2. Una psiche al quadrato
p. 51-73
Texte intégral
1. Il precipitare della mente nel corpo
1È dunque una dualità originaria e originale, di natura profondamente diversa dalla differenza ontologica di Martin Heidegger, che sta a base per noi di ogni esistenza umana e che rende assai problematica, anzi improponibile, ogni possibile riduzione della mente umana alle funzioni calcolanti di una computer machine. Nel modello di antropologia psicoanalitica che stiamo seguendo, il corpo umano si fa simbolo a se medesimo, perché deve tradursi da una condizione di mera fisicità in una condizione di rappresentazione psichica (tradursi, avrebbe detto Freud, da quantità in qualità). La mente, come luogo della psichicità, nasce con la funzione di accogliere, contenere, quanto il corpo comunica attraverso il sentire emozionale (primo livello della rappresentazione psichica in quanto rappresentanza del corpo), mettendolo in relazione con le possibilità di soddisfacimento presenti nel mondo-ambiente.
2Lo scopo primario della psiche è quindi quello di mantenere l’organismo corporeo in vita, rendendo compatibile il suo mondo fisico-chimico, i suoi bisogni e le sue pulsioni, con il mondo esterno, attraverso il conoscere rappresentativo, linguistico e concettuale. Sentire e conoscere sono dunque intrinsecamente connessi, per cui le emozioni, anziché cadere fuori del pensiero o esserne tenute lontane, sono la fonte medesima della funzione e della capacità di pensare, ne costituiscono la più vera radice, che deve essere interpretata, riconosciuta e messa in relazione con la possibilità reale. Ma dove, appunto, il sentire non è il conoscere, e dove quindi, per tale dualità, il significato del conoscere può anche non afferrare e accogliere il senso del proprio sentire: può cioè farsi non-senso di quel senso, o accogliere una prescrizione di senso che viene solo dall’esterno, tanto più quanto più quest’ultimo s’iscrive in un intelletto generale/generico, ossia in un significato di senso comune.
3Ma «se postuliamo che l’accoglimento che la mente fa del corpo sia l’irrinunciabile punto di partenza di ogni operazione pensante»1, è proprio l’eterogeneità dei due ambiti in rapporto e delle loro funzioni – le prime di carattere endocrino, vascolare, neurofisiologico, le seconde di carattere mentale-rappresentazionale, volte a registrare, contenere e mediare le prime con il mondo esterno – a costituire la specificità dell’homo sapiens, rispetto alle altre specie viventi, e, insieme, la precarietà e la costante possibile dissociazione interiore della sua vita. Nel sistema rappresentazionale e autorappresentazionale della coscienza, abbiamo detto, il corpo si fa simbolo, simbolo a se medesimo, traducendo la propria fisicità animale nei livelli emozionali primari della psiche e consegnando alla mente un’alterità da interpretare e riconoscere. Ed è appunto tale eterogeneità del corpo alla mente che se da un lato può costituirsi come callida iunctura, quale compresenza positiva e unitaria di funzioni che legittima la vita a essere chiamata vita propriamente umana, dall’altro può degenerare in una patologica disarmonia, fino al proporsi di una mente che si vuole senza corpo e che per tale estremizzazione si istituisce quale mente che pensa ma non conosce.
4Tutto ciò per dire che la matrice dell’alterità dell’umano non è di carattere trascendente, nel senso di una priorità ontologico-metafisica o di una precedenza del simbolico-linguistico, che ecceda l’esistenza individuale. Essa è bensì una alterità e una trascendenza tutta immanente, che proprio nel suo darsi come confine tutto interiore, può, nel suo bordo, essere luogo di riconoscimento e accoglimento reciproco come di scissione e disconoscimento.
5È dunque la relazione dinamica tra corpo e mente, tra sentire e conoscere, la sua eterogeneità strutturale, che ci fa esseri umani e che ci fa funzionare, nella nostra specificità di specie, come esseri umani. È la funzionalità di un dualismo, che mantiene separati, con logiche di funzionamento distinte e non riducibili l’una all’altra, i due domini della nostra vita interiore, procurando con la sua integrazione il mantenimento e la riproduzione della nostra individualità biologico-psichica.
6Non a caso, come già si ricordava, la genialità di Spinoza si è mostrata nell’aver per primo teorizzato in epoca moderna proprio tale unione di disiecta membra: di aver sottratto cioè il nesso corpo-mente al dualismo cartesiano delle sostanze e di averlo interpretato come due facce, due attributi, di una unica sostanza. Ossia di aver letto la mente come funzione conoscitiva che è parallela a quella del corpo, nel senso che la vita della mente si accompagna, riflettendovisi, alla complessità o meno della vita del corpo. Come scrive nella prop. 14 del secondo libro dell’Etica: «La mente umana è capace di percepire moltissime cose, e tanto più ne è capace, quanti più sono i modi in cui il suo corpo si può disporre»2, e ancora nella prop. 23: «La mente non conosce se stessa se non in quanto percepisce le idee delle affezioni del corpo»3. La critica del dispositivo cartesiano di fare di corpo e mente due sostanze diverse (e, in quanto sostanze, presuntivamente autonome) conduce infatti il sefardita olandese ad affermare, essendo corpo e mente due attributi di un’unica sostanza, che «L’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione esistente in atto, e niente altro»4, argomentando ulteriormente nel corollario a questa stessa proposizione: «In generale tuttavia dico questo, che quanto più un corpo è capace, rispetto agli altri, di fare o di sopportare più cose; e quanto più le azioni di un corpo dipendono da esso solo, e quanto meno gli altri corpi concorrono con esso nell’agire, tanto più la sua mente è capace di intendere distintamente».
7Ma, si potrebbe aggiungere, tale tema di un dualismo alla cui base permane una lex continuitatis, dunque non trascendente bensì immanente e valevole a spiegare come e perché si dia vita umana, è tema di fondo, com’è ben noto, anche della filosofia di Leibniz. Perché l’attività della soggettività monadica, essendo conchiusa in se medesima, è volta essenzialmente a tradurre nel conscio l’inconscio della propria interiorità, insondabile e infinita. La vita della monade è infatti intrinsecamente conoscitiva e tale sforzo rappresentativo, tale nisus repraesentativus, gioca costantemente proprio sulla soglia, sulla dualità interiore che si dà tra le petites perceptions sans aperception et sans réflexion, ossia senza coscienza, e le rappresentazioni via via sempre più chiare e distinte della conoscenza consapevole. Come per altro non si può non ricordare, in questo sguardo di sghembo alla storia della filosofia, quanto l’innovazione più importante della gnoseologia della Critica della ragion pura sia consistita proprio nella teorizzazione da parte di Kant del dualismo che struttura unitariamente la mente umana, attraverso la distinzione di due facoltà del conoscere, quali la sensibilità e l’intelletto, che obbediscono a logiche di funzionamento tanto eterogenee quanto sinteticamente connesse. È cioè solo il dualismo strutturale della mente umana che ne consente lo svolgersi dell’attività conoscitiva e che in pari tempo consente a Kant di inaugurare il cammino moderno di una soggettività intesa quale composizione interiore di eterogenei: di contro al monismo, va aggiunto, sia della tradizione empiristica che di quella razionalistica, che pretendevano di ridurre il processo della mente all’affermarsi di un unico fattore di verità, le sensazioni concrete e fattuali nel primo caso, la ragione purificata dal sensibile nel secondo.
