2. Sulla preistoria del concetto di natura nel XVIII secolo
p. 33-55
Texte intégral
1II concetto di natura è sempre stato un concetto polisemico. Fin dall’antitesi antica di φύσις (phýsis) e νόμος (nómos), esso ha acquisito uno specifico significato quasi sempre dal corrispondente contro-concetto, come nel caso del concetto di τέχνη (téchne) o quello di costrizione (nell’opposizione aristotelica tra movimento naturale e forzato), o nell’antitesi natura-voluntas, che troviamo in Cicerone e nel Medioevo, il concetto di libero atto volontario1.
2In Tommaso d’Aquino nella volontà stessa viene statuita di nuovo una “natura” distinta dal liberum arbitrium: la tendenza formale verso il bonum ovvero, considerato soggettivamente, verso la beatitudo – che tanto per Agostino come per Tommaso d’Aquino costituisce prima di tutto il volere in quanto volere – viene distinta dall’atto di volontà propriamente libero in quanto sua possibilità2.
3Questa non univocità del concetto di natura fino al secolo xviii non costituisce ancora propriamente un problema. Non compromette un’intesa comunicativa. Non la compromette fintantoché il termine “natura” adempie di volta in volta una funzione analogica nelle differenti coppie di opposti. L’univocità del concetto di natura viene assicurata dall’univocità del suo oggetto. La natura designa sempre una condizione non posta dal nómos, dalla téchne, dalla libertà. Ma allo stesso tempo sempre un qualcosa presupposto dal contesto della vita umana come condizione della sua possibilità. E quasi sempre il concetto di natura è già implicitamente dialettico nel senso che esso abbraccia il suo esatto opposto, così come la verità abbraccia il concetto di apparenza.
4Proprio là dove, come nella Sofistica, la phýsis viene contrapposta al nómos con un proposito critico e emancipatorio, in tal caso al nómos viene accordata un’origine che lo legittima al di là della phýsis: lo smascheramento consiste proprio nel mostrare l’origine naturale del nómos opposto alla natura. E la controcritica di Platone non consiste nel rivendicare al nómos un’origine non naturale, piuttosto egli trasforma il concetto stesso di phýsis in modo che il nómos risulti come la realizzazione della natura teleologicamente pensata dell’uomo, il καλόν (kalón) come ἀγαθὸν (agathón), il nobile come ciò che è in pari tempo conveniente.
5Nel xvii e xviii secolo l’ambiguità del concetto di natura diventa espressamente un problema. David Hume definisce la natura «un vago termine indeterminato, a cui la moltitudine attribuisce di tutto»3. Robert Boyle vuole abolire questo termine e sostituirlo con «meccanismo»4. Johannes Christoph Sturm nel suo scritto De naturae agentis superstitioso conceptu scrive: «In tutta la filosofia della natura difficilmente vi è un termine che sia ambiguo e equivoco quanto quello che ha dato il nome a essa, e cioè il termine phýsis, che i latini hanno reso con “natura”»5. E cento anni dopo, volgendosi indietro alla Rivoluzione francese e ai suoi fondamenti teoretici, il filosofo della restaurazione Bonald attribuirà gli errori della teoria rivoluzionaria all’ambiguità del termine “natura” e “naturale”6.
6Una rappresentazione del concetto di natura nel xviii secolo dovrebbe interrogarsi su quest’ambiguità, o più esattamente sulla ragione per cui essa improvvisamente sia diventata un problema. Ciò che qui sorprende è il modo singolare di volgersi verso la natura nella forma delle scienze naturali, il quale mette in questione il concetto stesso di natura. Così in Boyle, in Sturm, in Hume, e poi in Voltaire che, nel suo Dialogue entre le philosophe et la nature, fa dire alla natura: «Mi si è dato un nome che non mi spetta: mi si chiama natura, e invece sono assolutamente arte»7.
7Questo poi ci deve ulteriormente sorprendere: nella Sofistica la natura era un concetto che designava emancipazione. Così è anche nel xviii secolo. Il nuovo ordine dell’emancipazione dalle strutture della vecchia Europa viene costruito dal barone di Holbach come Système de la nature, e l’Abbé Morelly progetta per essa un code de la nature. Ma questo stesso movimento, che viene inteso come emancipazione della natura, da altri autori, e talvolta dagli stessi, viene determinato come “uscita dalla natura”, per esempio quando Kant scrive che l’uomo deve uscire dalla condizione etica naturale, per divenire membro di un essere etico comune8. In altro luogo, tuttavia, dell’emancipazione dalla natura Kant dice che è la stessa natura ad averla voluta, e che essa non è altro che il compimento di un piano nascosto della natura9. Schiller parla di passaggio dallo “stato di natura” allo “stato di ragione”10. E ancora per Marx i vincoli feudali da cui ci si emancipa attraverso la rivoluzione borghese sono “rapporti naturali”11.
8L’ambiguità del concetto di natura nel xviii secolo si può, approssimativamente e schematicamente, determinare così: da una parte natura è un corredo individuale di capacità determinate primariamente dall’istinto di autoconservazione e dalla struttura dei bisogni dell’uomo, che si manifesta quando l’uomo abbandona la struttura del mondo storico tradizionale cristiano. Dall’altra, natura è un’ipotetica condizione iniziale dell’uomo che precede questa storia. A seconda che la storia, giunta fino a oggi, venga intesa come allontanamento dalla natura iniziale o viceversa come qualcosa che rimane al suo interno, l’emancipazione appare come ritorno alla natura o come uscita da essa. Entrambi questi modi di considerarla sono possibili, soprattutto se accettiamo un terzo significato del termine natura: natura come nesso totale dei fenomeni. Così Kant, nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, distingue la «natura in senso materiale» come «essenza di tutte le cose, nella misura in cui essi possono essere oggetti dei nostri sensi, dunque anche dell’esperienza, in cui dunque viene intesa la totalità di tutti i fenomeni, cioè il mondo sensibile, con esclusione di tutti gli oggetti non sensibili». E «la natura in senso formale come il primo principio interno di tutto ciò che appartiene all’esistenza di una cosa»12.
9Ora la storia giunta fino a noi, intesa come storia della repressione, è antinaturale nel senso che è la natura nel senso formale, a cui viene fatta violenza. Tuttavia la stessa storia è naturale nel senso che la violenza che un essere cagiona a un altro non ha alcuna origine extranaturale, ma è la legge di natura in senso materiale, la legge dell’esperienza e del mondo sensibile, in quanto in essa una legislazione della ragione ha dissolto la legge naturale che violenta incessantemente la natura. In tal senso l’emancipazione è liberazione dalla natura. Il xviii secolo è immerso in questa dialettica del concetto di natura e per questa ragione non riesce ancora a pensarla.
10Il concetto sembra cadere a pezzi in un’ambiguità priva di relazioni. Due ragioni si possono addurre in ordine a questo processo. Due ragioni certamente legate in un modo che occorrerà chiarire ancor più da vicino. La prima ragione è l’abbandono dell’osservazione teleologica della natura, dell’idea aristotelica di entelechia. La quale, secondo le parole di Bacone, è tamquam virgo Deo consacrata, quae nihil parit13. Nell’idea di entelechia era stata superata quell’ambiguità del concetto di natura come inizio e come un qualcosa che abbraccia l’altro da se stesso come τέλος (télos). L’abbandono dell’idea di entelechia viene ora inteso da Boyle e dal citato Sturm come abbandono del concetto stesso di natura, per esempio quando l’horror vacui viene smascherato come mistificazione di un principio meccanico. Non si dà una natura che abbia orrore di fronte a qualcosa o una tendenza verso qualcosa. Per i cartesiani il mondo è un meccanismo caricato, per il cui processo non occorre un archeus, un principio ilarchico, una «natura», ma soltanto un orologiaio. Così anche la teoria meccanicistica del mondo viene considerata come una teoria timorata di Dio, come vindicatio gloriae supremae numinis14. In realtà, era stata la stessa teologia cristiana, e da lungo tempo, che aveva scalzato l’entelechia classica. L’argomento di Giovanni Buridano contro la causa finalis, per cui ad agire non può essere un fine, ma soltanto uno spirito che pone un fine15, è già presente in Tommaso d’Aquino, che dalla struttura teleologica del vivente desume una prova dell’esistenza di Dio proprio con quest’argomento: «Le cose che non posseggono nessuna conoscenza, tendono verso un fine soltanto quando vengono guidate da un essere conoscente e intelligente verso un fine come la freccia dal tiratore»16. Così, alla fine, ogni teleologia viene posta fuori dal mondo e trasferita nello spirito divino. Il mondo, in tal modo, diventa una macchina. L’interpretazione meccanicistica, ingiuriata successivamente come non divina, è in realtà di origine teologica. Fino al xviii secolo essa va di pari passo con una teleologia universale sconosciuta al Medioevo in questa forma, vale a dire col tentativo di mostrare la costruzione razionale di questa macchina universale – e certo in riferimento all’uomo come fine ultimo.
