Che cos’è la critica dell’ideologia?
p. 61-89
Note de l’auteur
Questa è una versione rivista del mio contributo sull’ideologia uscito nel volume di C. Zurn e B. De Bruijn (a cura di), New Waves in Political Philosophy, Basingstoke, Palgrave, 2009, pp. 63-86. Per i preziosi suggerimenti e commenti ricevuti, ringrazio Robin Celikates, Stefan Gosepath, Axel Honneth, Martin Saar, Titus Stahl e il colloquio francofortese di filosofia sociale, così come Christopher Zurn e Boudewijn de Bruijn.
Texte intégral
1In questo saggio miro a rilanciare la critica dell’ideologia quale forma della critica sociale, e quindi come una concezione che, anche se non ascrivibile esclusivamente al marxismo, è nondimeno giunta proprio con Marx a una certa «maturazione»2, e ha poi goduto di grande popolarità soprattutto nelle diverse correnti del «marxismo occidentale», per giungere fino alla teoria critica contemporanea. I tempi ora sono molto cambiati. E tuttavia, non ci sono più ideologie – o è invece la loro critica a essere scomparsa? Il mio tentativo di una ricostruzione della critica dell’ideologia muove dai seguenti elementi: per un verso, credo ci siano sempre rapporti e forme di dominio sociali che richiedono una critica dell’ideologia. Per un altro verso, per riallacciarsi all’idea di una critica dell’ideologia occorre non soltanto un rinnovato impegno volto a vagliare come essa effettivamente funzioni – ivi inclusi quegli amati teoremi che, anche ai tempi della sua grande popolarità, rimasero perlopiù tutt’altro che chiari –, ma occorre anche una ricostruzione critica di taluni dei suoi presupposti di fondo. Si tratta, quindi, di una riattualizzazione e di una ridefinizione della critica dell’ideologia.
2Se, a differenza di quanto sostiene Richard Rorty3, «vale la pena» di riprendere il progetto della critica dell’ideologia, a mio parere è così anche perché esso permette di leggere da una prospettiva diversa alcuni scottanti problemi del dibattito contemporaneo inerente alle forme della critica sociale. In quanto forma specifica della critica immanente, la critica dell’ideologia conduce infatti – così argomenterò – alla dibattutissima ma invero improduttiva alternativa tra critica esterna e interna. Per un verso, essa si contrappone al tentativo di concepire dei criteri della critica «esterni» (evitando così di incorrere nella critica hegeliana al moralismo del «mero dovere»); per un altro verso essa tuttavia non si basa sulle risorse etiche e morali di una comunità data, ma mantiene invece nei suoi confronti un momento trasgressivo. A ciò è legato un secondo aspetto: la critica dell’ideologia si colloca, in una modalità particolarmente interessante, tra quelle due posizioni che nell’ambito della filosofia politica possono essere contrapposte in quanto «normativista» l’una e «antinormativista» l’altra. Se oggi l’analisi di tale contrapposizione si è in certo qual modo arenata, la critica dell’ideologia può invero essere ricostruita come una posizione che può rivendicare il diritto a una forma di normatività autonoma, diversa dalle due alternative in gioco. Tale possibilità riposa sul fatto che – questa è la mia tesi – la critica dell’ideologia (in quanto critica immanente) vive di una relazione specifica tra analisi e critica, tale da allontanarla sia dai normativisti sia dagli antinormativisti.
3Procederò facendo luce anzitutto su ciò che costituisce il carattere specifico della critica dell’ideologia. Dopo aver introdotto i lineamenti basilari di tale concezione (§ i), affronterò la risoluzione di due paradossi caratteristici del metodo della critica dell’ideologia: le ideologie sono – come dice Adorno – «contemporaneamente vere e false» e sembrano essere altresì sincronicamente normative e non-normative (§ ii). Due tratti che possono esser compresi qualora la critica dell’ideologia venga coerentemente ricondotta al procedimento della critica immanente approntato da Hegel (§ iii). Emerge così sia l’autonomia normativa del procedimento critico-ideologico, sia la sua problematicità (§ iv).
