3. Tecnologia, tecnica, politica
p. 75-104
Texte intégral
1. «Technologie» e cameralismo nella Germania del Settecento
1La filosofia, e la cultura più in generale, dibatte da sempre su quale sia la natura della tecnica e delle sue pratiche nell’ambito complessivo dell’agire umano, quale sia il loro rapporto con la morale e la politica, quale sia la loro destinazione storica e civile. Basti pensare in tal senso a quanto Platone possa essere definito, oltre che teorico delle idee, anche teorico delle tecniche, per lo spazio enorme che nella sua opera viene dedicato alla tematica delle technai, sia riguardo alla definizione del loro valore epistemologico nel loro rapporto con il mondo dei paradigmi universali, sia riguardo alla loro funzione nell’organizzazione della polis a mezzo dell’articolazione e della divisione del lavoro. Anche perché già in Platone è assai ben chiaramente teorizzata l’indispensabilità delle technai nella vita dell’uomo e nello sviluppo del genere umano, quanto, nello stesso tempo, la consapevolezza che le technai non sono in grado di produrre e mantenere la pace e l’ordine sociale, rimandando tale produzione specifica a quella tecnica peculiare che è la politica.
2È assai ben noto che nel Protagora, il dialogo dedicato al sofista, questi espone il suo celebre mito secondo il quale gli dèi, prima che esistessero le razze dei mortali, avrebbero affidato alla coppia dei titani, Epimeteo e Prometeo, il compito di distribuire tra le varie specie viventi le abilità e i mezzi per provvedere alla loro conservazione. Ma, avendo Epimeteo esaurito tutte le potenzialità a favore del mondo animale, il fratello Prometeo non poté che constatare che «gli altri animali erano forniti di ogni cosa in giusta proporzione, mentre l’uomo era nudo, scalzo, senza coperte e inerme»1. Per tale motivo Prometeo, rubando dall’Olimpo il fuoco, ossia l’abilità tecnica di Efesto, provvide gli esseri umani non di mezzi corporei di difesa e di offesa, quali quelli del mondo animale, ma appunto della capacità tecnica come possibilità di costruire e modificare il mondo-ambiente, sottraendosi ai limiti e alla chiusura degli istinti animali. Solo che neppure lo sviluppo della molteplicità delle tecniche poteva bastare, secondo il sofista, a garantire la sopravvivenza delle società umane. Giacché mentre le competenze delle diverse tecniche attengono, secondo la specificità di ogni campo e di ogni professione, a singolarità e a gruppi diversi d’esperti, è solo la politica, come interesse all’intero della polis, che può e deve garantire l’ordine e l’armonia della vita sociale. Per cui, come afferma nell’omonimo dialogo platonico Protagora, Zeus giustamente volle che del senso della giustizia e della virtù politica partecipassero tutti gli uomini, e non solo singoli o pochi. Diversamente da quanto concepisce, si sa, Platone, il quale assegnava la politike techne ai filosofi, cioè ai soli conoscitori specializzati del mondo delle idee.
3Per un’analisi più approfondita della questione della tecnica nel mondo antico, specificamente quello greco classico, si rimanda al saggio posto in appendice a questo volume. Mentre questo rapido cenno al mito protagoreo vuole solo sottolineare quanto fin dalle origini della cultura occidentale, questione dell’antropogenesi e dell’istituzione della società umana, nascita delle tecniche e, infine, politica, quale competenza civile ulteriore rispetto a quella propriamente tecnica, siano stati temi intrinsecamente connessi e la cui problematicità, fin d’allora, può essere dipanata e svolta solo nella tessitura di un orizzonte unitario. Ma per quanto interessa la sostanza di tale questione vale la pena, io credo, con un balzo storico, focalizzare lo sguardo sul nesso Tecnica-Tecnologia nell’opera di Karl Marx e provare a svolgerne una rapida trattazione, perché, a mio avviso, da quella tematica – per come è stata affrontata e argomentata, nella complessità dei suoi aspetti, dall’opera marxiana – si possono ancora estrarre modalità d’impostazione sollecite e significative per il nostro presente.
4Premessa a ciò che segue è una notazione di carattere linguistico, dovuta al fatto che nella tradizione anglosassone il termine tecnica [technique] sostanzialmente non si differenzia da quello di tecnologia [technology], tanto che i due termini risultano del tutto sovrapponibili. Laddove nella tradizione di lingua tedesca, specificamente per la Germania della seconda metà del Settecento, Technik e Technologie acquistano due significati profondamente diversi, di cui è necessario brevemente dar conto per comprendere come quella diversa semantica abbia giocato un ruolo profondo nella teoria marxiana del Capitale e, conseguentemente, della società moderna. In questo ambito di ricerca è indispensabile rifarsi agli studi pioneristici di Guido Frison che da ormai cinquant’anni indaga con profonda originalità sulla questione della Technologie nella Germania preottocente-sca, nella sua connessione/discontinuità con la concezione moderna della «tecnica», e in particolare con la semantica inglese della coppia technique/technology.
5Per comprendere la peculiarità del significato germanico di tecnologia di contro a quello di tecnica va ricordato che, mentre l’espressione techne compare assai presto, già nel mondo greco del vi secolo, il lemma technologia è assai più tardo. Compare con la sistematizzazione della grammatica greca dovuta a Dionisio Trace e sta a significare la tecnica appunto del discorso e del corretto scrivere e parlare: si potrebbe dire, in sostanza, la retorica. Scompare come lemma per tutto il periodo medievale di fronte all’uso generalizzato del termine latino ars, per poi ricomparire con un significato non più limitato alla retorica e alle tecniche del linguaggio ma ai lavori di elaborazione e manipolazione di materie naturali, nel 1540, nel lemma pirotechnia (letteralmente «tecnica del fuoco»), come suona il titolo del trattato in volgare in dieci libri, De la pirotechnia di Biringuccio, dedicato alle metallurgie, miniere e procedure utilizzate per strumenti bellici e altre attività artigianali. Ma quello che a noi maggiormente e brevemente interessa è l’uso e il significato di questo termine nell’ambito del lessico giuridico-politico e giuridico-amministrativo di cultura tedesca della seconda metà del Settecento2.
6La Technologie tedesca è infatti una disciplina accademica nata e sviluppata come scienza dell’amministrazione e della politica nei principati tedeschi. Essa veniva insegnata in università tedesche come quella di Göttingen, ma soprattutto quelle di Halle e di Frankfurt an der Oder, e faceva parte del curriculum dei funzionari statali e dipendenti pubblici, che avevano la funzione di gestire la crescita della ricchezza materiale e dell’attività produttiva all’interno dello Stato. La tecnologia era cioè una scienza che doveva fornire ai funzionari statali una conoscenza precisa delle attività artigianali e manifatturiere, la loro classificazione, articolazione e distinzione in base alle diverse tipologie di prodotti, la loro migliore ubicazione, l’approvvigionamento e la rete di trasporto, il loro rapporto con l’agricoltura e con le altre aree sociali e amministrative delle scienze camerali e di polizia. Come dice il lungo titolo dell’opera di Johann Beckmann, Anleitung zur Technologie3, la Technologie aveva il suo campo di studio nella «conoscenza di artigianato, fabbriche e manufatti, soprattutto quelli che erano in stretto collegamento con l’agricoltura [Landwirtschaft], la polizia [Polizei] e la scienza camerale» (dove per Polizei s’intendeva – derivando ovviamente quel termine da polis – un complesso molto ampio di interventi dell’amministrazione governativa).
7La Technologie nasce dunque come scienza non quando si limita a essere conoscenza del modo di procedere di uno specifico processo di lavorazione [Kunstlehrer], ma quando vuole offrire un quadro e una terminologia unificante dei modi di lavorare le cose naturali. Per Beckmann, forse il suo esponente più autorevole, essa doveva infatti andare oltre a un mero elenco di mezzi e di procedure. Doveva cioè realizzare un quadro sistemico delle conoscenze tecniche fin allora accumulate, affinché si potesse derivarne un’utilizzazione assai più versatile e innovativa nei confronti di pratiche artigianali chiuse e delimitate in un solo processo produttivo. La Allgemeine Technologie per Beckmann è «la scienza che insegna la lavorazione di prodotti naturali [Naturalien] o la conoscenza dei mestieri. Mentre nelle officine viene solo mostrato come, per produrre le merci, bisogna seguire le indicazioni e il modo di fare del mastro, la tecnologia [Technologie] presenta, in ordine sistematico, una guida fondamentale sul come trovare, per uno scopo finale determinato, i mezzi appropriati a partire da princìpi veri e da esperienze affidabili, spiegando utilmente quanto compare nelle fasi di lavorazione»4.
8Per il suo costituirsi come scienza – come scienza specifica di quel funzionario statale che era il burocrate cameralista – essa introduceva o confermava una netta separazione tra i competenti e gli esecutori: i primi in grado di possedere la conoscenza, i secondi in grado di praticare con abilità e destrezza la ripetizione di una pratica empirica.
La [Technologie] non deve formare nessun tessitore, nessun produttore di birra, né in generale alcun artigiano [Handwerker] perché per praticare la loro arte hanno bisogno di grande abilità e destrezza che devono essere [entrambe] acquisite separatamente attraverso un esercizio noioso, ma sono capacità inutili per coloro a cui mi riferisco. Il generale deve conoscere le mansioni degli artiglieri, ma per lui non v’è alcun problema o imbarazzo se questi sono in grado di dirigere con più precisione e con più sveltezza il cannone. Il proprietario della terra deve conoscere lo strumento per trebbiare ma non ha alcun bisogno di saper trebbiare, tanto che potrebbe perfino essere privo di ossa e di muscoli. Gli artigiani si rapportano ai cameralisti, come i servi della gleba al proprietario della terra, come gli speziali delle farmacie all’autorità del medico5.