11Per l’impiego del concetto di natura nel xviii secolo all’interno delle teorie sociali mi sembra tuttavia che vi sia una seconda cosa che gioca un ruolo pari al motivo teologico. Nell’introduzione ho richiamato l’attenzione sulle grandi antitesi nelle quali il concetto di natura affiora e dalle quali esso trae il suo corrispondente significato. Non ho menzionato un’antitesi che nella prima modernità ha superato tutte le altre, l’antitesi natura-gratia, e successivamente “naturale” e “sovrannaturale”. È soprattutto quest’antitesi che prepara il concetto di natura utilizzato nella teoria sociale del xviii secolo. Non vorrei qui occuparmi dell’origine del concetto di sovrannaturale. Il quale, alla fine, ritorna all’ἐπέκεινα τῆς οὐσίας (al di là dell’essere) di Platone17. Ciò che qui interessa non sono tanto le origini quanto le conseguenze di questa nuova antitesi. In essa infatti il concetto di natura sperimenta una profonda trasformazione.
12In un duplice modo, in primo luogo nell’antitesi natura-gratia tutte le distinzioni precedenti, dimostrate sul piano fenomenico, vengono livellate: nel concetto teologico di natura viene sussunto tutto ciò che prima era stato inteso come opposto alla natura. In secondo luogo, tutta la moralità umana, come regno delle virtù naturali e morali, viene contrapposta alle virtù soprannaturali della fede, speranza e carità.
13Ogni agire e fare umano, per quanto riguarda l’opposizione ora decisiva natura-gratia, si sposta sul lato della natura. La voluntas umana, per quanto riguarda la possibilità di una trascendenza, che si apre nella caritas, diventa pura natura, così come già in Paolo la ragione umana autonoma era stata sussunta nel concetto di “carne”. Senza dubbio la distinzione di natura e grazia nei suoi fondamenti è antica quanto la teologia cristiana. Tuttavia per tutto il Medioevo la dottrina platonica dell’anima viene considerata come qualcosa di divino, la cui trattazione appartiene prima alla teologia che alla fisica, così come avviene in Boezio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, Ugo da San Vittore. Tommaso d’Aquino distingue la natura intellectualis dalla creatura naturalis ovvero la res naturalis18. (Così come, in generale, occorre osservare che il termine naturalis è sempre molto più specifico di quello di natura). Ma soprattutto: per il dinamismo teleologico della filosofia e della teologia dell’alto Medioevo esiste una diretta finalità della natura umana verso una beatitudine conseguibile soltanto attraverso la grazia. Così si dice nel Commentario a Boezio di Tommaso d’Aquino: «Anche se l’uomo propende per natura al fine ultimo, egli non può però raggiungerlo tramite la natura, ma solo attraverso la grazia […] e certo in ragione dell’elevatezza di tale fine»19. E Tommaso tenta, in questo senso, addirittura di prendere in considerazione l’Etica Nicomachea: «Ciò che noi possiamo attraverso l’aiuto divino, non è per noi semplicemente impossibile, come afferma Aristotele: “Ciò che noi possiamo attraverso gli amici, in un certo senso lo possiamo noi stessi”»20.
14Tuttavia quest’idea di una teleologia immanente, che in ragione dell’infinitezza del fine non poteva produrre tale fine, era naturalmente del tutto non aristotelica. E richiamandosi ad Aristotele, gli ultimi Scolastici, e certo proprio quelli tomisti, hanno abbandonato quest’idea. Così scrive Silvestro da Ferrara: «Se Dio fosse il fine naturale, vale a dire il fine a cui tende la natura, in realtà raggiungibile soltanto in modo sovrannaturale, questo significherebbe che la natura orienta il suo soggetto verso qualcosa che non è in grado di produrre. In realtà una tendenza presente in tutte le nature che non fosse in alcun modo appagabile dalla natura, esisterebbe invano nella natura […]. È insensato che si aspiri a qualcosa attraverso un impulso naturale – l’unica forma di inclinazione naturale – senza che l’uomo possa raggiungere questo fine mediante una qualche capacità naturale, poiché la natura ha per sé tendenze solo all’interno dei limiti della natura»21.Tutti i tomisti del xvi secolo citano in questo contesto Aristotele: «Se la natura avesse dato ai corpi celesti l’inclinazione al movimento rettilineo, avrebbe dato loro anche i mezzi per un tale movimento»22.
15La concezione della natura qui annunciata si muove nella direzione della definizione cartesiano-spinoziana della sostanza come ciò che può essere concepito senza il concetto di un’altra cosa. Uno specifico motivo teologico agisce in questa direzione: l’idea di un desiderium naturale, che nella natura porta oltre questa – così concludono i teologi del xvi secolo – farebbe della salvezza una pretesa legittima; la grazia cesserebbe di essere un dono. La conseguenza fu che alla determinazione reale dell’uomo dal punto di vista della storia della salvezza subentrava una determinazione ipotetica, puramente naturale, un finis naturalis; nasceva la costruzione, gravida di conseguenze, di una “natura pura”. Dio avrebbe potuto creare l’uomo – questa era la tesi – anche in puris naturalibus. La determinazione salvifica in rapporto alla natura dell’uomo è puramente accidentale. La relazione della natura con questa determinazione consiste soltanto in una cosiddetta potentia obedientialis, una capacità passiva di essere assorbita in questa nuova determinazione attraverso l’onnipotenza divina. E solo ora diventa normale l’impiego del termine supernaturalis per tale determinazione salvifica.
16Il sistema della natura pura è poi divenuto dominante nella teologia cattolica nella disputa con Bajus23. Per quanto riguarda la gratuità della grazia, l’autonomia della natura viene trasformata in un postulato, rispetto al quale la grazia ha soltanto il carattere di un superadditum. Non da ultimo, a favorire questo sviluppo, è la penetrazione di categorie giuridiche nella storia della salvezza. L’idea che l’uomo possa essere destinato a qualcosa che necessariamente ha il carattere del libero dono svanisce. O la natura è ordinata a qualcosa, per cui possiede un’esigenza rivendicabile di cura, oppure non la possiede, allora essa deve poter essere autosufficiente. Questa è la logica da cui deriva l’idea dello status naturae purae.
17Del resto i riformatori seguono esattamente la stessa logica, anche se in una direzione opposta, quando determinano la costituzione paradisiaca dell’uomo come “naturale” e negano espressamente il suo carattere di puro dono. Così Lutero, nel suo Commento alla Genesi: «Non dovremmo sostenere che la giustizia sia stata per così dire un dono, aggiunto dall’esterno, e separato dalla natura dell’uomo: era piuttosto qualcosa di assolutamente naturale, cosicché la natura di Adamo era di amare Dio, di credere in Dio, di conoscere Dio eccetera. Tutto questo mostra che la giustizia originaria appartiene alla natura dell’uomo; quando essa dunque è andata perduta a causa del peccato, allora è chiaro che il naturale non è rimasto intatto, come raccontano gli Scolastici»24.
