1. Le origini della cancel culture
p. 17-35
Plan détaillé
Texte intégral
1L’espressione “cancel culture” è entrata nel vocabolario italiano piuttosto recentemente ma, nonostante la sua (per ora) breve vita, ha già sollevato nel dibattito pubblico e politico un polverone che sembra non esaurirsi. Ma partiamo proprio dalla sua definizione: secondo l’Enciclopedia Treccani si tratta di un «atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualcosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento»1. Da questa definizione emerge, innanzitutto, una mancanza: la distinzione tra l’atteggiamento di colpevolizzazione e il suo etichettamento come cultura che favorirebbe e legittimerebbe quell’atteggiamento. Tuttavia, vi si ritrovano anche alcuni punti rilevanti che approfondiremo – e in parte decostruiremo – lungo tutto il percorso che il libro affronta: sicuramente, il ruolo dei social media, in particolare dei social network; i legami tra la cancel culture e il concetto di politicamente corretto; la centralità della colpevolizzazione.
2In questo capitolo, quindi, si ricostruiscono le origini di questo termine, nato negli Stati Uniti, attraverso la storia dei movimenti che ne hanno rivendicato la nascita. A partire proprio dal significato di cancel culture, l’obiettivo è quello di accompagnare chi legge nella storia di questa espressione e dei significati che di volta in volta ha assunto: chi l’ha creata e, soprattutto, chi l’ha usata e con quali scopi. Per farlo, ci è sembrato prima di tutto necessario, in quanto sociologhe, dialogare con la Storia: è importante ricostruire la sequenza temporale in cui i fatti sono avvenuti, tenendo conto proprio di quei nessi che stabiliscono un prima e un dopo, ma anche della temporaneità e dei contesti, poiché solo in questo modo si può giungere a interpretazioni e teorie del mutamento situate e storicizzate (Sciarrone 2021). L’ordine degli eventi, così come i punti di rottura, allora, sono importanti sia per poter “incastonare” questo fenomeno tanto nuovo quanto mutevole anche nel suo complesso contesto di origine, quello statunitense, sia per cogliere e comprendere i caratteri che ha assunto muovendosi dagli Stati Uniti all’Italia, permettendo così di osservare la dimensione processuale contestualizzata e di storicizzare le posizioni dei produttori di conoscenza, degli interpreti, dei pubblici di riferimento.
3Il capitolo si apre con la storia del termine “cancellare”, nato paradossalmente da una battuta sessista, per poi illustrare come questa sia diventata una pratica di attivismo sui social media inaugurata dal cosiddetto “Black Twitter”. Nel terzo e nel quarto paragrafo, invece, si ricostruiscono le connessioni fra ciò che viene chiamata cancel culture e altri fenomeni riportati in auge dal Black Lives Matter: la wokeness e la pratica del call-out (anch’essa divenuta cultura), nel terzo, e la rimozione delle statue e della storia più in generale e damnatio memoriae dell’antica Roma, nel quarto. Il capitolo si chiude con l’analisi degli usi che la politica statunitense fa del concetto di cancel culture e del clima che si è generato a seguito di questi usi.
1.1. Come tutto iniziò da una battuta sessista
4In un articolo pubblicato dal «Washington Post» il 2 aprile 2021, il giornalista Clyde McGrady prova a ricostruire l’uso del verbo to cancel con il particolare tipo di accezione di cancellare una persona. Ironicamente, visti poi i suoi sviluppi negli ultimi anni, come riporta anche «Vox», l’espressione nasce con un’accezione fortemente misogina e sessista. Siamo nel 1991, il thriller New Jack City esce nelle sale del cinema, raccontandoci delle vicende di vari clan della droga per il controllo della città di New York (Romano 2020b). In una delle scene, il protagonista Nino Brown, dopo aver picchiato la sua ragazza, la “scarica” dicendo queste parole: «Cancel that bitch, I’ll buy another one» («Cancella quella stronza, ne comprerò un’altra»). Lo sceneggiatore Barry Michael Cooper, nel costruire questo dialogo, probabilmente fa riferimento a un brano del 1981, cantato dal gruppo Chic, Your Love Is Cancelled, che ci narra di un amore finito. Il film New Jack City comunque continua a riecheggiare e, con esso, comincia a diffondersi il termine cancel con questa particolare accezione. Nel 2005, il rapper 50 Cent nella canzone Hustler’s Ambition recita «So like Nino when New Jack, I holla (cancel that bitch)» («Quindi come Nino in New Jack, grido cancella quella stronza»), mentre, cinque anni più tardi, nel 2010, Lil Wayne canta «Yeah I’m single, nigga had to cancel that bitch like Nino» («Sono single, questo negro ha dovuto cancellare quella stronza come Nino»)2 nel suo brano I’m single. Dalle canzoni, poi, il termine inizia a circolare e finisce sulla tv nazionale. In un episodio del reality Love & Hip Hop del dicembre 2014, un produttore musicale, membro del cast, dice alla sua ragazza «Allontanati da me, sei cancellata» e, commentando l’episodio fuori campo, ci fa sapere che effettivamente la sera prima aveva visto il film New Jack City3. Da lì, l’idea di cancellare ha cominciato a diffondersi sempre di più e, nel 2015, è stata spesso utilizzata su Twitter, anche in maniera ironica, come reazione a qualcuno che compie un’azione che si disapprova.
5Dobbiamo, però, arrivare al 2016 per vedere quando si verifica ciò che viene considerato uno dei primi eventi in cui è stata effettivamente messa in moto una forma di boicottaggio mediatico (Ng 2017). A seguito della trasmissione dell’episodio della serie The 100, in cui viene mostrata la morte di un personaggio lesbico, ucciso subito dopo l’inizio di una storia d’amore, 14.000 utenti di Twitter hanno smesso di seguire lo sceneggiatore Jason Rothenberg. Come riporta la BBC, i follower, a colpi dell’hashtag «I fan LGBT meritano di meglio», hanno “invaso” la rete producendo in poche ore più di 280.000 cinguettii4.
6Da qui, il termine cancel mette radici e si diffonde via web, evolvendosi molto rapidamente fino a diventare anche “cultura”. Come sottolinea Clark (2020, p. 89; trad. nostra), infatti, la pratica del cancellare viene progressivamente
amplificata da osservatori esterni, in particolare da giornalisti con una capacità smisurata di amplificare il (proprio) sguardo bianco. Politici, opinionisti, celebrità, accademici e persone comuni hanno “narrativizzato” l’essere cancellati in un panico morale simile a un danno reale, aggiungendo una distorsione neologica sull’origine della pratica associandola a una paura infondata di censura e silenziamento.