9Infatti non casualmente Beckmann, riguardo a chi sia di competenza la scienza della Technologie di contro alla mera pratica dell’artigiano, all’inizio della Einleitung del medesimo testo può porre a esergo una citazione quanto mai perspicua dell’abate Genovesi: «Ogn’arte per vile che sia ha i suoi princìpi, e il suo meccanismo, che non può esser avvertito che dal filosofo. E quindi è che le teorie dell’arti le più vili, si possono ridurre a scienza. Lezioni d’economia civile dell’ Ab. Genovesi, I p. 102»6.
10La Technologie doveva «mostrare le finalità comuni e particolari dei lavori e dei mezzi di lavoro, chiarire i princìpi, su cui essi si basano, e brevemente insegnare cosa possa servire per la comprensione e la valutazione di ogni singolo mezzo quanto alla possibilità di applicarlo ad altri oggetti, di quelli fin qui utilizzati». In quanto scienza essa doveva quindi porre le premesse per una euristica dell’invenzione, che facilitasse la creazione di nuovi strumenti e di nuovi metodi di lavoro. «Giacché questo – scriveva Beckmann – avrebbe dato ai produttori e agli artigiani dei concetti basilari e generali degli oggetti del loro lavoro, li avrebbe illuminati sul processo del loro lavoro, e avrebbe assicurato una visione generale che poteva guidare menti inventive a nuovi miglioramenti utili»7.
11Ma la Technologie non era solo scienza sistematica e comparativa dei mestieri e delle arti produttive e agricolo-estrattive, perché oltre agli aspetti scientifico-tecnici del mondo della produzione guardava anche a quelli economici, sociali e politici dell’applicazione delle tecniche, per essere una «scienza, che spiega in modo completo, ordinato e chiaro, tutti i lavori, le loro conseguenze, i loro princìpi». Doveva essere cioè una disciplina che studiava il sistema tecnico-fattuale in un sistema socio-tecnico più ampio, al fine di considerare la produzione materiale non come ambito materiale e indipendente, bensì profondamente connessa con la totalità del territorio, con i costumi, la cultura, le istituzioni dello Stato. Il suo scopo era formare il burocrate cameralista, capace di armonizzare tutti questi aspetti e in grado perciò di conciliare i processi di produzione con lo sviluppo del benessere della popolazione: concepire insomma l’intero sistema processuale delle operazioni lavorative insieme alle fasi, non solo materiali, che lo precedono e lo seguono in un contesto ambientale determinato.
12Di contro a pratiche tecniche di natura consuetudinaria, che venivano tramandate da maestri ad apprendisti, la Technologie aveva dunque il compito di ordinare le operazioni di lavoro in modo rigoroso e sistematico, secondo il punto di vista di un attore sociale, il quale, esterno al processo produttivo, doveva saper dirigere una produzione non solo efficiente di per sé ma coerente con l’intero territorio del principe e dello Stato, nonché con il benessere di tutta la popolazione.
La tecnologia è la scienza che insegna come trattare [Verarbeitung] oggetti naturali [Naturalien] o la conoscenza dei mestieri [Gewerbe]. Invece nelle officine si mostra solo [che] bisogna seguire le istruzioni e le abitudini del maestro per produrre la merce, [al contrario] la tecnologia fornisce in ordine sistematico introduzioni fondamentali per trovare i mezzi per raggiungere questo obiettivo finale sulla base di veri princìpi ed esperienze affidabili, e come spiegare e utilizzare i fenomeni che avvengono durante il trattamento8.
13In questo senso, per la sua capacità di supervisione dei processi produttivi, intesi in senso stretto e limitato, la Technologie settecentesca si caratterizzava per la sua duplice natura. Era da un lato una disciplina politico-amministrativa, che partecipava al potere e all’autorità dello Stato e dall’altro era una disciplina scientifica perché, analogamente alle scienze naturali, descriveva oggettivamente il necessario modo di essere e di svolgersi dei processi tecnico-produttivi, a muovere dallo statuto naturale dei valori d’uso e tenendo conto nello stesso tempo dell’intero contesto ambientale.
14Del resto tale duplice carattere della Technologie va compreso alla luce di quella che nel contesto socio-politico della Germania del Settecento è stata l’esperienza storica del cameralismo. Questo (dal tedesco Kammer, che ha significato in prima battuta la «camera» del tesoro del principe, e successivamente la «camera» del consiglio del principe) ha caratterizzato la teoria e la pratica politica e amministrativa dei principati tedeschi durante il dispotismo illuminato del xviii secolo e ha continuato a influenzare nella sua ispirazione di fondo la filosofia sociale e politica tedesca del xix secolo, fino a giungere a mio avviso per qualche verso alle teorizzazioni contemporanee dell’ordoliberalismo, quale filosofia della compresenza e mediazione tra mercato da un lato e azione dall’altro, governativo-statuale, di previdenza e di cura di un equilibrio generale del sistema.
15La concezione dello Stato nella tradizione del cameralismo tedesco era infatti profondamente diversa dalla tradizione del liberalismo inglese. In quest’ultimo, l’autorità pubblica deve essenzialmente garantire l’ordine, in modo che ciascuno possa agire liberamente con la propria iniziativa privata, purché non leda la sfera privata degli altri. Al contrario, nella tradizione tedesca, dove il principe era anche il padre dei suoi sudditi, lo Stato doveva garantire alle persone/ai sudditi non solo ordine ma anche felicità e benessere [Ordnung und Wohlfahrt]. Nel contesto dello Stato cameralista, e dunque di una funzione di paternage del sovrano mediata dalla scienza, la Technologie era appunto la disciplina volta ad accrescere, attraverso l’azione e il controllo di funzionari pubblici, la capacità produttiva e mercantile del territorio statale, assegnando alla conoscenza, propria del burocrate cameralista, la funzione di ordinare, controllare e dirigere da un punto di vista generale la varietà delle molteplici pratiche economiche e delle azioni subordinate dei sudditi.
16In questo senso non si può non sottolineare la diversa visione dell’economia che contraddistingueva la cultura britannica e quella tedesca della seconda metà del Settecento. Nella prima, l’economia era sempre più un’economia «politica», ossia una scienza che aveva come oggetto fondamentale il mercato quale luogo di socializzazione, di confronto e di scambio tra liberi attori economici. Ossia era un’economia politica perché considerava il mercato come l’istituzione caratteristica e fondamentale attraverso la quale la società civile moderna vive e si riproduce, nella sua specificità e autonomia di sfera sociale distinta dallo stato politico. Almeno a partire da Adam Smith, si assumeva infatti che nel mercato moderno la formazione dei prezzi avvenisse in modo impersonale, non dipendendo l’agire di ogni attore economico da nessuno in particolare, perché dipendente invece dall’azione economica di tutti. Tanto da assegnare alla natura della legge economica, basata sull’automatismo della formazione dei prezzi e sulle correnti della domanda e dell’offerta, un carattere profondamente diverso dalla natura della legge politica, diversamente istituita sulla volontà della decisione e sul potere d’intervento dell’autorità politica.
17Invece nella cultura tedesca del Settecento l’economia ha ancora un profondo legame con il significato classico-aristotelico di econo-mi-a legato a oikonomos [amministratore della casa]. Vale a dire che persisteva, risalendo all’antica tradizione di attribuzione e disposizione medievale del feudo, una concezione secondo la quale il patrimonio del sovrano, almeno de iure se non de facto, non era ancora distinto dal patrimonio dello Stato. Con la conseguenza che ne derivava, per cui il principe nello Stato tedesco non era solo sovrano ma, come s’è già detto, anche padre dei suoi sudditi. Avendo l’obbligo e l’onore, come padre (ossia come capo dell’oikos), di garantire non solo l’ordine ma anche il benessere dei suoi sudditi-figli.
18In tale orizzonte territoriale e giuridico-politico la Technologie era la disciplina che, avente a oggetto le attività artigianali-manifatturiere come quelle agricolo-estrattive, faceva parte dell’ordinamento più generale della Polizei, quale complesso di disposizioni amministrativo-governative aventi cura dell’intera polis, cioè di una gestione efficiente del territorio che includesse, anche se pur in ultima istanza, il benessere della popolazione9. Così la disciplina della Technologie tedesca, se per un verso si congiungeva indubbiamente a una tradizione europea rappresentata dalla originaria proposta di Francis Bacon per una storia naturale dei mestieri e soprattutto dal progetto contemporaneo di Diderot e D’Alembert dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, dall’altro includeva tale tradizione scientifica nei processi educativi propri del cameralismo. Per giungere così a combinare in modo inestricabile un significato che apparteneva alle scienze naturali e un significato che apparteneva alle scienze sociali e politiche. Risolvendosi e unificandosi queste caratteristiche nel medesimo obiettivo: separare nel complesso delle attività economiche la conoscenza dei materiali, dei processi di lavorazione, delle infrastrutture dal fare e dal lavorare effettivi e distinguere, secondo un rapporto gerarchico e disciplinato di competenze, gli uomini dotti e abili (i burocrati cameralisti) dagli esecutori manuali e dagli artigiani.
19Ora è proprio tale combinazione di oggettività tecnoscientifica e di obbligazione politica – tale visione della Technologie, come competenza organizzativa e tassonomica del burocrate cameralista in grado di guidare i processi di produzione secondo la regolarità di un processo naturale – che ha influenzato profondamente, a mio avviso, il pensiero di K. Marx e che, come tale, non può che costituire una parte ineliminabile delle nostre riflessioni sul presente.
2. Un significato inatteso di «tecnologia»
20Karl Marx è stato ben consapevole del significato, nuovo e peculiare nell’ambito della cultura tedesca del Settecento, del termine Technologie. Nel Manoscritto 1861-1863, testo fondamentale di preparazione per la stesura definitiva del primo libro del Capitale, egli infatti scriveva esplicitamente: «Beckmann, 1772, braucht zuerst die Bezeichnung Technologie [Beckmann per primo, nel 1772, ha usato la denominazione Technologie]»10.
