Postfazione
p. 221-226
Texte intégral
1Il lavoro sessuale nel nostro Paese, così come in altri Paesi europei, è da anni oggetto di un dibattito fuorviante perché spesso fondato su assunzioni ideologiche e indimostrate. Infatti, coloro che più di frequente prendono parola sul lavoro sessuale nel discorso pubblico – dai media al mondo della politica – sono sempre apparsi poco attent* – o addirittura poco interessat* – a interrogare la realtà e la concretezza delle sue dinamiche, così come i vissuti delle persone che lo svolgono. Oggi come non mai è necessario un approccio culturale al lavoro sessuale che sia insieme pragmatico e illuminato da princìpi irrinunciabili, che sia fondato non già su una astratta e moraleggiante concezione del mondo o di ciò che è “bene” per la società e per le donne, ma che piuttosto sappia vedere e ascoltare le persone in carne e ossa e promuovere i loro diritti. Per queste ragioni mi sento molto in sintonia con le premesse e la metodologia che animano questo volume: è solo andando “oltre le semplificazioni” e interrogando la realtà con onestà intellettuale, infatti, che si rispetta la dignità e si promuove l’effettività dei diritti di tutt* coloro che svolgono lavoro sessuale.
2Innanzitutto, tra i due estremi teorici di un lavoro sessuale completamente frutto di libera scelta, e di una prostituzione completamente coercitiva paragonabile a una forma di violenza contro le donne, vi è una realtà ampia e variegata, nella quale esistono situazioni di sfruttamento che, lungo un continuum, possono andare dalla cessione a terzi di parte dei proventi in cambio di “protezione”, a forme di abuso della posizione di vulnerabilità di donne e persone Lgbt+, e in parte anche di uomini, che vengono ridott* in una condizione di sistematica sottomissione, che non sono in grado di negoziare con gli sfruttatori se non in termini limitatissimi, e che dunque devono accettare condizioni di sofferenza e di insicurezza.
3Quest’ultima situazione descrive la realtà quotidiana del lavoro sessuale di molte persone che si prostituiscono in condizioni di grave sfruttamento, quando i fattori concorrenti di vulnerabilità sociale sono intersezionali e quando le persone che lavorano nel mercato del sesso sono sospinte verso un’area di semi-illegalità. Il lavoro sessuale oggi è svolto in larga parte da persone migranti, richiedenti asilo o rifugiate, colpite da discriminazioni e da processi di inferiorizzazione, stigmatizzazione e repressione, se non di vera e propria – sia pure indiretta – criminalizzazione. L’intersezione di vari fattori negativi può contribuire a determinarne la posizione subordinata nella struttura sociale e di potere, e dunque a esporre coloro che si prostituiscono a gravi forme di sfruttamento, come ha mostrato Paola Degani in vari suoi lavori, anche analizzando l’esperienza degli enti anti-tratta, e come ben discutono Letizia Palumbo e Serena Romano in questo volume.
4Lo sfruttamento – che non è definito da nessuno strumento internazionale, ma è ora definito dalla legge italiana con l’introduzione del nuovo testo dell’art. 603-bis del Codice penale (su intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, modificato nel 2022) – non può però essere osservato solo attraverso un’ottica penalistica. Si tratta infatti di un fenomeno insito nell’economia capitalistica, come ha messo in luce la teorica femminista Nancy Fraser. Enrica Rigo ha osservato che si corre oggi il rischio di riproporre una distinzione concettuale tra produzione e riproduzione sociale, riconoscendo solo la prima delle due sfere come ambito dello sfruttamento, e dunque come problema politico. Il lavoro sessuale, e lo sfruttamento di donne, di persone Lgbt+ e in misura minore di uomini nel business sessuale è invece un esempio di come la sfera della riproduzione sociale venga pesantemente investita dallo sfruttamento, esattamente come la sfera della produzione, quando le condizioni della riproduzione sociale incrociano quelle delle attività remunerate, o a queste si sovrappongono. A conferma di ciò, è opportuno ricordare che lo sfruttamento nel lavoro sessuale commerciale è ricompreso nella definizione di lavoro forzato dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e dunque indipendentemente dal fatto che esso si verifichi nella sfera della produzione o della riproduzione sociale.
5I processi di spossessamento di beni e diritti fondamentali nei Paesi in via di sviluppo, indotti dal cambiamento climatico, dalla desertificazione, dai conflitti e dalle politiche post-coloniali, hanno provocato la crescita, tuttora in corso, di edge populations, come le ha definite Gargi Bhattacharyya, cioè di masse di persone socialmente vulnerabili e razzializzate, sospinte ai margini dei sistemi sociali ed economici, in grande misura composte da migranti, e abbandonate al loro destino. Un destino che può essere la morte in qualsiasi frontiera del vasto mondo delle migrazioni, o la detenzione, o il ritorno forzato, o ancora il grave sfruttamento in settori informali o semi-informali, comunque caratterizzati da un basso livello di riconoscimento di diritti. Si tratta di un’enorme area di grave sfruttamento, che può ben corrispondere alle stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro di 21-25 milioni di persone globalmente sottoposte a lavoro forzato. Tra queste edge populations, soprattutto per quanto riguarda quelle che vengono sfruttate in settori informali, possiamo riconoscere anche molta parte delle persone migranti che svolgono lavoro sessuale.
