I processi di decriminalizzazione del sex work in Australia e Nuova Zelanda
p. 203-220
Texte intégral
1. Introduzione: cosa vuol dire decriminalizzare il sex work?
1La decriminalizzazione del sex work è il modello legislativo raccomandato da oltre un decennio da ricercatori e da organizzazioni, reti ed enti globali che lavorano per i diritti umani, sociali e della salute pubblica, tra cui Who, Unaids, Amnesty International, Human Rights Watch e The Lancet. Inoltre la decriminalizzazione è al centro delle rivendicazioni delle organizzazioni locali e internazionali che si battono per i diritti delle/i sex worker, come il Global Network of Sex Work Project (Nswp) e la European Sex Worker Alliance (Eswa; Goldenberg et al., 2021). Un crescente corpus di ricerche a livello mondiale ha sottolineato come la criminalizzazione del sex work (compresa la criminalizzazione dei clienti) porti a un rischio elevato di violenza e abuso contro le/i sex worker da parte delle forze dell’ordine, di clienti criminali e di sfruttatori; nonché a una loro maggiore stigmatizzazione ed esclusione dalla società e a un ridotto accesso alle misure di protezione sociale, alla giustizia, e ai servizi di salute e di sostegno (Mai et al., 2021a, 2021b; Platt et al., 2018). È stato anche evidenziato come la decriminalizzazione del sex work, invece, sia cruciale per combattere il contagio da Hiv/Aids e altre infezioni sessualmente trasmesse, per salvaguardare la salute, il benessere, l’accesso alle forme di sostegno sociale, alla giustizia e ai diritti umani da parte delle/i sex worker, come anche per combattere la tratta e lo sfruttamento delle/i sex worker migranti (Albright, D’Adamo, 2017; Kim, 2015; Macioti et al., 2020; Rekart, 2005; The Lancet, 2014).
2È bene chiarire fin da subito che con il termine decriminalizzazione non si intende la totale assenza di ogni regolamentazione del lavoro sessuale, bensì l’eliminazione di leggi e sanzioni penali specifiche all’industria del sesso (Scarlet Alliance, 2014). La differenza tra un modello di legalizzazione e uno di decriminalizzazione sta nel fatto che la legalizzazione prevede un regolamento specifico dell’industria del sesso secondo leggi penali che rendono perseguibili chi non le rispetta. Ad esempio, in Germania, la legalizzazione del sex work è limitata a coloro che hanno la possibilità di rispettare alcune leggi restrittive, quale ad esempio la registrazione obbligatoria con il proprio nome (cfr. Hoefstetter in questo volume). Chi non desidera registrarsi per paura di esporsi a discriminazione e stigma o chi non può farlo, come le/i sex worker migranti senza documenti, resta perseguibile, quindi più vulnerabile a sfruttamento e meno incline ad accedere a protezione e supporto in caso di bisogno o se vittima di violenze e abusi (Thiemann, 2020).
3Nel modello di decriminalizzazione, invece, il sex work viene regolato secondo leggi sul lavoro già esistenti, accordando diritti e doveri alle/ai sex worker e a chi ne facilita il lavoro in maniera non coatta, riconoscendo quindi il sex work come legittima professione. Non esiste quindi più un crimine legato al sex work di per sé e le/i sex worker, se vittime di crimini e/o di lavoro forzato, possono accedere ai diritti e alle forme di tutela seguendo le leggi vigenti che proibiscono queste pratiche in tutti i lavori, e ciò senza temere ripercussioni o discriminazioni da parte delle forze dell’ordine o dei servizi sociali che altrimenti in altri sistemi subirebbero per il fatto di aver lavorato come sex worker (Scarlet Alliance, 2014). Infatti, anche in sistemi dove in teoria le sex worker stesse (o i sex worker stessi) non sono criminalizzate, ma comprare sesso o facilitarne la vendita lo è, queste ultime spesso vengono discriminate, private di diritti come la custodia dei propri figli, o addirittura accusate loro stesse di favoreggiamento e quindi criminalizzate, se lavorano insieme ad altre sex worker – il che tra l’altro costituisce un’importante misura di sicurezza per chi fa sex work (Berry, Frazer, 2021; McBride et al., 2021). Inoltre, nei contesti dove il sex work e/o i clienti sono criminalizzati, lo stigma contro le/i sex worker è molto più acuto e ha conseguenze molto gravi, il che impatta fortemente sulla loro salute fisica e mentale e sull’accesso ai servizi (Krüsi et al., 2016; Macioti et al., 2021).
4Laddove il sex work è completamente decriminalizzato invece le/i sex worker non devono più temere di essere discriminate o perseguite se hanno bisogno di assistenza medica o di rivolgersi alla giustizia, il che significa che sfruttatori e criminali hanno meno possibilità di ricattarle, come fanno altrove, per esempio minacciando di denunciarle alle forze dell’ordine (Abel, Fitzgerald, 2010). Infine, la decriminalizzazione è anche considerata un primo passo necessario (anche se non sufficiente) per cominciare a smantellare lo stigma contro le/i sex worker (Abel, Fitzgerald, 2010b).