8Basti pensare, di contro a tale tradizione di dualismo antropologico, di composizione sintetica di funzioni eterogenee, che cosa è accaduto nella storia del pensiero, ogni qual volta, rifiutata la positività del dualismo di fisico e psichico, s’è valorizzato il monismo di una sola delle due polarità in gioco. Com’è accaduto in modo esemplare, secondo quanto ci è dato di giudicare, particolarmente nell’opera di Nietzsche. Per questi infatti il corpo è una dimensione integrale e totalizzante di realtà. Non è solo un assetto biologico di organi, perché è anche il luogo diretto di produzione della vita intellettuale e morale, dove si formano e si dispongono prospettive, preferenze e valori. Vale a dire che il biologico contiene immediatamente il mentale, anzi è, senza distinzione alcuna, il mentale. Il tutto a muovere dalla singolare quanto univoca e fallace, a mio avviso, traduzione della biologia nella fisica che sta alla base del pensiero nietzscheano.
9La vita di un corpo organico, per il filosofo di Röcken, anziché unità funzionale di organi, volta alla conservazione e riproduzione della propria costituzione, è collusione e scontro tra forze, che si confrontano in ogni momento tra loro, dando vita a strutturazioni di contesti sempre diversi, di momento in momento divenienti e cangianti. È nella natura della forza essere sempre relativa ad altre forze, giacché la sua volontà di potenza non può che attestarsi e realizzarsi se non attraverso il dominio su altre forze, inferiori e di minore potenza. Ne consegue che il corpo umano è costituito per Nietzsche da un complesso di forze, costantemente in relazione dinamica tra loro, attraverso un confronto tra forze attive e forze passive, che, per la molteplicità delle forze in gioco, ridisegna a ogni momento, a mo’ di un lancio di dadi, la configurazione del campo. Questo significa che per principio nel corpo non esiste alcuna permanenza e identità ma solo un cangiare e un divenire di relazioni che si susseguono in base all’alterarsi dei diversi gradi di potenza e d’impotenza. Ed è appunto questo mutare costante di relazioni di dominio e di forza che produce per Nietzsche una strutturazione gerarchica della realtà, la configurazione dei valori, la produzione di senso. Il corpo vuole e nel suo volere immediatamente pensa, giudica, dà valore e disvalore, senza necessità alcuna di una mente, vale a dire di una coscienza o di una soggettività riflessiva, che, all’opposto, per Nietzsche costituiscono, nella loro pretesa separatezza e autonomia, proprio il luogo dell’impedimento e della non-vita.
10Tale precipitare della mente nel corpo, dovuto per chi scrive ad una fallace sovrapposizione operata dal teorico dello Übermensch dell’ambito della fisica e della meccanica delle forze a quello della biologia del vivente, ha condotto al rifiuto della tradizione del dualismo trascendentale di cui stiamo discorrendo quale chiave di volta della filosofia moderna e al suo preteso superamento nella improvvida stagione del postmodernismo. A testimonianza di quale visione frammentata della realtà, di quale confutazione di ogni valore attribuibile alla sintesi di una soggettività, di quale negazione della stessa idea di una possibile soggettività possa giungere la estremizzazione di una sola delle due polarità che costituiscono l’homo sapiens.
11Il rifiuto di una visione dell’essere umano come basato sulla sintesi e l’organizzazione concorde di fisicità e psichicità sta del resto anche alla base della filosofia di Gilles Deleuze, celebrato nell’ultimo ventennio come l’autore che maggiormente, insieme a Martin Heidegger, ha concorso alla decostruzione di tutti i valori della modernità, quale per eccellenza quello di una soggettività che si compone di una sintesi della molteplicità del suo apparato e delle sue funzioni.
12Con la nozione di «rizoma», cioè di un modo di vita che procede per multipli e disseminazioni, senza luoghi d’ingresso o di uscita, d’inizio o di fine, determinabili e definibili, Deleuze ha infatti potuto rifiutare, seguendo la lezione di Nietzsche, ogni codice e ogni strutturazione permanente della realtà. Anche nel suo pensiero nomade, venendo meno ogni possibile fondamento e ogni pretesa di una possibile soggettività di operare ordine e sintesi, non c’è dualismo ed eterogeneità tra corpo e mente, perché il vitale è già di per sé produzione inesausta di differenze, di eventi pieni e densi di senso, ma del tutto contingenti perché non riconducibili a una unità: percorsi di vettori multipli che danno luogo a eventi, senza continuità causale e, nella loro composizione impersonale, senza individuazioni soggettivizzanti. Il rizoma è il movimento stesso del desiderio, è la vita inconscia ed eccedente, che non ha bisogno di alcuna coscienza e riflessività, anzi che deve sfuggire al reticolo della rappresentazione, del linguaggio e del sapere proprio per non essere castrata nella sua potenza generativa e produttiva. Di contro a ogni cultura antropologica del dualismo e della mediazione, di contro alle codificazioni, alla costellazione edipica, al principio di realtà, all’elaborazione e al distanziamento delle pulsioni, teorizzati da Freud e la psicoanalisi, la schizoanalisi deleuziana propone infatti il monismo di un Essere, di una Vita che è potenza di essere prima di ogni processo di individuazione personale e che si svolge appunto come virtualità di un poter-essere che include in sé ogni configurazione possibile di esistenza, di corpo, di evento. Un reale che dunque va inteso come reale puro, come un reale non antropologico, piegato da mille piani e da mille pieghe in cui è indiscernibile la distinzione e la separatezza tra ciò che è umano e ciò che non è umano, e che per la sua immanenza e continuità di vita può sconvolgere con la sua potenza sconvolgente, imprevedibile e inattesa, ogni fissità codificata e istituzionale, per affermare la gioia e l’immanenza dell’evento e della sua eccezione.
13Rispetto a tale precipitare della mente nel corpo, che ha così fortemente connotato il pensiero di Nietzsche-Deleuze, qui vale ripetere che per noi invece solo la divaricazione funzionale di corpo e mente consente l’espressione, la realizzazione, il soddisfacimento della natura pulsionale-emozionale del corpo. Senza il contenimento della mente e il suo confronto con la realtà esterna il desiderio dilaga infatti in modo corrivo e intrattenibile, a comporre deliri e finzioni, meccanismi dissociativi e somatizzazioni, disgregazioni di coscienza e psicosi, proiezioni invece di realtà. Visto che l’orizzonte della sua pretesa vitalità è solo quello dell’immediatezza: dell’immediatezza improcrastinabile, quanto patologica e mortifera, di una scarica.