21Ciò significa che egli era ben consapevole del fatto che la Technologie fosse una disciplina di recente costituzione, la cui origine risaliva al lavoro di Beckmann (Anleitung zur Technologie), che Marx cita qui con l’anno sbagliato 1772, invece del 1777. Come sappiamo da un suo precedente quaderno londinese di Exzerpte, compilati dieci anni prima, il Moro già nel 1851 era entrato in contatto con i teorici tedeschi della Technologie: specificamente con i Beyträge zur Geschichte der Erfindungen di Beckmann, con la Geschichte der Technologie di J.H.M. von Poppe, allievo di Beckmann, e con altre opere dello stesso Poppe. In vero già in quegli anni Marx si era avvicinato allo studio del processo di lavoro nel sistema manifatturiero e moderno di fabbrica attraverso i testi di A. Ure, C. Babbage e W. Schulz. Ma solo con gli estratti londinesi del 1851 aveva allargato lo sguardo alla storia delle tecniche prima della rivoluzione industriale. Come testimonia la sua lettera a Engels del 13 ottobre 1851: «In tempi recenti ho lavorato nella biblioteca che continuo a frequentare, soprattutto la tecnologia e la sua storia, oltre che l’agronomia, per avere almeno un’idea di questo rubino». Sappiamo anche, da un’altra lettera a Engels del 28 gennaio 1863, che in seguito, proprio durante la stesura del Manoscritto 1861-1863, aveva sentito il bisogno di tornare ai suoi estratti tecnologici. «Sto inserendo alcune cose nella sezione sui macchinari. Ci sono alcune domande curiose che inizialmente non sono riuscito a fare. Per chiarirli, ho riletto tutti i miei taccuini (estratti) sulla tecnologia e sto anche frequentando un corso pratico (puramente sperimentale) per lavoratori tenuto dal Prof. Willis (in Jermys Street; l’Institute of Geology, dove Huxley ha tenuto una conferenza)».
22Ora da un esame di comparazione lessicografico si mostra come sia proprio con il Manoscritto 1861-1863 che Marx abbia iniziato a fare una distinzione di significato tra il termine Technologie e il termine Technik. Anche se per esplicitare il senso di tale differenza è opportuno partire dalla definizione, sintetica e assai chiara ma successiva di qualche anno, di Technologie che Marx ha dato con la prima edizione del primo libro del Capitale nel 1867. «Il principio della grande industria di risolvere nei suoi elementi costitutivi ciascun processo di produzione, in sé e per sé considerato, e senza tener nessun conto della mano dell’uomo, ha creato la modernissima scienza della tecnologia. Le policrome configurazioni del processo di produzione sociale, apparentemente prive di nesso reciproco e stereotipe, si scomposero in applicazione delle scienze naturali, consapevolmente pianificate e sistematicamente scompartite a seconda dell’effetto utile che si aveva di mira. La tecnologia ha scoperto anche le poche grandi forme fondamentali del movimento nelle quali si svolge di necessità ogni azione produttiva del corpo umano, nonostante la molteplicità degli strumenti adoprati: proprio come la meccanica sa che nelle macchine si ha una costante riproduzione delle potenze meccaniche del macchinario, e non si lascia ingannare dalla massima complicazione del macchinario»11.
23In questa definizione, a mio avviso, appare chiaro che Marx abbia accolto l’ispirazione di fondo della tecnologia cameralistica quale conoscenza oggettiva dei processi produttivi, mutuata dalla precisione e oggettività delle scienze naturali, nella quale non c’è spazio per alcuna agency e scelta autonoma della mano umana. Perché appunto la tecnologia implica anche l’analisi delle forme elementari in cui si scompone il movimento del corpo umano nell’ambito di un processo di produzione. Vale a dire che Marx fa rientrare nel campo della Technologie quella componente del lavoro umano nei processi di fabbricazione che era rimasta marginale, se non del tutto estranea, al discorso sulle tecniche dei cameralisti tedeschi, volto assai più alla classificazione e alla normativa scientifica dei processi di produzione che non al loro aspetto di processo lavorativo, con l’attenzione che questo avrebbe implicato rispetto alla condizione e allo statuto dei prestatori d’opera. E contemporaneamente in questa dislocazione del termine dal cameralismo al capitalismo, dal comando politico-amministrativo del burocrate camerale al comando tecnologico della direzione capitalistica di fabbrica, Marx lascia cadere dal significato di quel lemma ogni riferimento al contesto ambientale-territoriale che preceda o segua il processo produttivo, concentrato com’è solo sugli elementi che riferiscono e significano la Technologie all’interno dell’ambiente di fabbrica.
24La tecnologia dunque per Marx non riguarda solo, come egli dice, la trasformazione della scienza in una immediata forza produttiva, con l’applicazione consapevole delle scienze naturali, della meccanica, della chimica. («L’applicazione degli agenti naturali – in una certa misura, la loro incorporazione nel capitale – coincide con lo sviluppo della scienza come fattore in proprio nel processo di produzione. Come il processo di produzione diventa un fattore per l’applicazione della scienza, così la scienza diventa un fattore, per così dire una funzione, del processo di produzione»)12.
25È anche conoscenza e normazione, a muovere dalla sua finalità oggettiva di intensificazione della produttività, dei movimenti della forza lavoro e della loro riduzione a regolarità cosali e naturali. Dunque non solo scienza dell’innnovazione attraverso il macchinario, ma anche conoscenza e disciplinamento delle pratiche di lavorazione che a quel macchinario sono intrinsecamente e oggettivamente connesse.
26La compresenza di questi due aspetti non può non ricadere su una peculiare teoria del macchinismo che caratterizza il Marx dei Grundrisse e del Kapital: ossia sul convincimento che anche la macchina o il sistema di macchine all’interno della fabbrica capitalistica presenti necessariamente una duplice natura, uno strutturale carattere bino. Che sia cioè da un lato strumento di accelerazione e facilitazione, attraverso la scienza, delle capacità produttive del capitale e dall’altro forma specifica di utilizzo di una forza-lavoro che eroga lavoro normato e astratto.
27A tale coscienza di quanto la tecnologia moderna sia un’organizzazione della produzione che unisce insieme macchine e uso specifico del lavoro della forza-lavoro Marx giunge nel modo più chiaro, a mio avviso, già nel Manoscritto 1861-1863, secondo un’impostazione del suo discorso che ripeterà di lì a poco nel primo libro del Capitale. La questione centrale della lunga discussione che occupa l’intero quaderno XIX e le prime dieci pagine del quaderno XX è quella dell’applicazione e dell’uso del sistema di macchine all’interno dell’industria capitalistica moderna.
28Al centro della pagina iniziale del taccuino XIX Marx ha scritto: «Theilung der Arbeit und Mechanisches Atelier, Werkzeug und Maschinerie [Divisione del lavoro e atelier meccanico, strumento e macchinismo]», per svolgere da lì una lunga discussione sull’ingresso delle macchine nella produzione industriale. La questione centrale affrontata in quelle pagine è quella della metamorfosi dell’utensile nella macchina e, conseguentemente, del passaggio dall’epoca storica della «manifattura», in cui c’è ancora coalescenza tra abilità del lavoratore e strumento di lavoro – e il fattore umano è dunque fattore ancora dominante nella produzione –, a quella della «grande industria» moderna in cui il lavoro umano diviene fattore subordinato e marginale rispetto alla forza produttiva del macchinismo e della scienza applicata. La macchina, su questo Marx è molto chiaro, non nasce dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione dei diversi segmenti dell’operare umano. Questo era stato infatti il modo di argomentare, da cui Marx profondamente dissente, di Adam Smith che nella Ricchezza delle nazioni aveva scritto: «Mi limiterò a osservare quindi che l’invenzione di tutte le macchine, per mezzo delle quali il lavoro è tanto facilitato e abbreviato, sembra risalga alla divisione del lavoro. È più probabile che gli uomini riescano a scoprire metodi più facili e più spediti per ottenere un qualsiasi oggetto che quando essa è dispersa tra una grande varietà di cose»13.
29Invece per Marx l’introduzione delle macchine interrompe ogni continuità storica con la centralità del fattore umano, con una strutturazione antropocentrica e antropomorfica dei processi lavorativi, a favore di un processo di produzione che nella sua meccanicità si fa indipendente dalla competenza del lavoratore e si istituisce su un tipo di conoscenza, profondamente diverso, qual è quello della scienza e della sua applicazione.
30Già nei Grundrisse aveva scritto che la macchina non nasce dalla divisione del lavoro, ma dalla specializzazione degli strumenti e dalla loro sintesi in un automatismo che si autonomizza, attraverso appunto l’applicazione della scienza, dalla forma e dai limiti del corpo umano. Con il macchinismo si scioglie la Verwachsung, la coalescenza artigianale tra lavoratore e strumento, che testimoniava quanto ancora nell’epoca della manifattura il capitalismo non avesse ancora sviluppato un modo di organizzazione produttiva adeguato alle sue esigenze e piegasse in modo ancora «formale» il lavoro alla sua logica accumulativa. Per trapassare, con «Macchine e Grande Industria», alla sussunzione «reale» della forza-lavoro al capitale, dove appunto il sistema di macchine utilizza un sistema di conoscenze lontane dall’abilità e della soggettività dell’artigiano manifatturiero e che, come tale, scioglie la concrescenza di uomo e strumento.