5È importante notare che secondo la ricerca esistente, così come secondo le organizzazioni di sex worker e quelle per i diritti umani, la decriminalizzazione deve essere estesa a tutte/i le/i sex worker e non escluderne nessun gruppo o settore particolare, come ad esempio le/i sex worker che lavorano in strada o le/i migranti senza documenti (Mai et al., 2021a). Questo perché nel momento in cui specifici gruppi restano esclusi dai benefici della decriminalizzazione, queste/i si ritrovano a portare tutto il peso della criminalizzazione, rimanendo ad elevato rischio di violenza e abusi, come vedremo nelle sezioni successive.
6Al momento cinque giurisdizioni al mondo hanno adottato modelli di decriminalizzazione del sex work. Lo Stato australiano del New South Wales (NSW) è stato il primo Stato al mondo a decriminalizzare il sex work al chiuso (e in parte in strada) nel 1995, seguito dalla Nuova Zelanda nel 2003; dallo Stato australiano del Northern Territory nel 2019 e, nel 2022, sia dallo Stato australiano del Victoria che dal Belgio. Lo Stato australiano del Victoria ha adottato la decriminalizzazione del sex work a febbraio 2022 dopo decenni di mobilitazione di vari gruppi locali di sex worker tra cui il Vixen Collective e dopo un’inchiesta del governo che ha dimostrato la necessità di riformare l’allora vigente complesso sistema di legalizzazione, sotto il quale una gran parte di sex worker si ritrovava a lavorare al di fuori della legge, senza una protezione adeguata (Macioti, 2022). Nel marzo 2022 il Belgio è divenuto il primo Stato europeo a decriminalizzare il sex work, grazie anche alla mobilitazione dell’organizzazione di sex worker locale Utsopi (Clapson, 2021).
7Sex worker, mondo della ricerca e organizzazioni per i diritti umani concordano sui benefici della decriminalizzazione del sex work e sempre più giurisdizioni al mondo stanno prendendo in considerazione la possibilità di applicarla. Il concetto di decriminalizzazione del sex work, però, è ancora controverso e rischia di non essere capito fino in fondo o di essere utilizzato in maniera scorretta. Per avere un’idea più chiara su quelli che sono gli obiettivi e gli effetti della decriminalizzazione è quindi fondamentale imparare dai contesti in cui la decriminalizzazione già esiste.
8È importante sottolineare come i casi dello Stato australiano del New South Wales, dello Stato di Victoria, e della Nuova Zelanda non possano essere definiti come modelli di decriminalizzazione completa. In New South Wales e in Victoria infatti il sex work in strada nei pressi di scuole e luoghi religiosi è ancora criminalizzato, mentre la Nuova Zelanda criminalizza tutte/i le/i sex worker migranti che non siano in possesso di un permesso di soggiorno permanente, comprese/i coloro che ha un permesso di lavoro valido, ma temporaneo – tra cui studenti, richiedenti asilo e residenti temporanei (Mai et al., 2021b). Il Northern Territory e il Belgio sono al momento gli unici Stati al mondo ad aver adottato un sistema di decriminalizzazione che non esclude nessuna tipologia specifica di sex worker. Tuttavia, i modelli di decriminalizzazione nel Northern Territory e del Belgio, come del resto quello del Victoria sono ancora troppo recenti perché ne possa essere fatta una valutazione vera e propria, mentre l’impatto della decriminalizzazione in New South Wales e Nuova Zelanda sulle vite e i diritti di diversi gruppi di sex worker è stato ampiamente ricercato e sarà oggetto della discussione che segue.
2. La decriminalizzazione del sex work in New South Wales
9Durante l’epidemia di Hiv/Aids degli anni 1980, in vari Stati dell’Australia hanno cominciato a formarsi gruppi di sex worker al fine di rivendicare diritti e proteggersi dal contagio attraverso attività di educazione e prevenzione, nonché chiedere riforme legislative. Nello Stato del New South Wales, gruppi come l’Australian Prostitute Collective, fondato nel 1982, ebbero un ruolo importante nel processo di decriminalizzazione del sex work, cominciato nel 1979 con la decriminalizzazione del sex work in strada (Aroney, Crofts, 2019). Negli anni Ottanta e Novanta numerose sex worker hanno partecipato a incontri con politici e funzionari del governo locale, hanno testimoniato contro la corruzione delle forze dell’ordine che spesso chiedevano favori e servizi gratuiti e hanno organizzato campagne educative per rendere l’utilizzo dei preservativi pratica comune nell’industria del sesso. È grazie agli sforzi di queste attiviste che nel 1995 il New South Wales ha decriminalizzato il sex work nei locali al chiuso, per proteggere la salute pubblica e delle/i lavoratrici e per porre fine all’alto livello di corruzione della polizia nell’industria del sesso. Da allora il sex work in New South Wales non è più regolato da leggi penali, ma è regolato per via amministrativa dalle municipalità locali (council ) che gestiscono il rilascio di autorizzazioni per operatori di locali al chiuso, quali bordelli, saloni di massaggio erotico, night club, ecc. La maggior parte delle/i sex worker che lavorano privatamente in maniera autonoma non hanno invece l’obbligo di ottenere un’autorizzazione e lavorano come libere/i professioniste/i. La polizia non ha più il diritto di regolamentare i locali né accedervi senza un mandato specifico, e i council li ispezionano solo sotto richiesta, in seguito ad eventuali lamentele da parte del pubblico, come per ogni altro esercizio (Bates, Berg, 2014). Ogni municipalità può gestire il rilascio di autorizzazioni per gli esercizi di sex work in maniera differente, cosicché in alcune municipalità è più difficile ottenerla che in altre e alcune municipalità richiedono l’acquisizione di un’autorizzazione anche per sex worker indipendenti che lavorano da casa propria, mentre altre non la richiedono. Chi gestisce un business di sex work senza un’autorizzazione appropriata rischia multe elevate e la chiusura del proprio locale. Come menzionato prima, con la riforma del 1995 il sex work in strada in vicinanza di scuole e luoghi di culto venne proibito dal codice penale (Bates, Berg, 2014). In New South Wales tutte/i le/i sex worker migranti con un valido permesso di lavoro (anche se temporaneo) possono lavorare legalmente come sex worker (Mai et al., 2021a).