14Queste considerazioni critiche sulle filosofie della vita di Nietzsche e di Deleuze (con i suoi antecedenti per quanto riguarda quest’ultimo in Bergson5) valgono, com’è ovvio, a sottolineare quanto l’antropologia del dualismo immanente, che in queste pagine si sta proponendo, sia lontana dall’ideologia dell’immediatezza che caratterizza strutturalmente le varie versioni del vitalismo, e che pretende di trovare nelle forme più varie del vivente l’immanenza di una forza energetica, di un principio di attività che travalica i singoli organismi e le loro fissazioni identitarie. Tale potenza creatrice è stata valorizzata in genere proprio per la sua impersonalità, ossia per il superamento di ogni concezione della soggettività come luogo di unità e di identità, e per il suo porsi come movimento, divenire, flusso, che non si conchiude in schemi e rigidità precostituite. L’opposto, insomma, di quanto s’è venuto ragionando fin qui. Visto che l’antropologia dell’asse verticale e dell’asse orizzontale è esplicitamente fondata sulla mediazione tra la mente e le sue alterità costitutive, e dunque su un agire costitutivo della soggettività intrinsecamente sintetico. O meglio, visto che nella nostra prospettiva l’essere umano, ben lungi dall’essere manifestazione di un immediato, è simbolo a se medesimo, dovendo accogliere, interpretare e riconoscere (anziché rifiutare e disconoscere) il proprio dettame emozionale quale luogo originario, e originale, del senso del proprio progetto di vita.
15Nell’ambito della medesima ideologia dell’immediatezza (simmetricamente contrapposta e rovesciata di contro all’assolutizzazione del corpo pulsionale celebrata dalla linea Nietzsche-Deleuze), del resto si pone l’assolutizzazione di una mente speculativa che pretenda sottrarsi alla relazione e al confronto con il proprio corpo. Tale mente assoluta, com’è evidente, ha di molto alimentato la metafisica di religioni e filosofie, che, non tollerando che il pensiero derivasse dall’elaborazione di emozioni e che solo lì trovasse il suo senso originario, hanno costruito macchine di pensieri capaci di perdersi all’infinito in un rifiuto della finitudine iscritta nella nostra corporeità. Le astrazioni senza fondamento che ne derivano sono così l’esito di un sistema rappresentativo che si vuole libero, ma che in effetti è solo istituito dalla paura e dall’incapacità di accogliere i propri affetti e i propri tremori, per cui il lavoro sui simboli che lo connota finisce per lo più con atti di reificazione e di mera ipostasi del linguaggio. Come scrive lo psicoanalista Riccardo Lombardi: «In assenza del referente interno del proprio corpo, il lavoro sul simbolo rischia di rimanere astrattamente autoreferenziale, vuoto di sostanza personale, nonché antievolutivo»6. L’attività intellettuale, senza il riferimento alla simbolicità interiore, senza l’elaborazione di livelli emozionali profondi, produce cioè parole, simboli, che acquisiscono un significato solo pubblico e che in questa astrazione dalla materialità corporea finiscono coll’essere simboli autoriferiti e in cortocircuito solo tra loro. Tanto da potersi tradurre in linguaggi che, anziché portare alla luce il senso più proprio e personale, lo spengono, alimentando l’esteriorità di un senso comune.
2. Un dualismo immanente e una mente al quadrato
16La centralità e fondazione di senso che stiamo attribuendo alla dimensione del corpo fisico-biologico, alla dimensione animale presente in ogni esistenza umana, all’animalità presente in ogni esistenza umana non deve concludersi – e questo va fortemente sottolineato – in un riduzionismo naturalistico per il quale le differenze delle individualità, il loro non essere eguali le une alle altre, scomparirebbe di fronte all’identità della specie e alla unicità dei suoi tratti comuni più caratterizzanti. Come a dire che lo zoologico prevalesse sul vivente, e, per dirla con lo Hegel della Enzyklopädie, che il genere animale [Gattung], essendo costituito da un susseguirsi di generazioni e morti di una medesima tipologia di vita, neutralizzasse ogni singolarizzazione e individuazione, imponendo a tutti i suoi membri il medesimo codice genetico e la medesima fisiologia organica7.
17Invece il nostro corpo organico, io credo, nasce già ricco di individuazione. Nasce a seguito di una catena generazionale che ha depositato nella forma, misura, capacità di funzione e di relazione, di ogni nostro organo biologico, e del sistema organico di cui è componente la forma di vita sociale, culturale, corporea, psichica dei nostri predecessori. Giungendo a dar vita a quella natalità originaria, per cui ogni essere umano viene generato come del tutto incomparabile a qualsiasi altro essere umano, di cui ha ben dato testimonianza la riflessione di Hannah Arendt. Del resto se Darwin con la teoria dell’evoluzione ha aperto la biologia alla storia, già Spinoza, per ritornare alla sua Etica, aveva teorizzato che ogni corpo complesso, qual è per eccellenza quello umano, nasce con una sua proporzione interiore tra i molti individui che lo compongono: proporzione che è unica e irripetibile e che, nella sua originarietà, forma la cifra costituzionale di quella esistenza.
18L’ipotesi da cui partiamo, quanto all’unicità che contraddistingue la soggettività di ognuno, è infatti l’assunto che proprio nella dimensione materialistica del nostro corpo, nella nostra struttura cellulare, nella temporalità peculiare dei nostri cicli biologici, nel diverso grado di efficienza e di potenza dei nostri organi, si sia depositata la trasmissione della storia bio-psichica delle famiglie che ci hanno preceduto: catena generazionale che, secondo Murray Bowen, consentirebbe, per esempio, di affermare che ogni individuo, nell’arco di due secoli, si possa considerare come il discendente, tra un minimo e un massimo, di 68/128 famiglie, ciascuna delle quali gli ha dato un contributo8. Per cui, secondo quanto a me qui interessa sottolineare, ciascun individuo i può dire che nasca, ritornando di nuovo all’Etica di Spinoza, con una determinata proporzione compositiva, unica e dunque irripetibile per altri, dei suoi vari e molteplici componenti: anche perché, come abbiamo aggiunto, esito della sua peculiare storia e successione familiare.
19Quella ratio, quella proporzione identificante e individualizzante, costituisce la «regola aurea» cui ogni corpo deve attenersi per garantire durata all’intero corso della sua esistenza: giacché il fuoriuscire da quella proporzione costitutiva e costituzionale significa giungere a morte o il trapassare in una condizione o stato di alterità radicale, senza continuità con il precedente. Peraltro che tale regola aurea sia l’unità di un molteplice, sia cioè una funzione di vita composta di molteplici funzioni, comporta che l’identità che essa implica non sia di natura fissa o sostanziale, bensì in grado di accogliere una enorme quantità di variazioni. Potendosi al suo interno costantemente mutarsi la simmetria di quella proporzione in una asimmetria, per la quale alcuni componenti si estremizzano in una maggiore dose di vitalità di contro ad altri che impoveriscono e latitano in una minore potenza di vita. A patto, come si diceva, che ogni estremizzazione e ogni dissimmetria non si spingano fino a giungere all’alterazione definitiva della regola aurea dell’organismo in cui è inclusa. Vale a dire che la natura funzionale e non sostanziale dell’individualità spinoziana consente di congiungere insieme massima individuazione di una soggettività e massima differenziazione del suo vivere, delineando, in modo diverso e incomparabile per ciascun essere umano, il massimo limite attingibile di squilibrio vitale, o tristitia, così come il massimo limite attingibile di equilibrio e di potenza di vita, o laetitia.
