4. Una scuola del «ri/conoscere»
Riflessioni utopiche sulla scuola italiana
p. 105-119
Texte intégral
1. Dallo storicismo al pragmatismo
1Una ricostruzione storica, assai breve e sintetica, del percorso e della degenerazione della scuola e dell’università del nostro paese da una costellazione di valori etico-culturali a un’altra non è difficile a farsi.
2Tanta e tale è la natura chiara del rovesciamento che storicamente e drammaticamente abbiamo esperito nell’abbandono di un processo educativo improntato al valore fondamentale del civis per passare a una formazione scolastica e universitaria ispirata al valore e alla tipologia umana, profondamente diversa, dell’homo faber et mercatorius.
3Se la scuola della repubblica, a partire dal secondo dopoguerra, aveva come compito precipuo quello di condurre la sua gioventù dall’immaturità dell’infanzia al farsi soggetto responsabile di cittadinanza, intesa come partecipazione a una vita, a una storia e a una cultura comuni, segnate da un’eguaglianza di diritti e di doveri, il graduale processo di deformazione e degenerazione, che a quella prima epoca educativa è seguito e che ancora oggi stiamo vivendo, è transitato in una istituzione scuola/università che s’organizza, anticipando e confondendo epoche distinte dell’esistenza umana, secondo i valori individualistici e concorrenziali della prestazione lavorativa e del mercato economico.
4Si potrebbe riassumere schematicamente questo passaggio radicale da un paradigma all’altro nella sintesi oppositiva di Historismus contra Pragmatismus. Visto che la scuola del civis, nel condurre dal narcisismo primario alla communitas, trovava non a caso nel sapere storico la sua chiave di volta. La storia infatti per definizione deindividualizza e ci consegna a un percorso collettivo: un percorso fatto di evoluzione e di confronti tra tipologie diverse di società e di relazioni umane, di attitudini esistenziali e atteggiamenti vari nei confronti del mondo, di diverse filosofie e religioni, di diverse letterature e mitologie. Vale a dire che la storia ci globalizza, allarga la nostra visione a essere kantianamente membri di quel valore supremo che è il genere umano, nella varietà della sua evoluzione e delle sue composizioni antropologico-culturali. E in questo educarci all’alterità, passata e presente, ci fa cittadini del mondo, come partecipi di una cosmopoli che nello stesso tempo ci rende ancora più avvertiti della peculiarità e della irriducibilità di ogni storia e cultura locale e nazionale.
5Questa scuola della cittadinanza, fondata sull’interiorizzazione nell’età dell’adolescenza della cultura del «comune», quale grado di maturazione indispensabile verso una ulteriore e successiva individuazione, è profondamente diversa, com’è evidente, da una scuola ispirata alla cultura del mondo del lavoro e del problem solving, ossia dell’imparare facendo [learning by doing], che concentra l’attenzione e la formazione sul tema/problema che, fuori da un orizzonte di storia, si presenta di momento in momento come interrogazione e risoluzione del presente. Non che la tradizione del pragmatismo americano, e in particolare l’opera di John Dewey, non abbia dignità e profondità di pensiero, giacché ha mirato anch’essa a produrre una cultura della cittadinanza. Ma è una tipologia di socializzazione e di cittadinanza che si vuole realizzata attraverso il modello e il paradigma del lavoro, del fare, e non del conoscere, o meglio del theorein: nel senso etimologico latino di processio, di scorrimento e confronto, il più ampio possibile, di diverse tipologie di umanità, di società e di soggettività. Né è casuale che il pragmatismo statunitense sia rimasto profondamente condizionato dal darwinismo, ossia dalla problematica biologica di un organismo vivente che si deve riprodurre in un determinato ambiente, superando di volta in volta le tensioni e gli squilibri che quell’ambiente gli impone. Per cui l’orizzonte del pragmatismo/darwinismo, malgrado la sua apertura ai temi della democrazia e della importanza per la stessa democrazia di un’istruzione scolastica generalizzata, rimane, a mio avviso, irriducibilmente individualistico e, come tale, propone una scuola in cui non è fondamentale la formazione di un gruppo classe comunitario e collaborativo – un gruppo che si riconosca come comunitario e distinto dal mondo degli adulti proprio educandosi alle divere tipologie di comunità attraversate dal genere umano –, bensì in cui è dominante la formazione del singolo individuo in concorrenza con l’ambiente e i problemi che questo costantemente gli pone, con una inevitabile estensione di quello spirito di competizione anche agli altri suoi simili e compagni.