7Tale evoluzione è stata così rapida che, nel 2019, il celebre dizionario australiano Macquarie Dictionary, nomina parola dell’anno proprio “cancel culture”. Il comitato del dizionario in un post sul blog del Macquarie, infatti, scrive che questo è «un termine che cattura un aspetto importante dello Zeitgeist dell’anno passato… un atteggiamento così pervasivo che ora ha un nome, la cultura della cancellazione della società è diventata, nel bene e nel male, una forza potente»5.
8Inoltre, non è un caso che lo stesso dizionario, un anno prima, avesse scelto come parola dell’anno Me Too (“Anch’io”)6, motivando tale scelta in questi termini:
Se il movimento Me Too è decollato nel 2017 con #MeToo, […] nel 2018 ha iniziato a spiegare le sue ali linguistiche oltre l’hashtag e il nome del movimento, rispondendo a un bisogno evidente nel discorso che circonda questo sconvolgimento sociale. Quindi, il fatto che Me Too sia ora usato come verbo e come aggettivo, combinato con l’innegabile significato del movimento, ha reso la scelta del comitato [..] una decisione abbastanza semplice.7
9Sempre il Macquarie Dictionary, nel 2017, aveva scelto un altro termine che, grazie ai social network, ruota di nuovo intorno alla pratica della cancellazione: Milkshake Duck 8. Come riporta il giornalista del «The Guardian», Michael McGowan, il termine è stato coniato su Twitter dall’utente @pixelatedboat che, nel giugno 2016, posta «Tutta internet ama Milkshake Duck, un’adorabile anatra che beve frullati! *5 secondi dopo* Ci dispiace informarvi che l’anatra è razzista»9 (McGowan 2018; trad. nostra). Ma cosa significa davvero l’immagine di un’adorabile papera che beve frullati, ma poi si scopre essere razzista? Di fatto con queste due parole si vuole indicare una persona che guadagna popolarità sui social media per qualche sua azione o discorso positivo che, tuttavia, in seguito si dimostra avere qualche scheletro nell’armadio. Il fenomeno è diventato così virale che il comitato di Macquarie Dictionary ha sottolineato che «anche se non conosci la parola, conosci il fenomeno» (ibid.). Il termine, in seguito, è stato collegato alla cancel culture e alla call-out culture (di cui parleremo nel paragrafo § 1.3), proprio perché coinvolge i social media e denuncia comportamenti ritenuti inaccettabili di celebrità e personaggi pubblici.
10Questa continua evoluzione del termine cancel culture, come anche la comparsa di nuove parole collegate a questo fenomeno, ha fatto sì che il fenomeno nel suo complesso assumesse diversi significati e diverse funzioni che ricostruiamo nei prossimi paragrafi.
1.2. Come il Black Twitter ha “creato” la cancel culture
11Se l’origine del termine va rintracciata in film e canzoni, la nascita del fenomeno della cultura della cancellazione è invece stata attribuita nel discorso pubblico al cosiddetto Black Twitter, un movimento cresciuto all’interno dell’omonimo social media, con l’obiettivo di dare agli/alle utenti, per lo più afroamericani, una voce collettiva sull’esperienza di essere nero negli Stati Uniti (Florini 2014). Il Black Twitter ha di fatto fornito uno spazio virtuale che ha permesso alla comunità afroamericana di condividere le proprie esperienze su argomenti come le disuguaglianze, la politica, la brutalità della polizia e i diritti delle donne. Tramite l’hashtag #BlackTwitter, queste persone si possono sentire parte di una comunità virtuale (e non), partecipando e commentando gli avvenimenti in tempo reale, come in una vera e propria piazza pubblica. All’interno di questa comunità, come ricorda Romano (2020b), infatti, il concetto di “essere cancellato” non è affatto nuovo. La rivista «Vox» riporta le parole di Hudley, linguista americana, che afferma che cancellare sia «un’abilità di sopravvivenza vecchia quanto l’uso del boicottaggio da parte dei neri del Sud». In effetti, soprattutto fra gli anni Cinquanta e Sessanta, il movimento per i diritti civili degli afroamericani statunitensi si è mobilitato per promuovere un senso di giustizia sociale e combattere le disuguaglianze, tramite soprattutto azioni di boicottaggio (McKersie 2021). Cancellare, allora, in questa accezione è una forma di boicottaggio poiché, come dice Hudley, «se non hai la capacità di fermare qualcosa attraverso mezzi politici, quello che puoi fare è rifiutarti di partecipare» (Romano 2020b; trad. nostra). In questa prospettiva, la cancellazione assume il significato di “correttivo” anche al senso di impotenza che le persone sentono: l’unico potere che esercitano è quello di ignorare quel determinato personaggio pubblico. Ma ai tempi dei social network è qualcosa di più perché diventa anche una forma di agency collettiva. Il boicottaggio, infatti, si unisce alla pratica di cancellare, assumendo i contorni di un movimento collettivo o, per meglio dire, «un collettivo di voci» (Ng 2020, p. 623; trad. nostra), che cerca di emergere, esprimendo il proprio dissenso contro «una figura potente» (ibid.), ovvero contro personaggi che calcano la scena pubblica a vario titolo. Oggi, infatti, la cancellazione viene definita, da un lato, come «espressione di agency, una scelta di sottrarre l’attenzione verso qualcuno o qualcosa i cui valori, (in)attività o discorsi sono così offensivi da non meritare un investimento di spazio, tempo e denaro» (Clark 2020, p. 88; trad. nostra). Dall’altro, può essere descritta come una strategia collettiva, messa in atto da alcuni attivisti, che, attraverso la “pressione” sui social, hanno come obiettivo quello di “rimuovere” e/o di ritirare qualsiasi tipo di “supporto” a chi si ritiene abbia detto o fatto qualcosa di inaccettabile, con particolare riferimento a discorsi, atteggiamenti, azioni definite come razziste, sessiste e omofobe (Ng 2020, p. 623). Gli attivisti, però, non si limitano al boicottaggio e alla sottrazione della propria attenzione, ma più recentemente hanno iniziato a utilizzare pressioni sociali informali proprio per sanzionare e “ostracizzare” direttamente individui potenti o famosi. Infatti, partendo dai social, gli attivisti cercano di mobilitare l’opinione pubblica, organizzando vere e proprie campagne che, uscendo dalle piattaforme mediatiche, spesso hanno obiettivi “reali”, come quelli di revisione di procedimenti legali o di riforme legislative in atto, oppure di danneggiamento della reputazione o della carriera di personaggi particolarmente in vista (Norris 2021). L’obiettivo in questi casi è impedire che le persone che si desiderano cancellare continuino a ricoprire le posizioni dalle quali hanno messo in atto quei comportamenti per cui si è avviato il processo di cancellazione. In questo senso, la cancellazione della persona può diventare ostracismo o, in particolare quando si colpiscono le statue, ricordare la pratica della damnatio memoriae della Roma antica, che verrà trattata specificatamente nel paragrafo 1.4. in relazione al movimento Black Lives Matter. Tuttavia, è importante fin da subito chiarire che l’obiettivo non è tanto – o comunque non sempre – la stigmatizzazione della persona o dell’oggetto in sé, quanto evidenziare come quell’atto o quell’oggetto rappresentino e/o originino da disuguaglianze sistemiche. Cancellare significa, dunque, non solo evidenziare comportamenti e atteggiamenti che si ritengono sbagliati, ma anche promuovere un senso di giustizia sociale più ampio.