20Ma è proprio tale ratio originaria e identificante, che distingue l’esistenza d’ognuno, a non poter essere paradossalmente attinta attraverso ragione, attraverso conoscenza, bensì solo e attraverso il nostro sentire: ossia attraverso quello che il Freud ancora prepsicoanalitico ha propriamente definito Triebrepräsentant – rappresentanza, e non rappresentazione – del somatico nello psichico. Vale a dire che quella ratio, essendo del corpo, non è mai conoscibile, né esauribile in una qualche definizione, ma è percepibile e presente alla psiche solo come fonte inesauribile del nostro sentire emozionale. Né dicibile, né concettualizzabile, né «rappresentazionabile», essa è, pure, norma e senso supremo del nostro vivere, come luogo più originario e più originale della nostra irripetibile individuazione.
21Orbene, da quanto siamo venuti fin qui dicendo e proponendo, riguardo a tale antropologia del dualismo immanente, dovrebbe essere ben evidente quanto la differenziazione tra sentire e conoscere, se da un lato costituisce la callida iunctura, il nesso di eterogenei, che specifica la specie umana tra le altre specie viventi, dall’altro è una dissociazione positiva di funzioni che ammette dentro di sé, proprio per il suo strutturale dualismo, una costante possibilità di scissione e incongruenza tra l’ambito del somatico-emozionale e l’ambito del mentale.
22Com’è ben noto è stata la psicoanalisi, quale scienza propria della modernità matura, a trovare la sua legittimità e originalità d’esistenza nella scoperta e nell’approfondimento di tale nesso antropologico nel suo versante aporetico. Essa ha inaugurato lo sguardo e la cura ai percorsi molteplici e alle configurazioni varie, fino alle psicosi, che quella scissura può assumere. Di tale complessità di barriere interiori, che possono giungere agli estremi della cancellazione del corpo o viceversa alla paralisi delle funzioni mentali, ovviamente qui non è il caso di parlare.
23Ma sarà opportuno, per il fine del nostro discorso, rifarsi assai brevemente alla teoria del pensiero dello psicoanalista inglese W. Bion, e alla sua intelligenza nel mescolare psicoanalisi e filosofia, per trovarsi di fronte a un modello teorico fecondissimo nel chiarificare i movimenti complessi e fisiologici, quanto insidiosi e patologici, che intercorrono tra soma e psiche nell’ottica dell’antropologia del dualismo immanente. La teoria del pensiero di Bion muove dai diversi gradi –differenziati appunto secondo una storia biologica individuale – della capacità o meno da parte della fragilissima mente del bambino di percepire e accogliere l’invasività del bisogno corporeo e l’impellenza incontenibile della sua soddisfazione immediata. O più precisamente dalla capacità o meno della mente iniziale del bambino di sopportare o meno l’ansia drammatica, fino a un terrore mortale, che il dilagare di questo oggetto interno e sconosciuto le procura.
24Di fronte al comparire di questa turbolenta e drammatica emozionalità la psiche si può sviluppare o come apparato capace di accogliere ed elaborare questo sentire, sviluppando un pensiero volto al soddisfacimento dei bisogni nella realtà, o, viceversa, come un apparato, non di pensiero, che vuole solo sgravarsi ed evacuare all’esterno gli oggetti interni cattivi e intollerabili. L’apparato per «pensare» i pensieri (cioè gli stati emozionali primordiali) nasce dal vuoto, dal «non-seno», e dalla capacità di reggere la frustrazione che proviene da tale assenza, lavorando a modificare tale condizione per giungere al soddisfacimento. Se invece l’intolleranza a tale frustrazione è elevata, l’unica via possibile è l’evasione, la fuga attraverso un apparato di evacuazione. La funzione fondamentale dell’apparato per pensare i pensieri è quella della sintesi e della correlazione, quella cioè della capacità di mettere in connessione desiderio e condizione reale di soddisfacimento, legando tutti i passaggi che conducono a quella destinazione: funzione che rappresenta la capacità della mente di unire, differenziare e ordinare. Laddove la funzione fondamentale dell’apparato per espellere i pensieri è quella dell’identificazione proiettiva.
25Con un forte riferimento al Kant della Critica della ragion pura, Bion può infatti dire che un sistema psichico protomentale è formato da elementi beta, cioè da vissuti emozionali grezzi e indifferenziati il cui dilagare e la cui violenza invasiva non consentono la nascita dell’apparato per pensare. Gli elementi beta sono infatti paragonabili alle kantiane «cose in sé», perché non sono pensieri, ma mere fisicità, che, come oggetti, possono essere espulsi e proiettati sul mondo esterno: proiettili che vengono conficcati in un oggetto o in un corpo estraneo. Il meccanismo psichico che svolge tale funzione di rigettare all’esterno ciò che il soggetto rifiuta e non ammette del proprio Sé è quello della identificazione proiettiva, definito per la prima volta da Melanie Klein, e che concerne appunto parti scisse della persona, componenti cattive e aggressive, che vengono proiettate e introdotte inconsciamente in altri sia per disfarsene sia per danneggiare, controllare e possedere gli altri soggetti, specchio di tale processo espulsivo. Un sistema psichico elementare, posseduto freudianamente dal principio di piacere, può pensare per lo psico-analista anglosassone solo in questo modo, non dando ordine e connessione ai pensieri, ma affrancandosi, attraverso evacuazione, dell’accumulo di energia che il mancato soddisfacimento immediato del bisogno, il non-seno, produce.
26Si può dar vita invece a un apparato per pensare i pensieri solo quando quella identificazione proiettiva viene contenuta ed elaborata in una dialettica del riconoscimento da parte della figura materna o da chi ne fa le veci. Ossia quando la capacità di empatia, di rêverie come la chiama Bion, della funzione materna è capace di accogliere quelle componenti intollerabili e incontenibili di un bambino terrorizzato dal bisogno, di identificarle e riconoscerle nella loro natura, e di restituirle mitigate e più tollerabili allo stesso infante. Vale a dire che l’essere riconosciuto del bambino da una funzione materna contenitrice consente alla sua mente di cominciare a entrare in contatto con la propria emotività, in qualche modo riconoscendola e, col riconoscerla, mitigandola e distanziandosene: almeno per quel minimo che lo pone in grado di sostenere la frustrazione tra l’urgenza del bisogno e l’azione del suo soddisfacimento. Si può dire dunque che la funzione della rêverie materna sia paragonabile, come è stato suggerito, a una adeguata cottura materna degli elementi beta, che consenta la loro trasformazione in alimenti digeribili, come nel passaggio dalla cultura selvaggia del crudo alla cultura civile del cotto, e che attraverso questo passaggio si generi il progressivo attivarsi di un apparato per pensare.