10Rispetto al 1995, oggi la composizione dell’industria del sesso in New South Wales, come nel mondo intero, è molto cambiata grazie all’uso di internet attraverso cui le/i sex worker possono farsi pubblicità e cercare clienti autonomamente. In New South Wales, una persona che lavora privatamente può farlo legalmente da casa propria, o andando presso un cliente o affittando una stanza d’hotel, può pagare le tasse come generica libera professionista senza alcun bisogno di registrarsi presso le autorità come sex worker. Chi invece sceglie di lavorare in un locale, un bordello o un salone di massaggi erotici, ha a disposizione una grande varietà di luoghi di lavoro, e di conseguenza non corre il rischio di restare a lavorare in un particolare posto di lavoro per mancanza di alternative (Mai et al., 2021a).
2.1. Salute, sicurezza e servizi di supporto in New South Wales
11Le condizioni di lavoro, la salute e l’accesso a forme di protezione e supporto delle/i sex worker in New South Wales post-decriminalizzazione sono stati oggetto di varie ricerche, condotte da equipe di epidemiologi, criminologi e sociologi e da organizzazioni di sex worker stesse (Donovan et al., 2012; Renshaw et al., 2015).
12Innanzitutto è bene sottolineare che da quando il sex work è stato decriminalizzato l’industria del sesso del New South Wales non si è espansa (Rissel et al., 2017). La salute e la sicurezza della maggior parte delle/i sex worker (comprese/i sex worker uomini, transgender e migranti), e in particolare di chi lavora in locali e/o privatamente, sono invece migliorati costantemente (Harcourt et al., 2006; Harcourt et al., 2010). Mentre lo stigma contro il sex work e la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine sono ancora prevalenti nel resto dell’Australia, il New South Wales è il solo Stato dove le/i sex worker riportano buoni rapporti ed esperienze con la polizia (Stardust et al., 2021).
13L’incidenza di Hiv e malattie sessualmente trasmissibili in New South Wales è diminuita tra le/i sex worker, raggiungendo tassi inferiori a quelli del resto della popolazione, mentre l’accesso a forme di prevenzione come i test per Hiv e malattie sessualmente trasmissibili è migliorato, così come il tasso di utilizzo di preservativi al lavoro, che si avvicina al 100% (Donovan et al., 2012). Questi miglioramenti sono stati ricondotti alle riforme effettuate in seguito alla decriminalizzazione e alla natura del supporto alla pari disponibile nell’ambito della decriminalizzazione (Donovan et al., 2010). In New South Wales, come del resto anche in Australia a livello nazionale, vari gruppi di sex worker sono riconosciuti e finanziati per il loro lavoro di prevenzione e supporto. Nel contesto decriminalizzato del New South Wales, il Sex Worker Outreach Project (Swop NSW) è cresciuto fino a diventare la più grande associazione di supporto per sex worker in tutta l’Australia. Swop NSW è un servizio “alla pari” (peer-only), ovvero composto esclusivamente da personale che ha esperienza diretta di sex work, che organizza workshop, incontri, offre counselling e distribuisce preservativi e altri materiali di prevenzione (Harcourt et al., 2010). Il personale di Swop NSW è presente online in vari forum di sex worker e visita regolarmente bordelli, locali e altri luoghi di lavoro. Swop NSW impiega come operatrici e operatori sex worker di generi diversi, e provenienti da vari background culturali, etnici e linguistici, per diminuire potenziali barriere relazionali e raggiungere tipologie diverse di sex worker, soprattutto le/i più marginalizzate/i, come ad esempio le/i sex worker migranti che non parlano ancora bene inglese. Per lo stesso motivo, personale alla pari e migrante viene anche impiegato nel più grande centro pubblico di salute sessuale di Sydney che offre controlli e cure gratuite alle/ai sex worker, raggiungendo migliaia di pazienti all’anno (Donovan et al., 2012; Donovan et al., 2010; Harcourt et al., 2006). La decriminalizzazione e l’adozione di princìpi peer nei servizi per sex worker sono stati riconosciuti come estremamente efficaci nell’aumentare i saperi e la sicurezza delle/dei sex worker nell’ambito della salute e per cominciare ad eliminare le barriere connesse allo stigma contro le/i sex worker (Callander et al., 2016). Poter contare su servizi creati e composti da sex worker è fondamentale per migliorare la fiducia nei servizi e nel sostegno offerti, e quindi l’accessibilità e l’efficacia di questi ultimi (Bates, Berg, 2014).