12Con l’avvento dei social network, i post online, soprattutto quelli che riportano accuse contro celebrità, politici e, più in generale, personaggi di spicco, suscitano interesse e diventano virali molto velocemente, travalicando i confini del social media in cui vengono creati, raggiungendo il grande pubblico. Questi processi, man mano che si diffondono, vengono notati anche da osservatori esterni, soprattutto giornalisti che, a partire dal già ricordato proprio sguardo bianco (Clark 2020), iniziano a definirla come “cultura della cancellazione”. Come vedremo nel successivo capitolo per quanto riguarda l’Italia, anche negli Stati Uniti, politici, opinionisti e diverse celebrità hanno trasformato l’essere cancellati in un vero e proprio panico morale. I social media, infatti, diventano uno spazio in cui i giornalisti estraggono e, soprattutto, decontestualizzano molte esperienze della comunità afroamericana, rilanciandole nuovamente sulle piattaforme online o sui media tradizionali. D’altra parte, se è vero che i social media sono effettivamente uno spazio in cui è possibile ribattere, mobilitarsi, confrontarsi con e contro il mainstream, ciò può avvenire solamente fino al momento in cui quello stesso mainstream mediatico non li nota e non se ne appropria (Tynes et al. 2012). Quando il contenuto diventa virale, non è più possibile controllarlo e contestualizzarlo (Clark 2020) ed è così che le rivendicazioni e le richieste di cancellazione iniziano ad essere etichettate con il termine “cancel culture”. Così, il concetto è diventato carico di retorica, finendo, di fatto, per assumere dimensioni apparentemente spropositate e per essere sovrapposto con quello di “abuso” e di “censura” di tutto ciò che non ci piace.
13In questo processo di etichettamento, si perde il motivo per cui esiste questa volontà di escludere le persone o gli oggetti sotto accusa dallo spazio pubblico: i rapporti di potere. Qualsiasi analisi della cosiddetta cultura della cancellazione, allora, deve iniziare con un’analisi dei rapporti di potere situati. Infatti, nell’esame della cancel culture come forma di etichettamento e di delegittimazione si deve tener conto del concetto habermasiano di sfera pubblica, che presuppone che il discorso pubblico sia il regno delle élite (ibid.). Solo una prospettiva che dia la priorità alle storie e alle pratiche comunicative delle persone prive di potere può decifrare adeguatamente come la creazione della cancel culture agisce in quanto strumento di delegittimazione delle loro istanze.
14E è proprio in questa prospettiva che ritroviamo il fraintendimento di fondo della definizione di cancel culture offerta dalla Treccani: la cancel culture non è l’espressione di dissenso nei confronti di personaggi pubblici colpevoli di aver detto o fatto qualcosa di offensivo, ma è il modo in cui il discorso mediatico e politico ha etichettato le pratiche e anche le ragioni di chi esprime quel dissenso.
15Man mano che il termine “cultura della cancellazione” ha preso piede e si è diffuso non solo sui social media, ma ha raggiunto anche il grande pubblico tramite i media tradizionali, si è iniziato a paragonarla e a metterla in connessione con altri fenomeni recenti, in particolare la wokeness e la call-out culture che saranno oggetto del prossimo paragrafo.
1.3. Dalla wokeness, al call-out, alla cancel culture
16Molto spesso, nel discorso pubblico, la cancel culture viene accostata ad altre espressioni, in particolare wokeness e call-out culture, che possono essere tradotte rispettivamente come “rimanere svegli” o, per meglio dire, “vigili”, e come “cultura del richiamo”.
17Partiamo dal primo termine: cosa significa “rimanere svegli”? Negli Stati Uniti ha iniziato a diffondersi solamente a partire dal 2014, in seguito all’uccisione da parte della polizia del cittadino afroamericano Michael Brown a Ferguson, in Missouri. Da lì, stay woke è diventato l’appello degli attivisti del movimento Black Lives Matter e ha assunto il significato proprio di osservare l’operato brutale e iniquo della polizia contro la comunità afroamericana (Romano 2020a). Tuttavia, anche in questo caso, con la sua diffusione i significati sono mutati. Infatti, la parola woke e l’espressione stay woke erano già presenti nel linguaggio delle comunità afroamericane, ancora prima che la wokeness fosse associata al movimento Black Lives Matter. Romano (ibid.) spiega che già nel 1923 il filosofo e attivista giamaicano Marcus Garvey esortava, nella sua raccolta di aforismi, i cittadini neri di tutto il mondo a diventare maggiormente consapevoli con l’invito Wake up!. L’esperienza della schiavitù subita dal popolo africano, antenato degli attuali afroamericani, ha originato questo tipo di discorsi politici: controllare i sistemi di oppressione con l’obiettivo di smantellarli o, a questo punto, potremmo dire cancellarli. In seguito, la frase stay woke si è diffusa nel 1938 attraverso la canzone di denuncia e di protesta Scottsboro Boys, del musicista blues Lead Belly, proprio con il significato di esprimere la necessità degli afroamericani di essere consapevoli delle ingiustizie perpetrate nei loro confronti dai “bianchi” Stati Uniti. Di fatto, essere woke significa diventare un americano di colore consapevole della violenza sistematica e sistemica contro i neri. Il romanziere Kelley, continua Romano (ibid.), ha notato come molti termini nati fra gli afroamericani siano poi stati usati dai bianchi; ciò ha “costretto” gli afroamericani a inventare sempre nuove espressioni fondamentalmente per proteggersi, infatti «se il tuo padrone non sapeva di cosa stavi parlando, non poteva punirti». Come per altri termini ed espressioni nate nelle comunità afroamericane, la parola woke si è poi diffusa con l’uso dei social media e ha iniziato a diventare mainstream, anche grazie alla canzone Master Teacher, uscita nel 2008 e incisa dalla cantante Erykah Badu. Il brano contiene proprio la frase I stay woke nei tre significati con cui era utilizzata: il primo, più letterale, che si riferisce al non dormire, allo svegliarsi; il secondo, che indica il sospetto verso un tradimento in una relazione affettiva; infine, il terzo, con cui poi si è diffuso, l’essere consapevole delle ingiustizie sociali. Tuttavia, nonostante la sua crescente popolarità come appello alla consapevolezza sociopolitica, l’uso di woke è esploso solamente nel 2014, proprio dopo le proteste avvenute a seguito dell’uccisione di Michael Brown a Ferguson. I/le manifestanti hanno utilizzato l’hashtag #StayWoke associato, ovviamente, a quello del movimento #BlackLivesMatter. Al grido di Stay woke!, i cittadini afroamericani si sono riuniti attorno a un’esperienza condivisa di presa di coscienza che la realtà in cui vivono necessita di un cambiamento radicale e che, per avviare questo cambiamento, sia necessario svegliarsi e combattere le ingiustizie che sistematicamente subiscono.