27Senza questa trasformazione di elementi beta in elementi alfa, in elementi cioè progressivamente rappresentabili e verbalizzabili, emozioni e affetti sono mantenuti in una condizione di non pensabilità e, come tali, pronti a essere espulsi. Ma l’espulsione, producendo uno svuotamento emotivo e sottraendo forza vitale all’organismo psichico, distrugge appunto l’apparato per pensare e con esso la capacità di stringere legami. Per cui rimane all’opera una mente primitiva che giunge a togliere, nel suo proiettare il proprio interno verso l’esterno, ogni barriera di separazione, tra fantasia inconscia e realtà, tra mondo interno e mondo esterno, fino a giungere all’indistinzione tra allucinazione e percezione reale9.
28Una mente matura, di contro, sarà una mente capace di integrare sequenze senso-emozionali, fenomeni ideativo-rappresentativi e sequenze verbali, in un circolo corpo-mente-corpo per il quale le formulazioni anche più astratte del pensiero logico-discorsivo trovano il loro senso ultimo nella «verità di coerenza» del proprio sentire corporeo. Vale a dire che per Bion è imprescindibile che non solo le emozioni di natura corporea costituiscano i primi elementi propulsori del funzionamento mentale ma anche che l’ambito più astratto e intellettuale del conoscere debba tornare a trovare la propria verifica nel grado corrispondente di armonia e d’integrazione del proprio apparato corporeo. Ossia che la coerenza logica debba trovare il suo corrispettivo nella coerenza biologica, nel senso che il pensiero vero ha da essere testimoniato da una simultanea esperienza di coerenza sia tra le nostre fonti senso-percettive volte a registrare il mondo esterno sia tra le complesse e molteplici tensioni emozionali del nostro mondo interno. E che appunto la quota di verità, di volta in volta raggiunta, corrisponda al grado di integrazione, all’unì-sono10, raggiunto dal nesso di sentire e conoscere.
29Per quello che s’è fin qui detto, dunque, predisposizione biologico-ereditaria di ogni corpo umano a un determinato grado di capacità di sostenere la frustrazione da un lato e, dall’altro, disposizione o meno alla rêverie da parte della funzione materna costituiscono le due polarità iniziali che strutturano inizialmente la qualità del circolo corpo-mente-corpo, influenzandone l’evoluzione successiva. Ma questo significa che nella nostra antropologia dell’Uno e del Bino giocano parimenti, per esprimerci con figurazioni filosofiche, sia un «fattore Kant» sia un «fattore Hegel».
30Il fattore Kant rimanda a un asse verticale di strutturazione della soggettività, modellato secondo il tema kantiano della sintesi, secondo cui l’interiorità umana si compone dell’attività d’integrazione di un molteplice: anzi di più sintesi, che rimandano all’integrazione dei dati somato-emozionali, dei dati senso-percettivi, e, a salire, dei componenti rappresentazionali, in genere a dominanza eidetica, per concludere con le catene discorsive dei simboli verbali. Dove, com’è evidente, i vari livelli di sintesi, disposti sull’asse verticale, rimandano a un’attività di riconoscimento e d’integrazione di ciascun ambito nell’altro che può avvenire come non avvenire.
31Il fattore Hegel rimanda all’asse orizzontale di costituzione della soggettività, quale genesi e istituzione di una mente attraverso il suo essere contenuta e riconosciuta da un’altra mente. Rimanda cioè a una dimensione del riconoscimento profondamente diversa ed eterogenea dal riconoscimento proprio dell’asse verticale. Diversamente dal procedere secondo sintesi dell’asse verticale, infatti il riconoscimento (o più precisamente l’esser riconosciuto) sull’asse orizzontale procede attraverso il nesso contenitore-contenuto in cui è la funzione materna a svolgere quel riconoscimento di sé di cui la prima mente è per definizione, nella sua gracilità, incapace. La costituzione intersoggettiva dell’autocoscienza individuale, la sua natura di essere mediata ab origine dall’alterità, è così, seguendo la lezione hegeliana della Fenomenologia, profondamente riaffermata. Anzi, va sottolineato ancora più intrinsecamente, perché quello che nella Fenomenologia è una lotta, uno scontro, per il riconoscimento, dove l’Altro è solo una polarità ostile da piegare e da subordinare, qui l’Altro è ciò che, attraverso una relazione di cura, è dentro di me in quanto consente alla mia mente di formarsi e svilupparsi.
32Fattore Kant e fattore Hegel, asse verticale e asse orizzontale, ci dicono dunque che nella individualità umana giocano due dimensioni dell’Alterità, profondamente eterogenee tra loro: l’Alterità cui rimanda il verticale, che è l’alterità del corpo interna alla mente e l’Alterità cui rimanda l’orizzontale, che è l’Alterità degli altri esseri umani esterna alla soggettività in questione. E che appunto proprio a muovere dalla compresenza di questa due Alterità, non riducibili l’una all’altra, ma cooperanti l’una con l’altra, nasce l’enorme complicanza, con le mille configurazioni possibili, dell’essere umano. Sempre possibilmente volto, in questa trama di infrasoggettività e di intersoggettività, a sentire e a riconoscere il proprio sentire, facilitato in tale riconoscersi dall’essere riconosciuto dall’altro da sé, ma, nello stesso tempo sempre possibilmente volto a fuggire dal proprio sentire, riconoscendo l’Altro dell’asse orizzontale come superiore al proprio Altro verticale.
3. Il dramma della nascita della mente
33Perché è appunto tale originario formarsi della mente, come dialogante con la propria emozionalità corporea solo in quanto mente al quadrato, cioè in quanto mente contenuta e formata da un’altra mente, che ci consente forse di ritornare con maggiore appropriatezza sul nostro tema iniziale, di come si debba ragionare sulla tipologia di vita che, nel bene e nel male, ci viene proponendo oggi la diffusione delle tecnologie informatiche e della cosiddetta «società della conoscenza». Certo il passaggio dalla psicologia individuale alla storia sociale e alla psicologia collettiva è sempre molto complesso e rischioso, per facili quanto indebite sovrapposizioni e indistinzioni. Ma è proprio dallo strutturarsi così composito dell’originario – dalla natura così complessa dell’Uno nel Bino nella sua relazione con la funzione materna – che si possono dedurre articolazioni e segmenti di un discorso storico-critico sulla nostra contemporaneità. Giacché, dopo la prima attivazione della mente infantile da parte di una rêverie materna sufficientemente buona, la dialettica del riconoscersi-essere riconosciuto deve, in qualche modo, continuare e svilupparsi, per garantire una vita psichica animata tendenzialmente da una pratica di integrazione piuttosto che di polarizzazione e di scissione.
34Da un lato infatti il corpo d’ognuno, per il suo essere individuo composto da molti individui, ha bisogno di vivere e di alimentarsi in un ambiente, non monocorde o monoculturale, bensì parimenti vario e multiculturale, affinché tutte le sue diverse componenti possano essere nutrite e stimolate. Come scrive di nuovo Spinoza: «Il corpo umano ha bisogno, per conservarsi, di moltissimi altri corpi, dai quali viene di continuo quasi rigenerato»11. Affinché non si diano fissazioni emozionali parziali, che pretendono di assolutizzarsi, a scapito delle altre, riducendo la vita psichica a un susseguirsi di polarizzazioni, è indispensabile che quell’organismo viva in un mondo-ambiente quanto più possibile articolato e differenziato.