2.2. Sex work, migrazione e tratta in Australia e New South Wales
14La recente ricerca condotta dal progetto SexHum su migrazione, sex work e tratta in Australia, Nuova Zelanda, Usa e Francia (Paesi con diversi modelli di criminalizzazione, legalizzazione, e decriminalizzazione) ha trovato che la situazione delle/i sex worker migranti nello Stato australiano del New South Wales è di gran lunga la migliore dei quattro Paesi (Mai et al., 2021a, 2021b) e quindi, con grande probabilità, la migliore al mondo.
15Per comprendere il contesto è importante sapere che in Australia la migrazione è normata e gestita a livello nazionale, mentre il sex work è responsabilità degli Stati federali. È anche rilevante sapere che si tratta di un Paese con un altissimo livello di immigrazione (i migranti di prima generazione formano il 30% di tutta popolazione australiana; Australian Bureau of Statistic, 2021), il cui tasso di migrazione senza documenti è però molto basso (Australian Government, 2021) vista la politica di controllo molto stretto dei confini esterni e interni del Paese. Si stima che meno di un 1% dei migranti riesca ad entrare in Australia senza un documento valido, mentre chi perde il visto o non lo rinnova corre un altissimo rischio di deportazione (Wolfe, 2018). Chi riesce ad entrare in Australia legalmente ha però diverse opzioni per ricevere un visto con permesso di lavoro temporaneo, tra cui divenire uno studente part-time. Nel 2018 il 41% di tutti i migranti in Australia era in possesso di un visto temporaneo con diritto di lavoro (Australian Bureau of Statistic, 2018). Qualsiasi visto può tuttavia essere revocato dalle autorità per varie ragioni, tra cui commettere un reato penale (Neave, 2016).
16Anche se l’Australia ha leggi molto diverse sul sex work a seconda degli Stati federali, in tutti gli Stati dove il sex work è decriminalizzato o parzialmente legalizzato, tutte le persone migranti con un visto di lavoro, anche se temporaneo, possono lavorare nell’industria del sesso legale o decriminalizzata, e questo facilita il lavoro autonomo e limita notevolmente il rischio che siano soggetti a sfruttamento e tratta (Macioti et al., 2020).
17Sulla base di analisi delle statistiche del governo, e interviste a membri della polizia, di Ong anti-tratta, e sex worker migranti e con esperienza di tratta, il progetto SexHum ha riscontrato che la tratta nell’industria del sex work in Australia si è ridotta notevolmente negli ultimi 10 anni, in gran parte grazie a riforme che hanno permesso alle persone migranti di ottenere visti di lavoro temporanei più facilmente, senza aver bisogno di ricorrere a intermediari per organizzare viaggio e documenti e grazie alla possibilità di poter lavorare legalmente nell’industria del sesso (Macioti et al., 2021; Mai et al., 2021b).
18Ricordiamoci però che in Australia chi non è in possesso della cittadinanza rischia la deportazione se condannato per un qualsiasi crimine penale, tra cui rientra anche lavorare nell’industria del sesso infrangendo eventuali leggi penali vigenti sul sex work presenti nello Stato in cui si lavora. Le/i sex worker migranti che lavorano illegalmente sono perciò molto più vulnerabili a sfruttamento e ricatti da parte di chi si approfitta della loro precarietà e del loro timore delle forze dell’ordine. Invece, grazie alla decriminalizzazione, in New South Wales le/i sex worker migranti sono non solo meno a rischio di tratta ma anche di sfruttamento e minacce da parte di clienti, manager e operatori di bordelli e locali (Mai et al., 2021b). Questo perché chi lavora in un’industria legale non rischia la deportazione se viene denunciato alle autorità, eliminando la possibilità di essere ricattati e forzati a lavorare contro la propria volontà, permettendo invece di denunciare gli sfruttatori alle forze dell’ordine senza rischio di subire ripercussioni. In più la decriminalizzazione porta con sé l’aumento di opzioni di lavoro legali (perché nessuna è più criminalizzata). Una maggiore varietà di posti di lavoro facilita una maggiore mobilità delle lavoratrici e dei lavoratori: nel caso in cui vengano minacciate/i di essere licenziate/i se non fanno come loro imposto da datori di lavoro e manager, le/i sex worker (migranti o meno) in New South Wales possono di fatto facilmente andarsene e trovare un altro posto di lavoro legale dove le condizioni siano migliori (Mai et al., 2021a).
