Précédent Suivant

2. E questione di gender: la cancel culture in Italia come fenomeno giornalistico tra pseudoeventi e censura

p. 36-61


Texte intégral

1Come si è visto nel precedente capitolo, la cancel culture è un fenomeno che nasce negli Stati Uniti come forma di etichettamento di una serie di pratiche di attivismo politico online, focalizzate sulle questioni delle disuguaglianze innanzitutto razziali, che hanno poi anche degli effetti nella vita offline. Non solo, la cancel culture sarebbe anche il contesto politico e culturale che permetterebbe a quelle pratiche di avere luogo e di diffondersi.

2La trasposizione del concetto di cancel culture in Italia, gli ha fatto assumere dei connotati parzialmente diversi per almeno due ordini di ragioni. Intanto, la cancel culture si è configurata come un dispositivo retorico che è entrato nel dibattito pubblico e, in particolare, giornalistico, però senza che ci sia in Italia un qualche movimento o forma di attivismo che tematizzi esplicitamente pratiche di cancellazione. Di conseguenza, l’etichetta “cancel culture” ha assunto la forma di un mero artificio retorico e linguistico che ha, però, come vedremo nel prossimo capitolo, generato conseguenze sul piano politico. Per dare un’idea a chi legge dell’entità di questo fenomeno a livello giornalistico basta citare alcuni numeri: dalla nostra ricerca su Facebook per parole chiave, solo digitando “cancel culture”, sono emersi 276 post pubblicati nel 2020 e 2021 sui principali giornali italiani (circa uno ogni 3 giorni in un periodo, ricordiamolo, segnato dalla pandemia). Ma gli articoli che toccano il tema in quel lasso di tempo sono in realtà molti di più: 216 su «la Repubblica», 228 su «Il Foglio» (solo nella sezione “Cultura”), 76 sul «Corriere della Sera», per citarne alcuni1.

3Il secondo aspetto che differenzia la narrazione attorno alla cancel culture in salsa italiana da quella statunitense è la sua intensa interconnessione con le questioni di genere. Questo può essere spiegato, in primis, dal fatto che nel nostro paese, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, le disuguaglianze e le lotte razziali sono meno al centro del dibattito pubblico. In secondo luogo, da una generalizzata ansia sociale attorno alle questioni di genere, dovuta principalmente alla presenza del Vaticano e di un radicato femminismo della differenza (Ghigi 2019). Infine, dall’incontro tra i fenomeni globali dei movimenti Ni Una Menos e Me Too2, che hanno rimesso al centro la questione della violenza contro le donne, e il dibattito italiano attorno al disegno di legge Zan contro l’omotransfobia.

4In questo capitolo si illustreranno le specificità della narrazione della cancel culture italiana e, in particolare, gli effetti di costruzione della realtà prodotti dal suo intenso uso giornalistico attorno alle questioni di genere. In secondo luogo, si analizzeranno gli strumenti che il giornalismo imputa alla cancel culture cioè la censura del linguaggio e il suo intreccio con il cosiddetto politicamente corretto, da un lato, e la censura di oggetti e persone, dall’altro.

2.1. Ma la cancel culture esiste davvero?

5Come si è detto in apertura del capitolo, la cancel culture in Italia è prima di tutto un fenomeno giornalistico. Alcune delle teorie sul rapporto tra media e cultura illustrano come i media conferiscano una forma alla conoscenza e alla cultura stessa di una certa società. Secondo Altheide e Snow (1979) siamo addirittura di fronte a una vera e propria mediatizzazione della cultura, della politica e della comunicazione politica, in cui i media e la produzione di notizie non sono più visti come asserviti e funzionali ai “poteri forti”, ma dotati di logiche autonome. A questo proposito, i due autori hanno coniato il concetto di media logic (logica dei media) per dipingere il processo per cui i media moderni non solo producono autonomamente specifiche forme di comunicazione, ma costituiscono una vera e propria «forza culturale dominante, a sua volta capace di modellare l’intera cultura della società, che è appunto, per ciò stesso la cultura dei media (media culture)» (Marini 2017, p. 14). In sostanza, la logica dei media fornisce agli attori sociali un modo di vedere il mondo e l’informazione si riduce ad artefatto che modella le rappresentazioni della realtà del pubblico. I media e i giornali in particolare, insomma, creano una realtà (Altheide 1976; 2002) che è, tra l’altro, già distorta perché influenzata dalle dinamiche del loro funzionamento che definiscono fin da principio il modo in cui si selezionano, confezionano e trasmettono le notizie e in cui l’intrattenimento gioca un ruolo centrale (Bosco 2012).

6Fatte le debite differenze fra il contesto statunitense analizzato dagli autori e quello italiano oggetto del capitolo, il caso della diffusione della cancel culture in Italia è emblematico dei processi sopra descritti. A questo si aggiunge, poi, l’epoca storica diversa dominata dai media digitali e dai social network che sono diventati il mezzo principale di fruizione dei giornali e che hanno modificato il formato e le pratiche di newsmaking sopra descritte. Vediamo, allora, come questo si lega alla diffusione della cancel culture nel nostro paese e il ruolo centrale svolto dalle questioni di genere.

7La creazione della realtà. In Italia è il giornalismo che ha reso reale la cancel culture trasformandola in quello che Boorstin (1961) chiamerebbe uno pseudo-evento, cioè un fatto che esiste solo perché viene narrato. Sebbene in alcuni casi si riportino notizie realmente accadute, nella maggior parte dei casi l’evento originario viene distorto e volutamente enfatizzato così da renderlo notiziabile, cioè degno di essere raccontato. Un esempio concreto è la polemica attorno al caso del bacio di Biancaneve. A maggio del 2021, due giornaliste del «San Francisco Gate», giornale locale statunitense online che si occupa principalmente di notizie riguardanti lo Stato della California e della baia di San Francisco, dedicano un articolo alla riapertura di Disneyland dopo il Covid e al rimodernamento della giostra dedicata a Biancaneve3. Nell’articolo le giornaliste citano il fatto che, in questo processo di rinnovamento dell’attrazione, sia stato inserito anche il bacio che il principe dà a Biancaneve per svegliarla, considerato dalle autrici inappropriato poiché dato senza consenso. L’articolo si chiude comunque con una nota di apprezzamento per la realizzazione della scena e con l’invito a interpretare Biancaneve e la “scena incriminata” come una fiaba, appunto, e non come una lezione di vita. Qualche giorno dopo in Italia proliferano articoli su tutte le principali testate giornalistiche dai titoli altisonanti accompagnati da post su Facebook che recitano frasi come: «L’attacco woke, che ha avuto risonanza anche in Italia, ha messo nel mirino il “bacio non consensuale” del classico datato 1937» («Il Giornale»), «Critiche alla nuova attrazione di Disneyland sull’onda (ormai incontenibile) del politicamente corretto» («HuffPost»), «L’ultimo bersaglio della cancel culture ha i volti del Principe e di Biancaneve e l’accenno a un bacio salvifico» («la Repubblica»), «La cancel culture esiste ed è un problema, Biancaneve o meno» («TPI»). Ciò che colpisce di questi articoli è che non riportano né nei titoli né nei post un fatto di cronaca realmente accaduto, ma semplicemente dipingono come fatto una mera opinione espressa da due giornaliste su un giornale locale minore statunitense. Inoltre, nel rimbalzare da un post all’altro politicamente corretto e cancel culture diventano la stessa cosa e vengono utilizzati come sinonimi. Anche laddove, infatti, non si parli esplicitamente di cancel culture si nomina la cancellazione della cultura richiamando una supposta censura operata da un’ideologia/movimento denominata woke (“sveglio”) (si veda anche § 1.3). Un ulteriore aspetto da evidenziare, infatti, è la connessione operata con la wokeness (stare all’erta), un’espressione statunitense, di cui si è già parlato nel capitolo precedente, diffusasi sui social ad opera dei movimenti del Black Lives Matter e del Me Too, che fa riferimento all’importanza di prestare attenzione a ingiustizie razziali e sociali. Questo termine è usato in modo dispregiativo dalle destre americane che considerano la wokeness il motore ideologico della cancel culture. Tuttavia, in Italia, non esiste nessun movimento analogo né sui social né nella “vita reale”, eppure questa espressione è utilizzata e sbandierata come se avesse una sua realtà. Un’ultima considerazione attiene all’engagement (cioè il numero di reazioni totali come “Mi piace”, “Commenti”, “Condivisioni” ecc.): per esempio, tra i post sopracitati, quello de «la Repubblica» ha 10.150 interazioni, mentre quello dell’«HuffPost» 3.9534. Questi dati sono importanti per almeno due motivi. Intanto, perché danno la misura del pubblico raggiunto a fronte, tra l’altro, di un sempre maggior uso da parte dei cittadini italiani dei social network come mezzi di informazione (il 55% si informa quotidianamente o qualche volta alla settimana sui social) (Ceccarini e Di Pierdomenico 2018) e dalla centralità ricoperta da Facebook in Italia fra i social che, nel 2021, contava 35,9 milioni di utenti5. In secondo luogo, per l’importanza assunta dalle performance online, che guidano la selezione e il confezionamento delle notizie da parte dei giornali.