35Ma parimenti, in concorso con tale accensione e potenziamento della vitalità corporea, v’è necessità, dall’altro lato, di una diffusione e moltiplicazione dei sostituti della funzione materna, ossia delle funzioni di riconoscimento e rispetto dell’individualità d’ognuno. Perché il lavoro e l’impegno di una mente nel riconoscere il proprio sentire, via via più ricco e complesso, ha bisogno di trovare sempre più istituti del riconoscimento che facilitino, e non ostacolino, un cammino di individuazione.
36Anche perché – e questa è un’altra acquisizione irrinunciabile di un’antropologia a base pulsionale – il fondo emozionale dell’essere umano, secondo la lezione più propria della psicoanalisi, è strutturato secondo ambivalenza e secondo contraddizione. Ossia dalla compresenza in un medesimo soggetto nei confronti di un medesimo oggetto, fonte di interesse emotivo, di atteggiamenti e sentimenti opposti, di cui la testimonianza più esplicita è quella della coppia amore e odio. Il Freud della seconda topica, a partire dal testo del 1920, Al di là del principio di piacere, ha, com’è ben noto, teorizzato la presenza fondativa nell’essere umano, fin dai suoi primi momenti di vita, di una pulsione di morte, che le scuole psicoanalitiche successive hanno interpretato essenzialmente come la presenza di una pulsione di invidia e di distruzione. Vale a dire che per l’apparato psichico la configurazione dell’oggetto (o della persona) capace di soddisfare un bisogno è termine di una valorizzazione sia positiva che, nello stesso tempo, negativa, in quanto luogo di soddisfacimento ma, contemporaneamente, anche di dipendenza. In ogni affetto è perciò implicita una complessità, che vede all’opera sia una tendenza positiva nel costruire relazioni e legami sia una tendenza negativa nel sabotare e distruggere legami. Tanto da potersi dire che una psiche infantile e immatura consiste proprio nell’essere posseduta da un’alternanza oppositiva tra sì e no, da un passare e rovesciarsi di affermazione in negazione e viceversa, mentre una psiche matura e responsabile della propria emotività è una psiche in grado di integrare gli opposti, in una mediazione capace di sottrarsi alla cattiva infinità dell’alternanza e feconda, quindi, di operosità.
37Né è un caso che tale fondazione contraddittoria dell’affettività sia il principio reale che rende impossibile a una impostazione scientifica, di tipo naturalistico-quantitativo, accogliere nell’orizzonte della scienza e della verità l’esperienza pratica e teorica della psicoanalisi, relegandola piuttosto negli ambiti irrazionali della seduzione retorica e del convincimento magico e fideistico. La psicoanalisi nasce collocando e disvelando la contraddizione nel fondo del corpo emozionale dell’essere umano, mentre legittimamente la scienza nasce rifiutando ed espellendo da sé la contraddizione, quale presunta compresenza di opposti in un unico termine di discorso e di realtà. Ed è appunto proprio la complessità della psiche umana, costituita nella sua base da movimenti pulsionali e affettivi, in cui l’affermazione e la negazione, il sì e il no, sono simultanee e indissociabili, a indicarci quanto il conflitto e la dialettica siano all’origine della dinamica pulsionale. Con tutto ciò che da tale istituzione emozionale della dialettica ne deriva, va aggiunto, quanto a meccanismi di difesa, scissioni, proiezioni, somatizzazioni che la psiche mette in campo, per evitare assai spesso di entrare in contatto con le parti più dolorosamente conflittuali e negative del proprio Sé.
38Del resto tale natura ambivalente delle pulsioni, tale loro collocarsi nel conflitto, riguardo all’oggetto del soddisfacimento, conferma quanto Spinoza aveva già teorizzato sulla ratio del corpo, cioè su quella proporzione individuante che, come sappiamo, lega e armonizza per il filosofo sefardita le varie individualità di un corpo. Vale a dire che la politica dell’organismo psichico è volta fondamentalmente a procurare al suo interno mediazioni ed equilibri, evitando estremizzazioni asimmetriche e investimenti unilaterali. Per cui ciò che ci conferma la natura conflittuale del sentire è che la vera potenza di vita dell’essere umano non è tanto acquisitiva e dominante verso l’esterno quanto equilibratrice e vitalizzante, in misura congrua e proporzionata, il suo interno. E che quindi la forza del conatus, dello slancio vitale, tanto più si approfondisce e migliora, quanto più matura e si perfeziona la sua capacità interna d’integrazione.
39Ma per quello che s’è detto fin qui il percorso di un’integrazione psichica, volta a fronteggiare l’ambivalenza e il conflitto pulsionale, come a mediare complessivamente il sentire con il conoscere, è un processo che, per la sua intrinseca natura di sintesi, non si svolge facilmente, rimanendo costantemente esposto al rischio di un suo insufficiente compimento e delle molte forme della sua possibile scomposizione. Anche perché l’ambiente esterno è componente indispensabile all’attività sintetica della psiche, essendo imprescindibile nell’alimentare, in una sua possibile ricchezza di stimoli e di configurazioni, la vitalità delle molteplici componenti organiche di un corpo, e nello stesso tempo a facilitare, con le sue relazioni intersoggettive di riconoscimento, il riconoscersi infrasoggettivo di quel medesimo corpo nella sua stessa mente.
40La psiche al quadrato di Bion può non accendersi in modo adeguato fin dall’inizio della vita psichica individuale sia per povertà di stimoli dell’ambiente esterno che per un difetto del suo essere contenuta e riconosciuta sul piano dell’asse orizzontale. Ed è proprio in questo suo essere strutturalmente mente estesa, che la psiche individuale mostra di avere necessità, anche al di là della nascita, per il suo riconoscersi – ossia affinché essa riconosca il proprio sentire sull’asse verticale –, di essere riconosciuta sull’asse orizzontale. L’ipotesi che qui si sottende è insomma che per una particolare classe sociale, intrattenuta nel suo esistere in un ambiente assai limitato tanto di stimoli quanto di pratiche di contenimento e di riconoscimento, la necessità della mente individuale di essere accolta, riconosciuta e facilitata nel suo percorso di individuazione rimanga una dimensione permanente, bel al di là della sua fondazione iniziale. Ossia che la crisi della presenza, per usare la categoria di Ernesto De Martino, sia non solo fenomeno inaugurale e non più ripetibile di una protocoscienza infantile, ma che, al contrario, per una massa collettiva di menti fragili, quella crisi, quanto a impedimento ad attingere la più propria e incomparabile unicità di senso, sia condizione psichica strutturale, in genere occultata e compensata da un forte investimento mimetico e di acquisizione di senso comune veicolati sull’asse orizzontale.
