Lo zoning (im)possibile e il decoro
analisi dell’evoluzione storica, politica e sociale della governance pubblica della prostituzione nel Comune di Venezia
p. 85-98
Texte intégral
Introduzione
1Negli anni Novanta, nelle città italiane, si è assistito a un progressivo mutamento della composizione e delle forme della prostituzione. Si è accentuata in particolare la diversificazione in termini di soggettività che abitano lo spazio urbano con l’avvento delle nuove migrazioni dall’Est Europa e dall’Africa. La strada diventò un luogo conteso tra la vecchia prostituzione, successiva alla chiusura delle case chiuse, e le nuove prostituzioni straniere, legate spesso a doppio filo a meccanismi di sfruttamento e criminalità organizzata. Erano corpi considerati non autoctoni, estranei al panorama sociale tipico dello spazio pubblico. I sentimenti di insicurezza e paura nei confronti della microcriminalità di strada si fecero sempre più presenti e pressanti nel discorso pubblico e tra la cittadinanza. Un sentimento che, come descrive dettagliatamente il criminologo Alessandro De Giorgi, «si andava manifestando negli anni Novanta soprattutto nella forma di mobilitazioni di tipo vigilantistico e securitario, per esempio attraverso la formazione di comitati per la sicurezza e contro il degrado» (2015). La linea di intervento utilizzata, e mantenuta nel corso degli anni, sulla quasi totalità del territorio italiano, prevedeva l’applicazione di sanzioni amministrative nei confronti di comportamenti e persone considerate indecorose, incivili, degradanti.
2Anche nel comune veneziano, principalmente tra Mestre, Marghera e il Terraglio (la strada statale che conduce da Mestre a Treviso), la strada diventò protagonista indiscussa di uno forte scontro politico, sociale e ideologico tra diverse e nuove soggettività. La cittadinanza si mobilitò attraverso i media locali e nazionali, tramite esposti, fiaccolate, presidi, manifestazioni e occupazioni, evolvendosi nell’organizzazione di comitati preposti alla repressione di fenomeni considerati pericolosi e portatori di degrado come la vendita di prestazioni sessuali. La cittadinanza chiese l’allontanamento di tutte quelle soggettività che inquinavano lo spazio urbano con comportamenti e corpi ritenuti devianti, illegittimi e indecorosi: questi stessi corpi eccedenti (Simone 2010) iniziavano ad essere rimossi attraverso le ordinanze amministrative nella maggior parte del territorio italiano, ripulendo lo spazio urbano e pubblico dalle persone considerate e costruite come marginali (Bukowsky 2019). Il prossimo paragrafo analizza brevemente la costruzione del concetto di decoro e sicurezza nel contesto italiano, in particolare in rapporto alla vendita di prestazioni sessuali.
1. Prostituzione, decoro e politiche pubbliche
3Secondo lo scrittore Wolf Bukowski (2019) negli ultimi decenni si è assistito a un “impazzimento securitario”, all’affermazione di politiche securitarie che spingono sempre più ai margini delle città le soggettività che infastidiscono la cittadinanza: si distingue tra chi è legittimato a rimanere e vivere nello spazio urbano e chi invece deve esserne allontanato. La percezione di insicurezza, cresciuta in maniera esponenziale in questi anni, ne è paradossalmente sia la causa che la conseguenza. Una percezione che, nel dossier sulle ordinanze redatto dal Consiglio Regionale del Veneto, viene definita «non sempre corrispondente al reale grado di pericolo presente sul territorio, alimentata da uno stato di incertezza politica, economica e sociale». A questo sentimento, seguono in tutta Italia politiche volte alla definizione di uno spazio orientato al consumo privatizzato che esclude chi non può accedere alla figura privilegiata di consumatore (De Giorgi 2015) a causa della mancanza di capitale economico, culturale e sociale e che viene bollato come indecoroso. Ma che cosa significa essere decorosi? Il decoro si impone come concetto estremamente volatile e generico che può riguardare persone e città. Come argomenta il criminologo Alessandro De Giorgi (2015), non esiste una definizione oggettivamente unitaria di decoro all’interno della città ma solo modi diversi di intendere e vivere la dimensione urbana in base a differenze legate alla provenienza, al genere, alla classe. Quando il