8La forma e l’intrattenimento. La forma che i giornali danno alle notizie (o alle pseudonotizie) è, infatti, fondamentale per attrarre il pubblico e generare engagement sui social network. Come già facevano notare Altheide e Snow (1979; 1991), l’era giornalistica contemporanea è caratterizzata da una prevalenza del mezzo sui contenuti poiché non solo il primo conferisce realtà ai secondi, come abbiamo appena visto, ma è il mezzo stesso che dà forma ai contenuti sfruttando quello che gli autori chiamano il “format dell’intrattenimento”.

L’interazione e i significati condivisi tra gli operatori dell’informazione che seguono il format dell’intrattenimento e i membri del pubblico che “sperimentano” il mondo attraverso questi media promuovono una “comunicazione sufficiente” per raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione giornalistica di catturare il pubblico e allo stesso tempo permettere ai membri del pubblico di essere “informati” abbastanza per scambiare opinioni con i propri pari. (Altheide 2004, p. 295; trad. nostra)

9Dunque, da una parte, i giornali hanno come scopo principale quello di attrarre il pubblico; dall’altra, il pubblico è interessato ad accedere a una parvenza di informazione che gli permetta di farsi un’opinione sulla base di lenti interpretative fornite dai media stessi.

10Il risultato finale di questo processo è la messa in circolazione di luoghi comuni che determinano effetti di produzione della realtà (Bourdieu 1997) in cui la forma è più importante della sostanza. Alcune notizie – molto spesso false – vengono, dunque, diffuse con titoli accattivanti con lo scopo di generare clickbaiting (“acchiappaclick”) cioè interazioni sulla pagina. Uno degli espedienti retorici più utilizzati dai giornali in relazione alla cancel culture è lo spettro della censura, come vedremo meglio anche nel prossimo paragrafo. Emblematica di questi processi è ancora una volta una notizia legata alle questioni di genere, le quali si prestano particolarmente bene a essere travisate in modo da generare indignazione o spavento nel pubblico italiano. La notizia a cui facciamo riferimento è la polemica nata attorno a un presunto tentativo di censura verso l’uso di “maschio” e “femmina” per descrivere i cavi jack (ripresa anche da alcuni politici come vedremo nel prossimo capitolo). Anche in questo caso, alcune fra le maggiori testate giornalistiche titolano I cavi audio sono sessisti: basta usare jack “maschio” e “femmina”, serve una terminologia neutra («Il Fatto Quotidiano»), La rivolta contro il sessismo dei cavi audio. Jack “maschio” e “femmina” politicamente scorretti («HuffPost»), Cavi audio “maschio” e “femmina” sono termini sessisti: dagli Usa la proposta per cambiare i nomi («Corriere della Sera»). Nonostante i titoli siano molto simili e dal tono allarmistico, i contenuti degli articoli sono diversi con, per esempio, «Il Fatto Quotidiano» che si limita a riportare la notizia (vera) che la Professional Audio Manufacturers Alliance (PAMA), associazione americana di produttori di materiale audio, ha distribuito un questionario alle aziende che ne fanno parte per riformare alcuni linguaggi in una direzione più inclusiva. In altri casi, invece, il tono dell’articolo è volutamente sprezzante e ironizza sulle «follie del politicamente corretto». Ora, senza entrare nella discussione, è interessante notare che questo fatto non ha avuto alcuna conseguenza nel mercato dei materiali audio né italiano né statunitense, eppure la notizia è stata trasmessa con titoli volutamente ambigui e in grado di generare indignazione e, dunque, attività sui social. Ma questo (ab)uso dell’ironia ci dice anche qualcosa di più oltre alla semplice prevalenza della forma sulla sostanza. L’ironia è, infatti, sì una forma di intrattenimento, ma l’atto del ridicolizzare è anche il segnale di un timore. Se è vero, come abbiamo sostenuto finora, che la cancel culture non esiste così come viene raccontata sui social dai giornali, è anche vero che negli ultimi anni effettivamente – proprio grazie ai social e grazie ai (o a causa dei) racconti giornalistici – alcune istanze portate avanti da minoranze e gruppi marginalizzati hanno acquisito sempre più visibilità. In questo senso effettivamente i giornali colgono un aspetto importante che caratterizza i discorsi pubblici e giornalistici ai tempi dei social network che ha a che fare con relazioni di potere e di potere di censura. Media digitali e social network, infatti, da una parte, hanno creato delle “bolle” determinate dagli algoritmi usati dalle grandi società (come Google e Facebook) per selezionare per ogni utente informazioni preselezionate sulla base di processi di profilazione. Questi filtri, dunque, sulla base delle nostre ricerche e di quelle delle persone a noi vicine, definiscono “chi siamo” e ci propongono informazioni, prodotti e notizie “personalizzati” che, però, sono appunto preselezionate dai filtri e dagli algoritmi e sulle quali non abbiamo nessun controllo, restringendo dunque le possibilità di entrare in contatto con altri tipi di fonti di dati. Dall’altra parte, però, le nuove tecnologie e i social network, in particolare, hanno aperto lo spiraglio per una inedita democratizzazione del discorso pubblico e per la messa in rete di istanze e gruppi che altrimenti non avrebbero avuto visibilità o possibilità di aggregazione (Castells 2009). Questo non significa che stiamo assistendo a un ribaltamento delle dinamiche di potere: reti di comunicazione di massa e attori economici e politici che su queste si esprimono, infatti, continuano a godere di una posizione privilegiata nella trasmissione dei contenuti e delle lenti per interpretarli. Tuttavia, è indubbio che l’accesso alle piattaforme digitali abbia permesso in alcuni casi un ampliamento del discorso, dei contenuti e dei soggetti che possono esprimersi e, con esso, anche una sensibilizzazione dell’opinione pubblica rispetto ad alcune tematiche. Se fin dai primi studi sull’opinione pubblica (Lippman 1922) la preoccupazione è sempre stata rivolta alla sua influenzabilità da parte di chi dispone della proprietà e della gestione dei mezzi di comunicazione di massa, oggi l’accesso alle piattaforme digitali – seppure con i rischi sopracitati della creazione di “bolle” – ha in parte mutato i termini del discorso. L’opinione pubblica contemporanea, infatti, non solo ha potenzialmente accesso a svariate fonti di informazione, ma ha anche la possibilità di dare visibilità a istanze prima invisibilizzate. Tornando alla cancel culture, l’equivoco sta nel fatto di descriverla come una cultura quando semmai potrebbe essere descritta come una pratica o, meglio, una richiesta di attuazione di una pratica (quella della cancellazione) che, però, non è né una cultura maggioritaria, né davvero un mezzo a disposizione delle minoranze. Tuttavia, l’ironia con cui il giornalismo liquida alcune questioni sollevate dalle minoranze serve per ridurre queste rivendicazioni a cliché, a vezzo della sinistra oppure a tema irrilevante, cercando di restringere di nuovo – non sempre consapevolmente – lo spazio del discorso pubblico e dell’agire politico, come era già successo negli Stati Uniti durante gli anni Novanta con il politicamente corretto (Faloppa 2022) e come vedremo meglio nel paragrafo successivo.

2.2. Gli strumenti della cancel culture secondo il giornalismo italiano

11La cancel culture in Italia è, dunque, un fenomeno prettamente giornalistico. Per illustrarne il funzionamento in relazione alle questioni di genere, mostreremo come i giornali descrivono gli strumenti della cancel culture e, in particolare, le due forme di censura, a loro dire, da essa operate. La prima sarebbe diretta a censurare persone e cose, l’altra a costringere l’opinione pubblica a essere rispettosa di certi temi sensibili e/o di gruppi marginalizzati tramite una riforma del linguaggio. Sebbene siano evocati sui social network in modo indistinto dai giornali, questi due strumenti della cancel culture sono da tenere separati perché, sebbene alla base di entrambi ci sia un’idea di coercizione da parte delle minoranze, la presunta censura assume forme diverse. Nel primo caso è una vera e propria richiesta di censura e di rimozione di oggetti o persone scomode. Nella seconda, invece, è il linguaggio a essere al centro e si descrive un potere che è al tempo stesso repressivo – perché impedisce di dire alcune cose restringendo, dunque, lo spazio discorsivo – e produttivo perché al contempo costringerebbe a una modifica del linguaggio sia dal punto di vista del lessico (cioè delle parole) che della sintassi (cioè della costruzione della frase). La cancel culture, dunque, per come viene raccontata agirebbe in tre modi: (1) attraverso la minaccia, cioè “se dici questo, ti cancello”; (2) attraverso la coercizione nei termini del “se non dici questo, allora sei questo e, dunque, ti cancello”; (3) attraverso la censura nella forma “siccome hai detto/fatto questo, ti cancello”. Proviamo ad analizzarle separatamente.