18Ne consegue l’idea della totale corruzione della natura umana attraverso il peccato originale. All’opposto, i teorici della natura pura, per esempio Suárez o Bellarmino, intendono il peccato come perdita appunto di tale determinazione accidentale soprannaturale, e paragonano la condizione dell’uomo post paradisiaco, il suo tormento, il dover morire eccetera, allo status naturae purae, che non sarebbe stato migliore: infatti «la condizione dell’uomo dopo la caduta di Adamo non si potrebbe più distinguere dalla sua pura condizione naturale allo stesso modo in cui non si può distinguere chi è stato spogliato da chi è nudo»25.
19Posso qui soltanto accennare alle conseguenze che queste due concezioni producono per il concetto di natura e per la teoria della storia dell’epoca moderna. Due cose sono innanzitutto importanti.
201. Con l’inserimento della natura in un contesto di economia della salvezza, il concetto stesso di natura diventa un momento della teoria della storia. Se per l’antichità ciò che accade era quasi sempre il criterio per ciò che deve essere considerato naturale, così ora ciò che accade di solito è forse conseguenza di una condizione che risulta già da un allontanamento dalla natura. Che cosa significa natura deve dunque essere scoperto solo attraverso un qualche metodo; esso non si dischiude mediante l’osservazione empirica.
212. Il concetto di natura viene dilatato opponendolo a quello di sovrannaturale, cosicché, là dove l’idea di sovrannaturale si dissolve davanti al verdetto critico dell’Illuminismo, esso diventa il concetto che sta per la totalità dell’essere, non avendo più in generale qualcosa che gli sta di fronte. La natura diventa la sostanza che può essere pensata senza una relazione con un altro concetto: «Deus sive natura. Je suis le grand tout», dice la Natura in Voltaire. Ma in questo modo cade ciò che è specifico in questo concetto. «Je suis tout art»26, si dice ancora in Voltaire. Tuttavia è proprio per questo che il concetto diventa ambiguo, dialettico in se stesso, come accade a ogni concetto speculativo che smarrisca la relazione con ciò che gli sta di fronte. Occorrerebbe indagare quanto i contrasti di tipo confessionale si siano conservati nell’assunzione del concetto di natura all’interno delle teorie filosofiche della natura. Credo che questo si possa individuare. La realizzazione illuministica di un sistema chiuso di «natura pura» avviene nella Francia cattolica. Le varianti storico-filosofiche della teoria del peccato originale, la rappresentazione dell’abbandono necessario della condizione di una natura radicalmente cattiva, ovvero divenuta cattiva, si trovano nell’idealismo protestante, ma già prima in Thomas Hobbes con il suo postulato categorico: «Noi crediamo […] che si debba uscire dallo stato di natura»27. Fra i due si trova Rousseau. Egli, il convertito due volte, rappresenta il passaggio da una concezione all’altra. Egli ha pensato radicalmente, e fino in fondo, il concetto di natura dell’Illuminismo e appunto per questo ha abbandonato il Système de la nature. Per quel che lo riguarda, vorrei chiarire le conseguenze dei presupposti delineati.
22Il concetto di natura viene tematizzato da Rousseau in due scritti, nel secondo Discours, quello sulla disuguaglianza, e nell’Émile. La domanda, alla quale il secondo scritto del premio offre una risposta, chiede quale sia l’origine della disuguaglianza e se questa sia giustificata dal diritto naturale. Significativamente la domanda circa la legittimazione viene posta come domanda sull’origine. A partire dalla scomparsa del concetto teleologico di natura la domanda può essere posta soltanto in questi termini. Per la tradizione platonico-aristotelica la domanda verteva su ciò che è giusto per natura, una domanda relativa a ciò che per l’uomo è la cosa migliore, e relativa a ciò in cui consiste la vita buona. Chiamati a comandare dalla natura sono dunque coloro che posseggono l’idea del bene. La guerra civile confessionale ha mostrato che la domanda sul bene tendeva a rendere impossibile una qualsiasi vita politica comune. In questo caso ne conseguiva qualcosa che andava a collimare con la tendenza alla rinuncia alla visione teleologica: «La tendenza, per cui ogni cosa nel suo essere tende a perdurare, non è altro che l’essenza reale della cosa stessa»28, scrive Spinoza, dopo che la fisica aveva già fissato questo principio per le leggi del moto. E Hobbes ne trae le conseguenze per la sfera del politico, interessandosi non più alla vita buona, ma alla pura vita. Pufendorff respinge espressamente il diritto a comandare del più saggio per natura: «Sarebbe del tutto assurdo pensare che la natura abbia dato ai più intelligenti un diritto di comando sui più stolti»29.
23La domanda circa la legittimazione a livello di diritto naturale del potere può dunque essere posta soltanto in termini genetici, prendendo le mosse da un’uguaglianza posta in origine. La domanda sul diritto naturale diventa la domanda su uno status naturae pre-sociale: «Per conoscere le leggi di natura – scrive Montesquieu – occorre osservare un uomo prima della fondazione della società. Le leggi di natura saranno quelle che egli percepirebbe in una tale condizione»30.
24Natura è dunque lo stato originario. E questo viene svelato attraverso l’astrazione di ogni aspetto istituzionale, di ogni cosa che si sia sviluppata storicamente. È noto che Rousseau, seguendo Hobbes, in questa astrazione si è spinto ben oltre. La sua obiezione è che certo Hobbes astrae dalle istituzioni politiche, ma lascia l’uomo esattamente come lo incontra all’interno della società. In realtà, la natura dell’uomo ha sperimentato dalla storia una deformazione così profonda che con la sola prospettiva empirica non può più essere raggiunto un concetto sufficiente di ciò che è naturale. La totale astrazione di tutto ciò che non è physei deve addirittura spingersi anche all’ambito linguistico, dal momento che non esiste una lingua naturale. Di conseguenza anche per Rousseau l’homme naturel è un essere che prescinde dalla lingua. Naturale è infatti soltanto ciò che può essere sviluppato dalla struttura delle capacità del singolo individuo. Ne consegue che l’homme naturel non può nemmeno più essere cercato là dove volentieri lo cercava il xviii secolo: nel primitivo. Lo status naturalis non è più una condizione concreta e storica, ma puramente ipotetica, che deve essere presupposta per ragioni metodiche. E proprio in questo contesto Rousseau fa riferimento allo status naturae purae dei teologi. «Se lasciamo da parte, dapprima e per una volta, tutti i fatti – egli dice – certamente gli uomini non si sono mai trovati in una pura condizione naturale (pur état de nature)»31. Questa condizione naturale viene trovata «quando questo essere viene spogliato di tutti i doni soprannaturali che ha potuto ricevere e di tutte le capacità artificiali»32.