6Ora in Italia è accaduto, almeno a me sembra, che una classe politica trasformista e sostanzialmente incolta, sia passata, senza colpo ferire, dallo «stalinismo democratico», ossia dal comunismo del pci, al liberismo economico e sociale del nuovo capitalismo, e, per raggiungere e mantenere il potere come nuova classe dirigente, a partire dall’opera demolitrice di Luigi Berlinguer, Ruberti e soci, abbia consegnato scuola e università alla mala genia dei pedagogisti, che, privi per definizione di filosofia, hanno traghettato la scuola preesistente, pur con tutti i suoi limiti, dello storicismo e dell’umanesimo verso la scuola-azienda dei crediti e dei debiti, dei percorsi formativi individualizzati, dell’autonomia scolastica, dei progetti a premio, dei presidi-manager: una scuola cioè modellata sul paradigma del mercato delle merci e del denaro, ma soprattutto su un sapere che limita e rinchiude gli occhi sull’immediato e allontana il pensiero dalla fatica ma anche dalla bellezza della profondità e della mediazione.
7Con la sciagurata riforma universitaria del «3+2» che ha ridotto nella sostanza l’università a un liceo, quanto a superficializzazione e a frammentazione del sapere, e con l’esposizione di tutta la docenza universitaria al controllo quantitativo, secondo metri e centimetri dell’anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca), si è compiuto, almeno secondo la mia esperienza di docente di Storia della filosofia in più sedi universitarie, l’allineamento e la normalizzazione del percorso educativo italiano ai parametri europei. Ma più congruo sarebbe dire ai parametri della cultura americana, inevitabilmente egemone in Europa, dopo la seconda guerra mondiale, e valevole perciò a esportare il suo problematicismo pragmatico e antistoricistico che, in unione con la filosofia analitica anglosassone e la riduzione di ogni teoria ad analisi del linguaggio, ha fatto della risoluzione dei problemi del presente la sua istanza educativa fondamentale, tale da rinunciare a ogni prospettiva che mettesse in campo categorie come quelle storico-umanistiche di totalità, di sistema, di relazioni sociali, di dualismo di piani tra immediato e mediato, apparenza ed essenza, significante e significato, conscio e inconscio. Giacché al fondo di una cultura ispirata dal pragmatismo e dal problematicismo rimane come modello di verità, e come massimo valore conoscitivo cui mirare, secondo quanto già aveva ben compreso lo Husserl della Crisi delle scienze europee, quello delle scienze naturali e della loro capacità di ridurre a misurabilità e quantità l’intero mondo dell’esperienza umana, evitando di cadere nella metafisica delle scienze umane, soprattutto nelle speculazioni astratte e ideologiche della dialettica e della sua articolazione qualitativa dei piani della realtà (cfr. in tal senso la celebre e pretesa confutazione della dialettica e dello storicismo compiuta da K. Popper nella sua Miseria dello storicismo)1.
8Il superamento dell’anomalia del sistema educativo italiano e la sua omologazione ai parametri della formazione europea a dominanza anglosassone-americana, che avviene durante gli anni Novanta, conclude del resto la complessa vicenda storico-politica che si era aperta con il Sessantotto e con la messa in discussione non solo dell’autoritarismo, ma anche dei limiti che erano intrinseci all’umanesimo e allo storicismo che connotava la scuola e in particolare l’università italiana.
9Perché criticare la riduzione a scientismo della cultura della scuola pragmatica e mercatoria non significa certamente chiudere gli occhi di fronte alle chiusure dogmatiche, alle presupposizioni forzate, alle semplificazioni da filosofia della storia che avevano connotato, precedentemente, molto dello storicismo e del dialettismo umanistico. E appunto il Sessantotto aveva significato, almeno all’inizio, il tentativo di una rivoluzione culturale nell’università che affrontasse la questione, assai difficile, di una università che fosse di massa, aperta cioè ai ceti popolari e non solo alle classi opulente, e insieme di alta qualificazione culturale: nel senso di una cultura capace di sperimentare universalizzazioni che includessero quanto più possibile relazioni sociali, modalità economiche di produzione della ricchezza, temi di ecologia ambientale, esistenziale. Cioè, a ben vedere, una università di istruzione e di ricerca, che fosse in grado di elaborare teorie e universali fecondi sì di prassi e di applicazioni, e dunque di aprire anche all’economico e al mondo del lavoro, ma appunto a muovere da un building theories che godesse dell’autonomia di un conoscere affrancato dall’economia e dalla bisognosità dell’immediato.