31La grande industria, introducendo un sistema di macchine indipendente dalle dimensioni e dalle configurazioni del corpo umano, dà luogo quindi a un ambiente produttivo non più antropocentrico e antropomorfo, bensì macchinico, nel quale lo stesso corpo umano è ormai fatto appendice di un’organizzazione del sapere e sa schede/comandi lavorativi a lui esteriori e depositati nell’anima scientifica della macchina. Dalle abilità e dall’esperienza del «lavoratore parziale», ovvero del Teilarbeiter della manifattura, si passa con la grande industria alle scienze della natura trasformate nella materialità dei mezzi di lavoro. E proprio in conseguenza di tale metamorfosi e trascendimento dei limiti del corpo umano è impossibile dedurre l’introduzione della Maschinerie derivandola dalla divisione del lavoro, ossia dalla moltiplicazione e intensificazione della specializzazione delle abilità fabbrili dell’essere umano. La categoria della divisione del lavoro – di cui Marx ed Engels avevano fatto, con il materialismo storico dell’Ideologia tedesca, il principio esplicativo dell’intera storia del genere umano – qui viene meno. Anche perché verosimilmente con il passaggio alla composizione del Capitale Marx è stato obbligato a sospendere una lettura della società moderna basata sul paradigma (antropocentrico) del «lavoro».
È in genere un’idea sbagliata quella secondo cui il macchinario moderno s’impadronisce alle origini di operazioni che la divisione del lavoro manifatturiera aveva semplificato. Filatura e tessitura furono separate in nuove specie durante il periodo della manifattura, i loro strumenti furono perfezionati e variati, ma il processo lavorativo stesso, per nulla diviso, rimase artigianale. Non è dal lavoro che parte la macchina, ma dal mezzo di lavoro14.
32Per Marx «questo principio soggettivo della divisione del lavoro non esiste più nella produzione per macchine» e questa scomparsa della soggettività significa che il lavoro nel nuovo sistema di fabbrica diventa «lavoro astratto», non più lavoro altamente individualizzato e particolarizzato come quello del Teilarbeiter manifatturiero, ma lavoro ridotto
a una pura, arida astrazione – a una semplice proprietà, che appare nell’eterna monotonia della medesima azione e a vantaggio della quale è confiscata la capacità complessiva del lavoratore, la molteplicità dei suoi talenti15.
33Applicazione delle scienze naturali alla produzione attraverso l’introduzione della Maschinerie e, nello stesso tempo, la trasformazione dell’abilità del tutto specifica dell’operaio parziale, del Teilarbeiter, in erogazione di lavoro astratto: sono queste le due caratteristiche, profondamente connesse, per il Marx del Capitale, della fabbrica moderna come nuovo sistema produttivo e come oggetto peculiare della nuova scienza della tecnologia.
34L’uso e la dislocazione di senso che Marx ha fatto di questo termine è chiara, trascorrendo dalla nuova scienza della modernità legata alle esigenze amministrative dello Stato territoriale tedesco e all’azione del burocrate cameralista all’agire dell’imprenditore capitalista e alla sua ristrutturazione radicale del processo di produzione. Ma in quel transito di significato rimane la dimensione dell’obbligazione politica e dello sguardo obiettivante dello scienziato camerale che studia e cataloga i processi di produzione, compresi gli esseri umani che vi fanno parte, come naturalia: ossia come oggettualità da catalogare e ordinare ai fini della loro maggiore utilizzazione possibile. Così nella versione marxiana del termine si intrecciano e si integrano da un lato la dimensione oggettiva e apparentemente neutrale della scienza, nel suo uso produttivo, e dall’altro l’uso della forza-lavoro quale esercizio di comando e dominio degli attori capitalistici sulla classe dei meri esecutori. Una compenetrazione inestricabile di senso, scientifico e politico, che Marx assegna anche alla memoria del futuro, per tutti coloro che, desiderosi di andare oltre il feticismo delle merci, saranno ben sensibili a un feticismo del capitale, assai più radicale del primo, e dove appunto la neutralità della scienza e della sua applicazione tecnologica nasconderà del tutto la dimensione di obbligo e di forzatura politica implicita nel processo di lavoro.
3. Tra «tecnica» e «tecnologia»
35Rispetto a tale significato particolare di Technologie che Marx, attraverso la lettura delle opere di Beckmann e di Poppe, deriva, elaborandolo profondamente, dall’introduzione cameralista del termine, il lemma Technik appare assumere nelle opere marxiane, simmetricamente, un significato distinto, e, nella distinzione, anch’esso necessariamente peculiare. A dire il vero non c’è alcun dubbio che spesso Marx nell’utilizzo dei termini Technik e Technologie non rispetti alcuna netta e chiara distinzione, usando indifferentemente i due termini o sostituendo anche l’uno con l’altro: come accade per esempio con il grande uso del lemma Technik che ha sostituito frequentemente il lemma Technologie nella seconda edizione tedesca del primo libro del Capitale e nella sua prima traduzione francese (1872-1875). Ma facendo uno studio del significato delle diverse occorrenze dei due termini nell’ambito di tutta l’opera marxiana, io credo si possa dire che Technik nel lessico marxiano si riferisca a un contesto di significato molto meno strutturato e molto meno storicamente determinato di quello della Technologie.
36Technik significa la capacità dell’homo faber – visto come metafora del genere umano o comunque di una soggettività collettiva e comunitaria – di intervenire sulla natura, attraverso mezzi e procedure conformi alle caratteristiche dell’oggetto di lavoro. Si potrebbe dire che in questo senso Technik (assai meno come sostantivo e assai più con occorrenze aggettivali aventi radice tek-) si riferisce al rapporto Soggetto (di lavoro)-Strumento (di lavoro)-Oggetto (di lavoro) che caratterizza strutturalmente la storia della specie umana e che ne costituisce, insieme, il tratto più continuo e più riconoscibile di evoluzione e di sviluppo. Come tale, in Marx la Technik designa o l’insieme dei mezzi di produzione, cioè l’insieme fisico degli strumenti, delle attrezzature, delle macchine per lavorare gli oggetti di lavoro, oppure, ma in questo caso con meno occorrenze lemmatiche, le procedure, le abilità di un’arte in genere, cioè i sistemi e i procedimenti di azione di un agente orientato verso un fine produttivo.
37Si tratta di un significato che in entrambi i casi fa riferimento al grado di sviluppo delle forze produttive (mezzi di produzione e competenze umane insieme) nel loro rapporto con la natura e con i materiali di lavoro, senza porre in primo piano e considerare le relazioni sociali che attraversano e mediano tra loro mezzi di lavoro e soggetti del lavoro. Non a caso nella teoria del materialismo storico della Deutsche Ideologie e nella Prefazione alla Kritik der politischen Ökonomie del 1859 alle «forze produttive», come insieme di elementi tecnici, vanno aggiunti i «rapporti sociali di produzione», per comporre la categoria strutturale della teoria del materialismo storico, presentata da Marx in quelle pagine, che è quella di «modo di produzione» e che spiega appunto il progredire della storia, potremmo dire con parole nostre, attraverso la contraddizione tra tecnica e politica. Nel senso che il transito da una formazione storico-sociale all’altra si spiega con la continuità storica del progresso delle forze produttive, quanto ad aumento della produttività rispetto all’oggettualità naturale, che entrano, di volta in volta, in contraddizione con i rapporti sociali che non riescono a tener dietro a quello sviluppo.
38Tanto che potremmo dire che le occorrenze della radice tek- – come technische Basis, technische Unterlage, technische Grundlage, technische Bedingung – rientrano nel testo marxiano prevalentemente in contesti di senso che si rifanno al lavoratore (tanto più se collettivo) quale attore e protagonista fondamentale del vivere sociale e dove appunto Technik si riferisce alla storia dei mezzi di lavoro e delle competenze accumulate dall’uomo, in quanto caratteristica peculiare della specie umana, nella sua diversità dalle altre specie viventi, e nella sua abilità di confronto e di lavoro con la natura. In questo senso perfino un’espressione usata nel Capitale, quale technische Zusammensetzung [composizione tecnica del capitale], rientra in tale ambito di significazione, perché fa riferimento a un rapporto tra mezzi di produzione e numero di lavoratori impiegati, che, malgrado l’ambito sociale capitalistico di produzione, esprime solo una relazione fisico-quantitativa, senza riferimento alla natura socio-qualitativa della medesima.
39Assai diversamente, invece, l’uso e il senso di Technologie, non partendo dal punto di vista del lavoratore come attore sociale, muove dal punto di vista di quell’altro attore sociale che è il capitalista e che guarda al processo di produzione come complesso sistemico di macchine e forza-lavoro, che risulta dall’applicazione delle scienze, e in cui gli stessi produttori umani sono, al pari della natura, oggetto ed elementi subordinati del processo lavorativo.
40Dunque, per concludere, a me sembra che tecnica nel contesto marxiano rimandi essenzialmente a una prospettiva antropologica di produzione di beni in quanto valori d’uso: alla capacità cioè della specie umana di confrontarsi produttivamente, secondo gradi diversi a seconda delle diverse epoche storiche e delle diverse formazioni economico-sociali, con la natura come oggetto di lavoro. Anche quando, anzi soprattutto quando, la tecnica è tecnica del capitale, con l’enorme progresso nella produttività che questo comporta. Laddove Technologie sembra riferirsi non a una struttura in qualche modo invariante della specie rispetto alle altre specie, ma al particolare luogo storico in cui l’invarianza antropocentrica della tecnica viene risignificata in una rete di relazioni tra macchine, forza lavoro e comando d’impresa, in cui è essenziale la riconduzione della componente antropomorfa del processo di lavoro alla funzione di cosa tra cose: o, se si vuole, alla coerenza tra astrazione e impersonalità della funzione umana e astrazione e impersonalità della ricchezza capitalistica da produrre.