compito di definire cosa possa essere individuato come decoroso viene lasciato in mano alla categoria di cittadini e cittadine in grado di sostenere i costi di città votate al consumo e in mano alle istituzioni che trovano in questa categoria il loro bacino elettorale, viene lasciato un ampio margine di discrezionalità nel ristabilire costantemente «determinati standard di ordine sociale e urbano […] che frequentemente sconfinano nell’abuso e nella violenza» (Bukowski 2019, p. 110). Il termine decoro si costituisce come un contenitore potenzialmente riempibile di qualsiasi significato proprio per questa sua duttilità politica, non neutrale, potentemente evocativa: sono idee senza parole (Bukowski 2019). Nel corso dell’ultimo decennio, il decoro viene fatto coincidere e aderire con il mantenimento della sicurezza pubblica: il decoro diventa il mezzo per garantire sicurezza e la sicurezza pubblica diventa lo strumento per assicurare il decoro, in una sorta di loop discorsivo inconcludente. Tamar Pitch (2013, p. 11) descrive una città decorosa nei termini di una città in cui non si veda miseria e marginalità e in cui lo spazio urbano si costituisca come decoroso nei termini di gradevole alla vista perché privo di differenze, di asimmetrie, di alterità. Lo spazio sociale privatizzato, omologato e controllato dalla paura diventa sinonimo di decoro, strumento che veicola la modalità in cui la città viene e deve essere esperita. Secondo quest’ottica, ristabilire il decoro significa dunque ripulire, riordinare e rassicurare attraverso politiche securitarie che depoliticizzano il discorso pubblico e riconducono «nei binari stretti della divisione tra buoni e cattivi, meritevoli e immeritevoli, perbene e permale» (Pitch 2013, p. 80). Il decoro viene reso attraverso una concezione del bello politicizzata che si adagia sulla definizione di pulito, puro e immacolato. Uno spazio immacolato come dovrebbe essere il corpo femminile: la prostituzione di strada, nella sua dimensione fortemente genderizzata, diventa indecorosa, non bella, non dignitosa e quindi minaccia per la struttura sociale, fonte di degrado urbano e morale. La concezione di decoro si impatta fortemente con la definizione di malcostume e pubblica decenza, messa in discussione dalle lavoratrici del sesso che vengono quindi bollate come soggetti da sanzionare (Simone 2010). Le e i sex worker, soprattutto se migranti, sconvolgono le geografie morali di una città sovvertendo quello che è considerato il ruolo tradizionale della donna perbene e il suo spazio nella città (Olcuire 2017). Il «controllo morale e ordine spaziale generano un ordine morale spazializzato» (Barthes, Genini 2011): si crea una gerarchia di spazi per cui tendenzialmente le zone centrali devono restare decorose e chi le attraversa deve avere comportamenti ordinati e rientrare nella norma, i corpi disordinati invece sono rimossi e spinti sempre di più ai margini. Le e i sex worker che operano in strada rientrano appieno nelle soggettività considerate indecorose che interrogano e mettono in discussione l’ordine pubblico e la sicurezza di una città. Le politiche legate alla prostituzione vertono oggi su un discorso pubblico che strumentalizza i concetti di sicurezza, decoro, sfruttamento e dignità delle donne (Pitch 2013). Politiche pubbliche che sono focalizzate principalmente sull’anti-tratta, spesso strumentali e propagandistiche rispetto al mantenimento di un certo decoro e ordine pubblico.
4A Venezia negli anni Novanta il già menzionato clima teso di quel periodo sfociò nella richiesta da parte della cittadinanza di un allontanamento fisico e spaziale dal tessuto urbano in nome del decoro, piuttosto che di una richiesta di maggiore controllo nei confronti della microcriminalità sul territorio. L’ondata di proteste cittadine verificatesi nel 1994, spinse il Comune di Venezia a fare una scelta molto precisa rispetto alla gestione del fenomeno prostitutivo, scelta in aperta controtendenza rispetto all’andamento italiano: evitare di infierire e criminalizzare chi vende prestazioni sessuali e investire invece sulla riduzione della conflittualità, la qualità di vita di chi si trovava in strada e la creazione di una prima progettualità per il debellamento delle reti criminali. Si iniziò dunque a parlare di zoning.