10Quel tentativo conobbe, ahimè, lo spazio di un mattino, per diverse ragioni di cui ora qui non è il caso di parlare. La pavidità e il conservatorismo di pressocché tutta la corporazione dei professori universitari di provarsi in tale allargamento culturale da un lato e il prevalere dall’altro di un’accelerazionismo politico, che spinse studenti e giovani ricercatori ad abbandonare una ricerca di verità nel loro specifico di azione e a portare il verbo rivoluzionario, all’esterno, alle classi lavoratrici senza coscienza, condusse la questione universitaria nella palude e nell’impasse del ventennio successivo degli anni Settanta e Ottanta, in cui l’università pubblica è rimasta di massa ma con sostanziali segni di dequalificazione e di abbandono. La risposta reazionaria della classe dirigente d’allora, democristiano-socialista, alla rivoluzione del Sessantotto fu, con il sostanziale tacito assenso del Partito Comunista e della cgil scuola, l’abbassamento del livello culturale con l’incredibile liberalizzazione dei piani di studio sul versante degli studenti, che consegnavano all’arbitrio dei più la composizione di più agili, per non dire più superficiali, percorsi di esami, e sul versante dei professori una ampia immissione (dovuta all’azione corsara e dilapidatrice di Bettino Craxi) in posti di ricercatori di ruolo, con un concorso inesistente se non formale, nella sostanza un ope legis (di cui ha usufruito anche il sottoscritto), che allargava la docenza senza criteri e verifica alcuna di preparazione adeguata. In tal modo, attraverso l’apparenza di riforme avanzate, che continuavano, si pretendeva, l’opera di democratizzazione e di emancipazione voluta dal Sessantotto, si contraddicevano e si mortificavano quei tentativi stentati e confusi ma pure positivi che il Sessantotto aveva messo in campo quanto a possibilità di una università in grado di teorizzare e sperimentare universali capaci di un’ampia integrazione di realtà e dunque affrancati al massimo da strutture d’autoritarismo.
11La scelta politica di dequalificare l’università democratica e popolare e d’impedire una formazione elevata di massa continuava del resto negli anni successivi con una sciagurata disseminazione di sedi universitarie, sprovviste delle strutture educative più indispensabili (come biblioteche, laboratori, residenze per studenti) ma in grado di soddisfare l’appetito della rendita urbana e dell’aumento dei posti a disposizione dei docenti, e, cosa non meno grave, con l’istituzione di modalità dei concorsi universitari, che, rinunciando alle commissioni nazionali, favorivano la vittoria dei candidati locali e dunque di ambiti della docenza con alti livelli di immobilità e di localismo.
12Questo impaludamento generalizzato, questo sprofondare nel locale, conduceva l’università italiana a una estenuazione di forze che significava anche chiusura su se stessa e incapacità, dunque, di sollecitare e alimentare uno scambio sia di configurazioni d’idee che di programmi e di metodologie d’insegnamento con la scuola nei suoi diversi ordini e gradi, la quale, per tale abbandono, veniva lasciata nelle mani, come già dicevo, di pedagogisti privi, a parte poche eccezioni, di stabili e approfondite fondamenta costituite dalla cultura filosofica e psicoanalitica che, verosimilmente, avrebbero consentito di concepire impianti formativi individualizzati e non individualistici. Di contro, con un orizzonte culturale che ha esaltato un’antropologia solo cognitivista e quantistica, la programmazione ministeriale e politica è stata capace di dar vita a un sistema valutativo fatto solo di misure, quiz, verifiche, ripetitivi e vuoti consigli di classe, concorrenze economiche miserevoli tra insegnanti su progetti di aggiornamento e modernizzazione dell’insegnamento tanto defatiganti nella loro ideazione quanto, in genere, inutili e di bassissimo profilo. Insomma una palude, quella degli ultimi anni Settanta e poi di tutti gli anni Ottanta, che ben prepara il terreno alla svolta liberista e pragmatista-mercatoria nelle istituzioni scolastiche e universitarie degli anni Novanta, di cui si diceva all’inizio, e che conduce, dritto dritto, senza tentennamenti o dubbio alcuno, alla situazione sciagurata e fallimentare dell’oggi.