41Ma questa concezione marxiana di ciò che, nella società moderna, è Technologie, nella sua distinzione di ciò che è propriamente Technik, è durata, a ben vedere, lo spazio di un mattino. In qualche modo anche per lo stesso Marx che a partire dall’edizione francese ha più volte sostituito, come si notava, il termine Technologie con Technik. Verosimilmente perché, ma questa è solo una mia ipotesi, la diffusione del Capitale in lingua francese richiedeva, per giungere a un pubblico popolare e operaio, una semplificazione del linguaggio che ne eliminasse la ridondanza di significati e l’eccessiva raffinatezza delle distinzioni categoriali. Ma ciò che qui più importa dire è che in tutta la cultura economica, socio-politica e filosofica, della Germania della seconda metà dell’Ottocento ben presto il termine Technik conquista un primato assoluto di uso e di diffusione, sovrapponendosi del tutto al significato di Technologie per come lo si è illustrato fin qui.
42In particolare con Max Weber la tecnica è la definizione e la fissazione di procedure obbligate per raggiungere con la maggiore economicità di mezzi un determinato fine. Designa, in ogni campo dell’agire umano, l’atteggiamento zweckrätional, per il quale si codifica la metodologia più produttiva e più utile possibile per raggiungere un prodotto o una competenza determinati. In questo senso, non limitato al solo settore della produzione economica, essa è la manifestazione più esplicita, nel campo della prassi, della razionalizzazione moderna, come capacità di calcolare il più corretto rapporto tra mezzi e fini, indipendentemente da considerazioni e valori di altra natura (etici, religiosi, spirituali). Rimanda perciò, in una prospettiva che torna a rendere attore principale della scena l’homo faber, al complesso di norme e di procedure che un soggetto produttore, individuale o collettivo che esso sia, deve acquisire e mettere in pratica per dar luogo a un prodotto-oggetto o a un prodotto-competenza.
43Ossia di fondo il medesimo significato di un agire strumentale codificato che il termine technique possiede da sempre nel contesto della modernità anglosassone e che può transitare e scambiarsi facilmente con l’uso del termine technology quando quell’attività dell’homo faber si specifica come organizzatrice di sistemi di strumenti, di macchinari e di automatismi produttivi destinati all’ottimizzazione delle procedure per la produzione di beni. Cioè quando technology viene usato per significare, in un senso più restrittivo, lo studio delle scienze applicate con particolare riferimento ai processi industriali di trasformazione.
44Ciò che risulta da queste considerazioni è che nel linguaggio di oggi l’uso di termini come tecnica e tecnologia non distingue ormai più per nulla tra i due concetti e soprattutto rimuove dal contesto di senso di ciò che è tecnologia ogni riferimento alle relazioni sociali, come relazioni di dominio tra diseguali, che abbiamo visto essere al fondo della riflessione marxiana sulla tecnologia come principio organizzativo della produzione capitalistica.
45Solo Marx è riuscito a dirci propriamente che la tecnologia capitalistica non può implicare solo la tecnica, nel senso di un rapporto codificato tra uomo e natura, perché intreccia intrinsecamente quella relazione tecnica con una relazione sociale di comando tra chi possiede ed esercita la scienza della tecnologia da un lato e chi ne è un mero esecutore, obbligato a erogare un lavoro che può essere solo astratto a cagione del monopolio della conoscenza depositato nel sistema di macchine. Perché va sottolineato che le diverse tradizioni del marxismo successivo, a muovere da incertezze e antropocentrismi ben presenti, come s’è detto, nello stesso Marx, hanno fortemente celebrato una visione invece sostanzialmente neutrale della tecnica e dello sviluppo delle forze produttive, che ha di molto contribuito a rimuovere dalla scena della filosofia sociale e della sociologia del lavoro contemporanee una prospettiva più vigile e accorta alla questione della natura obbligatoriamente astratta della prestazione d’opera in un sistema macchina-forza lavoro a gestione capitalistica. Con la conseguenza di formulare ipotesi di trasformazione sociale che, per quanto radicali, si sono sempre collocate nell’ambito della ripartizione e distribuzione della ricchezza anziché in quello della produzione e dell’uso della forza lavoro.
46A tale rimozione, generalizzata nel corso della modernità, dell’essere la tecnologia sempre embedded in un contesto di relazioni sociali asimmetriche, che non possono non condizionarla intrinsecamente, era d’obbligo per altro verso che partecipasse, dati i suoi presupposti teorici, anche quella che è stata la riflessione più rinomata sulla tecnica che, almeno nell’ultimo trentennio, ha attraversato la filosofia e la cultura occidentale, ossia la Technikfrage di Martin Heidegger. La tesi più rilevante del pensatore di Messkirch è infatti che la questione di ciò che è Technik si comprende solo quando il dispositivo produttivo soggetto-oggetto viene mediato e visto alla luce non di relazioni umane, storiche e sociali bensì della storia dell’Essere16.
47La grande narrazione che Heidegger è riuscito a imporre alla filosofia del Novecento, con una destinazione a mio avviso regressiva e onto-teologica, si è fondata, com’è ben noto, sulla capacità di riproporre, travestito in chiave fenomenologico-contemporanea, quel principio dell’Essere, come luogo di massima realtà, che la filosofia scolastica e tomistica medioevale aveva celebrato come categoria suprema e che invece la filosofia moderna aveva superato nella sua critica radicale della metafisica. A muovere da tale riesumazione dell’ontologia (come dottrina dell’Essere), la Technik diviene un «destino»: ovvero una disposizione errata e inautentica dell’Esserci umano nei confronti della realtà e di se stesso, perché istituita sulla negazione del rapporto originario e autentico che l’umano dovrebbe mantenere con l’Essere da cui proviene la sua esistenza. Una rimozione che obbliga a vedere il mondo come composto solo di enti, cioè di cose a portata di mano, disponibili all’uso e al consumo, e a ridurre con ciò lo stesso Esserci umano a Soggetto manipolatore di Oggetti, fino alla manipolazione e riduzione a oggetto anche di se medesimo.
48Per il pensatore di Messkirch soprattutto con la tecnica moderna l’umanità è entrata nella dimensione spazio-temporale di una grande macchina che tratta il reale come «fondo», che vede la natura cioè solo come un deposito che nasconde energia, che deve essere messa allo scoperto, trasformata, immagazzinata, per essere utilizzata e impiegata. Ma non è questione, come voleva Marx, della storia del sistema capitalistico e del suo essere istituito sull’automatismo di una ricchezza astratta, che per obbligo della sua natura deve accumularsi costantemente sussumendo sotto il suo produrre l’intero mondo della vita, bensì è questione, appunto, della storia di un dispositivo metafisico, come l’Essere, che traduce la storia [Geschichte] degli esseri umani nell’invio destinale [Geschick] delle sue decisioni, e che, nella forma di tecnica moderna, conduce l’umanità a trapassare inautenticamente dalla triade Essere/Esserci/Ente alla diade Esserci/Ente. Per cui il pastore dell’Essere ha potuto teorizzare che la dilatazione a dismisura della tecnica nel mondo contemporaneo non è dovuta al marxiano intreccio di valore d’uso e di valore di scambio e al farsi di quest’ultimo termine di una costante valorizzazione attraverso rapporti sociali asimmetrici tra esseri umani, quanto invece alla storia di un Essere che invia agli esseri umani, come loro destino, la dimenticanza di se medesimo, universalizzando la disposizione a trattare la realtà intera come campo inesauribile e manipolabile di una soggettività umana [Dasein], consegnata alla scissione dal suo fondo più autentico, qual è l’Essere [Sein], e dunque destinata a ridurre a mera cosa [Seiendes] anche se medesima17.
49Tale dislocazione radicale, nel modernismo reazionario di M. Heidegger, dello sguardo critico dalla storia sociale alla metafisica, dalla differenza dialettica alla differenza ontologica, con l’abbandono della teoria marxiana del processo di capitale come cuore del senso della società contemporanea, non poteva che avere come conseguenza l’abbandono di ogni indagine circostanziata riguardo alla sociologia del lavoro e dei processi di lavoro a fronte di un generico quanto apocalittico discorrere e predicare di Technik: rinunciando a porre l’attenzione sul quel sistema «macchinismo/lavoro astratto» che, a mio avviso, ne costituisce invece il cuore, quale intreccio tra un piano tecnologico-produttivo e un piano di relazione sociale tra classi.
50Invece per noi è imprescindibile muovere da tale nesso, in cui abbiamo posto la riflessione più originale di Marx, per poterci orientare in questa nuova era del nostro presente già così attraversata e curvata dalle tecnologie digitali. E proprio a partire dalla centralità e dalla permanenza del lavoro astratto, quale caratteristica strutturale del modo in cui l’agente capitalistico ha necessità di usare e disporre della forza lavoro ai fini del processo di valorizzazione, va avanzata, io credo, questa tesi generale che afferma che come il capitalismo fordista e della grande impresa s’è centrato su un uso della forza lavoro in cui era preminente il corpo e rimossa la mente, così oggi il capitalismo digitale, con un rovesciamento che non altera la sostanza della cosa, mette in campo una mente che è scissa e rimossa dal corpo.
51Giacché è inscritta proprio nella natura del digitale, del linguaggio binario che sta a base delle sue logiche, la messa in campo di una modalità di calcolo e di ragionamento che, nell’automatismo delle sue regole formali e della sua sintassi, produce strutturalmente rimozione e marginalizzazione del corpo. È nella sua struttura di essere un conoscere senza un sentire che si deposita la sua funzione di essere un sistema di segni (le regole) che codifica, calcola ed elabora database e input, a loro volta già codificati in segni alfanumerici. Ma a illustrare tale motivo di fondo della scomparsa del corpo nel mondo digitale è meglio che io lasci la parola alla competenza di altri.
