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Sostenere le persone che si prostituiscono: l’approccio di un centro antiviolenza

p. 121-136

Remerciements

Il capitolo è frutto del lavoro collettivo e condiviso di Chiara Arena Chartroux, Valeria Ruggeri e l’equipe del progetto “Oltre la strada”.


Texte intégral

Introduzione

La realtà è che qualsiasi scelta viene fatta in presenza di un numero limitato di alternative. Questa è una buona ragione per aumentare le scelte a disposizione delle donne e non un argomento per sottrarre loro la possibilità di scegliere
(McElroy 2002, p. 36)

1La nostra esperienza, raccolta nelle pagine che seguono, procede dalla realtà in cui quotidianamente operiamo: un centro antiviolenza con alle spalle un bagaglio di politica e di pratiche che affondano le radici nel movimento dell’Unione Donne in Italia dei primi anni Ottanta. A oggi il Centro Donna Giustizia APS1 è uno dei pochi centri antiviolenza in Italia al cui interno convivono progettualità differenti destinate prevalentemente a donne che hanno subito violenza nelle relazioni di intimità e intra familiari, tratta a scopo di grave sfruttamento sessuale e lavorativo, e a sex worker. In particolare, il progetto “Luna Blu” gestisce un’unità di strada per persone che lavorano in strada e un progetto di supporto per persone che lavorano al chiuso, mentre il progetto “Oltre la strada” offre supporto alle vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale e/o grave sfruttamento lavorativo.

2I princìpi alla base del nostro operare quotidiano sono quelli propri dei centri antiviolenza: la relazione tra donne alla base della metodologia di lavoro, la lettura della violenza esperita come un fatto politico condiviso – al di là della singola esperienza individuale –, la risposta alla violenza tramite percorsi di fuoriuscita basati sull’autodeterminazione e non sull’essere vittima. La metodologia si fonda inoltre sul credere alle donne, consapevoli che proprio il vissuto di violenza può condizionarne il racconto, e sulla creazione di uno spazio sicuro attraverso anonimato e riservatezza.

3Nel tempo questi princìpi hanno assunto una declinazione peculiare determinata dall’esperienza di lavoro con persone che portano necessità e vissuti differenti dall’utenza abituale di un centro anti-violenza: il contatto con donne migranti, persone trans e sex worker ha reso possibile una pratica di contrasto alla violenza in tutte le sue forme e declinazioni, una pratica di difesa di una cultura di genere che si allontana intenzionalmente da dinamiche di vittimizzazione per promuovere libertà di scelta e autonomia, nelle donne cisgender, tanto quanto nelle donne e nelle persone trans.

4Queste esperienze hanno inciso profondamente anche sul nostro posizionamento politico su temi “caldi” che negli anni hanno provocato fratture all’interno del movimento femminista nazionale e internazionale, come la prostituzione e il lavoro sessuale. È dal contatto diretto con le donne accolte in tutti questi anni che emergono le riflessioni che seguono e da cui scaturisce una costante messa in discussione del nostro lavoro, sollecitata dal portato dei diversi e complessi vissuti che loro stesse ci restituiscono. In questo capitolo cercheremo di delineare i presupposti teorici, politici e operativi del nostro lavoro sociale con donne e persone trans che si prostituiscono, nonché con donne e persone trans vittime di tratta. Nel primo paragrafo descriveremo la cornice di senso entro cui si opera per la promozione del diritto alla salute e all’inclusione sociale delle e dei sex worker, in particolare migranti. Il secondo e il terzo paragrafo, invece, approfondiscono il funzionamento dei progetti di unità di strada e di supporto alle vittime di tratta evidenziando le risorse e i nodi critici del lavoro sociale in questo ambito.

1. La tutela della salute per l’autonomia delle sex worker

5La violenza strutturale, dimensione propria di dinamiche sociali che caratterizzano l’attuale condizione della società che abitiamo, si colloca alla base delle disuguaglianze che la caratterizzano e che sono all’origine di quella che Arthur Kleinmann definisce “sofferenza sociale” (Kleinman et al. 1997). Una violenza insita nelle pratiche e nei pensieri: è fisica, verbale e psicologica e finisce col negare alla persona la capacità di scegliere e agire.

6Il mondo abitato da chi lavora nel mercato del sesso è fortemente connotato da queste forme di violenza che contribuiscono a delineare un duplice profilo in cui si è o vittima o deviante. Le sex worker sono state storicamente confinate ai margini della società in quanto prostitute, in quanto donne, in quanto persone trans e oggi, ancor di più, in quanto migranti. Esse rappresentano la sintesi di un panorama sociale in cui il corpo diviene luogo del pubblico giudizio, spazio in cui si iscrivono le discriminazioni e si traducono diseguaglianze. Il corpo migrante, il corpo sessualizzato, il corpo esibito, il corpo deviante. Corpo che però – è bene ricordare – nella dimensione attuale della biopolitica può divenire anche strumento di rivendicazione di diritti e di possibilità.

7Lo stigma che permea la realtà della prostituzione contribuisce a fossilizzare le identità personali all’interno di immagini standardizzate, cucendo addosso alle persone un’etichetta che racchiude in sé una condizione dissonante. Si rischia di cadere in un trappola: il punto di vista individuale diviene secondario, non è più la persona a essere al centro, ma un sistema strutturato in cui il linguaggio della sofferenza si impone come unico strumento di definizione per tutti coloro che si trovano ai margini. Esuli forzati da un sistema che utilizza un ethos compassionevole (Fassin 2013) per la categorizzazione delle identità al fine di individuare chi escludere e chi includere. È bene considerare però che risolvere la sofferenza senza interrogarsi sulla natura delle cause da cui origina e senza considerare la dimensione soggettiva del dolore rischia solo di aggravare le condizioni di marginalità sociale. Questo è particolarmente vero per chi vive di lavoro sessuale. L’emarginazione sociale – costruita anche attraverso un linguaggio mediatico vittimizzante – espone sex worker e persone migranti a enormi rischi, a partire dall’ambito della salute.