41Il passaggio dalla psicologia individuale alla psicologia storica e sociale si consuma dunque qui. Quando il dramma della nascita o meno della mente trascorre dall’essere un originario nella psiche di un singolo, destinato con la crescita a essere superato, a farsi struttura invece permanente di molti e a divenire con ciò dramma storico. Quando cioè la difficoltà di riconoscersi, e di acconsentire al più proprio sentire, diviene patologia non dell’uno ma dei molti, in un tempo oggettivo e pubblico di relazioni sociali e di istituzioni umane prive dell’attitudine e della capacità, appunto, del riconoscimento e della sollecitudine all’individuazione. Giacché ora è di questo che giunge a trattare il nostro discorso, in questo passaggio dall’antropologia psicoanalitica alla sociologia della nostra contemporaneità. Esso vuole cioè rapidamente trattare della patologia di massa che affetta il nostro presente e che consiste, secondo le categorie fin qui usate, in un’atrofia generalizzata dell’asse verticale, cioè in una disabitudine a percorrere l’asse valoriale della propria interiorità emozionale, per consegnarsi alla superficie dei messaggi e dei valori che animano, moltiplicati, il circuito delle informazioni esteriori12.
4. La mente estesa
42Del resto, riassumendo una tesi che chi scrive si prova a esporre da molto tempo – rielaborando segmenti del Marx della maturità, dei Grundrisse e del Kapital, insieme a tratti della teoria critica del postmoderno di Fredric Jameson –, si può infatti definire la configurazione essenziale della società contemporanea, vista nel suo cuore di processo di produzione di capitale, come un enorme processo di svuotamento del concreto da parte dell’astratto e, insieme, di sovradeterminazione isterica della superficie. Vale a dire che oggi la produzione/accumulazione di ricchezza monetario-astratta, qual è per eccellenza quella che caratterizza un’economia a base di capitale, oggi con la sua estensione e globalizzazione fino agli estremi del mercato mondiale, ha generato una progressiva sussunzione di tutto il vivente, umano e non-umano, nella varietà delle sue forme concrete di vita, sotto il dominio e la pervasività di una soggettività appunto astratta, qual è quella di una ricchezza istituita sul principio della sua obbligata e inevadibile accumulazione. Solo che tale obbligo e costrizione di un astratto sulla vita concreta di individualità umane e non-umane non può che avvenire se non evitando di entrare in contraddizione con il complesso dei valori giuridico-politici, culturali ed etici che hanno contrassegnato il progresso della storia moderna, quali la libertà e l’autonomia dell’individuo e il complesso delle istituzioni democratiche. Vale a dire che la valorizzazione del valore economico, intrinsecamente autoritaria e dispotica, non può che avvenire, in pari tempo, nel rispetto dei valori umani che pure rappresentano conquiste irrinunciabili e mai più reversibili della modernità.
43Deve darsi insomma un dominio sotto la forma opposta di un non-dominio, una mortificazione della vita sotto la forma opposta della sua vivificazione, perché proprio in ciò, in questa dialettica di essenza e apparenza consiste, almeno a mio avviso, il significato più fondamentale e fondante della modernità. L’incrocio tra questi due piani, uno ontologico e l’altro ontico (per celiare con il linguaggio della metafisica), si dà – questa è la tesi centrale di questa prospettiva – attraverso lo svuotamento delle capacità autonome della soggettività, ridotte a ruolo e personificazione della logica accumulativa dell’astratto, e, contemporaneamente, attraverso la valorizzazione apparente di quella cornice di soggettività che residua in superficie come esito di tale mortificazione funzionalizzante. Il modo di essere dominante dell’umanità contemporanea, legata alla diffusione senza più limite alcuno di un economico istituito sull’accumulazione di capitale, è dunque quella di un’esperienza di superficializzazione del mondo, nella quale scompaiono la sensibilità e l’interesse verso i nessi e le relazioni più profonde della realtà a fronte di un’attenzione che si volge solo all’esteriore dell’accadere, di cose, individui e istituzioni, colti nel loro apparire più superficiale.
44La lettura della cultura del postmoderno avanzata da F. Jameson, come sguardo di rinuncia a una prospettiva totalizzante e sistemica per la celebrazione di una realtà frammentata e abbellita con colori solo di superficie, è un pezzo fondamentale, come si diceva, di questo duplice movimento di svuotamento del concreto da parte dell’astratto e di sovrainvestimento del concreto. Unificata con una interpretazione del Kapital di Marx quale esposizione di una modernità incentrata sul farsi Soggetto tendenzialmente Universale da parte di una astrazione reale, offre la chiave di volta, a parere di chi scrive, per ben intendere il fenomeno della superficializzazione oggettiva del mondo e dell’esperire nel quale l’umanità intera oggi si trova a essere coinvolta e travolta.
45Ma, dobbiamo domandarci, in tale orizzonte storico di «crisi della presenza», quale ruolo svolgono le tecnologie legate alla rivoluzione del digitale? Come possono mitigare o impedire una condizione generalizzata di pseudoesistenza, qual è quella che oggi appare colpire e affliggere i più, connotata com’è da estesissimi meccanismi imitativi che coprono una mancanza di personalità di base, il vuoto di desideri profondi, di continuità di passioni e ideali?
46Giacché, per quello che fin qui è dato di vedere, la «mente estesa», messa a tema da Bion quale struttura indispensabile alla maturazione dell’essere umano, sta assumendo, con lo sviluppo degli strumenti digitali, la configurazione di una «mente esteriore», che rimanda a forme e modi della soggettivazione assai poveri di autonomia individuale e collettiva. L’aumento sempre più accelerato della potenza di calcolo delle macchine digitali appare infatti creare dei livelli di automatismi molto elevati che depositano all’esterno della mente umana modalità e tipologie di accumulo, selezione, ed elaborazione su enormi quantità di dati (algoritmi). Tanto da poter trasferire alla conoscenza depositata negli oggetti, nelle learning machines, una capacità decisionale che sovrasta quella, comparabilmente assai limitata, del soggetto umano: giacché quel decidere e definire avviene attraverso un procedimento solo quantitativo, che, processando moltissime informazioni, ne estrae una media statistico-matematica capace di presentarsi con le note della più ampia oggettività e imparzialità. Per cui si può addirittura giungere alla nozione di «inconscio tecnologico» che alcuni autori hanno introdotto nella discussione al riguardo, intendendo con questo termine l’oscurità in cui rimangono celate, per i più, le operazioni che compiono le macchine informatiche: a partire dai percorsi di tracciamento dei nostri movimenti personali alla registrazione dei nostri gusti, all’indirizzamento dei nostri costumi, al condizionamento delle posture della nostra attenzione.
47Ovviamente questo non è il caso quando il computer viene usato prevalentemente come mezzo di scrittura, come mero sostituto della grafia a mano, o come mezzo per la composizione artistica di nuovi manufatti estetici. Perché in questo caso gli strumenti digitali appaiono essere funzioni che facilitano l’espressione di atti della soggettività e di una loro, in qualche modo sussistente, autonomia.
48Mentre nel caso delle operazioni portate avanti dagli algoritmi è difficile non vedere come i loro automatismi influenzino profondamente il nostro sistema cognitivo e valutativo, svolgendone funzioni sostitutive e vicarie, che, come s’è detto, sono di difficilissima penetrazione quanto ai criteri strutturanti loro processualità, salvo a possedere le competenze per passare dal linguaggio naturale al linguaggio digitale e viceversa13.