2.2.1. La questione del linguaggio: cancel culture e politicamente corretto tra “non si può più dire niente!” e “c’è ben altro di cui parlare”

12Una delle accezioni più frequenti con cui viene usata la locuzione di cancel culture è come sinonimo di politicamente corretto (o politically correct). Nella nostra ricerca per parole-chiave abbiamo, infatti, volutamente introdotto queste espressioni perché molto spesso cancel culture e politicamente corretto vengono fatti coincidere o descritti come parte di uno stesso processo di omologazione e come nuove forme di censura. Si è già detto della centralità delle questioni di genere in Italia e dei fattori, citati in apertura del capitolo, che l’hanno determinata. A questi va aggiunto il dibattito sul – o meglio la crescente attenzione giornalistica attorno al – linguaggio, finalizzato al superamento del maschile universale e all’adozione di formule più inclusive. Quest’ultime prendono la forma di “buongiorno a tutte e tutti” anziché “buongiorno a tutti” o addirittura di formule neutre per includere minoranze, come le persone non binarie6, per esempio usando la “-u”, l’asterisco o lo “schwa” (ə/3) (“buongiorno a tuttu”, “buongiorno a tutt*”, “buongiorno a tutt3”) (Manera 2021)7.

13Questo dibattito è importante ai nostri fini perché la questione del linguaggio è centrale nella costruzione della cancel culture e sia giornalisti/e sia intellettuali che attraverso i giornali si esprimono tendono a utilizzare, in questo caso, cancel culture come sinonimo di politicamente corretto. Esemplificativo di questa sovrapposizione è l’articolo de «Il Giornale» dal titolo Platinette: “Vengo definito un gay omofobo ma ora sono gli etero i veri discriminati” all’interno del quale si legge (grassetto nell’originale):

Diretto, senza filtri e lontano dal politicamente corretto: Mauro Coruzzi, in arte Platinette, in una lunga intervista con Pietro Senaldi ha parlato del ddl Zan e della deriva sociale del pensiero unico […]. Critico verso la cancel culture che si sta imponendo anche nel nostro Paese, Coruzzi sostiene che “i veri discriminati oggi sono gli eterosessuali e chi li difende; ormai sono una razza in estinzione”.

14Prima di entrare nel merito della questione, facciamo chiarezza su che cosa è il politicamente corretto. In realtà, anche in questo caso, dovremmo chiederci che cosa intendono i suoi detrattori o, meglio, i sostenitori della sua esistenza. In effetti, questa espressione, ormai piuttosto datata e periodicamente riesumata, ha assunto l’accezione (negativa) – con cui viene usata oggi – solo a partire dagli anni Novanta nel contesto statunitense, ma tuttora manca di una definizione chiara e condivisa (Faloppa 2019). Chi ha iniziato a utilizzare lo spauracchio del politicamente corretto fa riferimento a una spinta verso il conformismo, agita dai “sinistroidi” (leftist) che popolano i college statunitensi, che obbliga le persone a non utilizzare pratiche o linguaggi che possano essere considerati offensivi verso minoranze sessuali, etniche o culturali. Secondo i neoconservatori – da Bush senior a Donald Trump – che ne hanno fatto il loro baluardo, vigerebbe, dunque, un clima di terrore istituito da gruppi la cui esistenza e il cui potere è reale nella misura in cui è sufficiente l’idea che esistano e che detengano quel potere. Il politicamente corretto affonderebbe le sue radici in una mentalità di sinistra puritana, portata avanti dalle élite liberali, che avrebbe lo scopo di produrre un conformismo culturale attraverso l’imposizione di un nuovo linguaggio. Il politicamente corretto, dunque, in questa visione reprime le libertà individuali e finisce anche per rinnegare le proprie radici culturali, tanto da arrivare a essere definito un “fascismo liberale”.

15Con questa accezione e con questo focus sul linguaggio è arrivato, sempre agli inizi degli anni Novanta, anche in Italia. I parallelismi e la sovrapposizione con la cancel culture sono bene evidenti e il meccanismo di censura evocato è quello della minaccia cioè “se dici questo, ti cancello”. La cancel culture, dunque, starebbe contribuendo alla costruzione di un pensiero unico segnato dal o sovrapponibile al – questo è ancora da chiarire – politicamente corretto in cui il linguaggio gioca un ruolo centrale. Ma ci sono anche delle differenze tra questi due fenomeni. Il politicamente corretto statunitense è sempre stato usato dalla destra per opporvi il proprio discorso, che si propone come liberatorio di fronte al perbenismo di sinistra. Nel caso italiano e nel suo utilizzo in connessione con la cancel culture, soprattutto laddove si tocchino le questioni di genere, invece, si fa spesso fronte comune fra giornalisti, intellettuali e politici di schieramenti opposti. In Italia, l’aspetto che accomuna tutti gli oppositori della cancel culture (e del politicamente corretto) è la convinzione che la repressione dei comportamenti linguistici in qualsiasi forma, cioè anche attraverso consigli o disapprovazione sociale, sia una forma di censura e di lesione della libertà di parola. Sui giornali e non solo, infatti, trovano spazio moltissimi intellettuali di sinistra che si scagliano contro la censura del politicamente corretto: da Luca Ricolfi che ha, tra l’altro, pubblicato insieme a Paola Mastrocola il volume Manifesto del libero pensiero edito da «la Repubblica» con La Nave di Teseo nel 2021, celebrato dal giornale come «un invito appassionato a riflettere sulla pluralità dei linguaggi e sui rischi di abolire il confronto», a Paolo Flores D’Arcais che negli anni più volte si è scagliato contro il politicamente corretto. Inoltre, periodicamente escono articoli di giornale che danno voce a personaggi di varia natura – cantanti, attori, registi, personaggi dello spettacolo nostrani e non – che affermano che la cancel culture sia il fascismo dei nostri tempi proprio perché imbavaglia il linguaggio. Per esempio, il «Secolo d’Italia» riporta un’intervista al noto scrittore Giuseppe Culicchia in un articolo dal titolo Culicchia: la cancel culture è ridicola e pericolosa. C’è un ministero della Verità che impone la neolingua come nel romanzo di Orwell 1984. L’articolo è interessante sia perché riporta le parole di un personaggio considerato un intellettuale di sinistra, sia perché nell’intervista si fa esplicito riferimento alle questioni di genere proponendo un parallelismo con il nazismo. Si legge, infatti: «Sul femminismo, Culicchia obietta che non si sente in colpa perché maschio, bianco, eterosessuale e osa inserire tra le femministe anche la cineasta Leni Riefenstahl, che filmò per Hitler il congresso di Norimberga del 1935 ma si oppose alle avances di Goebbles». Teniamo a mente questa affermazione perché poi ci sarà utile anche più avanti; qui è importante far notare l’accento posto sulla dittatura e la creazione di gerarchie di importanza tra tematiche.

16In questo clima di ansia attorno al linguaggio e alla censura, è spiccata la già citata (si veda anche § 1.5) lettera aperta intitolata A Letter on Justice and Open Debate (“Una lettera sulla giustizia e il dibattito aperto”) pubblicata sulla rivista Harper’s a luglio 2020 che, in realtà, non cita mai né il politicamente corretto né la cancel culture. Tuttavia, su tutti i giornali italiani e non – a proposito di costruzione della realtà da parte dei media e dei giornali – è stata subito presentata come il baluardo della lotta contro la cancel culture e il politicamente corretto con post quali «Circa 150 firme illustri escono allo scoperto per opporsi alla “cancel culture” e difendere la libertà d’espressione» («Corriere della Sera»). Tra gli oltre 150 firmatari, come ricordato nel capitolo 1, troviamo personaggi di alto profilo come l’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling, gli scrittori Margaret Atwood e Salman Rushdie, accademici del calibro di Noam Chomsky e Francis Fukuyama, che denunciano «l’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo, e la tendenza a risolvere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale» che vincolerebbero il «libero scambio di idee e informazioni» e la «possibilità di essere in disaccordo in buona fede, senza timore di catastrofiche conseguenze professionali». Questa lettera è in linea con alcune posizioni anche accademiche come quella di Friedman (2018) che del politicamente corretto ha dato una lettura antropologica. L’autore sostiene che questo non sia solo una forma censura linguistica, ma un vero e proprio «regime morale», cioè un fenomeno strutturale che racconta di cambiamenti socioculturali e politici profondi dell’Europa e dell’Occidente in generale. In effetti, Friedman sostiene che il politicamente corretto sia, da una parte, il sintomo della perdita di riferimenti identitari individuali e collettivi che caratterizza la postmodernità; dall’altra, una strategia di legittimazione delle nuove élite transnazionali neoliberali. Nel descrivere i meccanismi con cui il politicamente corretto opera, l’autore mette l’accento sui processi di categorizzazione ed essenzializzazione dell’«avversario» per mezzo di associazioni metonimiche al fine di sottrarsi al confronto e di rafforzare la propria identità.

Come processo discorsivo, la categorizzazione del politicamente corretto è una forma di essenzialismo che collega numerose categorie mediante l’associazione spaziale o semantica in un insieme complesso che permette all’ordine morale di essere mantenuto in situazioni dove c’è una minaccia di disordine […]. Le vecchie [élite], se minacciate, possono invocare il politicamente corretto per tentare di conservare la loro posizione […]. Il politicamente corretto trova terreno fertile in tempi di declino del modernismo, perché è un meccanismo di protezione delle identità che non riconoscono l’argomentazione razionale. (ivi, pp. 86-90)

17Questi meccanismi, come già sottolineava Hughes (2003), possono effettivamente avere in teoria l’esito paradossale di un ritorno all’essenzialismo, in parte già in atto in alcune declinazioni delle cosiddette politiche identitarie statunitensi8. Tuttavia, non crediamo che questo modo di rappresentare il politicamente corretto e per estensione la cancel culture sia adeguato al momento storico contemporaneo e tantomeno che questa interpretazione si adatti bene al contesto italiano.