2. Cosa si intende per zoning a Venezia?
5Quando parliamo di zoning, l’oggetto di intervento primario è il tessuto urbano e il governo spaziale dello stesso. Lo zoning o zonizzazione è una pratica di amministrazione pubblica che si basa sulla divisione della città in aree alle quali viene attribuita, e quindi riconosciuta, una determinata funzione sociale, politica o/e economica con determinati vincoli, istituzionalizzati per ogni zona. Con il termine zoning in rapporto alla gestione della prostituzione di strada si intende, in senso lato, la creazione di zone che consentono l’esercizio della prostituzione in sicurezza, con tutele e servizi per il miglioramento della qualità di vita di chi lavora in strada. Un esempio paradigmatico che ha ispirato, seppur solo formalmente, l’implementazione dello zoning a Venezia sono le tippelzone olandesi. L’esperienza olandese di zonizzazione si divide tra la creazione di porzioni di città votate allo sviluppo indoor del mercato del sesso e zone formalizzate e controllate per la gestione della prostituzione di strada, fuori dai centri urbani. Le tippelzone sono porzioni di città che si strutturano come zone attrezzate e ben identificate, adibite all’esercizio della prostituzione con orari specifici, munite di aree di ristorazione e drop-in center dove le prostitute possono riposarsi, ristorarsi e accedere ai servizi sanitari, ricevere assistenza e consulenza su base volontaria con la conseguente abrogazione dei controlli sanitari obbligatori. Sono aree dotate di spazi segnalati, dove poter sostare con la macchina e intrattenersi con i clienti in sicurezza grazie alla presenza del personale di sorveglianza a garanzia della privacy di tutti gli attori coinvolti. Zone quindi riconosciute a livello legale e nella quale sono state create infrastrutture e servizi, di controllo e di tutela. Lo zoning di Mestre, invece, non contempla la possibilità di quartieri stabiliti e stabili nel tempo dove poter esercitare la prostituzione: questo è sia una conseguenza del quadro legislativo della legge abolizionista Merlin, che impedisce la creazione di aree ad hoc per l’esercizio della prostituzione, ma anche per una precisa volontà politica che mira alla gestione della prostituzione outdoor soprattutto nei termini di debellamento delle reti di sfruttamento, piuttosto che al riconoscimento della prostituzione come lavoro. Lo zoning veneziano si oppose infatti volutamente alla fissità dei servizi delle tippelzone. A Venezia, lo zoning non si costituisce a partire da una vera propria zonizzazione che prevede la scelta di un’area deputata interamente all’esercizio della prostituzione, ma piuttosto a un dispositivo flessibile in stretto rapporto con le trasformazioni della città. Il comune veneziano, infatti, riconosce formalmente solo le zone off-limits, dove dunque non è consentita la vendita di prestazioni sessuali. Ciò sta a significare che le zone in cui invece è possibile esercitare la prostituzione outdoor non sono individuate formalmente e vengono (ri)definite di volta in volta attraverso la contrattazione con le persone che lavorano in strada, invitandole a spostarsi in altre strade non adiacenti a zone residenziali, a fronte della garanzia di servizi di riduzione del danno come informazione sanitaria, distribuzione di preservativi, accompagnamenti ai servizi sanitari, supporto in caso di tratta a sfruttamento sessuale, mediazione con servizi pubblici e tutela anche da parte delle forze dell’ordine, in funzione non repressiva ma “di protezione”. Inizialmente il progetto aveva previsto, anche se in modo totalmente informale, l’implementazione di un arredo urbano consono in termini di illuminazione e di servizi legati alla messa in sicurezza delle aree come marciapiedi, accessibilità ai trasporti e pulizia degli spazi. Nei prossimi paragrafi verranno analizzate le cause della mancata implementazione di questi servizi.
3. Analisi dell’evoluzione storica, sociale e politica del progetto di zoning veneziano in quattro fasi
6Tra il 2019 e il 2020 ho condotto una ricerca sul campo sul progetto di zoning veneziano analizzando il materiale d’archivio depositato presso la biblioteca Centro Donna di Mestre e conducendo 18 interviste a policy maker, funzionari delle forze dell’ordine, peer educator, operatrici/operatori sociali, consigliere di municipalità, assistenti sociali, sex worker e comitati cittadini. Il lavoro sul campo ha permesso di definire i quattro momenti cruciali del progetto che sono stati fondamentali per la sua e(in)voluzione.