2. Astrazioni per il futuro
13Ma come è dunque oggi possibile, dopo tanti anni ormai consumati di omologazione delle nostre istituzioni educative ai bassi livelli propri della cultura europea e soprattutto in un contesto storico globale di sussunzione sotto il capitale non solo dell’economia ma anche delle forme generali di coscienza e di produzione dei valori ideologici fondamentali, sia collettivi che individuali, tornare ad avanzare per scuola e università una configurazione di temi e proposte che possano in qualche modo, utopicamente, ritornare all’idea di istituzioni «universali», al massimo grado di inclusività possibile, che siano contemporaneamente istituzioni ad alto grado di educazione e formazione?
14La serie di proposte che qui seguono, in ordine numerico ma non di importanza, rientrano in questa ispirazione di natura utopica, e in quanto tali, alla stregua di idee kantiane solo orientative di un lungo percorso storico, si caratterizzano come mete a cui tendere nel tentativo sia di bilanciare, attraverso l’opposto contrario, l’attuale realtà sia di esprimere il forte sentimento di contrarietà verso la deriva che le istituzioni formative hanno ormai costitutivamente preso. Esse vengono rivolte solo al territorio nazionale, e la loro responsabilità teorica appartiene solo alla fantasia di chi scrive.
1. Insegnamento volto non solo alla trasmissione di programmi delle varie materie ma anche alla costituzione del gruppo classe: a una identità cioè comunitaria e collaborativa capace di accogliere e riconoscere dentro di sé le varie differenze individuali anziché abbandonarle ed estremizzarle a una pratica e a una tipologia concorrenziale e individualistica di prestazione. La costituzione del gruppo classe come riconoscimento reciproco orizzontale tra adolescenti di una medesima età deve valere come luogo di identificazione, di rafforzamento e di difesa emotiva, in relativa autonomia di contro alla verticalità del mondo adulto e istituzionale. Continui lavori di studio e di ricerca in comune, cambio frequente di compagni di banco, visite e percorsi comuni nel mondo esterno devono sollecitare e facilitare sentimenti di immedesimazione nell’altro, così come di maggiore sicurezza rispetto al proprio mondo interiore ed emozionale. La formazione del gruppo classe, in alternativa alla concorrenza tra singoli che si spinge, com’è ben noto, agli estremi di emarginazioni e bullismi, deve essere un obiettivo fondamentale e irrinunciabile della scuola pubblica, pari, quanto al valore, alla trasmissione e acquisizione dei contenuti disciplinari. Deve costituire, nella scuola della cittadinanza, una pragmatica dell’educazione civico-esistenziale, ossia un’educazione, attraverso la prassi e l’azione, a un rispetto dell’altro, a un allargamento e una moltiplicazione della visuale dell’adolescente, che vada di pari passo con la valorizzazione e la scoperta di sé e della propria, non omologabile, individualità. La costituzione del gruppo classe, che per la sua attuazione impone un limite massimo di 20 alunni per ogni classe, deve essere dunque lo strumento fondamentale perché la scuola del conoscere sia contemporaneamente una scuola del riconoscere: una scuola cioè in cui la conoscenza dell’oggetto culturale vada di pari passo con il riconoscimento dell’altro e il riconoscimento di sé.
2. Assegnazione di un anno sabbatico, regolarmente pagato, ogni sette anni di didattica a ogni insegnante di tutti i gradi di scuola, da trascorrere in una istituzione universitaria, partecipando a lezioni e progetti di ricerca, con la conclusione di un elaborato finale scritto (tesi) sottoponibile a giudizio (dalla cui valutazione dipenderà il progresso nella carriera economica dello stesso insegnante e/o il rinnovo del successivo anno sabbatico).
3. Riorganizzazione radicale dell’università per la recezione e la guida culturale di questi corsi approfonditi di aggiornamento per gli insegnanti della scuola primaria e secondaria. Nello stesso tempo, abolizione del «3+2» e abolizione dei semestri (che nella sostanza si riducono a due mesi, nel migliore dei casi, di lezioni). Si ritorna a corsi universitari di durata annuale e a corsi di laurea di 4/5 anni, con un biennio di esami fondamentali eguali e obbligatori per tutti gli studenti e con un biennio/triennio successivo di esami di più ampia, ma sempre limitata, individuazione. Il ritorno a corsi di studio di 4/5 anni avrebbe, tra gli altri, lo scopo di cancellare una serie numerosa di corsi di laurea (come Scienze dell’educazione, Scienze della formazione, dams e molti altri) che generano laureati con livelli culturali ancora più bassi, di quelli, già non elevati, della media delle altre tipologie di laurea.
