammirazione e di gratitudine ha una grande opportunità di fare esperienze che finora non ha fatto e l’uomo che non conosce né l’ammirazione né la gratitudine ha meno possibilità di cambiare in positivo la propria vita.
Evidenza della natura e difesa della vita
41Se si discute attorno alla questione della difesa della vita, a parlare in favore di essa è innanzitutto proprio un’evidenza. Si tratta infatti di un desiderio istintivo che gli uomini hanno. Prendiamo per esempio il trapianto d’organi quale viene oggi praticato. Il pericolo di tali interventi è che essi hanno portato a introdurre un nuovo concetto di morte, il concetto di morte cerebrale. Ma è sempre più chiaro che non è corretto dire che la morte cerebrale è la morte dell’uomo. Il medico assume una posizione completamente nuova. Nell’etica medica tradizionale europea accadeva che i presenti, i parenti, gli amici a un certo momento constatavano la morte del loro caro. Si trattava di qualcosa che si vedeva, di qualcosa di evidente. Io posso confermarlo per esperienza personale. Ma la mentalità presente nella nostra legislazione afferma che invece bisogna essere sempre diffidenti anche della propria evidenza, che non è sufficiente che i presenti vedano che il loro caro è morto. Devono chiamare un medico il quale deve confermare il loro giudizio. E ci sono casi nei quali tutti pensano che la persona sia morta e il medico invece dice che non è così, che quell’uomo vive ancora e vuole a tutti i costi impedire che venga seppellito ancora in vita. Si tratta di un’ansia che gli uomini hanno sempre avuto. Ora accade esattamente il contrario: si mantiene artificialmente in vita un uomo con l’ausilio di apparecchiature. Il sangue circola, il colorito del viso è ancora rosa. L’uomo vive aiutato dalle apparecchiature. Il medico arriva e dice a chi è lì: “Sì, voi pensate che sia ancora vivo, che respiri e che dunque viva. Ma non è così. È morto. Su, veloci che abbiamo bisogno dei suoi organi”. In questo caso il medico accelera la proclamazione del decesso invece di rallentarla e questo rappresenta un cattivo uso dell’arte medica. Il medico, infatti, non è lì per distruggere l’evidenza che quest’uomo vive, ma eventualmente per mettere in dubbio l’ipotesi che sia morto e quindi per rinviare il momento della sepoltura. Lasciare che intercorra del tempo tra il momento della morte e la sepoltura appartiene alle regole umane fin da quando esiste l’uomo. Adesso invece vale la massima opposta di non concedere tempo a un uomo che ha organi sani, ma anzi di accorciarlo. Questo tuttavia contraddice l’ethos medico. Qualcuno dice addirittura che gli uomini devono in ogni caso morire e che si deve aiutarli a farlo. Si deve solo tralasciare di fornirgli qualche determinato ausilio e colui che può morire muore. Ciò che intendo sostenere non è un dovere incondizionato a prolungare la vita ma una lotta ragionevole contro la morte. Una lotta che alla fine perdiamo, perché quando il processo della morte ha avuto inizio, esso non può più essere fermato.
42È una sventura per la cosa stessa, ma anche per la filosofia che vi siano sempre più professori di bioetica. Non la trovo affatto una cosa buona. Non bisogna isolare questi problemi e dire: “Io faccio bioetica”. Ciò che è filosofico nella bioetica sono le domande di fondo, per esempio, proprio la questione di ciò che è naturale e ciò che non è naturale, questione sulla quale esiste certamente una diversità di opinioni. Se si vuole condurre una qualche analisi a tale riguardo si deve entrare in questioni filosofiche molto fondamentali. Chi dunque ha imparato solo la bioetica non sa propriamente ciò che fa. Egli non può giustificare i propri criteri – cosa che infatti i bioeticisti non fanno assolutamente – e li presuppone come ovvi. Ma si tratta di un sotterfugio con il quale ci si sottrae alla discussione. È ciò che accade per esempio con Peter Singer. L’utilitarismo costituisce per lui un presupposto ovvio che egli non discute per nulla. Lo applica a determinati ambiti di problemi e poi giunge anch’egli a risposte coerenti, ma sulla questione di fondo – qual è il criterio per la valutazione di tali questioni? – egli non ha mai seriamente riflettuto, neppure da un punto di vista storico. Naturalmente si può dire che sono emersi nuovi problemi per i quali gli antichi non avevano una soluzione dal momento che tali problemi per loro ancora non esistevano. Ma in questi casi si devono ricondurre i problemi ai loro fondamenti. Pensiamo per esempio all’antica regola medica che prescriveva di allungare la vita dell’uomo. Il medico lotta contro la morte, e questo lo rende propriamente un eroe tragico. Egli infatti perde sempre. Il medico può darsi da fare quanto vuole ma alla fine vince la morte. Ma la domanda è: che rapporto intrattiene con questo fallimento? E che rapporto intrattiene con il prolungamento della vita? Un medico deve servire la vita, non la morte. Deve prolungare la vita umana. Noi però adesso disponiamo di mezzi di prolungamento della vita che sono infiniti. In un paio di decenni si prolungherà la vita umana fino a 130 anni. Molto di più no, perché vi sono impedimenti biologici di fondo, ma fino a circa 130 anni gli uomini potranno arrivare, anche se è tutt’altra questione quella se si tratti di qualcosa di desiderabile. La domanda allora è: vale ancora sempre il principio di prolungare la vita umana il più possibile? Su tale questione si fronteggiano le risposte di tre scuole. Gli uni affermano che il medico deve farlo; se può prolungare la vita allora deve prolungarla. Altri invece affermano che si tratta di qualcosa di innaturale, che morire appartiene all’uomo e combattere all’infinito la morte non ha senso. Si deve cioè anche accettare che a un certo momento l’uomo muoia. Giunto a quel punto bisogna lasciarlo morire in pace. Poi c’è questa terza scuola la quale sostiene che c’è un momento a partire dal quale la vita non è più degna di essere vissuta e quindi si deve aiutare a morire l’uomo che è giunto a tale momento. Si deve fargli un’iniezione e lui muore. Questa discussione non c’è stata nell’antichità, nel Medioevo e neppure all’inizio dell’età moderna. Il problema è infatti recente, ma se vogliamo trovare una risposta dobbiamo tornare a domande che già prima erano state poste. Dobbiamo infatti interrogarci su quale sia la relazione tra morire e vivere, su quale significato abbiano “morire” e “vivere”, dobbiamo domandarci cioè se il morire sia un atto umano o, semplicemente, un “basta, è tutto finito”. Le questioni su cui dobbiamo riflettere ci mettono in rapporto con la storia. Solo così possiamo procedere e non limitarci a constatare una serie di opinioni diverse tra le quali dovremmo scegliere, come in un negozio in cui comprare la merce che costa meno. Questo non è umano. Umano è invece che noi parliamo di ciò e tentiamo di scoprire che cosa è giusto. Per questo la filosofia e la storia della filosofia continuano ad avere la più grande importanza. Oggi, invece, vi è la tendenza a isolare la bioetica staccandola dal più ampio dialogo filosofico. Così essa diviene semplicemente un mero scambio di opinioni o una guerra politica, ma non una soluzione responsabile.
Notes de bas de page
1 Cfr. C.S. Lewis, An Experiment in Criticism, Cambridge, Cambridge University Press, 1961.
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