2.3. L’esclusione del lavoro in strada
19La parziale criminalizzazione del lavoro in strada è un aspetto del modello del New South Wales che viene considerato problematico da attiviste/i sex worker e dalle ricerche effettuate finora (Bates, Berg, 2014; Berg et al., 2011). In New South Wales chi lavora in strada è il 5% del totale delle/dei sex worker, e si tratta spesso delle persone più vulnerabili, con problemi di tossicodipendenza e senza fissa dimora (Donovan et al., 2012). La criminalizzazione del lavoro di strada, anche se parziale, aumenta la loro marginalizzazione, rendendole oggetto di controlli e retate da parte delle forze dell’ordine e spingendole in aree disabitate e più pericolose. In New South Wales le/i sex worker in strada non riescono ad accedere ai servizi di sostegno, sono più a rischio di contrarre malattie e di subire violenza, e sono poco inclini a rivolgersi alla polizia in caso di bisogno (Berg et al., 2011). La criminalizzazione parziale del gruppo più visibile di sex worker nuoce non solo a chi vi appartiene, ma può essere vista come retaggio dello stigma contro il sex work in generale e come tale contribuisce a mantenerlo. Come vedremo nella sezione successiva, in Nuova Zelanda, dove il lavoro in strada è completamente decriminalizzato, i rapporti con la polizia, l’accesso alla giustizia e alle forme di protezione nonché ai servizi di sostegno e assistenza per questo gruppo sono invece di gran lunga migliorati.
3. La decriminalizzazione del sex work in Nuova Zelanda
20Quando si parla di decriminalizzazione del sex work il modello neozelandese è probabilmente il più famoso e il più citato. La Nuova Zelanda ha decriminalizzato il sex work nel 2003. La sua riforma legislativa è stata fortemente influenzata da anni di attivismo dell’organizzazione di sex worker nazionale: il New Zealand Prostitute Collective (Nzpc; Aroney, 2021). L’Nzpc, fondato nel 1987 da un piccolo gruppo di sex worker, ha avuto un ruolo centrale nella prevenzione dell’Aids negli anni Ottanta e Novanta e fin dal 1988 riceve finanziamenti dal governo per il suo lavoro di prevenzione nel campo della salute sessuale (Healy et al., 2010). L’argomento centrale che ha contribuito al successo del modello promosso dal Nzpc è stato quello della cosiddetta “riduzione del danno”: i parlamentari si convinsero che per proteggere la salute e il benessere delle/i sex worker, visti come popolazione marginalizzata e a rischio, la decriminalizzazione del loro lavoro fosse necessaria (Aroney, 2021). In Nuova Zelanda tutte le modalità di sex work, incluso quello in strada, sono state decriminalizzate nel 2003 (Abel, Fitzgerald, 2012). I distretti locali rilasciano autorizzazioni per locali e business, mentre privati e piccoli bordelli (fino a quattro persone) sono esenti da tali autorizzazioni, cosa che incentiva i collettivi autogestiti e il lavoro indipendente. Il modello neozelandese non si può però considerare come modello di completa decriminalizzazione: passata al momento in cui la tratta aveva assunto un ruolo mediatico esorbitante nei dibattiti sul sex work, la legge che era stata formulata con il supporto dell’Nzpc ha subito all’ultimo momento un cambio importante e problematico. Una clausola (la Section 19) che proibisce a tutte le persone migranti senza permesso di soggiorno permanente di lavorare nell’industria del sesso è stata inserita come misura contro la tratta contrariamente a quanto consigliato dal Nzpc (Bennachie et al., 2021). Il risultato è un paradosso in virtù del quale una gran parte delle/dei sex worker migranti in Nuova Zelanda è ancora criminalizzata.
3.1. I benefici della decriminalizzazione in Nuova Zelanda : il lavoro in strada, la salute e i servizi alla pari
21Innanzitutto, anche in Nuova Zelanda, come abbiamo visto per il New South Wales, l’industria del sesso non è cresciuta in seguito all’entrata in vigore della nuova legge (Abel et al., 2009). I benefici per le/i sex worker incluse/i nella decriminalizzazione sono invece stati ampiamente documentati. Prima di tutto, è aumentata la fiducia nelle forze dell’ordine, così come i casi di efficace ricorso alla giustizia da parte di sex worker che per hanno denunciato mancati pagamenti e abusi di clienti o datori di lavoro/sfruttatori (Abel, Fitzgerald, 2010; Abel et al., 2007). Sex worker donne, uomini e transgender in tutti i settori (ad eccezione delle persone migranti con visti temporanei) sono protetti dalla legge e hanno un elevato accesso ai servizi e alle forme di sostegno esistenti (Ministry of Justice, 2008).
22Anche le/i sex worker più a rischio, ovvero coloro che lavorano in strada, hanno visto grandi miglioramenti nelle loro condizioni di lavoro: non dovendo più temere le retate e i controlli delle forze dell’ordine che interrompevano il lavoro e, di conseguenza, mettevano a rischio i loro guadagni, possono selezionare maggiormente i possibili clienti, evitando quelli sospetti e potenzialmente pericolosi, senza sentire la pressione di dover accettare chiunque pur di guadagnare (Armstrong, 2014). Inoltre, le/i sex worker in strada, non rischiando più di essere arrestate/i per il loro lavoro, hanno più fiducia nel rivolgersi alla polizia se vittime di abusi, il che riduce la possibilità che eventuali aggressori agiscano senza ripercussioni. Infine, la decriminalizzazione ha aumentato l’accesso delle/i sex worker che lavorano in strada a organizzazioni di sostegno alla salute e alla prevenzione (Armstrong, 2016).