8Per quanto riguarda l’accesso alle cure e alla salute, nel nostro lavoro ci rifacciamo all’approccio delle organizzazioni internazionali, che inquadrano in particolare la salute sessuale riproduttiva come un diritto collocato all’interno di altri diritti (come l’istruzione, il lavoro, la partecipazione sociale e politica) e che funge da premessa a una più piena ed equa partecipazione degli individui alla società. In questa ottica l’agenda dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha inserito tra gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030 il superamento della discriminazione in ambito sanitario affinché “nessuno sia lasciato indietro”. È un segnale istituzionale forte e necessario poiché riporta l’attenzione della comunità globale su un tema troppo a lungo taciuto, con esiti di inestimabile gravità dal punto di vista della tutela dei diritti inalienabili e per quanto riguarda il benessere della collettività. La discriminazione all’interno del sistema sanitario nazionale e internazionale si traduce nell’impossibilità di accedere ad alcuni servizi, in un trattamento che va a ledere i princìpi di dignità e autonomia dell’individuo, in abusi fisici e/o verbali, in trattamenti coatti così come in una mancata comunicazione efficace che consenta la comprensione da parte del paziente.

9Nel documento dell’Oms viene proposto un sostegno agli Stati volto a favorire l’adozione di garanzie contro la discriminazione attraverso la revisione, il potenziamento e l’implementazione di strumenti giuridici. Tra questi è esplicito l’invito a revisionare e mettere in discussione le politiche punitive con particolare attenzione alla criminalizzazione dell’espressione di genere, alla criminalizzazione dei comportamenti sessuali tra adulti consenzienti, della prostituzione di persone maggiorenni e consenzienti, e alla non diffusione di informazioni su Hiv e altre patologie a carattere fortemente stigmatizzante.

10Sulla scia di queste linee guida, che troviamo particolarmente chiare e specifiche, è necessario sviluppare una riflessione. All’interno di questi processi di rimodulazione e implementazione delle politiche nazionali sulla salute troviamo che il nostro ruolo sia anche quello di promuovere una partecipazione diretta degli attori sociali interessati, affermando il loro diritto a esprimersi con l’ulteriore obiettivo di scardinare l’immagine vittimizzata e stigmatizzata che spesso se ne ha.

11Le persone che esercitano sex work rappresentano una parte della popolazione che quotidianamente deve confrontarsi con numerosi problemi correlati in gran parte alla stigmatizzazione che le circonda. Una condizione aggravata da complessi percorsi di regolarizzazione dello status migratorio e difficoltà di iscrizione al sistema sanitario nazionale per chi non ha diritto alla cittadinanza italiana né a un titolo di soggiorno tutelante. Attualmente l’accesso al sistema sanitario nazionale è garantito a titolo gratuito a tutte le persone che hanno cittadinanza italiana con residenza, ai cittadini comunitari qualora in possesso di una tessera Team2, e ai titolari di un permesso di soggiorno per asilo politico o protezione umanitaria. Negli altri casi per l’iscrizione gratuita viene richiesto un contratto di lavoro. Cosa accade a tutti coloro che non rientrano nelle casistiche sopra elencate? Nel caso di cittadini extracomunitari indigenti è possibile emettere una tessera temporanea gratuita (il cosiddetto codice Stp) che dà accesso alle cure urgenti, ma da cui restano escluse tutte le terapie o le prestazioni il cui differimento non ha effetti sulla sopravvivenza della persona. Nel caso di cittadini comunitari, è possibile richiedere una tessera temporanea gratuita (il cosiddetto codice Eni) per coloro che non siano in possesso della tessera Team, non abbiano una residenza in Italia e che versino in condizione di indigenza. I cittadini comunitari con residenza in Italia ma senza contratto di lavoro possono altresì iscriversi al ssn pagando una quota pari a circa 400 euro all’anno che dà loro accesso a tutte le prestazioni. Esistono poi casistiche particolari che includono donne in stato di gravidanza, studenti o persone con titoli di soggiorno per motivi di salute. Una situazione decisamente complessa a cui si somma una certa resistenza da parte di alcune Aziende Sanitarie Locali nell’attuare disposizioni sanitarie in questo campo, e in particolare nel riconoscere ed emettere codici Stp ed Eni.

12Inoltre, le persone migranti con le quali ci interfacciamo vivono nel timore di essere allontanate dal territorio italiano o di subire ripercussioni istituzionali per motivi tra i più disparati. Tra questi rientra la possibilità di essere denunciate come migranti irregolari in caso di accesso alle strutture ospedaliere. Spesso alla base di questi timori non ci sono ragioni fondate, ma un’informazione parziale o sommaria da parte delle autorità competenti e degli sportelli che operano sul territorio o un passaparola fra persone migranti che comprensibilmente interpretano pratiche e norme in modo confuso. Il discorso si complica se le persone migranti fanno lavoro sessuale, che è fortemente stigmatizzato e per molti trattato come se fosse un’attività illegale.