Al cuore della nostra risposta, vi è una reazione costruttiva alla perdita di senso dello spazio e del corpo propria del digitale – scrivono Giuseppe e Sara Longo –. Essendo a stati discreti, ogni macchina digitale è intrinsecamente unidimensionale (in un senso matematico fondamentale). Il calcolo è possibile, la Macchina di Turing e il lambda-calcolo ce lo insegnano, poiché, nel discreto, tutto può essere codificato su una linea. È questo che permette la costruzione della «Macchina Universale» per il calcolo; nel linguaggio dei computer la codifica di ogni programma e il calcolo su una linea [c.n.] permettono la scrittura e il funzionamento dei sistemi di gestione e dei compilatori, dunque del computer: non sono che programmi, scritti come tutti gli altri programmi (serie di 0 e 1 nella macchina) che agiscono su dei programmi. La codifica delle tre dimensioni spaziali, se non addirittura di un numero finito qualunque di dimensioni, in una sola è, da Turing, al centro dell’elaborazione dell’informazione digitale così come, da Shannon, della sua trasmissione. Si faccia a meno dello spazio, dunque18.
52La misura, con la sua unità di base e la sua associazione a numeri, introduce per definizione la discrezione, la discontinuità nel reale. Tale traduzione del reale in una continuità di stati discreti consente la sua rappresentazione/traduzione matematica in una sola dimensione lineare, che, come tale, introduce in un ambito radicalmente diverso dall’ambito tridimensionale proprio della corporeità. Così continuano a scrivere Giuseppe e Sara Longo: «Questo schiacciamento dello spazio su una linea sarebbe sufficiente a far sparire il corpo e il senso del corpo biologico nella sua tridimensionalità intrinseca, matematica (non esiste una conduttura in due dimensioni, né singolarità né membrane, in quattro dimensioni, la teoria fisico-matematica del campo medio le escludono). Ma c’è di peggio. Il digitale si fonda su una distinzione cartesiana fondamentale, quella tra programma (il software) e materia (l’hardware), tra anima e corpo. Idea compresa e formalizzata da Turing: le istruzioni, il programma e la loro scrittura sono indipendenti dalla loro implementazione materiale. E così la perdita di senso del vivente, dell’animale, dell’umano raggiunge il proprio culmine. Il biologico è radicalmente materiale: non esiste vivente senza queste membrane, questo dna o rna, nella loro fisico-chimica e nelle loro dimensionalità specifiche. Non esiste cervello senza queste cellule neuronali viventi, sempre attive, senza le loro membrane, la loro chimica, che si deformano nella forma e nel loro campo elettrostatico, senza le loro connessioni mobili, senza la loro plasticità organica. Di contro alle totalizzazioni alfanumeriche (serie di lettere o di numeri, poco importa), dall’intelligenza artificiale alla biologia del programma e dell’informazione genetica, bisogna riconquistare il senso del corpo, del suo spazio e della sua radicale materialità biologica»19.
53Quindi non solo il digitale è strutturato secondo sequenze binarie per codificare informazioni (e già questa alternanza di sì/no, vero/falso, destra/sinistra, 0/1, codifica la realtà secondo la discontinuità di opposti, che non ammettono sfumature, incertezze e chiaroscuri), non solo il programma per la sua natura matematica lavora su «punti» disconnessi tra loro, su intervalli, ma, ancor di più, il programma, in quanto software, è indipendente dallo hardware, dal corpo materiale della macchina attraverso cui viene fatto funzionare. A ulteriore testimonianza di quanto un programma informatico sia «solo» un calcolo di informazioni, che vengono codificate secondo un determinato programma di istruzioni e tradotte a strati discreti su una linea orizzontale, in quanto serie di numeri o lettere, la cui dimensione non ha più nulla a che fare con il senso del nostro corpo e con l’organizzazione dello spazio che ne deriva.
54Ma dunque quale atteggiamento teoretico, e insieme etico-politico, è da assumere nei confronti delle tecnologie digitali e in un mondo sempre più informatizzato? Come collocarsi tra coloro che di fronte alla pervasività sempre più ampia nella nostra vita da parte dei nuovi dispositivi parlano di human enhancement, ossia di potenziamento della capacità dell’essere umano di sopravvivere e di vivere sempre meglio, e coloro che invece, secondo una prospettiva di conservazione ecologica vedono nello sviluppo tecnologico solo un arretramento e uno spodestamento del soggetto umano dalla sua centralità gnoseologica e culturale?
55La risposta alla domanda, secondo quanto s’è detto fin qui, non può che consistere in una capacità da parte dell’umanità di trattenere i nuovi dispositivi digitali nell’ambito di uno statuto ontologico della strumentazione, senza farli trasumanar su un piano di sostanziale equiparazione ontologica con l’umano, come presumono sempre più i teorici dell’intelligenza artificiale e coloro che nell’integrazione tra organico e inorganico vedono il positivo affrancarsi da ogni gerarchia antropocentrica e l’affermarsi invece di una ontologia delle relazioni e delle reti in cui umano e non-umano, organico e inorganico non costituirebbero due modalità e due statuti d’esistenza profondamente differenziati bensì solo aggregati di diversa intensità di tensione e d’informazione.
56La nostra risposta, cioè, non può essere altro che quella di un accoglimento e di una valorizzazione di questi nuovi utilissimi strumenti, ma a patto che non si scambi il loro statuto macchinico con una autonomia e una agentività secondo la quale artefatti inorganici diventerebbero in qualche modo s/oggettività interlocutorie e comunicative20. Ossia, come si diceva all’inizio del nostro discorso, che non si cada nell’errore di interpretare la materia e la vita come risolvibili del tutto in informazione e dunque di concepire che il mondo sia una realtà costantemente connessa, in cui, venendo meno consistenze di individui e cose quali supposte polarità irriducibili alla connessione, si diano in ogni momento, in tale orizzonte reticolare, sempre forme di interazione nuove: non causalità, che rimanderebbero a strutture e gerarchie o a effetti in una catena di tempi successivi, bensì eventi
e casualità in una temporalità sempre originale e nuova e dove la materia si transustanzia in «info-materia»21.
57Ora è evidente che la possibilità di non cadere nell’ideologia dell’infosfera non può che riposare, per la consequenzialità del nostro discorso, proprio in quella antropologia del verticale e dell’orizzontale che abbiamo provato a esporre. Solo la costituzione dell’esistenza umana secondo la compresenza/scissura del verticale e dell’orizzontale, del senso e del significato, della relazione all’altro-di-sé e insieme all’altro-da-sé, mette infatti in campo una complessità sintetica della psiche che non può essere letta nei termini lineari di funzioni di trasmettibilità e calcolabilità di informazioni. Solo l’antropologia dell’Uno e Bino appare cioè dar testimonianza di una coalescenza e di un intreccio di dimensioni dell’esperire tali che non possono essere trasfigurate e tradotte nella sequenza 0101010… e poi ricomposte in bit, e che resistono perciò di contro all’immagine di una nuova ontologia, la cui consistenza di realtà sarebbe data solo da tecnologie, database e circuiti digitali.
58Ma muovere da un’antropologia del genere, che nella compenetrazione dell’asse orizzontale e dell’asse verticale trova nella sua varietà estrema di combinazioni possibili una struttura invariante dell’essere umano, significa, a mio avviso, inaugurare un discorso di filosofia sociale e di teoria delle istituzioni per il quale una futura società della conoscenza non potrà che essere pensata insieme a una società del riconoscimento: inteso, prima che riconoscimento dell’altro, come riconoscimento del sé. Ossia che conoscenza e autoriconoscimento procedano insieme, affinché la società dell’informazione digitalizzata acquisti senso e valori, progettualità e scopi, attraverso il suo essere contenuta in una società del riconoscersi fatta di individualità capaci di verticalizzazione nel proprio corpo animale/emozionale in cui ritrovare il luogo ultimo e primo del senso del proprio vivere.
59Come ho provato a dire nelle pagine precedenti, il linguaggio non pone, non crea il senso, ma lo esplicita, lo rivela. Giacché il senso è del corpo, è nel corpo. Vale a dire che il linguaggio, nella sua funzione positiva, porta alla luce il senso mettendolo in una relazione di ricambio organico con la configurazione della realtà esterna e delle sue istituzioni, e dandogli con ciò significato. Laddove nella sua funzione negativa lo nasconde e lo reprime, astraendo dalla sua fonte etologica-emozionale più profonda e consegnandosi, quanto a significato, al senso obbligato e deindividualizzato iscrittto nella realtà sociale e istituzionale. Ma proprio per ciò, per tale dualismo strutturale di senso/significato, di senso alinguistico e di significato linguistico, l’accesso al corpo interpretante per ogni essere umano è evidente che si iscriva nell’ambito del possibile, di qualcosa che può accadere come non accadere, e non in quello di ciò che necessariamente accade.
60Ed è quasi superfluo dire che propriamente questo è l’ambito umanistico dell’essere umano, che, in quanto umanesimo, gli impedisce di trasumanar nel macchinico e nell’artificiale. L’essere strutturata cioè l’esistenza umana secondo la dimensione intrinseca del valore, che consiste appunto di ciò che può essere come può non essere. Ossia secondo l’orizzonte di un «possibile», che nulla ha a che fare con il trascendimento dell’esistenza concreta come accade nel possibile di Heidegger, ma che consiste nella possibilità di accedere o meno da parte di una mente all’incognita del proprio corpo e degli affetti che il mondo necessariamente suscita e prova, in esso, a portare alla luce.
61Su tale dimensione valoriale, materialistica ed etologica, dell’essere umano, nella sua possibilità o meno di essere accesa, va fondata, io credo, la ragione ultima della politica. Nel senso del suo essere intesa non come tecnica della mediazione e del compromesso tra gli interessi egotici di individualità a essa presupposte e già di per sé compiute, come vuole la tradizione del liberalismo, ma come complesso di istituzioni e di relazioni che hanno come loro oggetto di cura la facilitazione dell’accesso d’ognuno alla propria dimensione valoriale, ossia a quella identità verticale che d’ognuno costituisce il tratto d’esistenzialità più irripetibile e più ineguagliabile rispetto a quella di qualsiasi altro.