6Si tratta di persone che nella grande maggioranza dei casi sono socialmente vulnerabili, ma non per questo prive di agency, intesa come capacità di prendere decisioni consapevoli e di agire per realizzarle. Si tratta infatti di vulnerabilità “situazionali”, prodotte dall’intreccio di fattori intersezionali: riguardano tipicamente le donne, collocate in una posizione subordinata nelle gerarchie patriarcali, familiari e sociali, le persone Lgbt+ discriminate, e le persone migranti, le cui vulnerabilità pre-esistenti, che sono alla base delle migrazioni in condizioni difficili e pericolose, si intrecciano con quelle prodotte da politiche migratorie restrittive, dalle violenze subite durante il viaggio, dallo sfruttamento subito in transito e a destinazione, e dalla discriminazione razziale. Eppure, la loro capacità di prendere decisioni sulla propria vita non viene meno, nemmeno in situazioni di grave vulnerabilità e sfruttamento. Durante il mio mandato Onu di Special Rapporteur sulla tratta ho visitato molti Paesi e parlato con molte donne trafficate. Dalle loro storie si comprende che, a parte alcuni casi estremi comparabili alla vera e propria schiavitù, tutte hanno avuto un margine, per quando esiguo, di scelta, e tutte hanno agito, anche se si trattava di ottenere il meno peggio, per quanto questo “meno peggio” fosse una forma di grave sfruttamento, tuttavia preferibile perché meno pesante o meno dannosa. Invece, ho potuto constatare una totale invisibilità, tra le vittime riconosciute di tratta, delle persone Lgbt+, quasi mai identificate come vittime a causa della forte discriminazione e stigmatizzazione subita in molti Paesi.
7Dunque, vulnerabilità e agency non solo non si escludono a vicenda, ma sono in realtà due facce della stessa medaglia. Di fatto, varie combinazioni di vulnerabilità e agency sono presenti nel continuum dello sfruttamento, a seconda delle reali possibilità e capacità di contrattazione della persona interessata e talora anche della sua comunità di appartenenza. D’altra parte, la stessa nozione di agency presuppone un contesto determinato, che comporta sempre dei vincoli. Per questa ragione l’agency non nega, e anzi implica, che ogni scelta venga compiuta in presenza di certe restrizioni. La grande questione di giustizia sociale che emerge dal grave sfruttamento è la qualità del contesto economico-sociale e la gravità delle restrizioni da esso imposte. Per questa ragione è da contestare il concetto neoliberista che identifica la libertà con la libertà di scelta. Quest’ultima è un simulacro di libertà, un suo falso succedaneo, se i presupposti della scelta contrastano con i diritti e i bisogni della persona interessata. In questo senso l’art. 3 cpv. della Costituzione italiana costituisce ancora oggi la cornice concettuale adeguata ad evitare le trappole di una libertà sganciata dalla giustizia sociale, e chiama le istituzioni pubbliche a determinare le condizioni economico-sociali tali da ridurre le disuguaglianze, e promuovere vera libertà e partecipazione1. Per questa ragione l’art. 3 cpv. della Costituzione fa anche comprendere il significato concreto di una prospettiva e di politiche fondate sui diritti umani, non solo i diritti civili ma anche i diritti sociali, l’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari e sociali e alla giustizia, oggi generalmente negato – nella realtà se non sulla carta – a coloro che svolgono lavoro sessuale.
8Prevale invece, nel discorso pubblico sul lavoro sessuale, un approccio repressivo che trova oggi la sua principale espressione nel molto propagandato “modello nordico” o neo-abolizionista, fondato sull’idea che i consumatori di sesso commerciale debbano essere criminalizzati. Il modello neo-abolizionista, originariamente sperimentato in Svezia, ha avuto una notevole capacità espansiva, ed è stato adottato tra l’altro in altri Paesi nordici, in Irlanda e in Francia, raccogliendo peraltro l’abnorme convergenza di una parte del femminismo e di orientamenti decisamente conservatori, soprattutto di matrice religiosa. Il dibattito su questo modello si intreccia con la discussione in corso, anche tra giuristi e giuriste, sulla nozione di dignità.