13Questa condizione determina l’impossibilità di costruire percorsi di prevenzione che includano quei soggetti potenzialmente esposti a rischi più elevati e che, non di rado, si trovano a dover attingere a competenze e pratiche di autocura che possono portare a una cronicizzazione o all’aggravarsi delle patologie. Nel nostro lavoro incontriamo non di rado donne che ricorrono a metodi abortivi “fai da te” per evitare le difficoltà di accesso al servizio sanitario nazionale e al tempo stesso per accelerare i tempi dell’iter ospedaliero, spesso troppo lunghi per chi come queste donne deve tornare a fare lavoro sessuale – sia che lavori in modo autonomo che, a maggior ragione, se è in situazione di sfruttamento. In particolare, donne provenienti dalla Nigeria o altre parti dell’Africa centro-occidentale usano farmaci quali Cytotec, spesso accompagnati da alcool, che comportano però rischi per la salute importanti, tra cui emorragie interne.

14Un altro esempio chiave è quello del trattamento di patologie ai denti. In particolare, tra le donne di origine rumena le cure dentistiche vengono rimandate a causa del loro costo proibitivo e, non sempre riconosciute come essenziali. Le donne si trovano così non di rado con infezioni molto gravi, che possono portare anche alla perdita del dente, spesso accompagnate all’abuso di alcool come antidolorifico. Esistono localmente sportelli di pronto soccorso odontoiatrico che sono accessibili tramite presentazione del modello Isee. Purtroppo, tale documento non è facilmente ottenibile da chi non ha residenza e/o vive in abitazioni senza alcun contratto di affitto regolarmente registrato. La questione abitativa è in effetti centrale anche nel campo della salute più in generale. Infatti, le persone migranti che non hanno un contratto di lavoro o una residenza, come sono in molti casi le sex worker, si trovano spesso a dover affittare locali in condizioni pessime, in nero, e a prezzi estremamente alti, come unica possibilità a causa delle continue discriminazioni che le relegano nell’economia illegale.

15A questi fattori si sommano ulteriori elementi che rendono difficile l’accesso ai servizi, in particolare la difficoltà linguistico-culturale che ostacola la comprensione dei percorsi di cura proposti. Un’informazione inaccessibile o incomprensibile non fa che generare dubbi in chi non sempre ha la possibilità di accedere alle risposte. Il dubbio spesso si traduce in una spiccata mancanza di fiducia verso un sistema di cura che può essere ben distante da modelli conosciuti. Esiste infatti anche una difficoltà a riconoscere la validità di sistemi di cura diversi da quello allopatico occidentale. Non va sottovalutata la complessa condizione delle e dei migranti che si trovano a dover conoscere e apprendere modelli di cura con i quali potrebbero non essersi mai confrontate/i prima e che sono dati per scontati dalla maggior parte della popolazione.

16Infine, abbiamo riscontrato una scarsa capacità degli operatori sanitari – in particolare degli ambulatori ginecologici – a relazionarsi con le persone che esercitano la prostituzione senza stereotipi e pregiudizi che, nei fatti, limitano la loro capacità di accedere a cure adeguate. Accade, ad esempio, che persone che esercitano sex work si trovino di fronte a operatori sanitari che, noncuranti della reale condizione di vita in cui si trovano (sorvoliamo in questo frangente la questione della libera scelta), le invitano a non avere rapporti sessuali con partner diversi. È chiaro che un tale comportamento non solamente è del tutto inefficace, ma non svolge neppure un’azione di prevenzione poiché effettivamente inattuabile per la paziente, in netto contrasto con i princìpi fondativi del sistema sanitario nazionale italiano3.

17È necessario, quindi, pensare ai modi in cui la vulnerabilità di chi vende prestazioni sessuali sia socialmente prodotta attraverso dinamiche che ostacolano la fruizione dei servizi e il riconoscimento della validità dei propri strumenti. Detto in altri termini può non essere tanto il fatto di vendere servizi sessuali in sé a rendere le donne e le persone trans vulnerabili, ma i modelli e gli stereotipi dominanti che rendono difficile non solamente l’accesso ai servizi, ma la percezione soggettiva stessa di avere il diritto a ottenere le cure di cui si abbisogna. In questo senso per ridurre le vulnerabilità occorre anche a nostro parere attuare interventi volti a contrastare il discorso pubblico che ragiona in termini di immagini stereotipate e riconduce l’infinita varietà di persone che lavorano all’interno del mercato del sesso all’etichetta di “prostituta”. Il dissolvimento dell’individualità all’interno della rappresentazione standardizzata rischia infatti di inficiare la possibilità del singolo di riconoscersi la capacità di scegliere e di agire, mettendo in atto così un processo di auto-delegittimazione che può arrivare anche alla scelta di non prendere in considerazione le strade di cura.

18Le persone che versano in condizioni di particolare vulnerabilità sociale, come chi vive di lavoro sessuale, si trovano spesso a doversi confrontare con un processo di “validazione” della propria esperienza di sofferenza e malattia che può arrivare addirittura ad essere intesa come una conseguenza necessaria delle scelte di vita personali. Detto in altri termini alcune sex worker giungono a pensare che vendere servizi sessuali sia la causa “legittima” dei propri problemi di salute e al tempo stesso renda illegittimo l’accesso ai percorsi di cura.