49Per altro rispetto al tema della spersonalizzazione e della soggettività mimetica generata dalle nuove tecnologie si è obbligati a citare qui quanto sta accadendo nel campo dell’istruzione, con un superamento radicale della scuola e dell’università, come le abbiamo conosciute nel xx secolo, e con l’introduzione di nuovi paradigmi formativi in cui l’educazione digitale viene svolgendo un ruolo sempre più fondamentale. Investimenti giganteschi delle grandi imprese dell’hi-tech (come Google, Amazon eccetera) per una produzione a larghissima scala di modelli digitalizzati di insegnamento e apprendimento confermano infatti che la tendenza di fondo è quella di sostituire l’insegnamento tradizionale (attraverso lezioni discorsive di un docente a un «gruppo classe» per una durata almeno annuale o semestrale) con moduli digitalizzati e programmi interattivi, destinati a una massa enorme di utenti, dove la funzione docente si dislocherebbe solo a lato, con una funzione di mero supporto/chiarificazione, del dialogo tra il programma precompilato e lo studente. In questo senso la didattica online, proposta all’attenzione e all’uso da parte del grande pubblico dalla pandemia del Covid-19, non fa che iscriversi in un processo già da tempo iniziato, per il quale il processo scolastico e formativo tende a perdere sempre di più una dimensione pubblica (simboleggiata in primo luogo proprio dal collettivo di una classe) per acquisire una natura solo individualistico/privata, di un agente singolo che accumula i suoi crediti e debiti attraverso servizi di e-learning, prove su quiz, servizi complementari di preparazione ai test, accessi a funzioni di tutoraggio e assistenza. Il tutto, venduto su un mercato, a cominciare da quello cinese, di carattere globale, ma capace anche di flessibilità e adattamento alle diverse tradizioni culturali e locali.
50Del resto l’ispirazione e la destinazione generale della scuola pubblica nell’ultimo trentennio non sono state quelle di educare alla cittadinanza, cioè all’accoglimento e all’elaborazione di valori universali e condivisi, bensì quelle di preparare il singolo alla competizione del mondo del lavoro e del mercato. Tale interiorizzazione del paradigma economico nel mondo dell’educazione, tale anticipazione dell’esserci-per-il-mercato, non poteva che comportare, dato il prevalere di un complessivo «spirito» quantitativo, un sostanziale alleggerimento della serietà di contenuto dei programmi scolastici e universitari. Tanto più quando s’è fatto chiaro che i futuri lavoratori della conoscenza non avrebbero avuto bisogno, nella loro pratica di vita imperniata nel sistema «forza lavoro mentale-macchina dell’informazione», di una preparazione culturale estesa e approfondita. Con i dispositivi digitali che collocano un’enorme quantità di memoria e di prescrizioni operative fuori della mente dell’operatore, ciò di cui v’è necessità è una formazione permanente, un lifelong learning, perché ciò di cui v’è necessita è una mente leggera, con pochi radicamenti e fissità interiori, e disponibile ai continui aggiornamenti che l’evoluzione tecnologica pretende e impone. Come bene testimonia la ricerca di I. Gjergji, grandi aziende edutech, di concerto con le tesi dell’unesco sull’intelligenza artificiale quale presunta tecnologia fondamentale per il miglioramento dell’apprendimento, oggi «utilizzano le tecniche dell’intelligenza artificiale per simulare il tutoraggio umano personalizzato [one-to-one tutoring], con l’obiettivo di offrire servizi che si adattano alle esigenze cognitive del soggetto fruitore. Il tutto in totale assenza di docenti umani»14.
51Eppure l’agire tecnico/tecnologico è costitutivo dell’umanità fin dai suoi primordi. Non si può concepire l’esistenza e la riproduzione della società umana senza l’integrazione della mente con un complesso di dispositivi esterni che, dai più semplici ai più complessi, ne estendono la capacità di azione e di trasformazione della realtà. La questione di cosa sia la tecnica, di quanto essa sia emancipatrice e progressiva o, viceversa, tale da consegnare la vita dell’uomo contemporaneo alla gabbia d’acciaio di weberiana memoria, è ancora del tutto aperta. Forse una riflessione sulla connessione/distinzione di senso tra tecnica e tecnologia potrà essere utile ad arrecare qualche chiarificazione. È quanto su questo tema si prova a fare il prossimo capitolo.
Notes de bas de page
1 R. Lombardi, Metà prigioniero, metà alato. La dissociazione corpo-mente in psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, p. 25.
2 Spinoza, Etica cit., p. 101.
3 Ivi, p. 109.
4 Ivi, II, prop. 13, p. 91.
5 Su Bergson e Deleuze cfr. i due testi di Paolo Godani: rispettivamente Bergson e la filosofia, Pisa, ets, 2008 e Deleuze, Roma, Carocci, 2009.
6 R. Lombardi, Metà prigioniero, metà alato cit., p. 37.
7 Cfr. G.W.F. Hegel, «Filosofia della natura», in Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. a cura di V. Verra, Torino, utet, 2002, paragrafo 367 e Aggiunta, pp. 505-506.
8 Sulla trasmissione di pattern intergenerazionali cfr. M. Bowen, Family Evaluation: An Approach Based on Bowen Theory, scritto con M.E. Kerr, New York, W.W. Norton & Co., 1988.
9 Sulla teoria della genesi e della formazione del pensiero in Bion cfr. W.R. Bion, Apprendere dall’esperienza, trad. it. di L. Micati e L. Zecca, Roma, Armando, 2009; Id., Gli elementi della psicoanalisi, trad. it. di F. Hautmann, Roma, Borla, 1995. Cfr. anche C. Neri, A. Correale, P. Fadda, Letture bioniane, Roma, Borla, 1994.
10 Cfr. A.M. Sassone, E si trasformò in un orecchio, “Consecutio temporum”, 2011, 1 [www.consecutio.org].
11 Spinoza, Etica cit., prop. 13, post. 4, p. 99.
12 Cfr. E. Campo, La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale, Roma, Donzelli, 2020.
13 Sulla nozione di «inconscio tecnologico» o di «inconscio esteso» in merito alle tecnologie digitali, con particolare riferimento alle operazioni non percepibili realizzate dagli algoritmi, cfr. E. Campo, La testa altrove cit., pp. 214-223.
14 I. Gjergji, Education 4.0. How Digitalisation Affects School Teachers’ Work in Italy, “Socioscapes. International Journal of Societies, Politics and Cultures”, 2021, 2, 2: “Digital Work: More Autonomy or a New Subjugation of Work?”, p. 212. Ma sul tema della progressiva espansione del lavoro digitale in tutti i rami della produzione sociale e sull’accelerazione di questo processo indotta dalla pandemia del coronavirus cfr. l’intero numero della rivista, soprattutto il saggio introduttivo di R. Antunes, P. Basso, F. Perocco, Il lavoro digitale, i suoi significati e i suoi effetti, nel quadro del capitalismo pandemico, pp. 7-21. Cfr. anche S. Bellucci, AI-Work. La digitalizzazione del lavoro, Milano, Jaca Book, 2021.

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