3.1. Le innovazioni di un progetto in itinere
7Nella municipalità di Mestre, la “questione prostituzione” si è posta al centro del dibattito politico nella primavera del 1994, anno in cui l’amministrazione comunale iniziò ad attivarsi a seguito delle forti pressioni degli abitanti che risiedevano in via Piave, l’arteria che dalla Stazione FS porta al centro storico. Il conflitto tra cittadini e lavoratrici del sesso si esplicitò nello spazio urbano attraverso le mobilitazioni della cittadinanza che si attivò attraverso proteste, manifestazioni e presidi notturni nelle vie maggiormente interessate dal fenomeno. Si assistette in quel periodo a un mutamento delle forme e della composizione del mercato del sesso outdoor, con l’emergere di nuove tipologie di prostituzione che nel corso delle interviste sono state spesso definite come indecorose, irrispettose degli spazi pubblici. La cittadinanza lamentava sporcizia, preservativi per terra, andirivieni di protettori, sex worker che urlavano e clienti che facevano chiasso e minavano la sicurezza delle persone guidando in modo spericolato nelle vie del centro urbano. I cittadini hanno risposto a questa situazione con quella che più volte nelle interviste è stata definita «una necessaria e comprensibile richiesta di gestione del fenomeno per motivazioni di decoro e ordine». La vendita di sesso a buon mercato, visibile ed estranea al panorama urbano, in un mercato del sesso outdoor progressivamente caratterizzato dallo sfruttamento sessuale, ha permesso la sovrapposizione discorsiva dei concetti di decoro e sicurezza: la cittadinanza invocava a gran voce che queste donne fossero salvate dallo sfruttamento, e di conseguenza dalla vendita di prestazioni sessuali, facendo sì che fosse ristabilito l’ordine nello spazio urbano, ripulito da una sessualità deviata e da figure altre, estranee al panorama urbano autoctono. Dato questo scenario, è evidente che occorressero risposte articolate per affrontare la situazione: l’esperimento di zoning ha cercato di farlo sviluppando un approccio non meramente repressivo, ma orientato a ricomporre i conflitti all’interno della comunità.
8Nel 1994, Luana Zanella, futura assessora alle politiche sociali del Comune di Venezia, organizzò un incontro informale con Gianfranco Bettin, assessore ai servizi sociali e alle politiche sociali, invitando anche la scrittrice e attivista Roberta Tatafiore, che rilanciò l’invito anche a Pia Covre del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute (d’ora in avanti “Comitato”), un’associazione no profit fondata a Pordenone nel 1982 da un gruppo di prostitute per promuovere i propri diritti. Il coinvolgimento di quest’ultima consentì un imprevisto e inedito allargamento degli orizzonti del dibattito. Si profilò, infatti, in quella sede la possibilità di una territorializzazione del fenomeno prostitutivo a patto che questa fosse predisposta insieme alle persone che sarebbero state spostate e, in questo senso, più colpite: le sex worker. L’assessore Gianfranco Bettin, della prima giunta Cacciari, a seguito di questo incontro e sulla spinta delle riflessioni portate dal Comitato, propose un approccio originale alla gestione della prostituzione rispetto a quelli utilizzati fino a quel momento in Italia. Convocò un tavolo di discussione a cui parteciparono policy maker, cittadini, operatrici e operatori sociali, educatrici e educatori, forze dell’ordine, esperte ed esperti del fenomeno prostitutivo e il Comitato. A seguito dei tavoli di concertazione e dopo una serie di monitoraggi iniziali nelle strade della prostituzione di Mestre, furono varate due delibere per intervenire sulla prevenzione all’Hiv e, in campo civico, per ridurre il disturbo alla quiete pubblica e il conflitto sociale. La prima delibera conferì al Comitato di Pordenone la nomina di soggetto di intervento per la mappatura del fenomeno prostitutivo. Il Comune si avvalse dunque delle competenze del Comitato, che a sua volta collaborava con il Gruppo Abele di Torino e con il progetto europeo Tampep, un progetto di ricerca-intervento volto all’elaborazione e alla diffusione di strategie e metodologie di intervento con donne migranti sex worker per prevenire la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili e Hiv. La partecipazione a queste reti nazionali ed europee ha permesso di ripensare la metodologia di intervento nei confronti delle sex worker vittime di tratta spesso rimpatriate con il foglio di via. Ha anche consentito che si creassero connessioni e relazioni di collaborazione e supporto, in modo da garantire a chi si trovava in strada un appoggio in caso di necessità, agevolando eventuali richieste di aiuto in situazioni di sfruttamento. La stretta collaborazione con il Comitato rispecchiò una scelta di indirizzo politico molto chiaro: vennero riconosciute l’expertise e l’importanza della conoscenza di chi ha lavorato sul campo per entrare in un reale, onesto e diretto contatto con il fenomeno, evitando forme di stigmatizzazione e pregiudizi morali. Questa legittimazione pubblica permise per la prima volta in Italia la possibilità di conferire istituzionalmente voce e spazio a chi vende prestazioni sessuali.