62Come ho provato a dire già altrove il campo della grande politica e del mondo dei diritti/doveri, che le dà senso e articolazione concreta, devono provare ormai ad allargare gli orizzonti culturali a cui, nelle vicendevoli tradizioni della modernità, finora si sono ispirati. Devono cioè a mio avviso inevitabilmente confrontarsi, oltre che con la tradizione dell’antropologia liberale, oltre che con la tradizione dell’antropologia comunista, con la tradizione, ormai consolidata dopo più di un secolo, dell’antropologia psicoanalitica della scoperta dell’inconscio e della scoperta della strutturazione verticale dell’essere umano, in quanto essere Uno e Bino. Vale a dire che ormai è tempo di includere nello spazio pubblico della polis la complicazione e l’arricchimento che l’antropologia dell’essere duale del soggetto umano ha apportato alla concettualizzazione moderna di ciò che è libertà. Perché della costellazione di ciò che è la libertà moderna deve far parte la libertà liberale di (pensiero, associazione, religione eccetera), la libertà comunista da (bisogni e necessità materiali), e appunto la libertà psicoanalitica, intesa come l’assenza, al grado più elevato possibile, dell’autoritarismo interiorizzato e delle censure che impediscono al soggetto umano di comunicare con il suo più proprio Sé, corporeo ed emozionale. È cioè il nuovo concetto di libertà, come libertà del riconoscersi, come libertà di accedere alla propria interiorità, che deve essere messo a tema, nella teoria come nella pratica, in quella società della conoscenza e del virtuale, nel cui futuro prossimo, l’umanità, come si dice, ha già mosso i suoi primi inarrestabili passi.
63Dunque un’etica e una politica del riconoscersi del Sé che va distinta, quanto a priorità di accento, da un’etica del riconoscimento dell’Altro. Giacché ciò che qui è oggetto di discussione non è il riconoscimento dell’Altro, del «volto dell’Altro» alla Levinas, bensì, come ciò che è primo e fondante, il riconoscersi da parte di un Sé. Nel senso che ciò che ha preteso la nuova epoca, nella quale tutti noi viviamo, del capitalismo digitale è, come abbiamo detto, proprio l’atrofia di massa dell’asse verticale, quale incapacità del soggetto di soggettivizzarsi, di sentire l’unì-sono del proprio corpo, perché soverchiato e assoggettato dai rumori dell’asse orizzontale. Ed è dunque a forme di vita e a forme di socialità che dobbiamo pensare nel verso di pratiche che promuovano e facilitino il riconoscersi da parte di ciascun Sé. Ossia a forme istituzionalizzate, della «intersoggettività», che abbiano come scopo, tra altre finalità pragmatiche e produttive, che ciascuna soggettività possa accedere alla propria «infrasoggettività» e addestrarsi nel sentire il proprio sentire.
64Vale a dire che il principio fondativo di una società della conoscenza, che fosse contemporaneamente e in modo ineludibile anche società del riconoscimento del Sé, dovrebbe essere, a mio avviso, quello per cui ogni forma di produzione ed elaborazione dell’oggetto, quale che esso sia, di natura materiale o immateriale, non potrebbe che essere anche forma di produzione ed elaborazione del soggetto: tale da condurre ogni individualità umana al grado più ridotto possibile di autorepressione e di paura di rimanere sola con se stessa.
65Tale principio costituzionale di una «società della conoscenza/riconoscimento» dovrebbe informare ogni genere di attività con implicazioni e destinazioni di socialità, tale che il farsi consistente e approfondito dell’asse verticale potesse valere come contenitore – come katechon, direbbero i filosofi amanti della teologia – del dilagare di una cultura della tecnica e dell’intelligenza artificiale che, altrimenti, pretenderebbe esercitare egemonia e riduzionismo numerico sull’intero mondo della vita naturale e umana.
66Ovviamente non c’è chi non veda il carattere futurista di un disegno di tal genere che pretende di proiettare sul mondo del lavoro e della produzione, accanto e oltre alle finalità produttive, addirittura un’ispirazione psicoanalitica, che avrebbe come destinazione una produzione di soggettività. Ma per quanto utopica la delineazione di questo nuovo orizzonte sembra obbligata per chi intenda veramente che cosa possa significare una economia ecologica, che implichi la doppia polarità di una ecologia della natura e di una ecologia della mente.
67A tal fine, dato che in una società dell’informazione, e non della conoscenza, qual è quella in cui noi oggi viviamo, la formazione e il controllo della mente nel percorso dell’iscrizione scolastica e universitaria sta acquisendo un ruolo sempre più importante nella preparazione di una mente che sia fondamentalmente subalterna rispetto al digitale, e dato che chi scrive ha competenza essenzialmente nel mondo della scuola e dell’università, il lettore che mi ha seguito fin qui forse potrà accettare, da ultimo, insistendo sull’utopia, qualche delineazione onirica sul futuro delle nostre istituzioni educative.
Notes de bas de page
1 Platone, Protagora, in Dialoghi filosofici, a cura di G. Cambiano, Torino, utet, 1970, 4 voll., vol. I, pp. 320-321.
2 Il riferimento indispensabile su questo tema è al lavoro di ricerca, originale e innovativo, che Guido Frison ha portato avanti ormai da molti anni, e dai cui scritti io ho tratto personalmente le indicazioni fondamentali per lo studio del cameralismo nella cultura e nella società tedesca, insieme all’approfondimento critico della distinzione semantica e concettuale tra i due lemmi della lingua tedesca: Technologie e Technik. Della estesa produzione di Frison su tali argomenti cfr. Linnaeus, Beckmann, Marx and the Foundation of Technology. Between Natural and Social Sciences: A Hypothesis of an Ideal Type, parte I: Linnaeus and Beckmann, Cameralism, Oeconomia and Technologie, “History and Technology”, 1993, 10, pp. 139-160; parti II-III: Beckmann, Marx, Technology and Classical Economics, “History and Technology”, 1993, 10, pp. 161-173. Dello stesso autore cfr. anche Technical and Technological Innovation in Marx, “History and Technology”, 1988, 6, pp. 299-324; Smith, Marx and Beckmann: Division of Labour, Technology and Innovation, in H.-P. Müller, U. Troitzsch (a cura di), Technologie zwischen Fortschritt und Tradition, Frankfurt am Main, Peter Lang, 1992, pp. 17-40.
3 J. Beckmann, Anleitung zur Technologie oder zur Kentnis der Handwerke, Fabriken und Manufacturen, vornehmlich derer, die mit der Landwirtschaft, Polizei und Cameralwissenschaft in nächster Verbindung steht, seconda ed. riveduta e corretta, Göttingen, Vandenhoeck, 1777.
4 «Einleitung», ivi, p. xv.
5 «Vorrede», ivi, p. 17.
6 Ivi, p. 24.
7 Johann Beckmann (1739-1811) è stato uno dei più noti studiosi e docenti di Technologie. Aveva studiato i metodi di lavoro delle miniere, delle fabbriche e delle fonderie, nonché le collezioni di arte e storia naturale, durante i suoi viaggi in Olanda, Danimarca e Svezia. Ispirato dal lavoro tassonomico del grande botanico Linneo, di cui era stato allievo in Svezia, «Professor Oeconomiae», insegnò all’Università di Göttingen diverse discipline, tra le quali la Technologie. L’Università di Göttingen fin dalla sua fondazione era stata una delle migliori università tedesche aperte alla cultura moderna dell’Illuminismo. Beckmann nella molteplicità dei suoi interessi fu autore di trattati cameralistici, storico delle invenzioni, fondatore della Technologie, creatore di un giardino botanico secondo i princìpi di Linneo. Tra le molte opere di Beckmann, quelle più rilevanti per il nostro tema sono l’Anleitung zur Technologie (1777) e la Beiträge zur Geschichte der Erfindungen, una storia delle invenzioni in cinque volumi, pubblicata tra il 1780 e il 1805. Ma in tutta l’opera della sua vita Beckmann ha cercato di sviluppare dei quadri di classificazione complessiva che potessero contenere l’intero complesso dei processi di lavorazione e produzione dei beni: dalla trattazione delle materie prime e delle risorse naturali dell’agricoltura trattate nei suoi Princìpi dell’agricoltura tedesca [Grundsätze der teutschen Landwirtschaft, 1769], attraverso la descrizione dei diversi rami produttivi e del corrispondente processo di innovazione nella già citata Guida alla tecnologia [Anleitung zur Technologie, 1777], alla classificazione in senso materiale-fisico dei beni finali nella sua Propedeutica alla scienza delle merci [Vorbereitung zur Waarenkunde, 1795-1800] e, infine, alla Guida alla scienza del commercio [Anleitung zur Handelswissenschaft, 1789].