23Le ricerche sul sex work in Nuova Zelanda hanno indicato che dopo la decriminalizzazione il lavoro in strada non è diminuito né si è spostato verso il settore al chiuso, ma è rimasto invariato: a lavorare in strada, infatti, sono spesso persone particolarmente fragili (spesso con problemi di tossicodipendenza e povertà), con delle necessità di guadagno immediato che le porta a preferire intenzionalmente il lavoro in strada piuttosto che in un bordello (Abel, Fitzgerald, 2012). Gillian Abel, figura centrale nella ricerca sul sex work in Nuova Zelanda, ha evidenziato come delle trasformazioni strutturali siano necessarie per migliorare l’accesso alle risorse da parte delle classi più povere e marginalizzate, in particolare le/i sex worker in strada (Abel, 2018). La decriminalizzazione del sex work, nel frattempo, è stata, e continua ad essere, un passo fondamentale per salvaguardare i diritti di base e l’incolumità di chi decide o si ritrova a lavorare nell’industria del sesso, in particolare in strada (Abel, Fitzgerald, 2012).
24Dal 2003 le ricerche effettuate in Nuova Zelanda tra le/i sex worker hanno riscontrato come la decriminalizzazione sia stata accompagnata dallo sviluppo e dal consolidamento di strutture e servizi pari per sex worker. Il collettivo nazionale di sex worker Nzpc è cresciuto e ha ora tre sedi su tutto il territorio nazionale: ad Auckland, Christchurch e Wellington, impiega staff bilingue, di diverse provenienze e background, tutti con esperienza di sex work. L’Nzpc è finanziato dal ministero della salute per offrire educazione e supporto in materia di salute sessuale, come ad esempio programmi di screening e visite gratuite (Abel, Healy, 2021).
25Come nello Stato australiano del New South Wales, anche in Nuova Zelanda la salute sessuale delle/i sex worker è molto migliorata. Le ricerche effettuate dal 2003 hanno riscontrato che la maggioranza delle/i sex worker – transgender, uomini e donne – neozelandesi come anche migranti, fanno regolarmente uso di preservativi in tutte le pratiche sessuali e si sottopongono con frequenza a test per Hiv e malattie sessualmente trasmissibili (Abel et al., 2007; Roguski, 2013). La loro salute sessuale e l’accesso alle cure in generale sono migliorati dopo la decriminalizzazione. Le valutazioni dell’impatto della decriminalizzazione hanno trovato che l’Nzpc ha avuto un ruolo fondamentale nel miglioramento della salute delle/dei sex worker e hanno raccomandato al ministero per la salute di continuare a finanziare le loro attività in questo senso (Ministry of Justice, 2008).
26L’Nzpc si occupa non solo di prevenzione e supporto nel campo della salute, ma informa le persone che fanno sex work sulle leggi esistenti, le assiste se sono vittime di abusi o sfruttamento, o in caso di bisogno perché ricevano sostegno finanziario dallo Stato (ad esempio durante la crisi del Covid-19; Mai et al., 2021a). In più, l’Nzpc fornisce formazione alle forze dell’ordine su come meglio comprendere e trattare le questioni legate all’industria del sesso, rispettandone le lavoratrici e i lavoratori, e collabora con il ministero della salute per assicurare che i luoghi di lavoro rispettino misure di sicurezza e di igiene. Il risultato di tale collaborazione è stato valutato recentemente, evidenziando come valorizzare i saperi delle organizzazioni di sex worker abbia permesso alle autorità di favorire migliori condizioni di lavoro garantendo che i bordelli e gli altri locali abbiano una più efficace gestione, più alti standard di igiene, e migliori forme di sicurezza (Abel, Healy, 2021).