18Tornando alla lettera, infatti, al di là del timing infelice con cui è uscita e cioè nel pieno delle proteste del Black Lives Matter, a nostro avviso, più che denunciare questo clima di irrazionalità di cui parla Friedman (ibid.), ha prestato il fianco a travisamenti e a un utilizzo strategico a supporto dell’esistenza di un clima di censura.

19In effetti, da un lato, l’appello è rivolto alle istituzioni e a chi detiene il potere affinché assicurino un libero scambio di idee e appoggia le rivendicazioni dei movimenti a favore della giustizia razziale e sociale. Dall’altra, però, sembra porre sullo stesso piano l’illiberalismo di Donald Trump con il radicalismo di una parte dei movimenti sopracitati che sono, di fatto, l’oggetto della lettera. Oltre a ciò, perplime che a firmare questa lettera ci siano anche persone come J.K. Rowling la quale è effettivamente sotto attacco sui social a causa delle sue posizioni considerate da una parte del movimento femminista come transfobiche. La scrittrice ha, in effetti, spesso sostenuto pubblicamente che a suo modo di vedere le donne trans non possono essere considerate donne perché, riprendendo le sue stesse parole, «sono nate biologicamente maschi» e, per questo, si è anche spesso espressa contro bagni e spogliatoi misti. Senza entrare nel merito del dibattito, che esula dagli scopi di questo volume, la narrazione mediatica che è stata fatta di questa lettera – e che la lettera ha, però, contribuito a rinforzare – si è concentrata sul pericolo per la libertà di espressione rappresentato dal dissenso politico delle minoranze che viene ridotto a mero esercizio indiscriminato della gogna pubblica.

20Questo caso è interessante perché il richiamo alla libertà di espressione sembra più funzionale a criminalizzare le rivendicazioni di gruppi storicamente marginalizzati, le quali talvolta prendono la forma di accuse verso persone più o meno note e verso le loro opinioni, come nel caso di Rowling, ma che non necessariamente sono segni di un restringimento del dibattito pubblico e forme di censura.

21Anzi, volendo portare il discorso alle sue estreme conseguenze, la possibilità di esprimere un dissenso e di contestare opinioni e persone è un allargamento del dibattito. Al contrario, chiedere che queste minoranze smettano di farlo è, semmai, una forma di censura.

22Infine, il modo in cui si è parlato sui giornali di questa lettera è interessante perché descrive una sorta di cortocircuito o, anzi, di reciproco rinforzo tra gli strumenti della censura della cancel culture: da una parte, c’è lo strumento del politicamente corretto che cancella la libertà di espressione; dall’altra, a fronte di un esercizio della libertà di espressione (o presunta tale) ci sarebbe la richiesta di cancellazione della persona (come vedremo meglio nel prossimo paragrafo). L’interesse risiede nel fatto che, in realtà, né le posizioni espresse sui social da Rowling, né Rowling stessa sono state cancellate, rendendo la denuncia dei meccanismi sopra citati, da parte dei sostenitori dell’esistenza della cancel culture, piuttosto inconsistente. Anzi, i firmatari sono e rimangono persone che godono di posizioni sociali di prestigio e di un’ampia risonanza mediatica, soprattutto in confronto ai “politicamente corretti” che, lungi da essere élite come sostiene Friedman (ibid.), sono minoranze che continuano, piuttosto, a faticare a trovare spazio e rappresentazione nella sfera pubblica. In questo senso è vero che stiamo assistendo a una polarizzazione identitaria che, però, non ha a che fare con un ritorno all’essenzialismo, ma con la possibilità di esprimersi e di esprimere certe opinioni, inevitabilmente condizionate dal fatto di condividere alcune posizioni nelle relazioni sociali, a loro volta influenzate da una serie di variabili come il genere, il colore della pelle, l’orientamento sessuale eccetera.

23Il politicamente corretto, in Italia, in relazione alla cancel culture, è stato osteggiato non solo come forma di censura nella forma del “non si può più dire niente”, ma anche come battaglia superflua che, anzi, distoglierebbe dai veri problemi delle minoranze e che, tra l’altro, nascerebbe da un fraintendimento di fondo rispetto all’importanza delle parole. La vicenda che ha coinvolto il duo comico di Pio e Amedeo racchiude tutti questi elementi. I due, durante un loro show televisivo trasmesso in prima serata, Felicissima sera, hanno dedicato uno spazio al tema del “non si può più dire niente”, concentrandosi sulle parole “neg*o” e “fro*io” e lamentando il fatto di non poterle più utilizzare neanche per fare comicità. Andando avanti nel monologo, Pio e Amedeo sottolineano che il problema delle parole è, in realtà, un non problema perché ciò che conta è l’intenzione e non la parola in sé e suggeriscono a chi si sente offeso da questi epiteti di riderci su. I due comici, poi, rivendicano apertamente questo comportamento a loro dire “scomodo” e insistono più volte sul rischio che stanno correndo di andare incontro a lamentele e forse censure. Il giorno seguente scoppia, ovviamente, la polemica sui social con molte persone indignate alle quali Pio e Amedeo rispondono senza scusarsi e, anzi, mantenendo la loro posizione e insistendo che quando si vogliono modificare le parole è perché non si vogliono modificare le cose. Questo dispositivo retorico non è nuovo in questi ambiti e richiama il “c’è ben altro di cui preoccuparsi” attraverso cui le maggioranze paternalisticamente pretendono di insegnare alle minoranze quali siano le battaglie e i modi per combatterle più adeguati.

24Diversi giornali hanno lodato il coraggio dei comici nel non farsi imbavagliare in un’Italia in cui non si potrebbe più dire nulla, specialmente sui social, come ribadito dagli stessi comici. Inoltre, soprattutto giornali di orientamento conservatore, hanno invocato – anche questo non un fatto inedito – la discriminazione inversa scrivendo su Facebook. «Il tragico paradosso del politicamente corretto: si erge a paladino delle minoranze ma scredita le persone sulla base del loro colore della pelle e del loro orientamento sessuale. “Sono bianchi ed etero”» («Il Giornale»). Il titolo dell’articolo recita La vera censura contro Pio e Amedeo, tuttavia come sottolinea giustamente Tonini (2022, p. 202) «in Italia, in televisione, si continua a poter dire serenamente in prima serata tutto ciò che in altri ambiti è socialmente condannato dalla nuova sensibilità. Nel caso rimanesse qualche dubbio sull’effettività della cancel culture, il programma è stato rinnovato per una nuova edizione». Con buona pace dell’assessore leghista – di cui il «Corriere della Sera» parla su Facebook in questi termini: «Nino Spirlì, vicepresidente della giunta regionale calabrese, parla del linguaggio e critica il “politically correct”» – che nel 2020 ha pubblicamente affermato: «Ci stanno cancellando le parole di bocca. […] Guai a chi mi vuole impedire di usare la parola ricchione […]. Questa è l’èra della grande menzogna, siamo in mano a delle bruttissime lobby […], non c’è lobby peggiore della lobby frocia […]. Io parlo? Dirò “negro” fino all’ultimo dei miei giorni, dirò “frocio” fino all’ultimo dei miei giorni».

25Ecco, il punto allora non è tanto che “non si può più dire niente” – Spirlì è rimasto regolarmente in carica e poco dopo è diventato presidente della Regione Calabria, ruolo che ha ricoperto fino a fine 2021, mentre Pio e Amedeo hanno girato un film uscito al cinema a gennaio 2022 – quanto il fatto che una parte del pubblico, che continua a essere sottorappresentata ovunque, trova nei social uno spazio di visibilità, modificando anche in una parte dell’opinione pubblica quello che è considerato offensivo da dire e pubblicare. In realtà, tutti questi personaggi che lamentano la censura, però, condividono una cosa: il potere di parola. E non è un caso che siano quasi tutte persone – uomini per la maggior parte – bianche, eterosessuali e benestanti/famose. Questo richiamo, allora, alla censura e alla dittatura delle minoranze gridato a gran voce sulle maggiori testate giornalistiche, nazionali e non, svela esattamente ciò che i (supposti) “cancellatori” vogliono denunciare: il privilegio di alcuni gruppi di persone che condividono una serie di caratteristiche (colore della pelle, status sociale, orientamento sessuale, genere) e l’invisibilizzazione di altri gruppi sociali. Non si tratta, dunque, di fare “razzismo inverso”, ma di riconoscere le disuguaglianze di potere strutturali che caratterizzano i diversi gruppi sociali.

26Analogamente a quanto scriveva Baroncelli sul politicamente corretto, nel 1996, nel suo libro Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del “politically correct”, allora, la cancel culture non è il problema, ma è il sintomo di problemi irrisolti, soprattutto attorno alle questioni di genere, di cui nessuna forza politica (neanche di sinistra) è mai riuscita a farsi carico e talvolta neanche a prendere sul serio.