19A fronte di questo scenario, il rischio è quello di veder fallire un’attività efficace di tutela della salute e di promozione di una “buona vita”, che vada oltre la mera sopravvivenza delle persone che vivono di lavoro sessuale. E questo a discapito non solo delle e dei sex worker, ma a cascata, dell’intera comunità. Non bisogna dimenticare infatti, che una comunità globalmente più sana è figlia di pratiche di prevenzione efficaci con esiti rilevati anche in termini meramente economici. Una persona affetta da Hiv o da altra patologia cronica rappresenta un costo esponenzialmente più elevato rispetto a tutti i programmi di prevenzione che possano essere finanziati da una buona politica. Il target delle e dei sex worker, dunque, ha delle caratteristiche peculiari che vanno prese in considerazione nel processo di elaborazione di una risposta efficace ai loro bisogni sanitari. Ciò non significa necessariamente progettare servizi ad hoc o ideare percorsi preferenziali che potrebbero correre il rischio di rafforzare forme di ghettizzazione. A nostro parere si tratta invece di creare degli spazi nei servizi capaci di accogliere la voce di chi lavora nel mercato del sesso e sviluppare risposte efficaci ai loro bisogni, a beneficio non solo del singolo individuo, ma dell’intera comunità in cui abita.

2. “Luna Blu”: storia, approccio e obiettivi del lavoro di prossimità

20Così come nelle maggiori città italiane, la prostituzione a Ferrara esiste da molti anni; chi è stato a Ferrara da turista avrà sicuramente passeggiato per via delle Volte, suggestiva via medievale collocata in pieno centro storico abitata da bordelli come ricordato da Giorgio Bassani nel Giardino dei Finzi Contini. In quegli anni le prostitute erano per lo più donne italiane e la prostituzione, esercitata nei centri delle città, ricopriva un ruolo sociale in qualche modo rispettato. Dagli anni Novanta in strada hanno iniziato ad essere presenti prevalentemente prostitute provenienti dall’estero, inizialmente dall’Albania, dalla Romania e dall’Africa subsahariana. Nella maggior parte dei casi si trattava di donne entrate illegalmente in Italia tramite rotte gestite dalla criminalità organizzata, molte delle quali sprovviste di documenti o in possesso di solo passaporto o visto turistico che non garantivano loro nessun tipo di tutela.

21A fronte di tale cambiamento, nel 2001 un gruppo di colleghe operatrici lungimiranti iniziarono a volgere lo sguardo e l’interesse verso questo mondo della prostituzione ancora poco conosciuto, e ciò anche grazie alla relazione costruita con le sex worker che avevano iniziato a rivolgersi agli spazi femministi per cercare risposte a situazioni di disagio o vulnerabilità, e per chiedere sostegno contro politiche abolizioniste che combattevano la prostituzione a colpi di “fogli di via”. L’incontro con queste sex worker permise di iniziare ad approfondire il mondo della prostituzione e costituì il motore per l’avvio di una sperimentazione avente come obiettivo la costruzione di un’unità di strada, sul modello delle prime unità di contatto che stavano sorgendo in Italia. Gli indicatori di efficacia degli interventi condotti, uniti a una forte consapevolezza dell’importanza di questi interventi da un punto di vista femminista, hanno fatto sì che la sperimentazione negli anni si consolidasse in un’azione di sistema, grazie anche al suo inserimento all’interno del progetto “Oltre la strada” della Regione Emilia-Romagna.

22“Luna Blu” ha come obiettivi primari la prevenzione sanitaria e la riduzione del danno. In realtà a nostro avviso l’espressione riduzione del danno, proveniente dall’ambito degli interventi con le persone tossicodipendenti, non è adatta al mondo della prostituzione, che di per sé non ha nulla di dannoso. Essendo il Centro Donna Giustizia un centro antiviolenza – e quindi da Statuto composto esclusivamente da donne – anche l’unità di strada conta sulla presenza di sole operatrici, con percorsi formativi diversi ma complementari.

23I nostri interventi sono riconosciuti ufficialmente come “sanitari” dalla Regione Emilia-Romagna, che già dal 1996 investe risorse in progetti come il nostro presenti su tutto il territorio regionale4 e inseriti all’interno del Prp (Piano Regionale di Prevenzione)5. Il modello emiliano-romagnolo, che consente di replicare lo stesso progetto su tutte le province, si basa su due organismi che si riuniscono regolarmente: il tavolo tecnico istituzionale di indirizzo politico e il tavolo operatori/trici, entrambi a coordinamento regionale. Gli obiettivi del progetto e le azioni d’intervento vengono condivisi a livello regionale e declinati sui singoli territori sulla base delle caratteristiche specifiche del contesto socio-sanitario locale.

24Per poter mettere in pratica i servizi che offriamo alle sex worker nella nostra città – e in maniera indiretta all’intera comunità – è fondamentale il lavoro di rete che il Centro Donna Giustizia ha condotto negli anni. In particolare, i protocolli attivi con l’Azienda Usl e l’Azienda Ospedaliera consentono di poter offrire alle persone contattate – in maniera totalmente gratuita – l’accesso facilitato al Consultorio Salute Donna, all’ambulatorio di igiene pubblica per le vaccinazioni (Hpv, epatite B) e al reparto di malattie infettive per l’esecuzione degli esami Mts (Hiv, epatite A e B, sifilide), così come il rilascio di Eni e Stp per sex worker migranti prive di regolare documentazione di soggiorno. Come abbiamo visto, la possibilità di iscrizione al Servizio Sanitario, indipendentemente dal carattere di urgenza e indifferibilità come previsto dalla norma, consente il pieno riconoscimento del diritto alla salute. Inoltre, da diversi anni è attiva una proficua collaborazione con l’ambulatorio medico/ginecologico/pediatrico della Caritas di Ferrara che attraverso un numero cospicuo di personale medico volontario opera a favore delle persone indigenti, italiane e straniere, che non possono usufruire di nessun’altra possibilità assistenziale.