18Passiamo, invece, al significato di call-out culture. Intanto, la pratica del richiamo ha origini molto diverse da quella della cancellazione (ibid.). Come abbiamo ricostruito nel paragrafo 1.2, la cancellazione come azione politica sembra avere le sue radici nelle azioni di boicottaggio che, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, sono state portate avanti dai movimenti dei diritti civili afroamericani. Invece, la pratica del call-out è effettivamente un fenomeno recente, nato online su alcuni blog. In particolare, il social media in cui si è diffusa sembra essere Tumblr, un sito che permette agli/alle utenti di pubblicare e condividere contenuti multimediali. Su Tumblr, infatti, intorno al 2010, nasce un blog chiamato “Your Fave is Problematic” (“Il tuo preferito è problematico”) che raccoglie in modo dettagliato comportamenti ritenuti offensivi di personaggi pubblici e celebrità10. Da Tumblr, la call-out si diffonde tramite il web, avvicinandosi sempre di più a una sorta di vigilantismo digitale (Dunsby e Howes 2019; Favarel-Garrigues et al. 2020; Loveluck 2020).
19Il fatto che wokeness e call-out culture vengano spesso usate insieme o addirittura sovrapposte alla cancel culture è molto interessante sia per le somiglianze sia per le differenze fra questi fenomeni. In un certo senso, guardando alle pratiche, potremmo porre i tre elementi su un continuum che vanno dallo stare all’erta, al richiamo, alla cancellazione. Potremmo dire che l’essere consapevoli delle discriminazioni strutturali è il pre-requisito per mettere in atto azioni di protesta, tra cui il richiamo e la cancellazione. Queste due modalità di azione sono, tuttavia, da tenere distinte per varie ragioni. Intanto, una “segnalazione” può avvenire da una sola persona, mentre per compiere un atto di “cancellazione” è necessario che esista una folla organizzata (Beer 2020; Bluestone 2017; Dodgson 2020; Frazer-Carroll 2020). In secondo luogo, il call-out è una forma di vigilantismo digitale che, di fatto, “segnala” al grande pubblico alcune notizie e azioni presenti di personaggi pubblici ritenute offensive, mentre la cancel culture si concentra, più in generale, su personaggi e oggetti non solo attuali, ma anche del passato. Dedicandosi al presente, il call-out può fungere da segnalazione, avvertimento e, in qualche modo, dà alla persona interessata la possibilità di cambiare e/o di rivedere il proprio discorso o le proprie pratiche. Infine, come sostiene anche Clark (2020), si può dire che la cancellazione arrivi solo come ultima risorsa, quando il richiamo è risultato inefficace: cancellare e annullare, allora, sono un’eccezione piuttosto che una norma e diventano l’ultimo «disperato appello alla giustizia» (ivi, p. 89; trad. nostra).
20L’aspetto, invece, che le accomuna è il modo in cui il discorso pubblico le ha etichettate, cioè come cultura. C’è stato, dunque, uno spostamento dalle pratiche di azione e da quella che potremmo definire una sensibilità verso certe tematiche politiche e sociali a una cultura che è poi stata dipinta come un regime morale e finanche politico dominante.
1.4. La rimozione delle statue: un caso particolare di cancel culture?
21La brutalità della polizia e le uccisioni di membri della comunità afroamericana hanno recentemente, in particolare nel 2020, scatenato proteste su tutto il territorio statunitense. Tra le molte espressioni di rabbia, una che ha sicuramente avuto un effetto dirompente nei media americani (ma anche oltreoceano) è stata quella dell’abbattimento e delle richieste di rimozione dei monumenti che hanno rappresentato, in varie epoche storiche, i simboli del colonialismo e del razzismo. Al centro di questo fenomeno, ci sono ancora una volta le proteste del movimento Black Lives Matter, che ha ottenuto una più vasta visibilità mediatica proprio a seguito dell’omicidio di George Floyd, un afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis il 25 maggio 2020. Il movimento in realtà è nato nel 2013, sotto la spinta di tre donne afroamericane, in risposta all’assoluzione di un vigilante, George Zimmerman, che aveva ucciso, con un colpo di pistola, il diciassettenne afroamericano Trayvon Martin. Nel 2014, il movimento ha assunto una portata più nazionale a seguito dei fatti di Ferguson, già descritti nel paragrafo 1.3. Ma è solo nel 2020, dopo l’uccisione di Floyd, che il movimento assume una portata globale. Proprio in quell’anno, il movimento BLM raggiunge una dimensione impressionante: si stima, infatti, che milioni di americani siano stati coinvolti in marce, con oltre 2.000 proteste organizzate in tutto il paese (McKersie 2021). Nonostante la crescente visibilità, il movimento BLM risulta ancora avere una struttura di leadership decentralizzata, con una forte enfasi sull’attivismo, tanto che McKersie (ibid.) sostiene che più che una organizzazione, il movimento abbia le caratteristiche di un ethos, in cui esiste una coalizione libera di attivisti.
22Non è affatto facile spiegare in poche righe come il movimento si sia evoluto e quali sfaccettature abbia assunto. Questo proprio perché la sua nascita, le sue istanze e le sue battaglie hanno radici profonde che non solo sono fortemente ancorate al contesto statunitense, ma sono soprattutto legate alla sua storia, caratterizzata da sfruttamento, schiavitù e razzismo, che hanno plasmato e formato l’identità culturale statunitense stessa. Questa storia è visibile negli spazi pubblici attraverso le statue che, fra tutti i monumenti, forse sono quelle che più mostrano il passato o, meglio, mostrano solo un certo tipo di passato. Infatti, le statue sono una rappresentazione storica delle figure che mettono in scena e celebrano la versione della storia di chi le ha fatte erigere. E è proprio per questo motivo che sono state oggetto di rimozione e deturpazione non solo le statue dedicate ai generali e agli uomini politici confederati, ma anche quelle di Cristoforo Colombo e di George Washington. Infatti, questi monumenti mostrano con estrema irruenza un sistema di valori che non è condiviso da tutte le comunità statunitensi e sono affermazioni che il sistema politico americano è un sistema politico “bianco” (Upton 2017).