9La dignità ha il rango di principio fondamentale del diritto, sia nella Costituzione Italiana sia nella Carta Europea dei diritti fondamentali, ma è oggetto di interpretazioni diverse e perfino contrapposte. Il concetto di dignità centrato sui diritti collega la dignità al principio di uguaglianza, declinandola come uguale dignità di tutte le persone indipendentemente dal loro status economico-sociale, e all’autonomia personale, cioè alla possibilità di decidere liberamente il tipo di esistenza più confacente alla propria personalità, il che include l’autodeterminazione sessuale. Si tratta di una nozione di autonomia che il femminismo ha risignificato come “autonomia in relazione”, per designare la capacità di perseguire il proprio progetto di vita nella solidarietà con altr*, nel riconoscimento della reciproca interdipendenza, e con il supporto di servizi appropriati a promuovere l’empowerment.
10Tuttavia, nel campo dello sfruttamento sessuale prevale piuttosto, anche in una parte della giurisprudenza, una concezione oggettiva di dignità, individuata non in relazione ai diritti della persona la cui dignità è violata, ma piuttosto a un parametro esterno, definito in relazione al comune sentire di una certa società in un determinato momento storico. Si tratta della nozione di dignità fatta propria dalla Corte costituzionale nella sentenza del 7/06/2019 n. 141. In base a questa pronuncia, la vendita di servizi sessuali, in quanto intuitivamente repulsiva, non potrebbe mai essere oggetto di scelta libera da parte del soggetto titolare dell’autodeterminazione sessuale. Tale nozione astratta di dignità finisce col presentarsi come un meta-concetto morale, che si impone come un postulato, impedendo l’operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali. Tra questi diritti fondamentali vi è anche l’autodeterminazione sessuale – valorizzata invece dalla Corte d’Appello di Bari che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale. Un concetto di dignità così formulato va a giustificare la limitazione dei diritti dello stesso soggetto (titolare del diritto di autodeterminazione), e non invece, come dovrebbe, la limitazione dei diritti di soggetti terzi che potrebbero violarla.
11Il “modello nordico” è tributario e vassallo della concezione moralistica e paternalistica di dignità appena descritta, nonostante le intenzioni di quella parte di femminismo che lo ha promosso e continua a promuoverlo alacremente. Infatti, considerare l’acquisto di servizi sessuali da parte dei clienti come un atto di violenza contro le donne, senza alcun riferimento alle condizioni concrete in cui lo scambio si realizza, non solo finisce col dilatare la nozione di violenza in una misura tale da avallare una narrativa indiscriminatamente vittimizzante de* sex worker, ma indirettamente legittima e rafforza la stigmatizzazione sociale non solo dei clienti ma, inevitabilmente, anche di chi svolge il lavoro sessuale. In altri termini, il “modello nordico” assume la stessa prospettiva fin qui criticata sulla nozione di dignità, vale a dire che nessuno possa liberamente consentire a svolgere lavoro sessuale, indipendentemente dalla sua situazione reale. Dunque, le sex worker, o sarebbero vittime senza alcuna autonomia, ovvero sarebbero da stigmatizzare qualora acconsentissero allo sfruttamento. In nome della difesa della dignità, o del rifiuto della violenza, si perviene comunque a limitare il diritto di autodeterminazione di coloro che esercitano il lavoro sessuale, con il risultato di non riconoscere – ancora una volta – i loro diritti.
12Il “modello nordico” o neo-abolizionista è oggi preferito da molte figure della politica probabilmente per la sua semplicità, che consente di ridurre l’approccio di genere all’identificazione di nuovi soggetti da stigmatizzare, con ciò tuttavia confermando e ulteriormente legittimando il modello securitario e repressivo dominante nel campo delle politiche prostituzionali, così come di quelle migratorie. Il fatto che tale modello sia sostenuto da una parte del femminismo ha fatto giustamente parlare di “femminismo punitivo”, per usare il termine coniato da Tamar Pitch. Ma le soluzioni semplici non sono mai quelle buone. Basta ascoltare le organizzazioni di sex worker per rendersi conto che sospingere ancor più la prostituzione e il lavoro sessuale nell’area dell’illegalità – conseguenza inevitabile della criminalizzazione dei clienti – rende le donne più vulnerabili, meno capaci di sperimentare esperienze di cooperazione e reciproco aiuto, più dipendenti dagli sfruttatori, meno protette dagli abusi, e non solo di quelli dei clienti. Come hanno ben illustrato i capitoli di ricerca di Hèlène La Bail e Calogero Giametta sulla situazione in Francia e di Isabelle Johansson sulla situazione in Svezia sono questi i risultati del “modello nordico” nei Paesi in cui è stato attuato.
Notes de bas de page
1 In particolare, nel secondo paragrafo l’articolo 3 cpv della Costituzione italiana recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
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Prostituzione e lavoro sessuale in Italia
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