25La conoscenza delle sex worker avviene attraverso due modalità: visiva, a mezzo di uscite notturne lungo le vie della città in cui le persone si prostituiscono, e telefonica, nell’ambito del progetto InVisibile destinato alle persone che esercitano prostituzione al chiuso. L’aggancio, sia esso di persona o tramite telefono, si fonda su uno dei princìpi cardine dei Centri antiviolenza: la sospensione del giudizio. In strada tale principio viene attuato attraverso la distribuzione del condom, biglietto da visita delle unità di contatto, che sottintende il messaggio “tieni, ti do un tuo strumento di lavoro”. Per telefono è l’incipit della chiamata che non lascia spazio a fraintendimenti: “Ciao, ho visto da bakecaincontri che lavori come sex worker, posso disturbarti 5 minuti o sei impegnata?”.

26L’approccio laico e scevro da moralismo, fondativo del progetto “Luna Blu”, insieme alla natura sanitaria degli obiettivi, ci hanno consentito in questi 20 anni di attività di ottenere risultati eccellenti per quanto riguarda il numero delle lavoratrici del sesso raggiunte e la qualità delle relazioni costruite. In media sono 60 le sex worker che annualmente accedono al nostro servizio; nel caso di chi esercita in strada, si tratta di persone più stanziali con le quali intrecciamo relazioni durature nel tempo, mentre per chi lavora nell’indoor, in particolare in appartamenti e centri di massaggio cinesi, il turn over, ovvero lo spostamento continuo di città in città per cercare un mercato più favorevole, fa sì che i rapporti siano tendenzialmente più frammentari. La tabella che segue mostra il numero di accessi al drop-in, cioè il servizio a bassa soglia che è uno spazio informale di incontro e ascolto dei bisogni, e il numero degli accompagnamenti ai servizi sanitari condotti negli ultimi quattro anni. Il calo di accessi e di accompagnamenti del 2020 è giustificato dall’inizio dell’emergenza pandemica che ha determinato la chiusura di molti servizi territoriali o la possibilità di accedervi solo in situazioni di urgenza.

Tabella 1

2017

2018

2019

2020

drop in

78

71

93

90

accompagnamenti

169

184

208

94

27Dal punto di vista delle provenienze, nel ferrarese in strada esercitano prevalentemente donne cis di nazionalità rumena e albanese e donne trans di provenienza sudamericana, mentre è quasi scomparso negli ultimi anni il fenomeno della prostituzione nigeriana. Al chiuso vi è prevalenza di donne cis e trans sudamericane, donne cinesi e italiane, tutte di età più adulta rispetto a quella delle colleghe dei Paesi dell’Est. In generale, le donne cis rumene, albanesi, nigeriane e cinesi hanno un basso grado di scolarizzazione, mentre le donne cis e trans provenienti dai Paesi del Sud-America, così come le donne italiane, hanno maggiori risorse e strumenti.

28ll progetto “Luna Blu” è in rete anche con altri servizi che non sono di carattere sanitario, in primis con gli altri progetti del Centro Donna Giustizia: “Oltre la strada” per l’emersione da forme coatte di prostituzione e altre forme di grave sfruttamento lavorativo, e “Uscire dalla violenza” al quale vengono indirizzate sex worker che subiscono forme di violenza intra familiare e all’interno delle relazioni d’intimità. Nel caso di richieste che esulano dalla competenza del centro antiviolenza, il progetto svolge una funzione di orientamento ai servizi territoriali sulla base delle richieste e dei bisogni che emergono. Se una persona che seguiamo lo richiede, può essere offerto quello che si chiama accompagnamento, o affiancamento ai servizi del territorio da parte di un’operatrice. Questa pratica ricopre funzioni molteplici: mostrare la collocazione urbana dei servizi e la modalità per accedervi; rafforzare la relazione di fiducia con le sex worker poiché i viaggi e le attese consentono di mettersi in relazione con la persona; mediare tra la persona e l’operatore/operatrice del servizio a cui si rivolge, e sostenerla per quanto riguarda le barriere linguistiche e la complessità delle procedure; sostenere la persona accompagnata che, avendo un vissuto di interiorizzazione dello stigma, può avere un approccio “timido” nell’esposizione delle sue richieste. Se la pratica di affiancamento, lo riconosciamo, contiene il rischio di alimentare lo stigma nei confronti della persona che viene accompagnata, lavoriamo affinché la nostra presenza possa invece fungere da volano per le sex worker affinché possano rendersi autonome nei loro percorsi, sulla base dei tempi che sono propri di ciascuna e che dipendono da indole personale, condizioni socio-culturali, e dall’atteggiamento accogliente e non respingente dei servizi. Il raggiungimento dell’autonomia, infatti, è un obiettivo primario per tutti i progetti del Centro Donna Giustizia che mettono al centro le donne e i loro percorsi di empowerment.