4. Elevazione dell’età dell’obbligo scolastico a 18 anni e istituzione di un unico tipo di liceo, obbligatorio e generalizzato per tutti, con un programma di studio profondamente umanistico (insegnamento del latino e del greco in tutti e cinque gli anni), integrato con profonde conoscenze scientifico-matematiche e linguistiche (conoscenza approfondita di due lingue straniere). Conseguentemente ritorno dell’insegnamento del latino per tutti i tre anni della scuola secondaria inferiore. La riproposizione generalizzata della cultura classica deve valere come strumento fondamentale di un radicamento che restituisca senso e significato dell’origine e, insieme, dello spessore e della diacronia del tempo.
5. Abolizione di ogni compenetrazione diretta tra mondo della scuola/università e mondo del lavoro. Il fine della scuola e dell’università è quello di concepire, trasmettere, confrontare «universali», sia in senso umanistico che scientifico. Ossia formare e divulgare universali, i più ampi possibili quanto a contenuto di realtà sia antropologica che naturalistica e dunque i più capaci di dar vita, nel mondo successivo del lavoro e delle istituzioni umane, a professioni, a pratiche, a produzioni ricche di efficacia e di integrazione dei diversi piani. La scuola e l’università producono e mettono in forma gli universali, al più alto grado possibile di non-contraddizione; il mondo successivo del lavoro, dell’economia, delle relazioni sociali li traducono nella realtà della prassi, cercando di configurare un mondo umano e naturale il più possibile esente da scissioni, esclusioni, polarizzazioni asimmetriche di un estremo su un altro, violenza e dominio.
Come tempo e spazio di mediazione tra i due mondi, del concepimento e della formazione agli universali e della loro messa al lavoro, va istituito un servizio civile, della durata di sei mesi, che i giovani di ogni sesso hanno l’obbligo di compiere, a spese ovviamente dello Stato, per prendere dimestichezza entro i 25 anni di età con le problematiche ambientali della realtà che li circonda: svolgendo pratiche sia nel senso di un’ecologia e di una cura del mondo-ambiente sia nel senso di una cura e di una ecologia della mente e delle relazioni umane. Come anticipazione di questo servizio civile, nella scuola, al posto dell’odierno e vituperevole spazio di ore attribuito al cosiddetto «mondo del lavoro», potrebbero essere organizzate attività collettive degli studenti su questioni di natura ecologica e civile.
6. Abolizione di ogni percorso formativo, di ogni corso di specializzazione, di ogni corso abilitante, per l’entrata nella scuola degli insegnanti. Immissione in ruolo attraverso concorsi nazionali da svolgere ogni due anni, con presidenze di commissione affidate a docenti universitari. Unico obbligo preliminare per partecipare ai concorsi per la scuola è la frequenza di un corso di sei mesi, con esame di valutazione finale, di cultura psicoanalitica e di psicologia degli affetti che, oltre agli specifici saperi disciplinari, sono gli strumenti indispensabili per instaurare relazioni che siano formative e non deformative per gli studenti di ogni ordine e grado. Questi corsi, a spese dello Stato, possono essere svolti, per competenza e per mirati approfondimenti formativi clinici e teorici, solo da psicoanalisti membri di associazioni psicoanalitiche aderenti ad associazioni internazionali che hanno ottenuto il riconoscimento del proprio training dallo Stato.
7. Abolizione dell’anvur, come istituzione che, giudicando delle prestazioni dei diversi atenei, promuove e sollecita la concorrenza nell’intero sistema universitario, e insieme abolizione della vqr (Valutazione della Qualità della Ricerca) quale strumento di valutazione dell’attività di ricerca di docenti e ricercatori universitari. Questo sistema di valutazione, presuntivamente volto a misurare e giudicare secondo qualità, applicando invece criteri essenzialmente formali e quantitativi, ha concorso profondamente ad alterare e a peggiorare la natura della ricerca, e di conseguenza dell’insegnamento. La necessità di rientrare in parametri di valutazione formale obbliga infatti ricercatori e docenti a dare attenzione assai più a criteri estrinseci che non al contenuto. Valga come esempio di tale «degenerazione quantitativa» le disposizioni dell’anvur nell’anno 2013, valide a tutt’oggi e relative alle pubblicazioni su riviste di saggi di natura economica e statistica:
«Per quanto attiene al GEV13 (Gruppo di Esperti di Valutazione dell’Area 13: Scienze Economiche e Statistiche), sul sito ANVUR-VQR è a disposizione della comunità scientifica la lista delle riviste che il GEV13 considererà ai fini della classificazione dei prodotti di ricerca per cui è prevista l’analisi bibliometrica (articoli su rivista). Il documento allegato include, per ciascuna rivista, le seguenti informazioni: – titolo; – codice issn; – sotto-area (A=Economia aziendale, E=Economia, H=Storia economica, S=Statistica e metodi matematici, G=Generalista); – dummy che identifica la presenza in ISI WoS (1=presente, 0=non presente); – Impact Factor (IF) 2014. Fonte: ISI WoS; – Impact Factor a 5 anni (IF5) 2014. Fonte: ISI WoS; – Article Influence Score (AIS) 2014. Fonte: ISI WoS; – dummy che identifica la presenza in Scopus (1=presente, 0=non presente); – Impact per Publication (IPP) 2014. Fonte: Scopus; – Source Normalized Impact per Paper (SNIP) 2014. Fonte: Scopus; – SCImago Journal Rank (SJR) 2014. Fonte: Scopus; – indice h relativo al 2010-2014. Fonte: Google Scholar; – dummy che identifica il metodo di raccolta dell’indice h (1=Google Scholar Metrics, 0=Publish or Perish); – dummy che identifica le riviste italiane (1=italiana, 0=non italiana)»2.