25Il metodo con l’aiuto del quale la natura viene individuata nel suo contenuto positivo, è quello della riflessione sulla propria spontaneità, non ancora mediata linguisticamente, dunque una «meditazione sulle prime e più semplici attività dell’anima umana»33. In tal modo vengono ricercati i «princìpi che precedono la ragione». Rousseau ha senza dubbio toccato il problema che già Fénelon aveva chiaramente davanti a sé, come cioè la riflessione possa scoprire una spontaneità che in realtà viene superata proprio attraverso questa riflessione. Egli stesso scrive: «La condizione della riflessione è una condizione innaturale»34. La tesi della bontà dell’homme naturel è la tesi della purezza della spontaneità. «Il suo primo impulso è sempre buono», dice Rousseau a proposito di Voltaire in un colloquio con Bernardin de Saint-Pierre, «è solo la riflessione che lo rende cattivo»35. Lo status naturae purae, secondo Rousseau, è quello della piena autosufficienza del singolo individuo. Esso perciò lo spinge fuori di sé, ma non oltre se stesso. La questione è come allora in generale si pervenga a un’uscita dalla natura, a un’uscita così radicale che la natura venga alterata fino all’inconoscibilità. Rousseau offre la risposta individuando una qualità specifica dell’uomo naturale: la libertà in quanto indipendenza dall’istinto e la perfettibilità che ne consegue. Il termine sembra contenere qualcosa di teleologico, anche se Rousseau respinge espressamente questa prospettiva. La perfettibilità non è un’entelechia che spinga verso la realizzazione di un telos, ma una possibilità puramente passiva di sviluppo di qualità sociali. Una possibilità che può essere realizzata soltanto attraverso una «casuale combinazione di differenti cause esterne»36, qualcosa che corrisponde esattamente alla potentia oboedientalis degli ultimi Scolastici e di Suarez, i quali avevano negato in egual misura ogni positivo desiderium naturale quanto una costituzione più che naturale. Ciò che caratterizza la condizione naturale, è, detto in breve, la totale autosufficienza dell’individuo. «La natura è sempre ripiegata su se stessa»37, questo assioma che proviene dalla tradizione agostiniana trova la sua realizzazione in tutte le teorie moderne della natura. Così si dice nell’Émile: «L’uomo naturale è tutto per sé; egli è unità numerica, totalità assoluta; egli è in relazione soltanto con se stesso e con il proprio simile»38.
26L’uscita dallo stato di natura separa l’uomo dall’unico modo di esistere che gli dà una solida posizione nell’universo. Nel suo significato, nella sua giustificazione questa uscita rimane sempre ambigua. La voce che richiama l’uomo dall’état naturel è la voce di Dio e del male insieme. A partire da Rousseau, nell’interpretazione secolarizzata della storia del Paradiso, la vocazione dell’uomo a un ordine soprannaturale e il peccato originale vengono visti come una sola cosa. L’espressione di Agostino felix culpa e quasi necessarium Adae peccatum ne costituisce il precedente. All’epoca essa era comune anche per la citazione che se ne fa nella Teodicea di Leibniz. Immediatamente efficace è però l’interpretazione protestante della condizione paradisiaca come stato di natura. Il concetto di «sovrannaturale», tanto per Lutero quanto per i giansenisti, ha un significato soltanto per la grazia redentiva. L’ambiguità dell’uscita dallo stato di natura in Rousseau diventa chiara quando egli risponde all’obiezione di coloro che gli attribuiscono la predica di un retour à la nature:
O voi, cui la voce celeste non si è fatta sentire e che non riconoscete per la vostra specie altro destino che di concludere in pace questa breve vita; voi che potete lasciare in mezzo alle città le vostre funeste conquiste, i vostri spiriti inquieti, i vostri cuori corrotti e i vostri desideri sfrenati, riprendete, poiché dipende da voi, la vostra antica e primitiva innocenza, andate nei boschi a perdere lo spettacolo e il ricordo dei crimini dei vostri contemporanei e non temete di avvilire la vostra specie rinunciando ai suoi lumi per rinunciare ai suoi vizi. In quanto agli uomini simili a me, nei quali le passioni hanno distrutto per sempre l’originaria semplicità, che non possono più nutrirsi di erbe e di ghiande né fare a meno di leggi e di capi; coloro che nella persona del loro progenitore ricevettero l’onore di lezioni sovrannaturali; coloro che vedranno, nell’intenzione di dare prima alle azioni umane una moralità che esse per lungo tempo non avrebbero acquistato, la ragione di un precetto indifferente in se stesso inesplicabile in ogni altro sistema; coloro, in una parola, che sono convinti che la luce divina chiamò tutto il genere umano ai lumi e alla felicità delle intelligenze celesti; tutti costoro cercheranno, con l’esercizio delle virtù che li impegnano a praticare quando imparano a conoscerle, di meritare il premio eterno che da ciò debbono attendersi; rispetteranno i vincoli sacri delle società di cui fanno parte; ameranno i loro simili e li serviranno come più potranno; ubbidiranno scrupolosamente alle leggi e agli uomini che ne sono gli autori e i ministri; ma non per questo disprezzeranno meno una costituzione che non può mantenersi se non con l’aiuto di tante persone rispettabili – un aiuto che si desidera più spesso di quanto non si riesca a ottenere – e dalla quale, malgrado tutti gli sforzi, sempre nascono più sciagure reali che vantaggi apparenti39.
27Vi è una voce celeste che chiama fuori dalla natura verso un’esistenza superiore, un’esistenza di vizio e di virtù allo stesso tempo, al posto dell’innocenza naturale. Tuttavia questa voce è un superadditum. Chi si può sottrarre a essa e può rimanere nello status naturae purae, questi non viene sfiorato da nessuna colpa. La via verso la determinazione superiore dell’uomo è quella che avanza attraverso la colpa. L’esistenza al di fuori dello status naturae purae è e rimane un’esistenza estraniata. Il concetto successivo di estraneazione è inseparabilmente associato al concetto rousseauiano di natura. Infatti l’esistenza, una volta uscita dallo stato di natura, non è più assorbita in nessuna teleologia naturale, e non può nemmeno più essere misurata da nessun ideale giusnaturalistico. A partire dall’ideale, rivolto all’indietro, dell’essere in se stesso dell’uomo naturale, che Rousseau costruisce nel Contrat social, ogni forma culturale può venir smentita in modo nostalgico, critico o ironico40 – anche e proprio quella dell’essere comune – Rousseau nel Contrat social scrive che l’antica libertà politica, che per lui rimane l’essenza della libertà politica, era associata alla schiavitù come suo necessario presupposto, e continua: «Come, la libertà si regge soltanto grazie alla schiavitù? Forse. I due eccessi si toccano. Tutto ciò che non si trova nella natura, ha i suoi inconvenienti e la società civile più di tutto il resto»41.
28Il massimo che possa raggiungere l’homme civile è l’integrazione in una société close, a tal punto totale da poter sostituire il legame perduto con la natura. Una mère commune, così Rousseau definisce lo Stato in una voce dell’Enciclopedia. La totalità politica presuppone però proprio il completo superamento dell’innocente relazione che l’homme naturel ha con se stesso. Per questo Rousseau dice: «Le buone istituzioni sociali sono quelle che comprendono al meglio di dover de-naturalizzare l’uomo»42. E di Licurgo, con parole di elogio, sottolinea: «Egli possiede il cuore dell’uomo de-naturalizzato»43. Se fin dai tempi antichi la natura ha avuto il significato di verità, di essere contro l’apparire, l’ideale politico di Rousseau è una natura che lascia emergere a tal punto l’apparire da far scomparire l’essere, la natura. Un apparire che non ha più nessun essere davanti a sé, essendo divenuto esso stesso essere. In tal modo per Rousseau la libertà politica deriva soltanto dalla totale autorinuncia alla indépendence naturelle.
29Secondo alcune interpretazioni, Rousseau avrebbe deplorato la lontananza dalla natura del suo tempo. Questo è falso. Egli deplora la frattura fra la totalità politica e la parziale riapparizione della natura. Poiché questo porta a quella existence double che caratterizza il suo tempo. L’existence double costituisce l’essere di quel tipo che non è né citoyen né homme naturel: il borghese. Il borghese viene definito come l’uomo che «vuole conservare, nell’ordine civile, il primato del sentimento della natura»44. Egli è il risultato della dissoluzione della totalità politica45. Colpevole di questa fine è il cristianesimo. Separando sistema politico e spirituale, così si dice nel Contrat social, esso ha distrutto l’unità dello Stato. «Una buona politie è impossibile agli Stati cristiani». Rousseau si riconosce qui esplicitamente nella visione di Hobbes, ma senza considerare possibile lo strumento di salvezza di tale visione, e cioè la rinnovata unità di chiesa e stato. Il cristianesimo per sua essenza è «religione naturale, religione dell’uomo, diritto naturale divino»46 e come tale impolitico, anzi antisociale. Tuttavia la sua forza è irresistibile perché fondata sulla verità di questo. Il cristianesimo spezza l’apparenza benefica su cui era fondata l’unità politica antica, la quale poggiava sempre «sull’errore e sulla menzogna»47.