9A seguito di questa prima delibera ne venne varata una successiva che stabilì la presenza in strada di operatori e operatrici del Comune insieme alle rappresentanti del Comitato. Nacque così, nel 1995, il progetto “Città e Prostituzione” avviato con la volontà di evitare forme di criminalizzazione e garantire una qualità di vita accettabile per tutti i soggetti coinvolti: sex worker e residenti. Venne predisposto un camper che alcune sere a settimana girava nelle strade della prostituzione per fornire assistenza sanitaria e, al contempo, fungere da strumento di primo contatto per la fuoriuscita dal circuito di tratta a sfruttamento sessuale. Fu inoltre predisposta un “luogo di fiducia” a cui rivolgersi per chi lavorava in strada, solitamente abituata e abituato soltanto all’aspetto repressivo nel rapporto con le istituzioni, ma anche per la cittadinanza che poteva segnalare a ogni ora disagi o conflitti, grazie alla presenza di un numero telefonico attivo ventiquattr’ore su ventiquattro. La triplice finalità di questa seconda delibera ha riguardato dunque la messa in atto di un intervento sul campo di modifica rispetto ai comportamenti a rischio di chi vendeva prestazioni sessuali, di aiuto nei confronti di chi era coinvolto all’interno dei circuiti di sfruttamento e infine di riduzione della conflittualità con la cittadinanza garantendo ordine e quiete nello spazio urbano. Lo zoning si è anche strutturato con l’intento di offrire percorsi alternativi alle donne migranti che erano coinvolte nei circuiti di sfruttamento e per debellare le stesse reti criminali. La finalità del progetto Tampep combinata con i servizi predisposti dal Comune di Venezia ha anticipato la definizione dell’art. 18 della legge Turco-Napolitano n. 286/1998. Un articolo del Testo Unico sull’Immigrazione che ha unito a interventi di natura repressiva nei confronti degli sfruttatori e dei racket, percorsi assistenziali di fuoriuscita dalla prostituzione coatta e di integrazione sociale. Sul piano spaziale, per ridurre la conflittualità tra cittadinanza e sex worker, si iniziò a pensare di spostare le ragazze in strada in luoghi a minor densità abitativa e meno residenziali, garantendo però che i rapporti di fiducia intessuti con loro non venissero lesi. In questo frame si iniziò a parlare della formalizzazione del progetto di zoning.
3.2. Il riconoscimento istituzionale del progetto e la sua conversione in servizio: tra formalizzazione del progetto e criticità pratico-operative
10Tra agosto e ottobre 2001, le direzioni centrali della polizia municipale e dell’assessorato alle politiche sociali del Comune di Venezia, in collaborazione con l’unità di strada, decisero di organizzare una serie di incontri preliminari per creare formalmente un intervento sinergico rispetto alla gestione della prostituzione in strada. Nelle riunioni tra gli enti coordinatori del progetto fu raggiunto un accordo sugli obiettivi da conseguire riassunti di seguito, citando la declaratoria del Comune di Venezia1: la politica di zonizzazione doveva essere intesa come un’azione di delimitazione di aree off-limits o aree out ad alta urbanizzazione e conflittuali sia per la contrattazione che per lo scambio, mentre le aree di esistenza del fenomeno dovevano essere considerate dei non-luoghi, definiti insieme a tutti i soggetti coinvolti attraverso accordi informali. Ci doveva essere una fase sperimentale in cui circoscrivere alcune zone delimitate e tenute sotto controllo, la cui individuazione doveva sempre essere condivisa con gli altri soggetti coinvolti. Queste zone informali di attività erano descritte in questo documento come necessariamente limitrofe alla città e facilmente accessibili, con un arredo urbano consono e eventuali punti di sicurezza. Tuttavia, come già accennato, lo zoning non si costituì a partire da una vera propria zonizzazione: il comune riconobbe istituzionalmente solo le zone off-limits, dove dunque non era consentita la vendita di prestazioni sessuali, ma non quelle di esercizio che vennero descritte fin da subito come dei “non-luoghi”, inesistenti a livello istituzionale nella topografia urbana e definite di volta in volta attraverso la contrattazione con le sex worker.
11In questo frame progettuale venne riconosciuto come essenziale il ruolo di controllo da parte della polizia non solo nelle zone ad elevata conflittualità con la cittadinanza, per cui la presenza delle forze repressive permetteva che gli spazi definiti off-limits rimanessero tali, ma anche nelle zone di attività informale dove l’esercizio della prostituzione era possibile. Alle forze dell’ordine fu dato mandato di garantire non solo i diritti dei residenti, ma anche di chi lavorava in strada. In entrambi i casi, questa scelta comportò non solo un cambiamento operativo, ma anche un mutamento di prospettive all’interno delle forze di polizia a cui fu chiesto di non investire risorse nella repressione (per esempio nella realizzazione di retate), quanto piuttosto nella tutela di chi lavorava in strada. Questo cambio di passo permise, nella fase iniziale, la creazione di inedite relazioni di fiducia tra le forze dell’ordine e le e i sex worker che si è tradotta nella possibilità per chi era sfruttata di cercare un appiglio, un punto di fuga per la fuoriuscita dal sistema di sfruttamento sessuale, entrando nella protezione garantita dall’art. 18 della legge Turco-Napolitano, che offre la possibilità di un percorso di protezione e una tutela potenziata nel caso in cui venga denunciato lo sfruttatore.