[…] Non è affatto necessario condividere i comportamenti, le filosofie, le ideologie tipiche dei “politicamente corretti” per accettare un confronto sulle valenze offensive del linguaggio di tutti i giorni. Anche perché non si tratta soltanto di “non offendere”, ma soprattutto di abituarsi a non percepire il mondo degli uomini (e delle donne) attraverso le categorie e i criteri di rilevanza messi assieme da millenni di guerre e sopraffazioni. La presa di coscienza dell’importanza del linguaggio è, in definitiva, un elemento non trascurabile della riflessione sulla tolleranza, e il linguaggio non offensivo è uno strumento di convivenza su cui è sciocco far sempre e soltanto del sarcasmo. (Baroncelli 1996, p. xi)

27Il sarcasmo di cui parla Baroncelli, infatti, è ancora più marcato quando vengono affrontate le proposte di riforma del linguaggio. Oltre alla richiesta di non utilizzare più certi termini dispregiativi, sempre più spesso si propongono anche soluzioni di modifica della sintassi in una direzione più inclusiva, come per esempio attraverso l’uso dello schwa o degli asterischi citati a inizio paragrafo. In questi casi il giornalismo descrive un potere delle minoranze di tipo produttivo che opera attraverso la coercizione nei termini del “se non dici questo, allora sei questo e, dunque, ti cancello”.

28Questo tipo di problemi, cioè la ricerca di un linguaggio più inclusivo e le reazioni contrarie che la accompagnano, non sono certo una novità. Ne Il sessismo nella lingua italiana (1987) scritto per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e per la Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, la linguista Alma Sabatini non solo denuncia l’esistenza del sessismo linguistico, ma propone anche delle raccomandazioni per superarlo riconoscendo al linguaggio il potere di costruzione della realtà e, dunque, anche delle relazioni di genere. La prima proposta di riforma del linguaggio auspicata dalla linguista è quella del superamento del maschile universale e della declinazione dei nomi e delle professioni anche al femminile. Inoltre, nella premessa, l’autrice si chiede perché alcuni neologismi, inclusi quelli derivati dall’inglese, siano accettati di buon grado e immediatamente entrino nell’uso e nel senso comune e altri, invece, soprattutto quando si toccano le questioni di genere, provochino una levata di scudi9. Oltre a questo, è interessante la rassegna di reazioni contrarie che l’autrice rileva quando si propongono riforme del linguaggio: dalle obiezioni perché le nuove parole “suonano male”, all’irrilevanza di questo tipo di battaglie, all’attentato alla libertà di parola.

29Questo dibattito – in realtà mai sopito – ha ripreso vigore negli ultimi anni sulla spinta di altre soggettività, oltre alle donne, che non si sentivano rappresentate nel linguaggio: in particolare, le persone non binarie. Le proposte di riforma degli ultimi anni, come gli asterischi, l’uso della -u o dello schwa, dunque, hanno lo scopo di creare un linguaggio più inclusivo che eviti il maschile sovraesteso per riferirsi a gruppi misti e includa ogni parlante o scrivente qualunque sia il suo genere. I social hanno reso queste discussioni e riflessioni, che già esistevano seppur in cerchie più ristrette, accessibili a un pubblico più ampio generando, come spesso accade, un senso di spaesamento e incertezza. I giornali italiani periodicamente affrontano il tema – quasi sempre dando ampio spazio ai suoi oppositori – ma due sono gli episodi che più hanno fatto emergere il livore verso queste proposte di riforma del linguaggio nel biennio considerato.

30Il primo risale al 2020 e è lo “scontro” avvenuto tra Mattia Feltri e l’Accademia della Crusca. A luglio, il giornalista nella sua rubrica “Buongiorno” ospitata su «La Stampa» pubblica un pezzo intitolato Allarmi siam fascistə che ironizza sulla proposta, da lui attribuita a una generica “accademica della Crusca”, di utilizzare lo schwa. Pochi giorni dopo, Claudio Marazzini, presidente della Crusca, invia una lettera al giornale e poi pubblica un post su Facebook, a seguito del dibattito suscitato dalla suddetta lettera, per chiarire la sua posizione e quella dell’Accademia, nei quali non solo prende le distanze da questa proposta, ma a sua volta ironizza – seppure in modo più elegante di Feltri – sulle proposte di riforma del linguaggio. Il convitato di pietra di questi scambi è la socio-linguista Vera Gheno, attualmente ricercatrice presso l’Università di Firenze ed ex collaboratrice dell’Accademia della Crusca, che nel suo libro Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole (2019) proponeva quasi per gioco l’adozione dello schwa. Questo evento è importante, però, perché è uno dei primi momenti in cui inizia la delegittimazione di queste battaglie ridicolizzando sia le riflessioni sul sessismo linguistico, sia le persone che di queste rivendicazioni si fanno portatrici, anche da parte di istituzioni di potere e prestigio come l’Accademia della Crusca.

31Il secondo evento, invece, verificatosi nella primavera del 2021, è stato l’uso dello schwa in una comunicazione sui social da parte del Comune di Castelfranco Emilia. Su Facebook, «Linkiesta» pubblica un articolo, a firma Guia Soncini, dal titolo Rompere le filə. Ogni mattina uno schwa del villaggio si sveglia per imporci la sua neolingua con un post di accompagnamento che aggiunge: «Si è escogitato una cosa che in italiano non esiste, il neutro, per sedare qualche essere umano esagitato che non si specchia costantemente in ogni descrizione». L’articolo viene anche ripreso da Paolo Flores d’Arcais, noto giornalista considerato di sinistra nonché direttore di «MicroMega», che titola L’articolo che volevo scrivere ma che era già stato scritto a proposito di questa, a suo dire, «ennesima idiozia spacciata per progressista». Il direttore, nel commento che precede la riproduzione dell’articolo di Soncini, aggiunge anche:

Trovo davvero deplorevole e malinconico che su tutta la vasta gamma tematica del politicamente corretto (dalla cancellazione della cultura – o vogliamo davvero tradurre “cancel culture” cultura della cancellazione? – all’islamofilia, all’antifemminismo di genere, al divieto di “offendere” le idee altrui, cioè alla fine del dibattito delle idee, e via aggiungendo) gli scampoli di illuminismo si trovino solo in ambito conservatore, mentre dovrebbero essere pane quotidiano per una sinistra degna del nome.

32Nell’articolo di Soncini si legge che

Il simbolo fonetico d’un’altra lingua dovrebbe servire a rendere più inclusiva la nostra. Pare infatti che io (che, non so se ne siate al corrente, ho le tette) mi senta esclusa ogni volta che qualcuno dice “Buongiorno a tutti”: tutti è maschile, perdindirindina, io vengo dunque cancellata dal consesso dei salutati? In realtà no, visto che in italiano esiste il maschile sovraesteso, ovvero i plurali maschili che includono anche le femmine in essi incluse. O almeno, così era finché la sanità mentale era la regola.

33Inoltre, le persone che si interrogano su come cambiare la lingua vengono definite come «invasati che a un certo punto decidono d’imporre neologismi […]. La lingua la cambia l’uso dei parlanti, non i convegni universitari e i consigli comunali».

34Nei mesi successivi si moltiplicano gli articoli che paventano una dittatura delle minoranze come l’articolo di Luca Ricolfi Politicamente corretto, le cinque varianti delle parole, pubblicato su «la Repubblica», nel quale l’autore sostiene che «la nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci […]».

35Come si può notare, i toni di tutti gli articoli sono estremamente sarcastici e vedono alleate persone di tutti gli schieramenti politici. È interessante, inoltre, il fatto che questi articoli descrivono forme di coercizione da parte delle minoranze nonostante la proposta di uso dello schwa non chieda di cancellare qualcosa, ma semmai di aggiornare la lingua dando visibilità ad altre soggettività che sono, invece, allo stato attuale invisibilizzate e dunque censurate. In secondo luogo, è interessante notare che il linguaggio, che i critici del politicamente corretto affermano essere proprietà della comunità dei parlanti, pare che smetta di esserlo nel momento in cui si tirano in ballo le questioni di genere (Baroncelli 1996; Manera 2021, Gheno 2021; 2022). Poiché l’addetto alla comunicazione dell’assessore di Castelfranco Emilia è più vicino alla comunità dei parlanti che non ai gangli del potere costituito a cui sembra alludere Soncini e poiché la comunità LGBTQ+ non dirige l’Accademia della Crusca, sembra ragionevole sostenere che semplicemente la lingua sta evolvendo senza nessuna imposizione di nessuna minoranza, ma proprio perché alcune soluzioni sono considerate da parte di alcune persone per il momento sufficientemente efficaci. Infine, è paradossale leggere articoli in cui si riconosce che le minoranze sono tali e che, al contempo, si stupiscono o reagiscono con fastidio al fatto che quelle stesse minoranze chiedano di essere rappresentate.

36Altre critiche emerse nei mesi successivi riguardano, invece, l’adeguatezza delle soluzioni di riforma del linguaggio proposte. Per esempio, su «la Repubblica», nell’estate del 2021, escono diversi articoli sul tema: Io non sono un asterisco di Maurizio Maggiani che pensa che «se il politicamente corretto modifica la lingua non vivremo certo in un posto migliore. Perché gli acronimi non vanno bene per gli umani»; le opinioni della professoressa Silvia Ferrara che sostiene che «a colpi di vocali non si cambia la realtà» e del professor Luca Serianni che, nell’articolo La lingua italiana non si cambia con l’asterisco, afferma che lo schwa e gli altri segni grafici inclusivi non entreranno nel vocabolario. Nonostante, come già detto, alcuni ritengano che sia in corso l’imposizione di una dittatura, in realtà lo schwa, gli asterischi, la -u sono solo proposte che possono essere legittimamente considerate soluzioni non incisive.