30Ciò che dunque può accadere, non è la restaurazione dell’unità politica, fondata sulla de-naturalizzazione. Anche il Contrat social non è un progetto futuro, ma un commiato. Ciò che deve accadere, è il compimento dell’emancipazione dell’homme naturel attraverso un’éducation naturelle, che è opposta all’educazione borghese ibrida. Ora, in questo contesto, che cosa significa «naturale», «natura»? Rousseau risponde: è naturale quell’educazione che si pone come fine il «fine della natura»48. E che cos’è il fine della natura? Abbiamo detto che per Rousseau non si dà un tale fine che abbraccia il processo culturale. Nell’état naturel non occorre alcuna educazione. Tuttavia Emilio viene introdotto in tutte le conquiste culturali del suo tempo. In che senso si può fare qui un discorso su un’educazione naturale? In questo: in quanto in essa viene ripristinata la totale autoreferenzialità del soggetto naturale. Emilio viene educato «unicamente in vista di se stesso»49. E certo attraverso la composizione del tutto artificiale di un mondo pedagogico totale si ha cura che la frattura della naturalità, che caratterizza la storia dell’umanità, venga evitata.
31La naturalità, tuttavia, che deriva dall’emancipazione e dalla éducation naturelle, è da definire in misura superiore come naturale, come quella dell’homme naturel. L’état naturel era possibile soltanto per il fatto che proprio le attitudini naturali dell’uomo non si sviluppavano. Infatti lo sviluppo era possibile soltanto attraverso la socializzazione e questa soltanto mediante la denaturalizzazione. Ora però il fine è l’uomo pienamente sviluppato. Solo se noi gli restituiamo l’autarchia preistorica, egli è il vero homme naturel. Poiché in lui il fine della natura viene raggiunto in una forma superiore rispetto all’iniziale homme naturel, quel fine della natura che Rousseau indica come «sentiment de notre existence»50. Dunque un fine che non ha nulla che fare con la teleologia, ma che consiste nella semplice autosufficienza, nel totale e avvertito ripiegamento di un essere su se stesso. Questo sentiment de l’existence viene accresciuto all’intensità più elevata soltanto nel mondo della cultura, mediante l’éducation naturelle. L’intensità più alta tuttavia è la coscienza. La coscienza subentra, come forma superiore di riferimento a se stessi, alla passione estatica e innaturale del patriottismo, che motiva l’agire del citoyen. Nella coscienza l’uomo rientra in se stesso, egli diventa di nuovo naturale. Una tale éducation naturelle, un’educazione che sviluppa le disposizioni naturali dell’uomo e si riferisce al sentiment de l’existence, è in generale collocata e possibile soltanto nell’état civil. Esprime questa idea Wolmar nella Nouvelle Héloïse51. La natura in questo senso pieno è un prodotto tardivo. Solo la società borghese la libera come soggettività. E agli occhi di Rousseau diventa, come ha osservato una volta Leo Strauss, la giustificazione ultima di questa società, il fatto cioè che essa consenta a un determinato tipo di individui di assaporare il più alto sentimento di felicità ritirandosi da essa, attraverso cioè una vita ai suoi margini52.
32Vorrei, in conclusione, soltanto ancora brevemente mostrare che la critica controrivoluzionaria del visconte de Bonald ha come suo punto centrale la critica al concetto di natura del xviii secolo. Con lo sguardo diretto soprattutto a tale concetto, essenzialmente nella sua Théorie du pouvoir pubblicata nel 1792, Bonald individua nell’equiparazione fra «naturale» e «stato iniziale» il πρῶτον ψεῦδος (prôton pseûdos) della teoria rivoluzionaria della natura, errore che accomuna autori assai differenti quali Montesquieu, Holbach e Rousseau. Bonald ha tentato di riproporre un concetto teleologico di natura distinguendo la condizione iniziale in quanto état natif dall’état naturel. L’indiano è un homme natif, Bossuet, Fénelon e Leibniz sono hommes naturels53. Parlare di voce divina, che richiama l’uomo dall’état naturel, come fa Rousseau, per Bonald non ha alcun senso: quella parola divina è infatti la natura. Natura è un’astrazione, un être de raison, che non ha né voce né organo. La sua realtà è puramente razionale: il disegno di Dio. Contenuto di questo disegno è l’autoconservazione di ogni essere. La repressione è naturale quando essa è al servizio della conservazione. La subordinazione dell’esistenza alle condizioni della sua conservazione non può essere definita innaturale. Per questo la società più civilizzata è la società più naturale. La volonté générale di Rousseau, è, a ben vedere, nient’altro che la natura come ordinamento della conservazione. Essa non ha nulla in comune con le velleità della soggettività. Anche in Rousseau vi è un impiego del termine “natura” del tutto non specifico, nel senso di una «natura della cosa». Ecco che cosa si dice nel Contrat social: «Se il legislatore, ingannandosi sul suo oggetto, assume un principio differente da quello che nasce dalla natura delle cose… lo Stato non cesserà di trovarsi in una condizione di instabilità fino a che esso non viene distrutto o cambiato e fino a che l’invincibile natura non ha ripreso il suo dominio».
33Mentre la teoria rousseauiana della natura, con il suo pathos della liberazione, diventa determinante per i movimenti rivoluzionari fino al marxismo, la sua teoria sociale e il suo concetto di «natura della cosa», attraverso Bonald, diventa determinante per la teoria positivistica della società.
Approfondimenti
Senso e utilità della storia dei concetti
34Il nostro uso di concetti ha sempre dei presupposti storici. Spesso gli uomini intendono per “natura” cose molto diverse fra loro e le discussioni durano un tempo considerevolmente lungo prima che ci si renda conto che si intende tale concetto in modi diversi. Si può dire che tutto ciò che si dà in natura è naturale, ma per Aristotele, per esempio, non è così. Egli non pensa che tutto ciò che si dà in natura sia naturale. Ciò che è naturale è una certa tendenza e se il fine di questa tendenza non viene raggiunto, allora si tratta di uno sbaglio. Dietro a questa tesi vi è però una lunga storia. Già nell’antichità il concetto di natura veniva utilizzato dai sofisti, da Platone e da Aristotele. Per i sofisti ciò che è naturale non è teleologicamente determinato. O, meglio, anche per loro lo è, ma essi indicano il fine nella soddisfazione soggettiva, tanto è vero che l’edonismo antico è stato una posizione iniziale dell’etica filosofica molto importante. Per i sofisti, però, il νόμος (nómos), la legge, è una sorta di violenza che viene fatta alla natura. La loro quindi è da un lato una natura emancipatoria, dall’altro, però, sta anche dalla parte dei tiranni perché ciò che il tiranno fa è anch’esso naturale: egli vuole godersi il proprio potere e anche questo è naturale. Ma se anche colui che fa la rivoluzione ha un’esigenza naturale allora la natura finisce per trovarsi contro la natura. Nella tradizione platonica la questione appare in maniera diversa. Platone afferma che vi è un nómos che è naturale. Ciò significa che l’essenza dell’uomo si esprime in questo nómos. Quando i greci dicevano che l’uomo è un animale politico per natura, uno ζῷον πολιτικόν (zôon politikón), ciò significa che egli è un essere che nella πόλις (pólis) trova la propria realizzazione. Ciò non vuol dire che egli è un cittadino o un suddito di un qualche stato – ciò non è naturale – che la pólis, la pólis greca, è naturale poiché in essa l’uomo perviene alla realizzazione di sé. Non si tratta di una questione arbitraria poiché vi sono determinate cose delle quali si può dire che servono all’autorealizzazione dell’uomo e altre che non servono. Vi è quindi un concetto normativo di natura. Su questo vi è una discussione infinita e io ne ho presentato solo il tratto finale.