29Infine, un principio cardine del lavoro delle operatrici del progetto “Luna Blu” è il riconoscimento che attraverso il lavoro sessuale le persone possano acquisire strumenti e competenze spendibili in altri ambiti professionali. Ci capita sempre più spesso di accogliere richieste di sostegno alla stesura di curriculum vitae, finalizzata alla ricerca di lavori supplementari – soprattutto negli ultimi anni, da quando la prostituzione è diventata meno redditizia. È un percorso difficilissimo per chi, molto spesso, ha poche esperienze nel mondo del lavoro mainstream, ma ancora di più per coloro che hanno fatto della prostituzione la loro unica fonte di sostentamento. Oltre alla difficoltà di vedersi ricollocate se non nei ruoli di cura in cui spesso ricadono le donne migranti, c’è quella di mettere per iscritto le competenze lavorative e personali che possano sostenere la candidatura. L’abilità di contrattare una prestazione, la dimestichezza con i corpi, le doti relazionali, gli strumenti di autodifesa, la capacità di riconoscere l’indole delle persone da linguaggi verbali e non, sono tutte competenze che le sex worker hanno ma che nella maggior parte dei casi faticano a riconoscere: «Nella struttura anziani in cui lavoro ho avuto ottimi riscontri da parte dei miei responsabili, è un lavoro che mi piace e al contrario di alcune colleghe non ho problemi a maneggiare e accudire corpi segnati dall’età e dalla malattia, l’ho fatto per una vita in strada», ci ha raccontato T., cinquantenne, parlando della sua nuova esperienza come operatrice socio sanitaria.

30Oltre che alle sex worker, il progetto “Luna Blu” si rivolge anche a destinatari per così dire indiretti, quali negozianti, titolari di aziende e cittadini che con le sex worker condividono luoghi di esercizio e/o di consumo. Le trasformazioni urbane e il governo delle autorità locali hanno determinato nel corso degli anni il cosiddetto effetto sprawl, ovvero uno spostamento della prostituzione di strada verso aree decentrate delle città allontanandola dalle zone abitate (Maluccelli 2014).

31In alcuni casi a Ferrara ci sono stati interventi ai quali abbiamo preso parte, affinché nelle zone maggiormente interessate dalla prostituzione, si sviluppassero forme di mediazione sociale tra sex worker, abitanti e commercianti, in concerto con l’amministrazione comunale. Tendenzialmente, le segnalazioni pervenute dalla cittadinanza hanno riguardato criticità legate alla pulizia degli spazi occupati dalle prostitute e ai rumori di adescamento dei clienti; nel primo caso si è lavorato al fine di potenziare la presenza di cestini sul suolo pubblico per facilitare una maggiore pulizia, nel secondo si è cercato di far comprendere il vantaggio per entrambe le parti di una convivenza non conflittuale.

32È interessante notare che, contrariamente a quanto sostenuto da alcune politiche che hanno fondato sulla sicurezza e il decoro la loro lotta alla prostituzione, non è essa a destabilizzare i quartieri in cui esiste, a renderli degradati o meno sicuri. Per esempio, nel 2018 la nostra equipe, su mandato dell’amministrazione comunale, è stata promotrice di un progetto di mediazione sociale che aveva come azione principale il monitoraggio del fenomeno prostitutivo nella zona Gad di Ferrara – quartiere antistante la stazione ferroviaria ad alta fragilità sociale – al fine di poter progettare interventi finalizzati a sanare criticità inerenti al nostro campo d’azione. Il primo intervento ha riguardato gli spazi di esercizio e consumo; dal materiale fotografico raccolto avevamo rilevato in alcuni siti un’eccessiva presenza di preservativi usati, abbandonati lungo vie di passaggio. Dal dialogo con le sex worker abbiamo compreso come la causa principale di quella sporcizia fosse la mancanza di pattumiere nelle vicinanze; è stata quindi sufficiente una segnalazione ai nostri referenti comunali per risolvere il problema. Il secondo intervento ha visti protagonisti gli esercenti commerciali e gli impiegati degli uffici presenti nella medesima zona ai quali è stato somministrato un questionario finalizzato a comprendere quanto la prostituzione impattasse sul quartiere e sui contesti lavorativi. Al netto delle narrazioni dominanti sul degrado è interessante sottolineare che dalla quasi totalità degli intervistati, non è emersa un’avversione nei confronti delle sex worker, ma piuttosto del contesto nel quale esercitavano, percepito come “abbandonato” dalle istituzioni. La convivenza risultava possibile e non conflittuale se rispettati requisiti minimi quali la pulizia degli spazi e modalità di adescamento “misurate”. Il progetto, è bene ricordarlo, nasceva esattamente un anno dopo l’approvazione del nuovo Regolamento di Polizia Urbana con il quale l’amministrazione di allora aveva tentato di intervenire sul fenomeno prostitutivo tramite una politica repressiva.

33Talvolta ci è capitato di dover intervenire nelle politiche dell’amministrazione locale. Per esempio, nel 2017, l’amministrazione ha tentato di far approvare un Regolamento di Polizia Urbana con tratti molto repressivi nei confronti delle sex worker. In particolare nella bozza originaria, ad essere perseguite non erano soltanto le condotte – l’adescamento, la contrattazione – delle sex worker, ma le sex worker stesse, le quali potevano essere sanzionate sulla base del loro abbigliamento giudicato indecente e indecoroso dalle forze di polizia. La gravità di tale disposizione, figlia di una società e di una politica patriarcale, che colpiva il corpo delle donne laddove percepito come immorale e quindi sporco, ha spinto molte realtà femministe a intraprendere una battaglia mediatica e politica finalizzata a rimuovere la dicitura dal testo. Queste realtà comprendevano quelle che lavorano all’interno della Casa delle Donne di Ferrara (Centro Donna Giustizia, Udi Ferrara, Centro Documentazione Donna), anche altre con posizioni diverse in materia di prostituzione. Questa presa di posizione pubblica ha trovato il supporto di cittadine e cittadini, realtà associative, sindacati, e alcuni rappresentanti politici e ha portato – nel corso di una seduta consiliare con la presenza di un numeroso pubblico in ovazione – all’eliminazione di questa norma così discriminatoria dal Regolamento.