23Dopo l’abbattimento delle prime statue, la reazione dell’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è stata durissima. In un ordine esecutivo del 26 giugno 2020, chiamato Protecting American Monuments, Memorials, and Statues and Combating Recent Criminal Violence (Proteggere i monumenti, i memoriali e le statue americane e combattere la recente violenza criminale), si legge: «I bersagli chiave nella campagna degli estremisti violenti contro il nostro paese sono monumenti pubblici, memoriali e statue. La loro selezione di obiettivi rivela una profonda ignoranza della nostra storia e è indicativa di un desiderio di distruggere indiscriminatamente tutto ciò che onora il nostro passato»11. Nel discorso sul Monte Rushmore del 4 luglio dello stesso anno, giorno dell’Indipendenza americana, sempre Trump ha dichiarato: «La nostra nazione è testimone di una campagna spietata per spazzare via la nostra storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e indottrinare i nostri bambini», di fatto ribadendo che abbattere le statue significa cancellare la cultura americana e calpestare la libertà di espressione12. Da lì, la rimozione delle statue è entrata al centro del dibattito pubblico e è diventata una questione di “patriottismo”, dove patriottismo significa effettivamente aderire alla narrazione di chi ha posto quelle statue in quei determinati luoghi. Questo modo di porre la questione, dunque, ha fatto sì che la questione del razzismo e del privilegio dei bianchi fosse liquidata e “superata” dai dibattiti sull’ordine pubblico (Atuire 2020).
24Il fenomeno della rimozione delle statue, tuttavia, non sembra essere nuovo. Potremmo dire che gli attivisti del Black Lives Matter non hanno inventato niente, o quasi. Infatti, le recenti proteste antirazziste condividono inequivocabili punti in comune con la pratica della damnatio memoriae esercitata nell’antica Roma. Di fatto, entrambe prevedono una distruzione “massiccia” di monumenti, con l’obiettivo di rimuovere da uno spazio pubblico i personaggi che, a vario titolo, sono considerati “controversi”. Proprio come i romani tagliavano le teste di bronzo delle effigi dei tiranni, i/le manifestanti del BLM hanno decapitato la statua di Cristoforo Colombo, simbolo del colonialismo (Zhang 2020). La pratica della damnatio memoriae, di fatto, ci ricorda che alcuni personaggi, benché parte della nostra identità culturale e benché siano considerati “centrali” nella storia, non possono diventare monumenti da mostrare in pubblico senza evidenziare il passato controverso che essi stessi dimostrano. I monumenti sono delle raffigurazioni incorporate nella memoria sociale (Sather-Wagstaff 2015) e non commemorano semplicemente il passato: sono espressioni vitali dell’autorità politica, come riconoscevano i romani. Nella Roma antica, iscrizioni imperiali, ritratti e immagini dominavano le piazze e le strade e svettavano davanti ai principali edifici pubblici mostrando di fatto il potere legittimo dell’élite. Per questo, quando imperatori o personaggi pubblici monumentalmente raffigurati cadevano in disgrazia, le loro rappresentazioni artistiche venivano mutilate o abbattute. Anche se esistevano vari tipi di strategie per attuare la damnatio memoriae, i più comuni erano sicuramente la distruzione delle statue, la rimozione dei nomi da iscrizioni e documenti pubblici, ma anche l’abolizione degli atti legislativi promulgati in vita. Sebbene la maggioranza di questi atti di damnatio memoriae siano stati effettivamente generati dal Senato, con un processo decisionale delle élite, spesso i cittadini potevano prendervi parte. Nel caso del movimento BLM – e questo è l’elemento centrale di differenza fra i due fenomeni – le azioni sono partite da alcuni membri delle comunità afroamericane più consapevoli, ma di certo non si possono definire come processi top-down, ma piuttosto bottom-up. Pratiche iconoclaste in cui è coinvolto maggiormente il popolo, tuttavia, si trovano anche in altre epoche storiche: durante la Rivoluzione francese, la statua di Luigi XV venne distrutta; durante l’epoca della Restaurazione, a cadere fu la statua di Napoleone; lo stesso popolo statunitense, dopo la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 1776, distrusse la statua di re Giorgio III del Regno Unito, simbolo della tirannia inglese; spostandosi nell’attuale Russia, ricordiamo l’abbattimento delle statue degli zar dopo la Rivoluzione del 1917 e, in seguito, di quelle di Lenin e Stalin rimosse in diversi Paesi dopo il crollo dell’Unione Sovietica; e come dimenticare, infine, arrivando ai giorni nostri, il 9 aprile 2003 quando la grande statua di Saddam Hussein cadde in mezzo alla piazza di Baghdad, evento rilanciato sui media di tutto il mondo e divenuto simbolo della fine del governo di Saddam Hussein.
25Le statue, dunque, possono diventare obsolete quando non rappresentano più la narrazione che si vuole tramandare e quando si ritiene che stiano occupando uno spazio “impropriamente” (Atuire 2020). Tuttavia, va ricordato che la pratica della damnatio memoriae di fatto non cancella e non ha mai cancellato la Storia. Petersen (2011) sostiene che nonostante l’obiettivo dichiarato della damnatio memoriae fosse quello di sradicare dalla memoria dei posteri l’individuo “cancellato”, di fatto lo immortala nella Storia. Come noi siamo venuti a conoscenza dell’esistenza di Domiziano, Caligola, Marco Antonio e Nerone, così in futuro si studieranno ancora le imprese di Cristoforo Colombo e del generale Lee, avendo, però, un quadro più “completo” e multidimensionale degli avvenimenti accaduti. Quindi, la damnatio memoriae è una pratica che per certi versi richiama la cancellazione di cui si è parlato finora. Tuttavia, nessuno storico ha mai etichettato tale “ostracismo” come cancel culture, ma più semplicemente come evento della Storia.