35Ma che cosa serve alla filosofia questa riflessione sulla storia dei concetti? C’è un’idea che era diffusa nel tardo Ottocento e che anche ora riemerge nell’ambito della filosofia analitica, secondo la quale vi sono una filosofia sistematica e una filosofia storica. Si afferma che esse non hanno nulla che vedere l’una con l’altra. Ciò è, a mio parere, falso. In primo luogo perché senza una vera e personale riflessione filosofica propria non si comprende la storia della filosofia, non si capisce di che cosa propriamente si stia parlando. Chi, cioè, non ha riflettuto a fondo sulle idee fondamentali della metafisica non comprende gli argomenti filosofici. Di contro è però anche vero che chi fa filosofia sistematica e non conosce la storia della filosofia ha in primo luogo il problema che egli inizia discussioni che da molto tempo sono esaurite. Accade di frequente nella filosofia analitica, anche in America. Alcuni sollevano un problema, lo discutono con argomenti sottili e, quando si fa loro notare che tale questione è stata già discussa in modo molto approfondito nel xiv secolo, essi ricominciano, come i bambini piccoli. Quando entro in una discussione io devo però sapere dov’è il punto, dove si è rimasti. Come può la filosofia procedere se non ha presente la propria storia?
36Questo è però ancora un punto di vista alquanto superficiale. Ve ne è uno più profondo. I nostri concetti sono strumenti che hanno una storia e noi comprendiamo ciò che noi stessi diciamo se comprendiamo da quali domande i nostri concetti sono sorti. E i concetti filosofici sorgono da problemi che non si pongono a ogni uomo ma solo a coloro che sono filosoficamente dotati. Dunque la comprensione dei nostri propri concetti presuppone che conosciamo la storia di questi concetti. Io sono stato uno degli editori dell’Historisches Wörterbuch der Philosophie. È un’opera diffusa in tutto il mondo. Il nostro lavoro è stato proprio un lavoro sulla storia dei concetti. In precedenza vi era un altro lessico di storia dei concetti, quello di Rudolf Eisler (di cui la casa editrice aveva acquistato i diritti). Ma Eisler non aveva ancora compreso qual è veramente il significato della storia dei concetti. Egli racconta semplicemente, mettendoli uno dopo l’altro, i differenti usi di una parola. Ma è chiaro comunque che egli ritiene di saperne di più perché è aggiornato sulle ultimissime posizioni scientifiche, soprattutto della psicologia. Per cui se gli si chiede come stanno davvero le cose, egli è in grado di dirlo e di fatto lo fa, anche se solo in poche righe. L’umanità è però passata attraverso molti errori, ha avuto molte idee sbagliate e, talvolta, anche idee giuste. Non si fa storia della filosofia semplicemente per sapere che il tale ha detto questa cosa e un altro quest’altra. Sarebbe noioso. Se si va al fondo delle domande della filosofia si scoprono invece domande reali, domande cioè che si pongono realmente e allora la questione appare in un modo completamente diverso. Se si legge un dialogo platonico – ne è un esempio particolarmente chiaro il Gorgia – si scopre che tutti gli argomenti di Nietzsche si trovano già lì, nell’immoralismo di Callicle nel Gorgia. E se oggi si legge ancora questo dialogo a scuola, i giovani di 16 anni restano stupefatti e lo trovano attualissimo. Se non si conosce la storia, di fronte ai concetti sviluppati in quel dialogo – per esempio i concetti di buono e di bello – non si capisce di che cosa si stia propriamente parlando. I sofisti affermano che bello è ciò che tutti gli uomini approvano. Di fronte a un uomo che, agendo in maniera gratuita, ha salvato la vita a un altro uomo ma facendolo ha subito un grave danno – per esempio ha perso un braccio –, i sofisti avrebbero detto che ciò che egli ha fatto è bello, ma per lui stesso non è stato buono ma cattivo. Platone afferma che non può essere così. Noi facciamo ciò che è bello solo se è anche un bene per noi o, al contrario, per noi è bene farlo solo se può essere giustificabile al cospetto della ragione, dunque se ciò è anche bello? Questi concetti di bello e di bene hanno una lunga storia ma se non si è compreso questo problema, che può essere facilmente compreso da ogni uomo, – il problema cioè della distinzione e del rapporto tra ciò che è bene per me e ciò che è bene tout court – si finisce per usare queste parole in qualsivoglia modo, soprattutto la parola “buono”. Se, infatti, non si può definire ciò che è “bene” si entra in confusione. Che cosa è “il bene”? È una domanda che si vorrebbe evitare. Platone ha riflettuto sul perché noi non possiamo dare una risposta diretta a questa domanda. Ma si tratta di una questione molto complicata fin quando non si vede di che si tratta. E per arrivare a ciò si deve conoscere la storia, altrimenti o non si dice nulla o si danno risposte che passano accanto alle questioni senza toccarle. Quindi la storia dei concetti e in generale la storia della filosofia è importante per la comprensione dei problemi stessi e la divisione netta tra filosofia sistematica e storia della filosofia è qualcosa di non filosofico.
37Chi con molta chiarezza ha richiamato alla coscienza questo aspetto è stato Heidegger, già negli anni Venti del secolo scorso. Fino ad allora infatti dominava l’idea che ci fossero persone che erano abili storici della filosofia i quali, però, alla domanda: “Che cos’è allora questo? Come stanno le cose?”, rispondevano: “Io sono uno storico. Posso solo dire che ciò non è interessante”. Lo storico della filosofia allora dev’essere anche un filosofo e il filosofo sistematico deve sapere qualcosa della storia della filosofia. Altrimenti tanto la storia della filosofia quanto la filosofia sistematica sono sterili.
La trasformazione del significato di natura
38Lo sguardo sulla storia dei concetti è necessario per comprendere il significato del concetto di “fine” e in particolare quello di “causa finale”.
39Causa finalis non significa necessariamente causalità “infinita”. Al contrario la causa finalis indica un fine da raggiungere in un qualche momento. E, negli esseri viventi, per Aristotele, la causa formalis è allo stesso tempo causa finalis. Per le automobili è diverso. La forma dell’auto è una cosa e l’utilizzo dell’auto per uno scopo è un’altra cosa. Al contrario, quando qualcuno si chiede perché un melo fiorisce allora possiamo rispondere che la fioritura ha sempre una funzione precisa: il frutto arriva e allora in questo modo la pianta continuerà a esistere. Ma per Aristotele la causa finalis è anche causa formalis, che significa che la cosa dev’essere ciò che è. Questo è tutto. Come in Angelo Silesio che in un suo verso, che anche Heidegger cita, afferma: «La rosa è senza perché. Fiorisce perché fiorisce, / di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista». Ciò significa che l’obiettivo della rosa è l’esser-rosa, non un obiettivo esterno, una finalità estrinseca. Hegel ha trattato a fondo, nella sua Enciclopedia, il tema della finalità estrinseca e intrinseca. La finalità estrinseca consiste nel fatto che una cosa viene resa utile per altro, la finalità intrinseca è l’ἐντελέχεια (entelécheia). Il fine, cioè, è nella cosa stessa e non viene fatto un uso esterno della cosa. Ora, si può dire che nel tardo Medioevo la causa finalis viene messa da parte. Io però non vedo il motivo di tale passaggio in una profonda ragione metafisica, ma piuttosto in un principio di sviluppo immanente alla scienza della natura la quale è con sempre maggior forza determinata dal punto di vista dell’applicazione e dell’intervento. Bacone afferma che non sta a noi conoscere la causa finalis di qualche cosa, ma vogliamo sapere come questa cosa funziona. Se ci chiediamo la ragione di questo spostamento di interesse allora arriviamo sul terreno della storia della filosofia. E a tale riguardo io propendo per l’interpretazione marxista di questo fenomeno. In età feudale vigeva il principio dell’economia di sussistenza, un’economia fatta per la massima parte di agricoltura. Tutti coloro che vi lavoravano vivevano di quest’impresa, il cui obiettivo era conservare se stessa. Nel momento in cui il ceto borghese giunse al potere nacque l’interesse all’alleggerimento del lavoro e, prima di tutto, l’interesse al guadagno. È un’economia non più orientata solo alla conservazione ma al profitto. Con ciò si trasforma anche il significato del denaro; per esempio nell’antichità classica – e anche in passato in ambito ebraico e cristiano – vi era il divieto di ricavare interessi. La chiesa ha mantenuto questo divieto fino all’inizio del xix secolo e l’ha poi tacitamente sepolto perché l’interesse era ormai divenuto qualcosa di diverso. Prima tale divieto aveva un significato profondo poiché esso significava che non si doveva trarre vantaggio dal bisogno del proprio fratello. Se un fratello ha bisogno, va aiutato ma senza ricavarne interessi. I prestiti moderni non sono concepiti per aiutare una persona in difficoltà ma per ottenere ulteriore profitto e allora è logico che colui che presta denaro desideri anche partecipare di questo profitto.