37Sono numerosi, infatti, i linguisti e accademici che ne hanno evidenziato i limiti, tra i quali i già citati Hughes (1994) e Friedman (2018), ma anche autori italiani come Arcangeli (2022) e De Benedetti (2022). L’elemento che accomuna i loro testi è la critica all’eccessiva importanza attribuita ai significanti rispetto ai significati quando si affrontano le questioni linguistiche. Gli autori, infatti, ritengono che il linguaggio non abbia una forza materiale, per cui ciò che viene detto non è direttamente rilevante per il contesto sociale in cui viene prodotto. Inoltre, contestano il fatto che l’atto del parlare sia di per sé sempre già significante e affermano che bisogna sempre tenere conto del contesto e dell’intenzione del/la parlante. Nelle parole di Hughes (1994, pp. 35-37): «l’omosessuale pensa forse che gli altri lo amino di più o lo odino di meno perché viene chiamato “gay” […]? L’unico vantaggio è che i teppisti che una volta pestavano i froci oggi pestano i gay. […] Nessuna sostituzione di parole è in grado di ridurre il tasso di intolleranza presente in questa o in qualunque altra società».

38Tuttavia, in primo luogo, non concordiamo con l’idea che la lingua sia uno strumento neutro che non ha un legame diretto con le forme di intolleranza e stigmatizzazione, poiché il senso dell’agire è l’agire stesso ed è sempre culturalmente orientato (Garfinkel 1986). Ogni affermazione, dunque, non si può ridurre al suo significato letterale perché contiene sempre un ulteriore significato implicito e condiviso dal gruppo sociale in cui viene prodotta. In secondo luogo, vediamo in queste posizioni il rischio di – come si suol dire – guardare al dito anziché alla luna. Se le soluzioni di riforma del linguaggio proposte non convincono, se ne possono cercare altre, ma non derubricare la questione posta dalle minoranze interessate come una sciocchezza. Queste proposte hanno, infatti, solo parzialmente a che fare con il linguaggio in sé (Fairclough 2003), anche perché se così fosse avrebbe ragione O’Neill (2011) nel dire che la strategia del rimpiazzo delle parole dei politicamente corretti è un ciclo continuo di introduzione e sostituzione di eufemismi. Piuttosto, le riflessioni sul linguaggio sono un mezzo per mettere in luce un problema politico di sottorappresentazione di alcune soggettività e comunità, le cui proposte di riforma delle parole possono essere certamente ripensate, ma non liquidate come irrilevanti.

39Un’ulteriore strategia di delegittimazione dell’adozione di un linguaggio inclusivo è sostenere che in questo modo si distoglie l’attenzione dai veri problemi nella cui creazione, però, si riconosce la centralità del linguaggio. È emblematica la polemica sorta sui giornali e sui social, cavalcata da diversi politici, a proposito del discorso sul palco del 1° maggio 2021 a Roma del cantante Fedez incentrato sul ddl Zan e di cui si darà meglio conto nel prossimo capitolo (si veda anche § 3.2.1). Ci viene in aiuto ancora una volta l’articolo sopracitato del «Secolo d’Italia» che riporta le parole dello scrittore Culicchia (grassetto nell’originale):

Ma l’uso distorto delle parole parte da lontano e non riguarda solo le minoranze – avverte – si pensi al mondo del lavoro, in cui i licenziamenti sono diventati esuberi, o agli eufemismi usati al tempo del giornalismo di guerra embedded, in cui le vittime civili si sono trasformate in danni collaterali […]. Avvilente ed emblematico, infine, il fatto che il 1º Maggio si parli di omotransfobia anziché del dramma di un Paese che ha visto non solo la perdita di 900mila posti di lavoro ma anche l’azzeramento di ogni possibile progetto di futuro per intere generazioni che all’indomani dell’introduzione delle leggi sul precariato possono sperare al più in uno stage da 600 euro al mese, per tacere di chi si riduce a lavorare gratis pur di aggiungere una qualche esperienza al suo curriculum.

40Sembra, dunque, che il linguaggio sia effettivamente centrale nel forgiare la realtà, ma che la questione si possa affrontare solo se ci si occupa dei “veri” problemi in cui non rientrano quelli legati alle tematiche di genere, rinforzando tra l’altro una presunta contrapposizione fra diritti sociali e civili.

41Speculare e complementare all’obiezione appena illustrata, è la tesi per cui non serve a niente occuparsi delle questioni inerenti al linguaggio inclusivo e che, anzi, così si rischia di creare nuove disuguaglianze. È la linea di Cecilia Robustelli su «MicroMega» che reputa lo schwa «una toppa peggiore del buco» perché «è pericoloso sperimentare sul sistema della lingua se non si prevedono i contraccolpi che tale intervento può determinare e le sue conseguenze sul piano della comunicazione»10. Se è vero che, al momento, non è empiricamente dimostrabile né la sua utilità né la sua dannosità, è certo, invece, che prendere sul serio determinate rivendicazioni e farsene anche portavoce è un segno di distinzione rispetto a chi continua a usare termini dispregiativi che spesso si associano anche a forme di violenza e discriminazione che avvengono nella vita “reale” (Baroncelli 1996). Il linguaggio, infatti, produce la realtà e forgia il singolo parlante e la comunità di cui fa parte, per cui modificare l’abitudine di etichettare le persone modifica il fatto stesso di pensare le persone come etichettabili. Ciò che queste critiche, come abbiamo visto spesso estremamente sarcastiche, rendono manifesta, allora, non è tanto l’attenzione alle questioni grammaticali e morfologiche del linguaggio, ma la difficoltà nel mutare le condizioni socioculturali e di potere che il linguaggio sostiene e di cui è anche il risultato.

42Processi analoghi si ritrovano quando si parla di cancel culture non in relazione al linguaggio, ma alla censura di cose e persone come vedremo nel prossimo paragrafo.

2.2.2 “Mamma li Turchi!”. La (presunta) censura di cose e persone

43Un’ulteriore accezione con cui i giornali richiamano la cancel culture in relazione alle questioni di genere ha a che fare con casi di cronaca, spesso volutamente enfatizzati e quasi tutti avvenuti negli Stati Uniti, relativi alla “cancellazione” di personaggi pubblici. Ci si riferisce ai vari casi di invito al boicottaggio/richiesta di ritiro dal mercato (di libri, film, prodotti culturali eccetera) o di licenziamento di persone in vista o in posizioni di potere che sono finite al centro dell’attenzione per vicende che hanno interessato la loro vita personale come, per esempio, accuse di violenze o di utilizzo di linguaggi offensivi verso minoranze sessuali/razziali o verso le donne. Queste pratiche di richiesta di sanzione generalmente avvengono sui social network e sono figlie del movimento Me Too, che è nato nel 2017 proprio per denunciare e fare emergere le violenze sessuali e psicologiche esercitate sulle attrici dal produttore cinematografico Harvey Weinstein. Nell’arco di tempo della nostra ricerca sono moltissimi i casi raccontati dai giornali italiani, con titoli quali Così la cancel culture fa strame di libri e autori («Il Foglio»), in cui viene richiamato l’ultimo dei tre meccanismi di censura citati a inizio paragrafo: “siccome hai detto/fatto questo, ti cancello”.

44Per fare alcuni esempi, a metà del 2021, esce la notizia che la biografia di Philip Roth verrà ritirata e messa fuori stampa dalla casa editrice Norton a causa delle accuse di violenza sessuale rivolte da almeno due donne al suo autore, Blake Bailey, ma che comunque verrà pubblicata dalla casa editrice italiana Einaudi. I giornali italiani, allora, titolano Einaudi non manda al macero i libri su Roth: la trincea regge ancora («HuffPost») e scrivono: «La resistenza contro il nuovo oscurantismo, contro l’inquisizione censoria che si ispira al fanatismo barbaro della cancel culture non si è spenta». Altra vicenda in cui è stata invocata la cancel culture è quella che ha coinvolto Woody Allen. L’attore e regista viene accusato, a inizio 2021, di abusi sessuali sulla figlia adottiva che risalirebbero a quando questa era una bambina per cui Amazon decide di non distribuire il suo ultimo film. Accuse di violenza sessuale da parte di un attore (minorenne all’epoca dei fatti) e di diversi collaboratori hanno coinvolto anche Kevin Spacey che, dal 2017, è stato rimosso dal ruolo di attore protagonista in un film di Ridley Scott e della serie House of Cards che Netflix ha deciso di non rinnovare per un’ulteriore stagione. Un altro caso è quello citato da «Il Foglio» in un post su Facebook del maggio 2020 che introduce l’articolo dal titolo La cacciata di Nicholson dal Booker Prize e gli altri scalpi della cancel culture e recita «“Transofoba”. E il Booker Prize caccia la cofondatrice. Licenziamenti a catena nel paese di George Orwell». Il fatto a cui si riferisce l’articolo è la richiesta, avanzata da alcuni autori, di rimozione (che è poi effettivamente avvenuta) di Emma Nicholson dal ruolo di vicepresidente onoraria del prestigioso premio letterario inglese Booker Prize, a causa delle sue posizioni ritenute omofobe11.