26Anche per il movimento BLM, allora, così come nei casi precedentemente descritti, la rimozione di simboli di potere significa semplicemente (ri)appropriarsi di uno spazio pubblico, controllarlo e finalmente poterlo (ri)occupare: cambiare la rappresentazione del passato significa anche poter accogliere una nuova realtà sociale senza necessariamente cancellare quella in voga fino a quel momento. Infatti, se è vero che le statue celebrano le persone che hanno contribuito a costruire la Storia, l’assenza di personaggi di colore rafforza, allora, proprio l’idea che la società attuale commemori solo personaggi bianchi, gli unici degni di essere ricordati (Atuire 2020). Il fatto che le piazze pubbliche siano “riempite” di personaggi che hanno rappresentato il colonialismo e lo schiavismo fa sì che si continuino a perpetrare atti razzisti poiché lo spazio non è mai neutro, al massimo è silenzioso. Tuttavia, questo silenzio può diventare assordante per chi quello spazio lo frequenta abitualmente e quel passato lo subisce anche nel presente. Come ricorda nelle sue memorie l’attivista Mamie Garvin Fields parlando della statua di Calhoun, un politico americano difensore della schiavitù: «As you passed by, here was Calhoun looking you in the face and telling you, “Nigger, you may not be a slave, but I am back to see you stay in your place”» («Mentre passavi, ecco Calhoun che ti guardava in faccia e ti diceva: “Negro, forse non sei uno schiavo, ma sono tornato per vederti rimanere al tuo posto”»; trad. nostra) (Johnson 2000). Quando i/le manifestanti del BLM decapitano o vandalizzano le statue di personaggi della confederazione, le loro azioni hanno un significato simbolico e manifestano un desiderio di riappropriazione di uno spazio comunitario, togliendo potere ai simboli della schiavitù. Sicuramente, la rimozione delle statue è una pratica molto diversa dal boicottaggio o dalla censura e differisce molto dalle operazioni descritte nei paragrafi precedenti. Infatti, il personaggio “colpito” di solito non è più in vita. La rimozione delle statue, in questa prospettiva, non è solo una forma di denuncia, ma è anche soprattutto volontà di “riscrivere” una storia più inclusiva, una storia che ricomprenda quel “collettivo” di voci di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti. Se la storia raccontata dagli spazi pubblici viene sistematicamente distorta, questa può essere modificata o integrata con altre voci e con altre narrazioni, facendo sì che la sfera pubblica divenga un luogo dove tutta la comunità possa considerarsi rappresentata. Per concludere, limitarsi a concepire il movimento BLM come iconoclasta e i suoi attivisti come vandali non permette di riconoscere l’importanza simbolica degli spazi e il peso che il passato ha su di essi. Eppure, derubricare questi atti a cultura della cancellazione fa esattamente questo: depoliticizza e riduce a mero conformismo morale le rivendicazioni di chi, in realtà, dalla cultura dominante e dagli spazi di pubblici è sempre stato escluso.
1.5. Politica, aziende e media: tutti pazzi per la cancel culture
27La cancellazione come atto politico ha avuto origine, come abbiamo visto, fra le comunità emarginate, che hanno usato questo strumento per affermare i loro valori e per avere uno spazio nell’arena pubblica. Tuttavia, negli Stati Uniti – e, vedremo nei capitoli successivi, anche in Italia – questa è stata trasformata in cultura della cancellazione ed è stata usata spesso come arma dai Repubblicani contro i loro avversari Democratici. Abbiamo già citato il discorso del 2020 dell’allora presidente Trump sul Monte Rushmore contro la cancel culture e il pericolo di censura e di annullamento delle tradizioni americane. Allo stesso modo, durante la convention nazionale Repubblicana, tenutasi fra il 24 e il 27 agosto del 2020, lo stesso presidente torna sul tema, affermando: «L’obiettivo della cancel culture è far sì che gli americani onesti vivano nella paura di essere licenziati, espulsi, svergognati, umiliati e allontanati dalla società come la conosciamo»13. Di fatto, Trump parla di cancel culture nei termini di un atto di censura che mina direttamente le radici della cultura statunitense (bianca). Nella stessa convention, altri relatori si soffermano sul pericolo della cancel culture, attaccando direttamente gli avversari Democratici. Per esempio, il senatore afroamericano della Carolina del Sud, Tim Scott, si scaglia contro la cancel culture, richiamando quelle radici americane, quel sogno americano, affermando:
Vogliamo una società che favorisca il successo o una cultura che cancelli tutto ciò con cui è anche solo leggermente in disaccordo? […] Non ci arrendiamo alla cultura della cancellazione, o alla convinzione radicale – e di fatto infondata – che le cose siano peggiori oggi rispetto agli anni Sessanta dell’Ottocento o agli anni Sessanta del Novecento.14
28Sullo stesso palco interviene anche Kimberly Ann Guilfoyle, consigliera di Trump e anche ex-conduttrice di un talk show in onda su Fox News, che attacca direttamente i Democratici, sostenendo che la vittoria del candidato democratico Biden avrebbe comportato la caduta del paese e affermando, a proposito della cancel culture:
Questa elezione è una battaglia per l’anima dell’America. La vostra scelta è chiara. Sostenete la cultura della cancellazione? […] [i Democratici, N.d.T.] vogliono distruggere questo Paese e tutto ciò per cui abbiamo combattuto e che ci è caro. Vogliono rubare la vostra libertà, la vostra libertà. Vogliono controllare ciò che vedete, pensate e credete in modo da poter controllare come vivete.15
29Riprendendo la guerra al politicamente corretto, fenomeno predecessore della cancel culture (si veda anche § 2.2.2), i conservatori stanno cercando di far passare il messaggio che le piattaforme di attivismo politico, soprattutto quelle afroamericane, stiano facendo crescere coorti “anti patriottiche”. Negli ultimi anni, molti conservatori hanno sviluppato l’idea che cancellare sia una strategia per annientare i valori fondanti della cultura americana di cui i conservatori si fanno portatori.
30Alcuni dei casi più noti etichettati come cancel culture hanno, in effetti, avuto origine dai liberali progressisti, come le campagne volte a rivedere i processi sulle molestie sessuali, sugli abusi della polizia eccetera, ma la strategia di cancellare è stata successivamente emulata da persone di schieramenti e ideologie “diversi” (Romano 2021) senza che, però, si parlasse di cultura della cancellazione. Per esempio, molti commentatori dei media di destra hanno alimentato teorie del complotto, attaccando apertamente Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros e Bill Gates. Inoltre, attivisti conservatori hanno mobilitato vere e proprie campagne a favore di governi di Paesi in cui vigono, per esempio, leggi restrittive sull’omosessualità (ibid.). Anche gli stessi politici repubblicani tendono a “limitare” la libertà di opinione quando questa può causare disapprovazione pubblica. Come riporta Willingham (2021), a discapito del titolo dato, alla conferenza conservatrice American Uncanceled è stato rimosso un relatore che online aveva espresso opinioni antisemite. Dale (2020), un reporter della CNN, tiene traccia dei tentativi, da parte dello stesso Trump, di censurare e “bandire” personaggi pubblici per aver compiuto atti, a suo dire, inaccettabili. Il primo episodio registrato risale addirittura al 2012: Trump twitta contro Touré, il conduttore del programma The Cycle, “invitandolo” a dimettersi. Touré aveva usato una variante della parola ni*ger, accusando l’allora candidato presidenziale repubblicano Romney di aver cercato di utilizzare alcuni stereotipi sull’uomo di colore. Touré, ancora prima del tweet di Trump, si era scusato (ibid.).