12In questa fase, tuttavia, si esplicitarono anche le prime criticità del progetto di zoning. Queste difficoltà possono essere ricondotte a tre ordini di fattori. In primis, i cittadini e le cittadine continuarono a rivestire il ruolo di “sentinelle” monitorando e denunciando la portata del fenomeno ogni volta che non vi erano più degli standard di convivenza ritenuti per loro accettabili. La parola della cittadinanza, tuttavia, aveva un peso specifico diverso rispetto a quella di chi si trovava in strada, creando un accesso differenziale al diritto alla città. Lo spostamento reiterato e basato sulle segnalazioni di chi si riconosceva come soggetto di diritto, di appartenenza autoctona al territorio, ha sancito la scomodità della presenza di sex worker nello spazio urbano e ha confermato le richieste della cittadinanza che tacciavano la vendita di prestazioni sessuali nello spazio pubblico come degradante.
13La seconda problematica riguarda la flessibilità di questa tipologia di zoning. Se, da un lato, essa ha consentito la creazione di rapporti di fiducia con chi si trovava in strada, allo stesso tempo tale elasticità si sviluppò come strumento di controllo e disciplinamento a spese delle persone che lavoravano in strada, che furono costrette, avendo pochissima voce in capitolo, a un continuo nomadismo e ad adattarsi ogni volta a nuovi contesti, nuovi spazi, nuovi punti di riferimento. E questo continuo dislocamento ha anche disturbato e leso le relazioni che queste persone potevano intessere con il tessuto urbano, per esempio la conoscenza di punti di riferimento, degli esercizi, degli eventuali servizi e delle e dei gestori della zona o della stessa cittadinanza, creando una condizione di sempre maggior vulnerabilità. Nel progetto di zoning questo carattere disciplinare dei comportamenti e dei corpi di chi si trovava in strada era mitigato dalla volontà di creare una rete di servizi sanitari, di protezione sociale e di arredo urbano nelle zone di esercizio informale. I tavoli di concertazione avevano previsto, a livello informale, una serie di servizi legati all’illuminazione, alla pulizia degli spazi e alla messa in sicurezza della zona, così che le sex worker non si ritrovassero in zone emarginate della città e in situazioni di pericolo.
14La terza difficoltà riguarda proprio la mancata implementazione di questi servizi che avrebbero dovuto garantire una qualità di vita e di lavoro accettabile per le sex worker. L’attenzione dell’istituzione, invece, si spostò sui programmi di fuoriuscita dalla tratta grazie alla maggiore disponibilità di fondi specifici e al maggior interesse e adesione da parte di tutte le parti politiche presenti in giunta. L’operatività del progetto fu infatti potenziata nel 1998 con l’approvazione dell’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione che permise di accedere a fondi specifici, previsti anche dal Ministero per le Pari Opportunità, per quanto riguarda i percorsi di autonomia e integrazione sociale. Ad arricchire il quadro normativo, nel 2000 fu sottoscritto dalle Nazioni Unite il Protocollo di Palermo, uno strumento internazionale volto ad armonizzare la disciplina giuridica in materia e stimolare la cooperazione tra gli Stati.
3.3. Il governo del territorio attraverso l’ordinanza amministrativa
15Nel 2008, con la modifica dell’art. 54 del Testo Unico degli Enti Locali fu varato il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza Maroni” che, attraverso il dispositivo dell’ordinanza amministrativa, conferì ai sindaci maggiori poteri di intervento per garantire ordine e incolumità pubblica: uno strumento non ordinario, da applicarsi in situazioni contingibili e urgenti, ma che di fatto fu successivamente normalizzato come dispositivo per il governo del territorio. Si tratta di provvedimenti volti alla gestione delle cosiddette incivilities, comportamenti legati al disordine urbano e al degrado piuttosto che alla criminalità in senso stretto e che si costruiscono a partire da una concezione arbitraria del concetto di decoro. La nozione di decoro urbano viene utilizzata in modo discrezionale a intendere cose diverse tra cui il controllo sociale che si esplicita nel sanzionamento di condotte e comportamenti a rischio, il divieto di esercitare determinate professioni anche se non sanzionabili dal codice penale e infine un principio estetico connesso al concetto di ordine pubblico che si struttura sulla valutazione a priori di cosa possa essere fatto e cosa no, cosa e chi sia da considerarsi lecito o meno (Simone 2010). Il report sulle ordinanze emanate nel biennio 2008-2009, condotto da Cittalia Fondazione Anci Ricerche (2009), ha messo bene in rilievo come la prostituzione di strada fosse una delle attività più colpite e perseguitate dalle ordinanze su tutto il suolo italiano.