40Dunque io credo che siano questi i processi sociali che spiegano lo spostamento d’interesse nella direzione dell’applicazione delle scienze della natura. Vi sono forse altre risposte alle ragioni di tale fenomeno, io però non conosco una spiegazione più plausibile. A dire il vero non conosco neppure alcun lavoro della scuola marxista che abbia approfondito questa risposta, purtroppo i teorici del marxismo per lo più non si sono affatto interessati a quest’aspetto della questione.
41Vi è peraltro un aspetto del rapporto tra teoria e prassi umana che è saldamente legato alla mia interpretazione di questo mutamento. Per Aristotele la teoria è la forma suprema di πρᾶξις (prâxis) umana. Questa forma viene raggiunta per la prima volta, diceva, quando i sacerdoti egizi non lavoravano ma osservavano le stelle, avevano, cioè, una relazione contemplativa con la realtà e questa è, per lui, la suprema forma di prâxis. Ciò muta nel tardo medioevo e all’inizio dell’età moderna. Qui la teoria, per esempio in Bacone, diviene a servizio della prâxis, non è più la suprema forma di essa. E questa è una relazione tra teoria e prassi completamente differente, da cui deriva anche la terminologia di Kant, il quale chiama speculativo l’empirismo e pratico il dogmatismo. La posizione della teoria in relazione alla prassi è mutata radicalmente.
Natura umana e storia
42Nel testo ho cercato di mostrare da dove tragga la propria origine l’idea che la natura umana sia storia. Non penso che sia radicalmente così, che l’uomo non possieda alcuna natura costante. Non potremmo infatti neppure leggere la letteratura antica se non avessimo un orizzonte comune di esperienza nel quale le esperienze particolari, pur divenendo poi in parte nuove, restano sempre esperienze di uomini. Vi è dunque una comunità che attraversa le generazioni nella quale ci si intende sui problemi. Se si storicizza radicalmente la natura dell’uomo non si dà più alcuna risposta. Tutto ciò che resta da dire è che è natura dell’uomo tutto ciò che accade nella storia. Ho cercato di mostrare che si finisce in un vicolo cieco quando, per esempio, Rousseau sostiene l’idea che già il linguaggio dell’uomo sia storia. Che cos’è allora la natura dell’uomo a cui non appartiene il linguaggio? Si tratta di una falsa conseguenza. Allora non si deve dire che la natura dell’uomo appartiene alla storia ma che, al contrario, anche la storia appartiene alla natura, e resta nell’ambito della natura. Quando governava la Sicilia, l’imperatore Federico II Hohenstaufen fece un esperimento con i bambini per sapere se esiste un linguaggio naturale. Rinchiuse degli orfanelli e impedì alle donne che dovevano dar da mangiare a questi bambini di parlare con loro. Voleva vedere se essi per natura avrebbero parlato ebraico. Essi però non parlarono ebraico ma morirono. Oggi Federico II viene tenuto in grande considerazione, anche in Sicilia, ma ciò che egli fece con questi bambini io lo reputo criminale. Ma è a questo che si arriva se tutto ciò che è storico viene separato dalla natura. In ciò il protestantesimo e Lutero hanno avuto un ruolo rilevante. Per Lutero infatti l’uomo come è oggi è un essere solo storico, cioè definito dal peccato originale. Non è quindi assolutamente possibile ricorrere a una natura dell’uomo, la quale è solo peccato. Si tratta di una posizione problematica, perché allora non si possiede realmente alcun criterio per distinguere il bene dal male. L’unica cosa che resta da dire è che siamo tutti peccatori e che tutti dobbiamo ricorrere alla redenzione per opera della croce di Gesù. Questa è l’unica cosa che resta, ma la domanda della vita – che cosa è giusto? Che cosa è sbagliato? – non avrebbe risposta.
43Per questo la storia dei concetti è così importante. Senza la storia del concetto di natura giungiamo a una conseguenza di questo tipo: quest’uomo ha una natura guasta, dev’essere eliminato. Non abbiamo bisogno di rispettarlo. Neppure abbiamo bisogno di rispettare i bambini piccoli. Che è poi la tesi di Peter Singer: la vita di un maiale adulto ha più valore della vita di un bambino piccolo che non ha ancora due anni. Qualcosa in noi protesta contro quest’idea, ma ci viene risposto che il nostro è una sorta di “specismo”, che noi prendiamo la difesa di coloro che appartengono alla nostra stessa razza e che se veramente vogliamo agire in modo etico allora dobbiamo dimenticarcene. Senza uno sfondo storico queste tesi restano nell’aria. Non si vede però che cosa esse abbiano a fondamento, come si sia giunti alla curiosa idea che tutto è storia e che per questo nulla è più valutabile. In Germania, all’epoca del nazismo, c’erano molti che dicevano che proprio quello era il momento storico in cui una certa cosa era giusta anche se prima si era pensato diversamente. Ma così si diventa dei relativisti totali e questa non può essere la soluzione dei nostri problemi.
44La natura umana, tuttavia, ha una dignità non perché è natura, ma perché è umana, perché è una natura che appartiene a persone. A differenza di tutti gli altri esseri viventi la persona, però, non è la sua natura ma ha la sua natura. Mi pare che nell’ultimo secolo la categoria di “avere” sia ingiustamente caduta in discredito. Fromm e prima anche Gabriel Marcel hanno scritto su tale argomento. Io credo che non si possa minimizzare così l’“avere”, perché le persone hanno una natura e ciò significa che possono rapportarsi liberamente alla loro natura, non che essi possono anche negare del tutto la natura. Il suicidio è l’unico atto di radicale emancipazione dalla natura, ma allo stesso tempo è anche in sé del tutto privo di senso poiché al termine del suicidio non solo non vi è alcuna liberazione, ma neppure vi è più un essere che possa essere libero. Il soggetto della libertà, cioè, scompare. E qui si può vedere la contraddizione interna della concezione stoica del suicidio. L’avere la natura – e ciò mi sembra assolutamente decisivo – significa anche, per esempio, che l’uomo può essere il proprietario di qualcosa senza possederlo e che qualcuno può possedere qualcosa senza esserne il proprietario. Se io ho una casa in affitto allora è un mio possesso. Il proprietario non può venire in qualsiasi momento nella mia abitazione, tuttavia io non ne sono il proprietario e ciò significa, per esempio, che non posso vendere l’abitazione. Che cosa accade invece se ho una proprietà? Allora essa è una relazione spirituale, non semplicemente un possesso fattuale. Anche gli animali possiedono qualcosa, le loro tane, i loro nidi ma non hanno proprietà. Io posso venire improvvisamente a sapere che un mio zio, in America, vent’anni fa, mi ha lasciato un’eredità e io non lo sapevo. Si tratta di una mia proprietà. La proprietà può quindi esistere persino senza che io lo sappia. E che un uomo possa avere qualcosa come proprietario si basa sul fatto che egli ha se stesso, ha una natura. E l’avere una natura significa anche poter rinunciare a essa. Nella Lettera ai Filippesi l’apostolo Paolo dice che Cristo, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil. 2, 6-7). Perché Cristo doveva rimanere attaccato a essa come a un «tesoro geloso»? La differenza tra il proprietario legittimo e il bandito che ha rubato un tesoro è che il bandito possiede la cosa finché è in mano sua, di contro il vero proprietario può donare ciò che ha. Ecco allora il paradosso: appartiene alla natura dell’uomo essere una persona e quindi avere questa natura. Ma l’idea che sia io a decidere chi sono, che possiamo decidere in modo assolutamente libero chi essere – come hanno sostenuto Jean Paul Sartre o Simone de Beauvoir – costituisce un’illusione. Più crediamo di essere completamente indipendenti dalla natura, tanto più dipendiamo da essa. Ciò significa che solo lì dove la natura viene rammemorata si può veramente diventare liberi, dove si dimentica la natura si diviene schiavi.