45Gli esempi di questo tipo in cui viene tirata in ballo la cancel culture sarebbero moltissimi, ma quelli citati ci sembrano già sufficienti per dare un’idea di come i media descrivono questo strumento attraverso cui la cancel culture opererebbe e per fare alcune riflessioni critiche. Un primo punto fermo da mettere è che solo raramente le proteste hanno avuto effettivamente degli effetti in Italia (ma anche negli stessi Stati Uniti). Nei primi due casi, nonostante si siano addirittura stati fatti dei paragoni con i roghi dei libri dei nazisti, la biografia di Roth scritta da Bailey è stata ri-pubblicata da un altro editore e è attualmente in vendita su Amazon, mentre in Italia è uscita nel 2022 con la casa editrice Einaudi come originariamente previsto. Con un finale analogo si è conclusa la vicenda di Allen, dal momento che il film sopracitato è uscito in Italia così come la sua autobiografia pubblicata da La nave di Teseo (anch’essa in vendita su Amazon). Più che di cancel culture, allora, in questi casi si potrebbe parlare di funzionamento del libero mercato oppure di woke capitalism (si veda anche § 1.5) per cui una casa produttrice, una casa editrice o una piattaforma semplicemente fanno una valutazione dei costi-benefici di ingaggiare un certo attore, di stampare un certo libro o di distribuire un certo film. Di conseguenza, è vero che la pressione sui social può determinare episodi di censura, però è bene non dimenticare che questi sono mediati da altri attori che questa censura sono davvero in grado di esercitarla. Inoltre, non c’è un’imposizione né dall’alto né dal basso, ma semplicemente delle scelte economiche che fanno parte del normale funzionamento del capitalismo. Tra l’altro colpisce che alcuni giornali che più scrivono di cancel culture non vedano questo meccanismo e, anzi, creino opposizioni tra fatti assolutamente analoghi. Per esempio, quando una libraia ha deciso di non vendere il libro di Giorgia Meloni affiggendo un avviso sulla porta della sua libreria, «Il Foglio» scriveva che

impedire la vendita è censura, scegliere di non vendere è libertà. Nel primo caso l’imposizione è delle autorità politiche o di chi ha un potere quasi-monopolistico. Nel secondo caso, il nostro, assistiamo semplicemente al funzionamento della democrazia liberale: dove c’è libertà d’impresa, le librerie vendono ciò che vogliono e i lettori comprano ciò che preferiscono.

46Quello che è accaduto nei casi sopracitati non va interpretato come un segnale dell’esistenza della cancel culture, ma come una scelta di mercato dettata dalla libertà d’impresa e dal tentativo delle aziende di adattarsi alle nuove sensibilità dei propri clienti che sembrano tali solo perché in tempi recentissimi hanno trovato il modo di esprimersi nella sfera pubblica.

47Detto questo, è vero che ci sono stati casi in cui, invece, le richieste di cancellazione hanno effettivamente prodotto licenziamenti e/o forme di sanzioni, come quelli di Spacey e Nicholson sopracitati ma non solo. Tuttavia, è lecito chiedersi se si possa davvero parlare di cancel culture e se questa si differenzi da altri fenomeni che sono sempre esistiti. In primo luogo, non è un fenomeno inedito che minoranze organizzate riescano ad ottenere risultati politici che prendono anche la forma di sanzioni verso attori individuali o collettivi. Sicuramente, come già detto, l’aspetto innovativo della contemporaneità sta nei mezzi a disposizione, in particolare quelli tecnologici, che permettono di aggregare in tempi rapidissimi persone e istanze e di renderle molto visibili. In secondo luogo, la pratica di cancellare o censurare non è a sua volta un fatto nuovo perché i confini del dibattito pubblico e finanche della libertà di espressione sono sempre stati delimitati e è sempre esistito un conflitto per accaparrarsi il diritto di dire, ma anche di imporre dei limiti. Ciò che si definisce cancel culture, dunque, dipende dai margini di potere che si hanno per imporre questa definizione, ma anche dalla maggiore o minore legittimità che si attribuisce a certi temi e a certe rivendicazioni. Nella nostra ricerca per parole chiave abbiamo incluso anche termini quali “cancellare” e “cancellazione” e è molto interessante che di fronte a diversi casi di cancellazione – sia fisica che simbolica – avvenuti nell’arco di tempo considerato non si sia invocata la cancel culture. Ne è un esempio il fatto di cronaca accaduto a Napoli in cui si è proceduto all’immediata cancellazione di manifesti contenenti bestemmie che pubblicizzavano una mostra d’arte sulla blasfemia12. Non si è parlato di cancel culture neanche nei casi in cui, durante la pandemia da Covid-19, le piattaforme come Youtube, Facebook e Twitter hanno proceduto alla deindicizzazione – una pratica per cui non si cancella una notizia, ma si impedisce che il contenuto venga trovato tramite motori di ricerca – di notizie false sui vaccini. E non si è parlato di cancel culture neanche nei casi come quello del famoso writer Cibo che cancella le svastiche sui muri sostituendole con dei murales, né nel caso del referendum cileno del 2020 che ha stabilito la cancellazione della Costituzione del 1980 redatta durante la dittatura militare del generale Augusto Pinochet. Non è stata considerata cancel culture neanche la posizione assunta dall’attore dichiaratamente di sinistra Ascanio Celestini – che come abbiamo visto nel precedente paragrafo ha firmato la petizione contro l’uso dello schwa – a favore della cancellazione del “Giorno del ricordo” dedicato alle foibe (su questo si veda anche § 3.1.2), né il licenziamento del direttore artistico della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo 2020, Kentaro Kobayashi, dovuto al fatto che in un suo show comico del 1998 aveva scherzato sulla Shoah. La questione attorno a cui ruota l’uso dell’etichetta cancel culture, allora, non è tanto la pratica del cancellare in sé, quanto la legittimità della motivazione per cui si cancella. La novità che caratterizza la nostra epoca sta nella maggiore visibilità di istanze legate alle questioni di genere e a una maggiore sensibilità di una parte dell’opinione pubblica rispetto a certe tematiche che chiede e talvolta ottiene sanzioni per pratiche e linguaggi offensivi verso le donne e la comunità LGBTQ+.

48In terzo e ultimo luogo, appaiono forzati i parallelismi che i giornali fanno fra la cancel culture e la repressione operata da talebani, governo cinese e altri regimi dittatoriali. Per fare alcuni esempi relativi al 2021: l’«HuffPost» scrive: «La Cina cavalca la “Cancel culture” a Hong Kong. Pechino cambia la Storia nei libri che saranno adottati da settembre nelle scuole della ex colonia britannica. Una deriva inarrestabile»; «Il Fatto Quotidiano» posta su Facebook «Il primo caso di cancel culture istantanea» per accompagnare l’articolo dal titolo Oscar 2021, ecco perché in Cina “Nomadland” è sparito dalle news; «Open» titola Rocco Tanica: “L’unica differenza tra la cancel culture e i talebani è un mitra. Khasha Zwan? Ricordiamoci di lui”; «Il Foglio» pubblica un articolo accompagnato da un post su Facebook che recita «Putin ridicolizza gender theory e cancel culture. La Russia ha sperimentato il pericolo del pensiero unico, per questo il suo discorso colpisce il doppio. E è un altro segno di debolezza delle pretese occidentali di giovinezza morale»13. Mentre su altri aspetti il dibattito è aperto e più sfumato, questi parallelismi sono assolutamente errati e la differenza fondamentale sta nel potere: se, da un lato, abbiamo dei regimi dittatoriali che dall’alto impongono un conformismo e un pensiero unico, dall’altro abbiamo delle minoranze che si organizzano ma che non hanno nessun potere istituzionalizzato da esercitare, semmai al massimo forme di attività politica di movimento che, però, non si traducono in imposizioni legislative o simili. Espressioni come “dittatura delle minoranze” o “discriminazione al contrario” (reverse discrimination) sono di per sé ossimori perché l’instaurazione di una dittatura e l’agire discriminatorio presuppongono l’esistenza di differenziali di potere e di disuguaglianze che vedono le minoranze in svantaggio e sono ancora più paradossali perché, nel momento in cui vengono invocate dalle maggioranze, rendono palese il loro privilegio14. Per questi motivi, sono da respingere al mittente affermazioni come quelle contenute nel già citato articolo su «la Repubblica» Politicamente corretto, le cinque varianti delle parole, a firma Ricolfi. L’autore, nell’illustrare come è mutato il “virus” del politicamente corretto dalle origini ad oggi sostiene che

la quarta mutazione (da cui la variante delta) è la discriminazione nei confronti dei non allineati. […] Non solo, nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all’ortodossia politica dominante. Ma da qui deriva, soprattutto, l’idea che nell’accesso a determinate posizioni non contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza, ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati. Se sono maschi, bianchi, eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l’ideologia dominante.

49Dando uno sguardo alle statistiche sulla composizione per genere del personale accademico, sia italiano che statunitense, ma anche del personale politico e giornalistico, ci sentiamo di dire che questa mutazione non sia certo avvenuta.