31Tuttavia, non sono solo i conservatori di destra a diffidare di questa supposta cultura della cancellazione. Il 29 ottobre del 2019, l’ormai ex presidente Barack Obama ha dichiarato al vertice annuale della Fondazione che porta il suo nome:
Ho l’impressione che alcuni giovani sui social media pensino che il cambiamento consista nel giudicare il più possibile gli altri. […] Se twitto o faccio un hashtag su quanto hai fatto di sbagliato […], allora posso sedermi e sentirmi abbastanza bene con me stesso perché “Amico, hai visto com’ero sveglio [si usa il termine woke, N.d.T.]? Ti ho richiamato [si usa il termine called you out, N.d.T.]!”.16
32Parlando espressamente di woke e call-out, Obama denuncia la cancel culture, inquadrandola non come vero attivismo, ma come una esagerazione, come un voler giudicare qualcuno o qualcosa non tanto per l’esigenza di cambiarlo, ma semplicemente per il gusto di averlo fatto.
33Ma la preoccupazione per la cultura della cancellazione ha travalicato anche la dialettica pungente che caratterizza la politica statunitense, creando un’arena di dibattito che presto ha coinvolto scrittori, giornalisti e accademici. Nel 2020, viene, infatti, pubblicata su «Harper’s Magazine» la ormai famosa A Letter on Justice and Open Debate (“Una lettera sulla giustizia e il dibattito aperto”) firmata da oltre 150 persone e di cui si parlerà anche nel prossimo capitolo (si veda anche § 2.2.1). Tra i firmatari, spiccano personaggi pubblici che calcano la scena internazionale: Martin Amis, Gloria Steinem, J.K. Rowling, Salman Rushdie, Margaret Atwood e Noam Chomsky. La lettera non si dichiara apertamente contro la cancel culture – in effetti il termine non viene mai espressamente utilizzato – ma estrapolandone alcune parti si può subito notare il collegamento con la cancel culture: i firmatari affermano che lo scambio libero di informazioni e idee, la linfa vitale di una società liberale, sia soffocato ogni giorno di più. E proseguono sostenendo che, se è vero che questa tendenza è stata prima appannaggio della destra radicale, ora la tendenza alla censura si sta diffondendo: un’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo, e la tendenza a risolvere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale. Infine, scrivono che
le grandi proteste contro il razzismo e per la giustizia sociale stanno portando avanti sacrosante richieste […]. Ma questa necessaria presa di coscienza ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti moralisti e impegni politici che tendono a indebolire il dibattito pubblico e la tolleranza per le differenze, a favore del conformismo ideologico. Mentre ci rallegriamo per il primo sviluppo, ci pronunciamo contro il secondo.17
34Quindi nella lettera si parla di conformismo delle idee che rischia di cancellare, cioè di boicottare, censurare e ostracizzare personaggi più o meno pubblici e opinioni “sgradite”, in un continuo richiamo sia da destra sia da sinistra alla paura della censura e al mantra del “non si può più dire niente!”.
35Tuttavia, nonostante questa paura, cancellare una persona, così come censurarne le idee, non è una pratica così semplice. In molti casi, i personaggi pubblici accusati di essere stati cancellati non hanno davvero visto le loro carriere finite, i loro libri invenduti sugli scaffali delle librerie e la loro fama distrutta. Alcuni hanno, in realtà, addirittura ricevuto in cambio maggior fama di prima: per esempio, J.K. Rowling, dopo aver espresso opinioni che alcuni/e hanno tacciato come transfobiche (si veda anche § 2.2.1) e aver effettivamente subito degli attacchi sui social network, ha aumentato le vendite dei libri della saga di Harry Potter18.
36Allora, per riprendere la definizione dell’Enciclopedia Treccani citata in apertura, ma anche la motivazione data da Macquarie Dictionary sulla parola dell’anno, di quali atteggiamenti stiamo parlando? Ha senso parlare di cultura della cancellazione, addirittura nei termini di una cultura dilagante nel mondo occidentale?
37Sicuramente, riflettere sul fenomeno della cancel culture comporta anche osservare le reazioni più ampie che tale fenomeno ha prodotto. Tra queste “reazioni”, esiste il cosiddetto woke capitalism, che potremmo tradurre come “capitalismo sveglio” (Lewis 2020). Tale definizione, coniata dal giornalista Ross Douthat nel 201819, richiama alcune azioni che grandi organizzazioni cercano di intraprendere al fine perseguire una qualche giustizia sociale. Ma come si lega alla cancel culture? In alcuni casi, queste aziende hanno rilasciato dichiarazioni in favore di alcune battaglie sociali, rimosso prodotti che fino al giorno prima promuovevano, ma anche licenziato persone che, a loro avviso, avevano avuto condotte sbagliate. Secondo Lewis (2020; trad. nostra) tali azioni non producono alcun cambiamento sostanziale ai sistemi che permettono a quei comportamenti o a quelle convinzioni di perpetuarsi: tali aziende di fatto stanno «gravitando verso segnali a basso costo e ad alto rumore come sostituto di una vera riforma, per garantire la propria sopravvivenza». Le strategie attuate sono le stesse che si mettono in campo quando si parla di greenwashing o di pinkwashing, ovvero la pubblicizzazione di un impegno da parte di una azienda o di un’organizzazione verso cause sociali, con l’obiettivo di guadagno. Le aziende, quindi, si muovono in base all’impatto che avrà sui loro profitti. Queste strategie hanno davvero poco a che fare con i movimenti di giustizia sociale, con il promuovere veri e propri dibatti sul razzismo, sul sessismo e sull’omofobia. Sebbene, infatti, queste campagne abbiano in alcuni casi portato alla riprovazione di opinioni apertamente razziste, sessiste e omofobe, il driver che guida queste campagne, ovvero logiche di mercato e dunque di profitto, potrebbe far pensare che un domani (ma anche un “ieri”) le stesse aziende potrebbero censurare opinioni meno conservatrici. È così che prende forma il woke capitalism e, come quando parliamo di pinkwashing e greenwashing e, adesso, anche di wokewashing (Sobande 2019), il problema non è il green, il pink o il woke, il problema è la stortura che ne deriva: il washing. È questo allora il punto su cui è importante riflettere: queste corporazioni non sono progressiste rispetto ai diritti sociali e civili, ma sono attente a captare – e non a promuovere – un cambiamento della società a scopo di lucro. E, tuttavia, questo processo non è “a costo zero” perché non solo contribuisce a creare un clima di ansia, paura e rabbia in chi crede nell’esistenza della cancel culture, ma fornisce anche strumenti prêt-à-porter a chi questa credenza l’ha creata o la sta sfruttando. Allora, forse, il dibattito (anche su Twitter) può spostarsi su un altro punto nevralgico: il fatto che le aziende che si impegnano a sostenere gli sforzi per affrontare le ingiustizie sociali non possono limitarsi a farlo solo sotto forma di contenuti di marketing, ma devono invece rivedere le loro pratiche interne di lavoro (ibid.).