45Una testimonianza interessante ci viene, a tale riguardo, dall’Orestea di Eschilo. Le Erinni braccano Oreste perché egli ha ucciso la madre, la quale gli aveva ucciso il padre. La madre a sua volta aveva ucciso il padre di Oreste perché costui aveva ucciso la figlia. A un certo punto arriva Atena e impone a tutti di fermarsi. Atena incarna la ragione, la ragione politica, il principio maschile, ed è interessante il fatto che esso sia rappresentato da una donna. Le Erinni sono le sotterranee figlie della notte ed esigono che si ripari all’assassinio della madre. La reazione di Atena è interessante se la si osserva in opposizione a quanto è messo in scena in un’opera del tutto simile, il Flauto magico di Mozart. Qui la regina della notte occupa esattamente la posizione occupata dalle figlie della notte nell’Orestea e Sarastro incarna la ragione dell’Illuminismo. Questa, la ragione puramente maschile, non viene rappresentata da una donna e la richiesta, qui, è che si annienti la madre. Atena, al contrario, placa le Erinni dicendo loro: «Io vi prometto, o dee, e terrò fede alla promessa, che in questa terra devota a giustizia avrete la vostra sede, avrete il vostro adito sacro, e quivi, sedute presso gli altari su lucidi seggi, da tutti i cittadini avrete devozione e onori» (Eumenidi, vv. 804-7).54 Il bene della città dipende dal fatto che le Erinni abbiano un luogo sacro e allora esse si trasformano da dee della vendetta in dee della benedizione. Il principio opposto della natura non viene quindi semplicemente distrutto, ma conciliato. Dev’esserne preservata memoria eterna e solo una tale natura rammemorata resta nei suoi limiti e confini. Se la memoria di ciò che è naturale scompare, allora, nuovamente, la natura si rimetterà brutalmente contro lo spirito.
Notes de bas de page
1 Cfr. anche in Cicerone le antitesi: natura-opinio (Tusc. III, 70), natura-fortuna (Silla, 73).
2 Tommaso d’Acquino, Summa theologiae, I, q. 82, art. 1.
3 D. Hume, Dialogues Concerning Natural Religion, in Philosophical Works, vol. II, London,1886, p. 423.
4 R. Boyle, De ipsa natura sive libera in receptam naturae notionem disquisitio ad amicum, Typis H. Clark, impensis Johannis Taylor, London, 1687. Viceversa Leibniz: De ipsa natura sive de vi insita. Cfr. G.W. Leibniz, Philosophische Schriften, hrsg. C.J. Gerhardt, vol. IV, Berlin, 1890.
5 I. Sturmius, Philosophia eclectica, vol. II, Frankfurt, 1698, p. 359.
6 L.G.A. De Bonald, Oeuvres complètes, vol. I, Paris, Migne, 1864, p. 1065.
7 Voltaire, Dictionnaire philosophique, in Oeuvres complètes, vol. LXI, Basel, 1792, p. 717.
8 I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, Band VI, hrsg. E. Cassirer, Berlin, 1914, p. 241.
9 I. Kant, Idee einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, Band IV, hrsg. E. Cassirer, Berlin, 1913, p. 161.
10 F. Schiller, Briefe über die Ästhetische Erziehung des Menschen, Brief 3 (1795).
11 K. Marx, Die Frühschriften, Stuttgart, Landshut, 1953, p. 391.
12 I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, Band IV, hrsg. E. Cassirer, Berlin, 1913, p. 369.
13 F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, in The Works of Lord Bacon, vol. II, London, B. Vickers, 1838, p. 340.
14 I. Sturmius, Philosophia eclectica, cit., p. 399.
15 Cfr A. Maier, Metaphysische Hintergründe der spätscholastischen Naturphilosophie, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 1955, p. 300 e sgg.
16 Tommaso d‘Acquino, Summa Theologiae, II-II, q. 2, art. 3.
17 Cfr. su questo H. de Lubac, Surnaturel, in “Études historiques”, 1946.
18 Tommaso d’Acquino, Summa Theologiae, I-II, q. 110, art. 2.
19 Ibidem, q. 6, art. 4, a 15.
20 Ibidem, q. 109, art. 4, a 2.
21 Silvestro da Ferrara, Opera, vol. I, Venezia, 1535, pp. 39-41.
22 Cfr. Aristotele, De caelo, II, 8, 290a 30-33.
23 Cfr A. Kaiser, Natur und Gnade im Urstand. Eine Untersuchung der Kontroverse zwischen Michael Bajus und Johannes Martínez de Ripalda, München, M. Hueber, 1965.
24 M. Lutero, Genesiskommentar, in Kritische Gesamtausgabe, Weimar, vol. XLII, p. 124 e sgg.
25 R. Bellarmino, De controversiis christianae fidei, t. III, Ingolstadt, 1593, Controv. IV, fol. 17.
26 Voltaire, Dictionnaire philosophique, cit., p. 717.
27 T. Hobbes, De cive, in Opera latina, vol. II, p. 166.
28 B. Spinoza, Ethica, III, Prop. XII, in Opera, vol. II, p. 146.
29 S. Pufendorf, De jure naturae et gentium, Amsterdam, 1704, p. 230.
30 Montesquieu, De l’ésprit des lois, in Oeuvres complètes, Paris, 1857, p. 191.
31 J.-J. Rousseau, Discours sur l’inegalité, Paris, Garnier, 1960, p. 40.
32 Ivi, p. 41.
33 Ivi, p. 37.
34 Ivi, p. 45.
35 B. de Saint-Pierre, Fragments sur Rousseau, in Oeuvres complètes, XII, Paris, Méquignon-Marvis, 1838, p. 116.
36 J.-J. Rousseau, Discours sur l’inegalité, cit., p. 65.
37 Cfr per esempio Alberto Magno, Summa theologiae. II, tract. IV, q. 14, art. 2.
38 J.-J. Rousseau, Émile, cit., p. 9.
39 J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité, cit.; tr. it. Sull’origine dell’ineguaglianza (a cura di V. Gerratana), Roma, Editori Riuniti, 2002, pp. 187-188.
40 Cfr. L. Strauss, Naturrecht und Geschichte, Stuttgart, Koehler, 1956, p. 306 e sgg.
41 J.-J. Rousseau, Du Contrat social, Paris, Garnier, 1960, p. 303.
42 J.-J. Rousseau, Émile, cit., p. 9.
43 Ivi, p. 10.
44 Ibidem.
45 J.-J. Rousseau, Du Contrat social, cit., p. 329.
46 Ivi, p. 331.
47 Ivi, p. 332.
48 J.-J. Rousseau, Émile, cit., p. 7.
49 Ivi, p. 11.
50 Ivi, p. 13.
51 J.-J. Rousseau, Julie ou la Nouvelle Héloise, Paris, Garnier, 1871, p. 567.
52 L. Strauss, Naturrecht und Geschichte, cit., p. 305.
53 L.G.A. De Bonald, Oeuvres complètes, vol. III, cit., p. 451.
54 J.-J. Rousseau, Du contrat social, cit., p. 271.
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Emanuele Severino Ugo Perone (éd.)
2010
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