La valutazione non può essere né americana (se affidata, anche se solo parzialmente, al giudizio degli studenti) né europea, se affidata ai parametri di commissioni che obbediscono solo a statuti formali-quantitativi. Può essere solo quella della comunità scientifica, la sola capace di mettere a confronto gli universali e di discutere e indagare il valore in tale orizzonte di ogni singola produzione e competenza e del loro concorrere o meno all’avanzamento delle conoscenze e alla qualità dell’insegnamento che ne deriva. Solo una comunità scientifica qualificata, pubblica e democratica, in grado di tornare a discutere e scontrarsi sui contenuti e sul confronto delle idee, può garantire giudizi di qualità, di contro a una valutazione sempre più solo estrinseca e quantitativa. Per cui conseguentemente l’assunzione e la promozione di ricercatori e docenti universitari può essere affidata solo a concorsi nazionali, con larghe commissioni, in un confronto in cui la valutazione dei candidati possa infine essere strappata al localismo e al familismo amorale che nell’ultimo trentennio l’ha caratterizzata3.
8. Investimenti di grande volume per l’edilizia universitaria, al fine di costruire case dello studente e collegi residenziali in un numero tendenzialmente sempre più adeguato al numero degli studenti. Con il duplice scopo di combattere, da un lato, la rendita urbana che ha svuotato molti centri storici per trasformarli in residenze d’affitto e, dall’altro, per operare una riconcentrazione di sedi universitarie, capaci, per il loro numero più limitato, di offrire strutture di ricerca e di studio, come laboratori e biblioteche, e strutture di socialità (residenze, mense, attrezzature sportive) a un livello di qualità assai più elevato di quello contemporaneo.
3. Scuola e università del «ri/conoscere»
15Oggi stiamo vivendo un enorme passaggio tecnologico, com’è sotto gli occhi di tutti, in seguito allo sviluppo del digitale e delle macchine informatiche. La possibilità di collocare, accumulare, elaborare e processare una quantità enorme di informazioni al di fuori del cervello umano offre all’umanità una strumentazione utilissima per entrare in comunicazione e in un’autoriflessione con se stessa a livello globale, con la sua storia, con le sue memorie, con i progetti del suo futuro. Offre l’opportunità di un aumento enorme della produttività del lavoro umano e della sua possibilità di un rapporto non devastante e asimmetrico con la natura, intesa sia come natura esterna che come natura interna all’umano.
16Ma nello stesso tempo quell’enorme accumulo di informazioni fuori della mente umana può autonomizzarsi come mente esterna, che valuta, interpreta e dirige. Può cioè divenire un «sistema mente artificiale-mente umana», in cui la prima giudica e mette in campo valori al posto della prima, basandosi sulla sua capacità e sul suo primato di matematizzare le informazioni, di tradurle nel linguaggio numerico della discontinuità e di avere il primato, per una velocità incomparabile di calcolo, sulla mente umana.