16Anche nel Comune di Venezia lo strumento dell’ordinanza amministrativa è stato sfruttato come dispositivo privilegiato per governare il territorio e garantire sicurezza pubblica. Nonostante l’assessorato alle politiche sociali avesse tentato di arginare e contenere l’uso massivo di questo strumento, a causa delle posizioni politiche sempre più divise all’interno della giunta, venne accettata la possibilità che si arrivasse a multare il cliente ma solamente su alcune strade ben definite, ponendo come condizione fondamentale e inequivocabile che non venissero multate le sex worker. Si creò a partire da questo momento una fase di evidente trasformazione del servizio e di intolleranza diffusa.
17A Venezia, le ordinanze emanate in questo periodo hanno mirato ad allontanare chi vende prestazioni sessuali da alcuni luoghi particolarmente sensibili per densità abitativa, attraverso la multa con sanzione amministrativa al cliente. Esse furono, in questo senso, funzionali e in linea con i risultati attesi dalle politiche di zoning fin qui strutturate, ma se la ratio dell’intervento era la stessa, la modalità invece fu totalmente sovvertita. Se precedentemente l’intervento di contrattazione dello spostamento avveniva in maniera informale e si basava sul rapporto di fiducia tra gli enti coordinatori e attuatori del progetto e le destinatarie dello stesso, con l’ordinanza lo spostamento fu ricercato in termini repressivi e sanzionatori andando a intaccare il rapporto e il contatto costruito nel decennio precedente. Vennero ancora organizzati lunghi tavoli di discussione con il vicesindaco, la polizia locale e l’unità di contatto, rispetto al tema della multa, che rispondevano a una esigenza stabile di coordinamento. L’elemento di dialogo tra gli enti coordinatori del servizio riusciva ancora a resistere, sebbene evidentemente inficiato dalle nuove policy repressive e punitive. Gli effetti dell’ordinanza furono fin da subito molteplici e si strutturano su tre livelli. In primo luogo, fu minata fortemente la sicurezza di chi lavora in strada, non solo per il carattere direttamente punitivo delle multe, ma anche per il clima di generale repressione che non consentiva alle sex worker di avere il tempo necessario per far valere il proprio potere contrattuale con i clienti. Il risultato fu la riduzione dei tempi di contrattazione, l’allontanamento in zone sempre più periferiche e la bassa selezione della clientela. Il secondo effetto fu la rottura definitiva del rapporto di fiducia tra chi lavorava in strada e la polizia: i funzionari di polizia non furono più concepiti da chi lavorava in strada come punto di riferimento e di appoggio, ma tornarono ad assumere una funzione repressiva e antagonista rispetto ai bisogni e alle richieste di chi vende prestazioni sessuali outdoor. Infine, l’ordinanza accese i riflettori sulla figura del cliente con un’operazione di stigmatizzazione rispetto alla compravendita di sesso nello spazio urbano riducendo la possibile collaborazione con gli stessi nei casi di sfruttamento. Da questo momento in avanti, non fu più possibile garantire il coordinamento tra gli enti che avevano promosso il progetto con l’effetto di delegittimare l’intervento, sul piano politico e sociale, del servizio Città e Prostituzione.