50A conclusione di questo paragrafo, sembra anche interessante far notare che non si è parlato di cancel culture nell’unico caso italiano che avrebbe potuto esserlo a pieno titolo: la querelle attorno alla statua di Indro Montanelli di Milano. Nel 2019, a Milano, durante un corteo in occasione dell’8 marzo organizzato da Non Una di Meno, la statua è stata imbrattata di vernice e vi è stato scritto “razzista stupratore” e successivamente, nel 2020, i Sentinelli di Milano15 ne hanno richiesto la rimozione. Questi gesti politici dimostrativi, messi in atto da movimenti politici, avevano infatti lo scopo di problematizzare la celebrazione di un personaggio come Montanelli che aveva partecipato al colonialismo italiano e che aveva dichiarato pubblicamente di aver avuto come “concubina” una bambina eritrea. Al di là della polemica in sé e di come la si possa pensare, è curioso che i giornali italiani non abbiano mai parlato di cancel culture in relazione a questi eventi, come invece hanno fatto alcuni politici (si veda anche § 3.1.2). Da una parte, è vero che la nozione di cancel culture si è diffusa dal 2020 in poi dopo che con la morte di George Floyd negli Stati Uniti il movimento Black Lives Matter ha iniziato ad abbattere le statue di presidenti e personaggi considerati razzisti e colonialisti. Dall’altra, però, è interessante anche che questa vicenda, che era effettivamente un atto politico che avrebbe potuto aprire un dibattito soprattutto sulla mancata problematizzazione quantomeno del passato coloniale italiano, sia stata semplicemente derubricata a “atto vandalico” o a questione locale, diversamente da quanto succede con le questioni di genere che sono il fulcro attorno a cui il dibattito italiano sulla cancel culture ruota.

Notes de bas de page

1 Questi numeri sono emersi facendo delle ricerche avanzate nella sezione “Cerca” di ciascun giornale restringendo al biennio 2020-2021.

2 Il movimento Ni Una Menos (Non Una di Meno, in Italia) nasce in Argentina nel marzo 2015 come movimento contro il femminicidio e la violenza sulle donne. Il nome deriva dai versi della poetessa messicana vittima di femminicidio Susana Chávez «Ni una mujer menos, ni una muerta más» («Né una donna in meno, né una morta in più»). Ni Una Menos si è diffuso in molti Paesi dell’America Latina ed europei tanto che l’8 marzo del 2018 è stato proclamato uno sciopero globale (trans)femminista che ha coinvolto circa 70 Paesi in tutto il mondo. Per ulteriori informazioni si rimanda a Gago (2020). Per quanto riguarda il movimento Me Too, invece, si rimanda alla nota 9 del capitolo 1.

3 Qui l’articolo originale: https://www.sfgate.com/disneyland/article/2021-04-snow-whites-enchanted-wish-changes-witch-16144353.php?fbclid=IwAR1WD8d7RQdHXr-E79NP2f8Lxzo5NOgSDOJjfwA4Vfiy2FyytvFt52vPxOU#content [ultima consultazione 18 maggio 2022].

4 L’engagement per qualunque pagina di Facebook è fondamentale per capire l’impatto che si ha sul pubblico. Per essere un giornale di successo, dunque, non basta avere molti follower/mi piace alla propria pagina ma è necessario anche avere buone performance in termini di coinvolgimento degli utenti (Cosenza 2012).

5 Fonte: https://0-www-statista-com.catalogue.libraries.london.ac.uk/statistics/787390/main-social-networks-users-italy/.

6 Le persone non binarie sono persone che hanno un’identità di genere non collocabile all’interno del binarismo e che, dunque, non si identificano in nessuno dei generi (o non soltanto o in entrambi) socialmente riconosciuti (maschile/femminile). “Identità non-binaria”, dunque, è un termine ombrello che racchiude molte sfumature identitarie e che mette in discussione non solo i contenuti che definiscono cosa è maschile/femminile, ma anche l’esistenza stessa del binarismo di genere uomo-donna.

7 Lo schwa (scevà in italiano) è un simbolo paragrafematico dell’alfabeto fonetico internazionale con un suono vocalico neutro che, sebbene non sia presente come fonema nell’italiano, appare, invece, in diversi dialetti italiani del Centro-Sud. La proposta di utilizzare questo simbolo per rendere neutro rispetto al genere il linguaggio è motivata proprio dal fatto che, nell’uso parlato della lingua, questo fonema esiste già e che, diversamente dalla -u finale che in molti dialetti italiani indica il maschile, non è associato a nessuno dei due generi e, diversamente dall’asterisco, è appunto pronunciabile. Sebbene non sia questo il luogo per affrontare il tema, si segnala che questo tipo di riflessioni sono in corso anche in altri contesti: per esempio, nei Paesi anglofoni si tende a usare il “loro” (they) per evitare di usare pronomi genderizzati come “lui/lei” (him/her); in spagnolo si tende a sostituire le desinenze -o ed -a, rispettivamente maschile e femminile, con la desinenza -e quindi todes anziché todos/todas (che corrispondono all’italiano “tutti/tutte”); in Svezia, infine, addirittura dal 2015, è stato introdotto il pronome neutro hen, per evitare l’uso del pronome maschile (han) o femminile (hon) laddove non si voglia fare riferimento al genere di qualcuno o ci si riferisca a persone non binarie.

8 Con l’etichetta “politiche identitarie” (identity politics) si definiscono forme di attivismo e strategia politica collettive basate su specifici tratti identitari condivisi come razza, genere, orientamento sessuale ecc. Questo termine ombrello, però, racchiude in sé esperienze variegate di mobilitazioni che hanno approcci alla costruzione identitaria molto diversi. Per un approfondimento si rimanda a Bernstein (2005).

9 Una piccola notazione a carattere esemplificativo è l’uso smodato che negli ultimi anni, segnati da lockdown (altro inglesismo) e pandemia, si è fatto dell’espressione smart working per indicare il lavoro da casa o da remoto che, tra l’altro, neanche esiste nella lingua inglese.

10 A febbraio 2022, è stata addirittura promossa da Massimo Arcangeli, professore ordinario di linguistica presso l’università di Cagliari, che ha poi successivamente scritto un libro sul tema, citato poco sopra (Arcangeli 2022), una petizione su Change.org contro l’uso dello schwa intitolata Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra. La petizione – sottoscritta da diversi intellettuali e docenti, tra i quali il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, Alessandro Barbero, Ascanio Celestini, Massimo Cacciari – si scaglia contro «i fautori dello schwa» definiti come «promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto» e «minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi». Sebbene l’episodio non rientri nel nostro arco temporale di ricerca, la petizione è interessante perché, al di là della enorme eco che ha ottenuto sui giornali e sui social network, sostiene che la ricerca di un linguaggio inclusivo esporrebbe «al rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche».

11 La baronessa Nicholson di Winterbourne in qualità di membro della Camera dei Lord del Parlamento inglese aveva in effetti votato, nel 2013, contro la legge per istituire i matrimoni tra persone dello stesso sesso.

12 https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/09/21/napoli-centro-citta-tappezzato-di-poster-con-bestemmie-per-la-mostra-sulla-blasfemia-il-comune-saranno-rimossi/6328031/?utm_content=fattoquotidiano&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook#Echobox=163224706 [ultima consultazione 17 maggio 2022].

13 Proprio mentre scriviamo, tra l’altro, è in atto la guerra in Ucraina e il presidente russo Putin ha paragonato il boicottaggio internazionale della Russia alla cancel culture. Ha, inoltre, richiamato le vicende che hanno coinvolto J.K. Rowling, esprimendole solidarietà in quanto entrambi, a suo dire, vittime della cancel culture.

14 A proposito di potere, diversi accademici e giornalisti statunitensi che si definiscono cancellati hanno addirittura fondato un’università (https://www.linkiesta.it/2021/11/weiss-stock-boghossian-cancel-culture-universita/). Tra i sostenitori troviamo: Niall Ferguson che attualmente continua a lavorare ad Harvard e è in questo periodo spesso sui giornali per discutere della crisi ucraina; Bari Weiss che si è dimessa volontariamente dal New York Times; la biologa evoluzionista Heather Heying che con il marito si è dimessa dall’Evergreen College, cognata del direttore della società di investimento del miliardario Peter Thiel (che insieme a Elon Musk ha fondato PayPal, tanto per intenderci); il Professore di scienze sociali Arthur Brooks ancora in ruolo alla Harvard Business School; la filosofa Katleen Stock che si è dimessa dall’Università del Sussex dopo le proteste degli studenti circa le sue posizioni sulla maggiore importanza del sesso biologico a scapito dell’identità di genere, o sul fatto che le donne transgender non dovrebbero accedere a prigioni, rifugi o spogliatoi femminili; il geofisico Dorian Abbot che, invitato a tenere un discorso all’MIT di Boston, si è visto ritirare l’invito a causa delle proteste su Twitter dovute alle sue posizioni contrarie alle azioni positive (affirmative action) finalizzate all’inclusione di minoranze etniche e/o sessuali.

15 I Sentinelli di Milano sono un movimento informale, successivamente costituitosi in associazione, che si contrappone a soprusi, discriminazioni e violenze agiti contro i gruppi marginalizzati, promuovendo una cultura dell’inclusione e dell’accoglienza, il diritto all’autodeterminazione e il principio di uguaglianza fra le persone e la laicità dello Stato.

Précédent Suivant

Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.