34Importante per il nostro lavoro è anche l’attività di sensibilizzazione, intesa in particolare come prevenzione secondo l’approccio della Convenzione di Istanbul, contenuto nell’articolo 12: «le Parti adottano le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini». La prevenzione come strumento di contrasto alla violenza contro le donne viene da noi perseguita in tutte le occasioni pubbliche promosse dal Centro Donna Giustizia finalizzate a far conoscere un fenomeno complesso come quello della prostituzione. Raccontare il nostro lavoro e portare la voce delle numerose sex worker con cui entriamo in relazione consente a chi non ha una conoscenza della prostituzione di poter guardare con occhi diversi il fenomeno. Descrivere le sfumature della realtà prostitutiva a tutti i livelli, dalle istituzioni alla cittadinanza, facendo emergere la complessità del fenomeno, è a nostro parere fondamentale per l’abbattimento dello stigma e delle discriminazioni a danno delle persone che esercitano sex work. Troppo spesso, infatti, prevalgono rappresentazioni stereotipate che alimentano giudizi affrettati. Nelle formazioni, nei dibattiti pubblici, nei confronti con le operatrici e gli operatori dei servizi con i quali collaboriamo, percepiamo spesso una comprensione e accettazione della persona nel caso venga percepita come vittima di sfruttamento sessuale; molto più lavoro va fatto, ci sembra, per far sì che ci sia sospensione del giudizio e sostegno per le donne, nel caso in cui loro stesse si presentino come soggetto attivo capace di autodeterminarsi anche attraverso la prostituzione, indipendentemente dalle motivazioni (coercizione, necessità economiche, libera scelta, mancanza di alternative accettabili).

3. Tratta e vulnerabilità: narrazioni ri-vittimizzanti e pratiche di supporto

35“Va bene la mia storia?” In tutti questi anni di lavoro come operatrici e mediatrici ci siamo spesso sentite porre questa domanda dalle donne che incontriamo, di solito nella fase di preparazione all’audizione della domanda di asilo fondata sul proprio vissuto di tratta a scopo di sfruttamento, prevalentemente sessuale. Ed è proprio questa domanda che ci mette di fronte alle criticità presenti nella costruzione della relazione con le donne che accogliamo, che è la base della metodologia di accoglienza dell’équipe e di tutto il centro antiviolenza. Occorre riconoscere che il sistema di contrasto alla violenza nel quale si devono districare tutte le donne, comprese migranti, è escludente e ri-vittimizzante. Non deve stupire, quindi, che le donne stesse, in modi più o meno consapevoli, cerchino di adattarsi alla descrizione ideale di vittima che la narrazione predominante e stereotipata fa di loro (Christie 1986) e che questa venga utilizzata come strategia di sopravvivenza per rientrare nella ristretta categoria di coloro che hanno diritto al riconoscimento di una protezione.

36La percezione della vittima di tratta ideale all’interno delle istituzioni italiane è ancora caratterizzata da un essenzialismo di genere e culturale. La vittima ideale agli occhi delle autorità è prima di tutto una donna, spesso giovane, poco istruita, profondamente condizionata da credenze religiose, dotata di poche risorse. In questa visione stereotipata, ci si aspetta dalla vittima ideale una forte fragilità, che sconfina in una forma di ingenuità e inconsapevolezza che l’avrebbe condotta nelle maglie dello sfruttamento tramite l’inganno. Inoltre, l’aspettativa dominante è che la vittima ideale manifesti il proprio desiderio e motivazione a ricevere aiuto attraverso un atteggiamento compiacente, parli apertamente delle proprie vulnerabilità e fornisca tutti i dettagli richiesti a provare il proprio sfruttamento. Questo immaginario resiste anche di fronte alle evoluzioni della letteratura e delle linee guida vigenti nei sistemi asilo e anti-tratta, che danno indicazioni diverse.

37Tutto ciò contribuisce al processo di costruzione del binarismo fra vittima sincera, dunque meritevole, e finta vittima (in inglese genuine vs. bogus victim). Chiunque abbia lavorato o prestato la propria attività volontaria all’interno di organizzazioni che svolgono interventi anti-tratta ha sentito parlare almeno una volta delle famose “storie fotocopia”, narrazioni dove sono presenti elementi ricorrenti e riconoscibili che rendono le storie di sfruttamento molto simili tra di loro, al punto da non essere considerate credibili. A nostro parere, è importante evitare di analizzare queste storie come prodotte da persone non credibili o addirittura manipolatorie (Taliani 2010), ma invece andrebbe posta maggiore attenzione al sistema che riproduce queste storie come una possibile forma di difesa dall’esclusione. Per usare le parole di Serughetti (2018), le donne che incontriamo possono più o meno consapevolmente mettere in atto “comportamenti performativi” nel tentativo di corrispondere a uno dei tipi ideali associati alla “vittima meritevole”, al fine di aumentare una delle poche possibilità per vedere loro garantita la libertà di restare. Tuttavia, riconosciamo come questa strategia compensatoria a un sistema ri-vittimizzante e restrittivo possa limitare le possibilità di fare emergere i veri bisogni, vissuti e risorse. L’abbattimento delle comprensibili barriere della sfiducia può comportare moltissime settimane, mesi o non avvenire mai, e questo fa parte del nostro quotidiano, insieme alla comprensione e accettazione del non completo svelamento di sé da parte delle donne, sia come rivendicazione della libertà di non dire che come meccanismo di coping che va loro riconosciuto.