17In un sistema economico basato sul capitalismo, e sull’accumulazione di ricchezza monetario-astratta quale soggetto fondamentale e dominante l’intera organizzazione sociale, è assai difficile che la relazione mente artificiale-mente umana non confermi la realtà della sussunzione dell’essere umano e delle sue facoltà e forme di vita alle leggi della soggettività esterna astratta del capitale. E che dunque la rivoluzione delle tecnologie informatiche non produca una mente umana sempre più orizzontale: una mente cioè sempre in connessione con le fonti e i comandi di una informazione esterna, per definizione egemonica quanto a generazione e programmazione di senso, a muovere dalla quantità incomparabile delle sue banche dati e dalla loro elaborazione matematico-formale. Tanto da essere giunti, con l’intelligenza artificiale di ultima generazione, a teorizzare che sarebbe ormai solo dalla quantità, cioè dalle medie statistiche dell’enorme accumulazione di dati, che deriverebbe la qualità, ossia i giudizi di valore e le prescrizioni di comportamento.
18A questo processo enorme di quantificazione del mondo, di riduzione del continuum dell’essere vivente al discontinuo della matematica e dei suoi calcoli – alla «mente orizzontale» che ne deriva – ci si può in qualche modo opporre solo tornando a dare valore, o meglio a fare luogo del valore e del senso, come già dicevo nel primo capitolo di questo testo, all’asse verticale della mente umana: ossia quella dimensione, pure costitutiva e imprescindibile, della mente umana che consiste nella connessione tra piano logico-discorsivo del pensiero e piano motivazionale dei desideri e degli affetti.
19La concezione dell’essere umano come strutturalmente costituito su due assi relazionali, l’asse orizzontale e l’asse verticale, rimanda a una tradizione scientifica ormai consolidata. Ma, visto che origina nel campo della tradizione psicoanalitica, ha trovato e trova tuttora moltissime difficoltà a entrare nel campo più vasto di una discussione più generale, di natura socio-politica, attinente alle scienze umane. Del resto, a ben vedere, la psicoanalisi non è stata mai accolta in una integrazione reale con il pensiero politico. Basti considerare quanto la tradizione socio-politica marxista, gravata per principio da un’antropologia collettivista-comunitaria, abbia sempre guardato con sospetto la psicoanalisi in quanto cura con soluzioni e vie d’uscita individualistiche. E invece, almeno a parere di chi scrive, oggi una riformulazione della filosofia politica, capace di riaccendere prospettive profonde di trasformazione sociale, solo nella psicoanalisi e nelle dinamiche dell’asse verticale che essa apre può trovare il luogo della sua fondazione. Il tutto ovviamente coniugato in modo profondo e rigoroso, ben al di là di un recente uso filosofico e politico del pensiero di J. Lacan e del lacanismo, che, ben lungi dall’appartenere alla tradizione rigorosa della psicoanalisi, si coniuga in una mescolanza di metafisica heideggeriana, di dialettica kojeviana, di logica dei nodi e di tassonomia del linguaggio, ch’è più prossima a una esuberante composizione barocca e a una scenografia di magica seduzione che non a un approfondimento antropologico fecondo e ricco di implicazioni4.
20Le ragioni storiche della sinistra sono naufragate, a mio avviso, sulla questione della soggettività individuale e della sua relazione irriducibile, in ultima istanza, al collettivo. La cultura del Sessantotto nella sua parte minoritaria, ma più sensibile e avanzata, aveva tentato una intelligente mediazione tra collettivismo e diritti alla differenza e all’autorealizzazione del singolo. Tentativo per altro fallito per diversi motivi e il cui fallimento ha dato luogo alle rivendicazioni di un’individualità coniugata secondo la volgarità del berlusconismo e del neoliberismo del consumo e del godimento. Ma proprio tutto ciò insegna, a ben vedere, che le ragioni del comunismo/socialismo sono e saranno definitivamente morte se non riuscirà ad articolarsi, quale nuova configurazione di valori per il futuro, una valorizzazione del comune da un lato e una valorizzazione dell’individuale dall’altro proprio per quanto non sia in lui riducibile al comune.
21Né è un caso che, nel solco di una tradizione di sinistra che ha sempre ipervalorizzato il comune di contro all’individuale, il pensiero oggi dichiaratamente più radicale continua a tematizzare e a proporre la dissoluzione dell’individuale, sia che parli di transindividuale, di moltitudini, di rizomi, di microfisica delle relazioni, di facoltà di genere, di abisso dell’Essere o di Alterità assoluta del Desiderio. Laddove, all’opposto, per chi scrive il problema di fondo da mettere a tema e da approfondire per una nuova antropologia dell’emancipazione è come trovare i modi del riconoscimento dell’individuale, di ciò che non è comune, attraverso i modi e le relazioni che valgono egualmente per tutti e che dunque propongono l’universale e il comune. Cioè come consentire – essendo ben consapevoli della dilemmaticità e dell’irrisolvibilità, a prima vista, del problema – a che le istituzioni pubbliche e comuni promuovano e garantiscano la differenziazione e l’individuazione, ovvero che un individuo possa coincidere con il suo più proprio e incomparabile progetto di vita con il grado più basso possibile di autocensura e repressione.