3.2. L’esclusione delle/i sex worker migranti
27L’aspetto più problematico del modello neozelandese è l’esclusione delle/i migranti con visto temporaneo dalla decriminalizzazione, ovvero la criminalizzazione di una gran parte delle/i sex worker migranti (Armstrong, 2017). Ad essere criminalizzate non sono solo le persone migranti senza documenti validi (che sono purtroppo escluse da diritti e tutele come in ogni altro campo lavorativo), ma anche chi ha il diritto di lavorare, ma non ha un permesso di residenza permanente (che è il passo precedente alla acquisizione della cittadinanza). Mentre il tasso di migrazione senza documenti è quasi nullo in Nuova Zelanda come in Australia, invece alto è il tasso di chi ha un visto temporaneo: nel 2019 il 60% dei migranti arrivati in Nuova Zelanda aveva un visto temporaneo (Stats NZ – Tatauranga Aotearoa, 2020b). Questo rappresenta un’alta percentuale della popolazione del Paese, se si considera che la popolazione migrante (chi non è nato neozelandese) si avvicina al 30% della popolazione totale (Stats NZ – Tatauranga Aotearoa, 2020a). Questa parte della popolazione viene quindi criminalizzata se lavora in qualsiasi tipo di sex work. Paradossalmente questa misura discriminante è stata introdotta con lo scopo di eliminare la tratta a scopo di sfruttamento sessule – secondo la stessa logica punitiva che cerca di eliminare la prostituzione criminalizzandola. Non sorprende che la situazione per le/i sex worker migranti in Nuova Zelanda non sia migliorata come è invece stato per il resto delle/i sex worker. Anche se la loro salute sessuale è agli stessi livelli di quella delle/dei sex worker residenti e nazionali (presumibilmente grazie al lavoro del Nzpc che offre supporto gratuito a tutte le persone migranti) (Roguski, 2013), varie ricerche hanno evidenziato come le/i sex worker migranti in Nuova Zelanda vivano nella paura di essere scoperte/i e deportate/i (Armstrong et al., 2020; Bennachie et al., 2021). La paura di essere espulse dal Paese rende le persone migranti che fanno sex work spesso vittime di abusi e crimini e le porta a evitare a tutti i costi di rivolgersi alle forze dell’ordine in caso di bisogno. Tra le/gli oltre 50 sex worker migranti intervistate/i dai ricercatori del progetto SexHum in Nuova Zelanda, varie persone hanno riferito di essere stati sfruttate, sottopagate e ricattate da datori di lavoro e clienti, così come di essere state vittime di abusi, incluso violenze fisiche e sessuali, non denunciate alla polizia per paura di essere deportate (Mai et al., 2021b). Una migrante, per esempio, ha rischiato la vita, evitando cure mediche anche se severamente malata, per paura di essere denunciata alla polizia come sex worker se fosse stata ricoverata in ospedale (Bennachie et al., 2021). Mentre non c’è evidenza di tratta tra sex worker migranti in Nuova Zelanda, lo sfruttamento e la vulnerabilità di questa tipologia di sex worker è stata ampiamente documentata. Un’altra sex worker intervistata da SexHum si è sentita forzata e abusata dal dipartimento di immigrazione, che, dopo averla sorpresa a lavorare illegalmente, le ha dato un mese di tempo prima di deportarla, mese in cui si è trovata a dover lavorare senza tregua nel sex work per mettere da parte i soldi necessari per pagare il rimpatrio forzato (Bennachie et al., 2021).
28Anche in Nuova Zelanda il cammino verso l’accettazione e l’inclusione sociale di tutte le persone che fanno sex work è ancora lungo e, nonostante i cambiamenti degli ultimi anni, lo stigma contro di loro è ancora forte (Abel, Fitzgerald, 2010b). La decriminalizzazione viene vista come un primo passo necessario, ma non sufficiente, per cominciare a sradicare secoli di stigma e pregiudizi. Il persistere della discriminazione nei confronti delle persone migranti è figlia dello stigma e contribuisce a tenerlo vivo: le persone migranti con visto temporaneo non posso lavorare nell’industria del sesso (mentre possono fare altri lavori) in base a un pregiudizio che vede il sex work come comunque pericoloso. Contro questa logica Nzpc e ricercatori premono da anni per l’abrogazione di questa parte della legge (Armstrong, 2017; Bennachie et al., 2021).
4. Conclusioni
29L’obiettivo di questo capitolo è stato quello di chiarire il significato, le diverse applicazioni e l’impatto della decriminalizzazione del sex work, riferendosi agli esempi del New South Wales e della Nuova Zelanda, i soli due luoghi al mondo dove da decenni vige tale regolamento del cosiddetto lavoro più antico del mondo: un lavoro, appunto.
30Prima di tutto è importante sottolineare che le ricerche effettuate in New South Wales e in Nuova Zelanda concordano sul fatto che il numero di sex worker e di clienti non sia aumentato in seguito alla decriminalizzazione del sex work (Abel et al., 2009; Rissel et al., 2017), indicando quindi che tale riforma non porta necessariamente a un boom dell’industria del sesso, come spesso sostenuto da chi vi si oppone e ritiene che tutte le forme di sex work siano violente, immorali e deleterie alle donne e alla società (Ward, Wylie, 2017).
31Nei due Stati dell’Oceania la decriminalizzazione è stata raggiunta dopo anni di lotte da parte di chi si basa sull’esperienza diretta per comprendere come meglio proteggere il benessere, la salute e i diritti di chi lavora vendendo sesso: i collettivi e le organizzazioni di sex worker (Aroney, 2021; Aroney, Crofts, 2019). A seguito della decriminalizzazione, sia in New South Wales che in Nuova Zelanda, la salute, le condizioni di lavoro e l’accesso a protezione e giustizia per le/i sex worker sono di gran lunga migliorati (Abel et al., 2007; Donovan et al., 2012). Le organizzazioni di sex worker sono riconosciute come esperte, vengono consultate e finanziate per gestire programmi di prevenzione e di supporto, attraverso la metodologia del lavoro pari e impiegando quindi personale con (diverse) esperienze dirette di sex work, e con vari tipi di background.