38Sebbene nel caso delle donne arrivate tramite il circuito della tratta non sarebbe né onesto né utile minimizzare cosa comporti l’essere arrivate in Italia tramite il reclutamento e il trasporto a opera di trafficanti ai fini dello sfruttamento sessuale o lavorativo, l’auto-identificazione come “vittima” e “vulnerabile” come base per il riconoscimento delle proprie libertà individuali comporta delle criticità a livello di percezione di sé, della propria identità e delle proprie risorse.

39Esiste un forte rischio di considerare la vulnerabilità sociale come un elemento identitario del soggetto, e dunque concentrarsi sull’individuo invece che sulle strutture sociali, economiche, e politiche che producono e riproducono diverse e intersecate forme di vulnerabilità, non solo nei Paesi di origine da cui le donne migranti nel circuito della tratta provengono, ma anche nei Paesi di transito e di destinazione, Italia compresa.

40In particolare, la difficoltà se non l’impossibilità di ottenere un passaporto e ancora di più un visto, fa sì che per molte delle donne migranti che incontriamo le possibilità considerate legittime di spostarsi dal loro Paese di origine siano estremamente limitate. Spesso muoversi nell’illegalità, proprio attraverso il traffico o la tratta di esseri umani, diventa l’unica opzione possibile date le politiche migratorie europee e italiane. Quello a cui assistiamo quotidianamente è che diversi fattori economici, sociali e di genere interagiscono simultaneamente e rendono le donne migranti maggiormente esposte alla violenza, alla discriminazione, all’esclusione socioeconomica e non da ultimo alla tratta nel loro Paese di origine, ma anche vulnerabili alla rivittimizzazione in Italia, perpetuando la loro marginalizzazione politica e sociale (Fitzgerald 2010).

41Riconoscere la vulnerabilità non significa rivittimizzare. Così come riconoscere le forme di autodeterminazione anche all’interno della tratta e dello sfruttamento non significa non riconoscere le vulnerabilità frutto dell’intersezione di diverse forme di oppressione, violenze e sfruttamento, bensì comprendere le scelte intraprese dalle donne data la situazione in cui si trovano e riconoscergliele. Riconoscere e accettare anche i racconti incompleti, trasformati, contraddittori del proprio vissuto, anche come meccanismo di coping a fronte di un sistema rivittimizzante. Il riconoscimento che le donne che accogliamo possano avere progetti di vita diversi dall’inclusione lavorativa, così come intesa nella nostra società, è una forma di supporto all’autodeterminazione. Ciò è sicuramente vero soprattutto se consideriamo quanto quello dell’inclusione possa essere un mito in una società capitalista, classista, razzista ed etero-cis-patriarcale.

Bibliographie

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Christie N. 1986, The Ideal Victim, in Fattah E.A. (a cura di), From Crime Policy to Victim Policy, London, Palgrave Macmillan, pp. 17-30.

10.1332/policypress/9781447338765.003.0002 :

D’Elia C., Serughetti G. 2017, Libere tutte: dall’aborto al velo, donne nel nuovo millennio, Roma, Minimum Fax.

Fassin D. 2013, Un ethos compassionevole. La sofferenza come linguaggio, l’ascolto come politica, «Antropologia», 6.

Fitzgerald, S.A. 2010, Biopolitics and the regulation of vulnerability: the case of the female trafficked migrant, «International Journal of Law in Context», vol. 6, pp. 277-294.

Kleinman A., Das V., Lock M. (a cura di) 1997, Social suffering, Berkeley, University of California Press.

Maluccelli, L. 2014, “Pressioni globali, misure locali”: la prostituzione di strada nella provincia italiana, Doctoral dissertation, University of Nottingham.

Serughetti G. 2018, Smuggled or Trafficked? Refugee or job seeker? Deconstructing rigid classifications by rethinking women’s vulnerability, «Anti-Trafficking Review», vol. 11.

Taliani S. 2011, Il passato credibile e il corpo impudico. Storia, violenza e trauma nelle biografie di donne africane richiedenti asilo in Italia, «LARES. Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici», vol. 1, pp. 138 e 157.

Notes de bas de page

1 Per approfondire le attività svolte dal Centro Donna Giustizia APS nella provincia di Ferrara è possibile consultare il sito https://www.centrodonnagiustizia.it/.

2 Dal 2004 è entrata in vigore all’interno della Comunità Europea la Tessera Europea di Assicurazione Malattia che permette di usufruire delle cure medicalmente necessarie e, quindi, non esclusivamente a cure urgenti e indifferibili. È necessario richiedere la tessera Team nel proprio Paese di residenza o di cui si ha cittadinanza. In alcuni particolari contesti, come la Romania, ottenere la tessera risulta complesso e richiede di frequente il pagamento di una somma di denaro.

3 Tra i princìpi che sono alla base dell’organizzazione del sistema sanitario nazionale troviamo il principio di centralità della persona e di equità che mirano a garantire, tra gli altri, efficienza e appropriatezza delle cure oltre al diritto a una corretta e comprensibile informazione.

4 https://sociale.regione.emilia-romagna.it/prostituzione-e-tratta-di-esseri-umani/prostituzione.

5 https://salute.regione.emilia-romagna.it/prp.

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