22Insomma come comporre in armonia asse verticale e asse orizzontale dell’umano, privato e pubblico, esistenziale e sociale? Giacché è su questa possibile composizione di opposti, che da opposti divengano distinti in una reciproca sollecitazione e compresenza, che si gioca, a mio avviso, una nuova riconfigurazione di ciò che potrebbe significare un socialismo/comunismo, che abbia celebrato la cerimonia degli addii con quello ormai trascorso ed estenuato dalla lezione della storia. Ed è proprio su questa prospettiva di un nuovo materialismo che, verosimilmente, dovranno esercitare tutta la loro intelligenza e creatività le nuove generazioni: su come immettere nelle strutture della storia e della società umana l’animalità dei nostri corpi pulsionali e desideranti, senza cedere alle lusinghe di tutti coloro che, invece di lavorare sul riconoscimento e sull’integrazione di queste istanze, hanno obbedito all’imposizione nietzschiana della scissione ontologica e irredimibile tra vita e cultura, tra corpo e mente, tra affetto e concetto5.
23Una scuola utopica del futuro, muovendo da tale rinnovata antropologia, non potrà che coniugare insieme conoscenza e riconoscimento. Ossia una esperienza educativa in cui la conoscenza dell’oggetto si accompagni e si medi con l’autoconoscenza del soggetto, nel senso di una soggettività in formazione che s’approssimi progressivamente al riconoscimento di se stessa e della propria processualità interiore. Ma dove, come dovrebbe esser chiaro, non si può dare vero riconoscimento del proprio sé senza essere accompagnati in questo processo dal riconoscimento da parte degli altri e, nello stesso tempo, senza esser capaci, a nostra volta, di provarsi a riconoscere l’alterità e l’identità degli altri. Vale a dire che una scuola della sola conoscenza, senza assumere come suo compito intrinseco tale complessa dialettica del riconoscimento, non potrà che essere una scuola di una conoscenza oggettiva e deindividualizzante, capace di essere base futura di una umanità solo produttivo-pragmatica e per nulla responsabile, quanto a profondità di senso, né di se medesima né dell’interesse comune.
24Ma che si dia una scuola (e di conseguenza una università) del ri/conoscere può essere solo l’esito di un programma politico che faccia della scuola/università il perno di un profondo ripensamento del modello di sviluppo economico e che veda effettivamente nell’istruzione e in una umanità sufficientemente responsabile di se stessa la chiave di volta di un’economia del futuro, capace di utilizzare le nuove e sorprendenti tecnologie dell’informazione come strumenti per una economia la cui produzione di ricchezza sia ecologicamente ispirata: nel verso di un’ecologia del mondo esterno che sia nello stesso tempo un’ecologia del mondo interno.
Notes de bas de page
1 K.R. Popper, Miseria dello storicismo, trad. it. di C. Montaleone, Milano, Feltrinelli, 2013.
2 https://www.anvur.it/news/pubblicazione-tabelle-di-valutazione-bibliometrica/.
3 Sul tema della valutazione universitaria cfr. V. Pinto, Valutare e punire. Per una cultura critica della valutazione, Napoli, Cronopio, 2010. Ma si consideri anche tutta l’attività dei colleghi riuniti nel roas (Return on Academic Research and School). Cfr. anche R. Bellofiore, G. Vertova, Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università, Torino, Accademia University Press, 2018.
4 Anche per quanto riguarda la critica dell’opera di J. Lacan e dell’ideologia lacaniana, che ne è derivata, mi permetto di rinviare ai miei saggi, Materialismo «contra» spiritualismo. Sigmund Freud e Jacques Lacan, “Bollettino Studi Sartriani”, 2013, 9, Biblink, pp. 111-129; Dio ci guarda/(i) dall’Uno. Note per una critica affrettata del lacanismo, “In circolo. Rivista di filosofia e cultura”, 2019, 7 [http://www.incircolorivistafilosofica.it/]; Una metafisica troppo «nobile» del desiderio: A. Kojéve e J. Lacan, “Consecutio rerum”, 2019, 4, 7 [www.consecutio.org].
5 Su ciò mi permetto di rinviare al mio excursus nietzscheano in R. Finelli, Per un nuovo materialismo cit., pp. 109-139.

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