3.4. La chiusura del servizio Città e Prostituzione e la svolta securitaria
18Nel 2014 cadde la giunta del sindaco di centrosinistra Giorgio Orsoni a causa dello scandalo delle tangenti collegato al Mose. Tra il 2014 e il 2015 venne insediato un commissario straordinario il cui compito principale fu il taglio delle spese a causa del forte indebitamento del Comune, tra cui anche quelle destinate alle politiche sociali. Dopo un anno di commissariamento, l’elezione nel 2015 dell’attuale sindaco in carica, Luigi Brugnaro del centrodestra, confermò le azioni sviluppate dal commissario straordinario. Nel 2015 il servizio Città e Prostituzione venne formalmente chiuso e rientrò all’interno del Servizio di Protezione Sociale e Centro Antiviolenza, che comprende tuttora la filiera di interventi relativi alle marginalità sociali, tra cui sfruttamento sessuale, sfruttamento lavorativo e interventi di contrasto alla violenza di genere. Di fatto il termine prostituzione scompare dagli interventi introdotti dal Servizio di Protezione Sociale e Centro Antiviolenza e l’accento viene invece posto sugli interventi contro la tratta. Questa scelta rispose alla volontà politica di non occuparsi della governance territoriale della prostituzione, delegittimando la progettualità e i saperi legati allo zoning. Uno degli obiettivi principali della nuova amministrazione fu, infatti, la riduzione del numero di sex worker in strada. La programmazione e il coordinamento tra i vari enti venne cancellata e la pratica dello zoning completamente disattesa. Un cambio di paradigma operativo notevole, in antitesi rispetto alla prima progettualità dello zoning basato sulle azioni di riduzione del danno e sul rispetto e la messa in sicurezza di tutte i soggetti che sono implicati, volontariamente o meno, nel fenomeno. Gli e le ex assessore alle politiche sociali del Comune di Venezia intervistate concepiscono questa destrutturazione del servizio come conseguenza della mancata operatività, rispetto allo zoning, delle amministrazioni comunali che si sono susseguite dal 2008 in poi, che hanno creduto poco in questa progettualità, senza rinnovare la filiera di servizi che devono essere costantemente sostenuti, valorizzati e ripensati e che necessitano di un rapporto con le altre istituzioni, che procedono sempre più su binari opposti. Con le ordinanze prima e i regolamenti poi, l’ago della bilancia nelle politiche locali sulla prostituzione sembra però ormai essersi definitivamente orientato al lavoro di repressione e criminalizzazione, piuttosto che a quello di riduzione del danno. Tutto il lavoro iniziato negli anni Novanta è stato traghettato nei progetti anti-tratta. Una volontà politica che viene confermata dal mandato del sindaco che, con la chiusura del servizio e la focalizzazione sugli interventi anti-tratta, ha varato tutta una serie di accordi per la messa in pratica di interventi integrati di riduzione della prostituzione anche attraverso ordinanze e regolamenti sempre più invasivi e repressivi. Per esempio, nel marzo 2019 è stato approvato un regolamento di polizia municipale in cui il Comune di Venezia consente di multare una prostituta che intralcia la pubblica via non solo nelle zone off-limits, ma su tutto il territorio comunale, facendo decadere di fatto il meccanismo dello zoning e cancellando anche nominalmente tutta la progettualità e il lavoro di coordinamento e collaborazione costruito fino a quel momento.
Conclusioni
19Il progetto di zoning veneziano, nella sua flessibilità, ha consentito di ottenere un dialogo civile tra le parti coinvolte, evitando l’escalation di violenza e facendo da cuscinetto-mediazione tra cittadinanza e chi lavora in strada. Ciò ha permesso la sperimentazione di forme alternative di lavoro e di contrattazione sia con le persone in strada, sia a livello interistituzionale, estendendo il campo di informazione sanitaria e di prevenzione. Il beneficio principale è stato proprio quello di poter sperimentare modalità diverse di lavoro e contrattazione con la cittadinanza e le e i sex worker: la creazione di rapporti non si è basata sulla relazione tra servizio sociale e persona, ma piuttosto tra servizio e comunità di appartenenza.
20Questa iniziale progettualità non è però stata sostenuta nel tempo non solo a livello operativo – che è stato caratterizzato da una primaria mancanza di investimento comunale nell’arredo urbano e nella creazione di servizi per chi vende prestazione sessuali – ma anche a livello politico con il successivo cambio di giunte politiche e la sempre maggiore enfasi sul concetto di sicurezza e decoro. L’adozione di misure repressive ha significato garantire protezione per chi non è in strada da chi è in strada, ha significato legittimare una sola voce relegando chi è spinto ai margini al ruolo di criminali. L’analisi dell’e(in)voluzione del progetto di zoning dimostra come la prostituzione non venga più considerata nella sua dimensione di fenomeno sociale ma piuttosto venga inquadrata e affrontata come una questione d’ordine pubblico e criminalità.
21Tuttavia, nella sua strutturazione teorica, il progetto di zoning veneziano, costituisce un bacino di saperi pratici e una preziosa testimonianza di come sia possibile gestire il conflitto all’interno dello spazio urbano senza dover ricorrere a politiche sempre più repressive. Può dunque fungere da punto di partenza per la rilettura di una governance della prostituzione in una logica di riduzione del danno.
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Notes de bas de page
1 Progetto per la riduzione complessiva del fenomeno della prostituzione. Lo studio è stato promosso dall’Assessorato alla Polizia Municipale e dall’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Venezia (http://associazioni.comune.fe.it/attach/cdg/docs/zoning%20-%20progetto%20venezia.doc).
Auteur
È dottoranda presso la Nasp Graduate School-Università di Milano in Sociologia e Metodologia della ricerca sociale (Somet) e borsista presso l’Università degli Studi di Torino. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente tematiche relative alla costruzione della maschilità, misoginia e identità digitali, attivismo e femminismo digitale, sex work e salute sessuale e riproduttiva

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