8 J. Beckmann, «Vorrede», in Anleitung zur Technologie cit., pp. 14-15.
9 Le due cattedre universitarie di scienze camerali istituite nel 1727 presso l’Università di Halle e quella di Frankfurt an der Oder portano il titolo di «Ökonomische, Polizei und Kameralwissenschaft». A testimonianza che i cameralisti non potevano essere definiti economisti, nel senso moderno del termine, ma soprattutto burocrati che avevano come compito la creazione e lo sviluppo della ricchezza nazionale nell’ambito di una concezione organicistico-paternalistica dello Stato, fondata sull’autorità di un monarca, indiscussa ma pure volta al benessere della popolazione. Nell’ambito nel contesto storico della spinta riformatrice del cosiddetto «assolutismo illuminato» le scienze camerali, tra cui specificamente la Technologie inaugurata da Beckmann, costituivano nel loro complesso una Scienza dello Stato che doveva fornire ai principati tedeschi funzionari ben preparati e ben capaci di amministrazione. Il testo di riferimento imprescindibile su tale tema rimane quello di P. Schiera, Dall’arte di governo alle Scienze di Stato. Il Cameralismo e l’Assolutismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1968. Ma cfr. anche K. Tribe, «Cameralism and the Sciences of the State», in The Cambridge History of Eighteenth-Century Political Thought, a cura di M. Goldie e M. Wakler, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 525-546; Id., «Mercantilism and the Economics of State Formation», in Mercantilist Economics, a cura di L. Magnusson, Boston, Kluwer Academic Pub, 1993, pp. 175-186; B.P. Priddat, Kameralismus als paradoxe Konzeption der gleichzeitigen Stärkung von Markt und Staat. Komplexe Theorielagen im deutschen 18. Jahrhundert, “Berichte zur Wissenschaftsgeschichte”, 31, 2008, 3, pp. 249-263.
10 K. Marx, Zur Kritik der politischen Ökonomie (Manuskript 1861-1863), MEGA II/3.6, p. 42.
11 Id., Il capitale. Libro primo, trad. it. a cura di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 533.
12 Id., Manuskript 1861-1863 cit., p. 2060: «Die Anwendung der natural agents – gewissermassen ihre Einverleibung in das Capital – fällt zusammen mit der Entwicklung der Wissenschaft als eines selbstständigen Factors des Produktionsprozess. Wie der Produktionsprozess zur Anwendung der Wissenschaft, wird umgekehrt die Wissenschaft zu einem Factor, so zu sagen zu einer Function des Produktionsprozess».
13 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it. a cura di A. e T. Bagiotti, Torino, utet, 2020, p. 86.
14 K. Marx, Il capitale. Libro primo cit., pp. 420-421.
15 Id., Manoscritti del 1861-1863, trad. it. a cura di L. Calabi, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 290-291. Il tema del «lavoro astratto» apre una questione assai complessa nell’opera di Marx, a lungo dibattuta nella storia dei marxismi e nella vastissima bibliografia critica. Qui si vuole solo ricordare che il darsi di un’«astrazione reale» nel corpo e nella mente del lavoro vivo, durante l’uso e il consumo che di esso fa la gestione capitalistica, è imprescindibile nella visione peculiarissima che Marx ha della propria scienza in quanto ricostruzione critica del sistema capitalistico moderno. In più luoghi ho provato a dire che la teoria della scienza sociale di Marx – in quanto scienza solo del capitale e non di tutte le formazioni economico-sociali della storia umana (come nel problematico materialismo storico) – prende a modello il cosiddetto «circolo hegeliano» del presupposto-posto, secondo il quale ciò che all’inizio appare solo come un presupposto, un’ipotesi, una generalizzazione mentale necessariamente astratta, dello scienziato sociale, dimostra tutta la sua verità/realtà solo quando l’astrazione di quel concetto diviene l’habitus e l’oggetto della prassi effettuale, dell’agire produttivo della maggioranza degli attori sociali. Ma per chi voglia approfondire questo tema – vera e propria crux desperationis del marxismo e della sociologia moderna – rimando ai miei testi: Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004;
Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jacabook, 2015. Qui voglio solo aggiungere, per i fraintendimenti cui hanno dato luogo molto spesso le mie tesi, che il darsi del lavoro astratto nella produzione, come esito della «subordinazione reale del lavoro al capitale», è imprescindibile per chiudere la sincronicità del darsi del lavoro astratto come misura dello scambio nella sfera della circolazione e dunque per confermare la validità della teoria del valore-lavoro. Ma tale circolarità sincronica, che sta a base della logica della scienza marxiana, e che impone l’attestazione e il darsi di una realtà piena e assoluta dell’astrarsi del lavoro nei processi capitalistici di produzione, non impedisce ovviamente di concepire e integrare una prospettiva diacronica, storico-sociale, secondo la quale è legittimo pensare che il livello di astrazione imposto dalla gestione capitalistica d’impresa all’erogazione di lavoro vivo possa variare di diversi gradi e di diverse configurazioni tecnologiche a seconda della capacità di resistenza e di soggettivazione della stessa forza-lavoro. E che dunque la tesi marxiana del lavoro astratto vada assunta come idea-limite, forse mai compiutamente in atto nella misura dell’assolutizzazione marxiana perché in qualche modo sempre intrecciata con quote di lavoro concreto, ma tale da costituire comunque la regola direttiva a cui non può non mirare l’organizzazione capitalistica del lavoro per procurarsi il controllo dei modi e dei tempi dell’erogazione di lavoro. Sul rapporto tra sapere codificato e sapere contestuale cfr. L. D’Auria, Valorizzazione capitalistica e crescita della conoscenza, in L. Cillario, R. Finelli (a cura di), Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’era telematica, Roma, manifestolibri, 1998, pp. 87-120.
16 M . Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1991, pp. 5-27.
17 Di tale rimozione del sapere storico, di tale estraneità a studiare i diversi significati di tecnica e tecnologia secondo i vari contesti sociali e storici e la loro variazione da contesto a contesto, partecipava del resto assai intensamente anche la teoria della tecnica di Emanuele Severino. La quale, assai prossima a quella heideggeriana, ha provveduto anch’essa a sviluppare un discorso metafisico e metastorico che, lontano da ogni vera attenzione e sensibilità di studio del processo e delle condizioni di lavoro all’interno della fabbrica capitalistica, ha contribuito fortemente a sviluppare come opinione di massa che a principio della tecnica, di tutta la tecnica dell’intera storia dell’umanità, ci fosse un peccato, un errore, dell’essere umano in quanto tale: ossia una colpa antropologica e non più una storia di classi e di relazioni di classi.
Per Severino infatti, alla cui impostazione neoparmenidea si sarebbe dovuta rivolgere la medesima critica calogeriana di fare filosofia ipostatizzando il linguaggio e prendendo parole per cose, la tecnica sarebbe la volontà di potenza di un essere umano che pretenderebbe, attraverso il nesso mezzi-scopi, di governare il divenire delle cose e la sua assoluta imprevedibilità e casualità: visto che il divenire, come alternanza di nascere e di morire sarebbe, proprio secondo il dettato dell’antico Parmenide di Enea, il passaggio dal nulla all’Essere e dall’Essere al nulla, e dunque un accadere del tutto esposto all’inesplicabile. La tecnica sarebbe dunque la pretesa dell’anthropos, fin dalla antichità, di sviluppare un dominio delle cose sempre più ampio, attraverso quel toglimento progressivo di limiti all’agire umano, che giunge a dilatazione enorme nel mondo contemporaneo, dove il mezzo del dominio diviene, con un capovolgimento tra mezzi e fini, esso stesso fine.
Laddove la realtà autentica, e la verità che la esprime, sarebbe l’Essere di Parmenide, che non nasce né muore, perché è l’è che è eternamente e che trattiene nella sua eternità ogni sua manifestazione, di contro all’essere umano che prende l’abbaglio, l’errore, del divenire e presume di governarlo, facendosi uomo tecnico. Così, invece di permanere nel limite imposto e comandato dall’eternità dell’Essere/di Dio, l’uomo si fa volontà di potenza illimitata e come tale dà vita a uno spirito della tecnica, a un sistema della tecnica, che oggi è giunto a un grado tale da dominare lo stesso capitalismo, rendendolo suo sottosistema, tutto pervaso della sua dimensione di crescita e di sviluppo: come non può non accadere a ogni altro sottosistema contemporaneo, qual è stato per esempio il comunismo, nel suo essere stato anch’esso, per la cecità ontologica di fronte al divenire, tutto animato e dominato dalla logica prometeica del toglimento dei limiti.
18 G. Longo, S. Longo, «Réinventer le corps et l’espace», in In difesa dell’umano, a cura di L. Boi et al., 2021, in corso di stampa [https://hal-ens.archives-ouvertes.fr/hal-03320675]; testo con trad. it. a cura di L. Cabassa, p. 2 [https://www.di.ens.fr/users/longo/files/Longos-ReinventareCorpo-spazio.pdf]. Di G. Longo, si veda, da ultimo, Matematica e senso. Per non divenire macchine, a cura di A. Colombo, Milano-Udine, Mimesis, 2021.
19 Ibid.
20 Sull’ibridazione tra uomo e tecnologia e i problemi anche etici che tutto ciò comporta cfr. A. Carnevale, Tecno-vulnerabili. Per un’etica della sostenibilità tecnologica, Napoli-Salerno, Orthotes, 2017; B. Bisol, A. Carnevale, F. Lucivero, Diritti umani, valori e nuove tecnologie. Il caso dell’etica della robotica in Europa, «Metodo. International Studies in Phenomenology and Philosophy», 2014, 2, 1, pp. 235-252.
21 Cfr. in tal senso quanto scrive Massimo Di Felice: «Non si tratta quindi di una semplice aggregazione tra entità diverse […] ma di forme di connessione in grado di produrre una alterazione delle diverse parti, interne o esterne, trasformandole, attraverso un processo connettivo, in qualcosa d’altro. Una materialità connessa, non soltanto composta da aggregati, ma anche emergente, in quanto continuamente diversa e, pertanto, informazione ed evento. Da tale punto di vista si deve riconoscere che l’avvento della digitalizzazione e soprattutto delle architetture delle reti connettive (Internet of things, reti di dati, Big data, Internet of everything) ha provocato un salto qualitativo che possiamo brevemente indicare come la conseguenza di due fattori: l’alterazione e la trasfigurazione delle cose in dati e l’emergenza di una loro proprietà ecologico-connettiva» (M. Di Felice, L’info-materia cit., pp. 64-71).

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