32Le forze dell’ordine non sono più in una posizione di controllori dell’industria del sesso, ma invece ricevono formazione dalle organizzazioni di sex worker per migliorare la loro comprensione del sex work e rispettare le persone che fanno questo lavoro, che, a loro volta, si sentono più sicure nel denunciare abusi e crimini, poiché non sono loro stesse criminalizzate o discriminate per il loro lavoro. Questi elementi, insieme alla possibilità di lavorare insieme ad altre/i sex worker senza essere accusate di favoreggiamento, hanno migliorato radicalmente le condizioni di lavoro. Un aspetto ulteriore e fondamentale è che, dove il sex work è decriminalizzato, le/i sex worker che vogliano cambiare vita e lavoro non devono temere che fedine penali sporche limitino le loro possibilità lavorative (mentre ad esempio, in molti Paesi, questo impedisce a chi ha fatto sex work di lavorare con bambini e bambine).
33In entrambi i Paesi le organizzazioni di sex worker continuano a rivendicare inclusione e miglioramenti delle leggi esistenti e si battono ulteriormente contro stigma e discriminazione. Infatti, anche se le condizioni di vita e lavoro sono molto migliorate, lo stigma contro le sex worker, una delle cause principali di violenza, discriminazione, isolamento e problemi di salute mentale tra le/i sex worker, è ancora presente dopo anni di decriminalizzazione (Abel, Fitzgerald, 2010b; Stardust et al., 2021). Secoli di pregiudizi religiosi e patriarcali necessitano di molto lavoro per essere combattuti. La decriminalizzazione del sex work è per questo da vedersi come un primo passo in un processo che deve essere accompagnato da un impegno costante a sostenere l’accettazione sociale di tutte le persone che fanno sex work. Le evidenze di ricerca raccolte in più di un decennio nei due Stati dell’Oceania indicano come la decriminalizzazione completa del sex work sia la strada maestra per combattere lo stigma contro chi ci lavora, e che invece criminalizzare il sex work in qualsiasi forma, inclusa la criminalizzazione dei clienti, contribuisca a mandare un chiaro messaggio negativo che rafforza pregiudizi e stigma.
34Purtroppo, i modelli del New South Wales e della Nuova Zelanda non sono ancora da considerarsi come esempi di decriminalizzazione completa. Infatti, in New South Wales (come peraltro, nel caso dello Stato di Victoria) le persone che lavorano in strada sono ancora parzialmente criminalizzate, mentre la Nuova Zelanda criminalizza tutte le persone migranti che, pur avendo un permesso di lavoro, non hanno un permesso di soggiorno permanente. L’esclusione di gruppi particolarmente svantaggiati dalla decriminalizzazione non solo li rende più vulnerabili, ma continua a mandare un messaggio negativo sul sex work, limitando il potenziale della decriminalizzazione nel combattere lo stigma contro tutte/i le/i sex worker. Il New South Wales, infatti, discrimina una parte del sex work sulla base di giudizi morali contro il lavoro in strada, mentre la Nuova Zelanda discrimina le/i sex worker migranti, sulla base dell’assunto che, in quanto migranti, siano vittime di tratta, ma in realtà deportando persone che lavorano per decisione e bisogno.
35Il processo di decriminalizzazione del New South Wales e della Nuova Zelanda non può ancora considerarsi concluso, almeno finché coloro che lavorano in strada e le persone migranti senza permesso di soggiorno permanente siano ancora a rischio di essere perseguiti. Le organizzazioni di sex worker locali e globali hanno una posizione molto chiara in merito: affinché il modello di policy sia efficace nessun/a sex worker può essere esclusa/o a priori dalla decriminalizzazione (Gregoir, 2019). I benefici dell’inclusione sono dimostrati dalla ricerca: in New South Wales le/i sex worker migranti godono di quelle che possono essere considerate le migliori condizioni di lavoro e accesso alla salute al mondo, così come le/i sex worker che lavorano in strada in Nuova Zelanda. L’esperienza del New South Wales e della Nuova Zelanda, quindi, ci presentano delle evidenze concrete di come la decriminalizzazione del lavoro sessuale sia attualmente il modello per regolare l’industria del sesso più efficace nel salvaguardare il benessere delle/i sex worker. Grazie alla cruciale collaborazione con le organizzazioni di sex worker nell’elaborare le loro leggi sul lavoro sessuale, questi due Stati hanno raggiunto – seppur con dei margini di miglioramento – livelli di salute, accesso a diritti e benessere invidiabili rispetto a qualsiasi altro contesto.
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Auteur
È attualmente ricercatrice presso il Centro di ricerca australiano su sessualità, salute e società dell’Università La Trobe di Melbourne. Il suo lavoro di ricerca si focalizza principalmente sul mutamento sociale, il lavoro sessuale, le migrazioni, e la salute e il benessere delle persone Lgbtiq+. È attualmente la coordinatrice di una ricerca pilota sulla salute e il benessere delle lavoratrici del sesso dello Stato di Vittoria
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