38Non è solo il woke capitalism che ha fatto sì che il dibattito sulla cancel culture venisse percepito come una clava in mano alle persone, clava pronta a colpire la reputazione di chiunque e di qualunque cosa, ma anche chi questo dibattito lo ha amplificato, dando voce a chi ha costruito sulla stessa cancel culture veri e propri programmi elettorali. Il megafono è rappresentato dai media mainstream (perlomeno alcuni) che hanno permesso che il fenomeno della cancel culture raggiungesse portate imprevedibili e mutasse nel corso del tempo. Non stupisce, ad esempio, che il sito di Fox News, uno tra i media più seguiti dal pubblico statunitense20, raccolga 18.500 notizie e video in cui compare la parola “cancel culture”21. Nel 2019, il giornalista Osita Nwanevu scrive sul «New Republic» un articolo in cui osserva quanto i media statunitensi abbiano favorito l’uso dell’espressione “cancel culture” e quanto questo fenomeno sia stato accostato a rivolte politiche e torture di regimi dittatoriali, fino a una escalation di violenza che addirittura la paragona ai genocidi. Il clima creato dalla destra conservatrice, in parte spalleggiata anche da esponenti politici e intellettuali democratici, ha non solo allontanato la pratica del cancellare dalla sua storia, che poi è la storia dei movimenti afroamericani, ma ha soprattutto offuscato, spesso ribaltato, se non negato, le relazioni di potere esistenti, sostenendo che basti premere un tasto per sovvertire quelle stesse relazioni di potere così incardinate nel contesto statunitense (e non solo in quello). Parlare di politicamente corretto e di cultura della cancellazione nei termini della minaccia alla libertà di parola, esattamente come pensare al woke capitalism come espressione diretta dei tweet degli esponenti dei movimenti per i diritti sociali, distrae dai reali giochi di forza. Come sostiene Thiele (2021; trad. nostra) «la sfera pubblica, che un tempo sembrava così omogenea, è diventata più varia e dissonante; più persone possono e vogliono dire la loro. La loro presenza nei media irrita coloro che in passato controllavano il nostro discorso sociale e che sono abituati a essere corteggiati piuttosto che criticati». Poiché, almeno per ora, le richieste di cancellazione non hanno avuto niente a che fare con scomuniche, torture, esecuzioni e genocidi forse si potrebbe fare un passo indietro e provare a pensare a un tweet semplicemente come a un tweet. Alla fine, la cancellazione potrebbe essere vista come l’espressione di un comune dissenso su una piattaforma digitale che, come tale, raggiunge un vasto pubblico. Le sue modalità d’azione possono non essere condivisibili, però non può essere considerata come una cultura, tantomeno dominante. Nei prossimi due capitoli si evidenzierà come la nozione di cancel culture dal contesto statunitense sia arrivata in quello italiano, assumendo le peculiarità culturali del contesto locale, e si mostreranno le strane convergenze politiche che rivelano gli usi (strategici) che se ne fanno nel dibattito pubblico.
Notes de bas de page
1 https://www.treccani.it/vocabolario/cancel-culture_%28Neologismi%29/ [ultima consultazione 17 maggio 2022].
2 Poiché il linguaggio è al centro di questo volume ci siamo interrogate a lungo sull’opportunità o meno di riportare parole offensive come “ne*ro” e “fro*io” e i loro corrispettivi inglesi. La decisione finale è stata quella di tradurle e lasciarle inalterate nelle citazioni letterali, come nel caso di questa canzone, ma di “censurarle” nel testo e, dunque, di scriverle in questi casi usando un asterisco.
3 https://www.youtube.com/watch?v=SAhaHP9OTeM&ab_channel=VH1Love%26 HipHop (dal minuto 2.15 al minuto 2.30) [ultima consultazione 17 maggio 2022].
4 https://www.bbc.com/news/blogs-trending-35786382 [ultima consultazione 17 maggio 2022].
5 https://www.macquariedictionary.com.au/resources/view/word/of/the/year/2019 [ultima consultazione 29 settembre 2022; trad. nostra].
6 Il movimento Me Too nasce sull’onda delle mobilitazioni femministe su scala globale, nell’ottobre del 2017, come hashtag #MeToo (“#Anch’io”) reso popolare dall’attrice Alyssa Milano che lo ha usato per denunciare sui social network le violenze subite da parte del produttore cinematografico Harvey Weinstein, incoraggiando altre donne a rendere pubbliche le violenze quotidianamente subite nelle varie fasi e nei vari contesti della loro vita.
7 https://www.macquariedictionary.com.au/resources/view/word/of/the/year/2018 [ultima consultazione 17 maggio 2022; trad. nostra].
8 https://www.macquariedictionary.com.au/resources/view/word/of/the/year/2017 [ultima consultazione 17 maggio 2022].
9 https://twitter.com/pixelatedboat/status/741904787361300481[ultima consultazione 17 maggio 2022; trad. nostra].
10 https://yourfaveisproblematic.tumblr.com/ [ultima consultazione 17 maggio 2022].
11 https://www.govinfo.gov/content/pkg/DCPD-202000483/pdf/DCPD-202000483.pdf [ultima consultazione 17 maggio 2022, trad. nostra].
12 https://eu.usatoday.com/story/news/politics/2020/07/04/fourth-july-trump-condemns-removal-statues-mount-rushmore-speech/5374494002/ [ultima consultazione 17 maggio 2022, trad. nostra].
13 https://www.npr.org/2020/08/27/901381398/fact-check-trumps-address-to-the-republican-convention-annotated [ultima consultazione 17 maggio 2022; trad. nostra].
14 https://edition.cnn.com/2020/08/24/politics/tim-scott-rnc-speech/index.html [ultima consultazione 17 maggio 2022; trad. nostra].
15 https://www.rev.com/blog/transcripts/kimberly-guilfoyle-2020-rnc-speech-transcript [ultima consultazione 17 maggio 2022; trad. nostra].
16 https://www.bbc.com/news/world-us-canada-50239261 [ultima consultazione 17 maggio 2022; trad. nostra].
17 https://www.ilpost.it/2020/07/09/lettera-harper-cancel-culture/ [ultima consultazione 17 maggio 2022; trad. nostra].
18 https://variety.com/2020/film/news/jk-rowling-book-sales-harry-potter-1234708777/ [ultima consultazione 17 maggio 2022].
19 https://www.nytimes.com/2018/02/28/opinion/corporate-america-activism.html [ultima consultazione 22 settembre 2022].
20 https://www.forbes.com/sites/markjoyella/2019/12/11/fox-news-ends-2019-with-highest-rated-prime-time-ratings-ever/?sh=679a5c513347 [ultima consultazione 24 settembre 2022].
21 https://www.foxnews.com/search-results/search?q=cancel%20culture [ultima consultazione 24 settembre 2022].
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