I. Che cos’è la critica dell’ideologia?
4Che cos’è allora la critica dell’ideologia?4 A prima vista è molto semplice: la critica dell’ideologia critica le ideologie. Che cosa sono, però, le ideologie? Anche in questo caso la prima risposta è facile: le ideologie sono idee; ove però non si tratta semplicemente di idee irrelate, che qualcuno può avere o meno, ma di idee che (necessariamente o perlomeno sistematicamente) nascono e si collocano entro determinati contesti sociali. Le ideologie sono quindi sistemi di convinzioni che hanno conseguenze pratiche. Esse operano praticamente, e sono a loro volta effetti di una determinata prassi sociale5. Inoltre, le ideologie sembrano possedere uno status singolare: quando si sostiene che qualcosa è «ideologico», non si intende dire soltanto che si tratta di qualcosa di falso, o di un errore; si intende anche che il carattere erroneo appartiene invero all’ideologia stessa. Chi infatti è sotto l’influsso di una ideologia, non è soltanto soggetto a una condizione falsa, ma è anche preso «nella morsa» di una falsa interpretazione di questa stessa condizione. In altri termini, le ideologie costituiscono il nostro riferimento al mondo e, con ciò, l’orizzonte interpretativo nel quale comprendiamo noi stessi e i rapporti sociali, nonché le forme e i modi in cui ci muoviamo al loro interno. Se le ideologie, stando a questa lettura, sono il mezzo attraverso cui i rapporti di dominio «penetrano nelle teste delle masse, divenendo così “violenza materiale”» (così Stuart Hall6), allora la critica dell’ideologia svela o decifra le circostanze che permettono al dominio di imporsi.
Quattro aspetti della critica dell’ideologia
5Perlomeno nella tradizione della critica dell’ideologia su cui vorrei qui soffermarmi e nel senso in cui vorrei qui procedere (ovvero nel senso in cui l’ideologia designa qualcosa di negativo, il termine è quindi utilizzato in un’accezione peggiorativa e la critica dell’ideologia consiste nel superare questa condizione negativa7), la critica dell’ideologia designa un tipo di critica ben determinato8. Vi sono quattro aspetti che la caratterizzano.
La critica dell’ideologia è critica del dominio. Essa pertanto traccia una via che conduce per così dire in «profondità». In questo senso la critica dell’ideologia è un attacco sferrato contro quei meccanismi che possiamo definire di «rendere ovvio» o di «costruzione-dell’ovvietà»: meccanismi cioè che generano l’impressione di una ineludibilità dei rapporti sociali, come del rapporto con se stessi. A ciò appartengono i fenomeni della naturalizzazione – tali per cui qualcosa di «prodotto» socialmente viene presentato come naturale, o meglio come inevitabilmente «dato» –, ma anche processi come quello della universalizzazione del particolare, che svolge un ruolo preminente nell’analisi di Marx del meccanismo di legittimazione della società borghese. La critica dell’ideologia, dunque, è critica del dominio in quanto critica di tale rendere ovvio, o meglio di costruzione dell’ovvietà e, specularmente, è la decifrazione di questi meccanismi in quanto meccanismi del dominio.
La critica dell’ideologia muove dalle contraddizioni interne o auto-contraddizioni, dalle inconsistenze interne di una situazione data. Con ciò la critica dell’ideologia non contrappone direttamente il «giusto» al falso, e non lavora con un criterio esterno, affiancandolo a quanto dato, ma lavora piuttosto con i criteri propri di quest’ultimo (in un senso piuttosto complicato che analizzerò in seguito).
La critica dell’ideologia (nella tradizione suddetta) si basa sempre su una forma di «ermeneutica del sospetto», come l’ha chiamata Paul Ricœur. Ove scopre delle distorsioni nella comprensione di sé e del mondo degli individui, come anche nell’autocomprensione delle entità sociali, essa opera prendendo con riserva sia le auto-esposizioni delle formazioni sociali e degli individui, sia gli interessi prima facie degli individui.
Il procedimento della critica dell’ideologia è inoltre caratterizzato dalla correlazione tra analisi e critica. Qui la critica di uno stato di cose dovrebbe essere esercitata attraverso l’analisi di questo medesimo stato – in un senso tale per cui l’analisi non è soltanto la precondizione strumentale per la critica, ma rappresenta invero una parte propria del processo critico stesso.
Attualità della critica dell’ideologia
6Ora, vi sono molti elementi che mostrano come l’«ideologico», o i modi di funzionamento «ideologici» del dominio, nelle nostre attuali società non siano affatto inferiori rispetto al passato. La tesi secondo cui oggi il dominio opererebbe direttamente, senza la mediazione ideologica, è a mio avviso insostenibile9. Quando in ambito europeo si discute per esempio della ristrutturazione del sistema di sicurezza sociale, la destabilizzazione e precarizzazione delle condizioni di vita (criticata da molti in quanto «neoliberale») viene imposta (anche) attraverso il richiamo agli ideali di autonomia e di creatività; ideali, quindi, a cui difficilmente si può rinunciare, sebbene sia evidente che sia proprio ricorrendo a essi che oggi viene giustificato il processo di esclusione sociale. E anche qualora si voglia intendere un neologismo quale l’«Io-impresa» (che rientra nell’iniziativa varata in Germania volta a offrire dei finanziamenti statali ai disoccupati perché possano costituire delle piccole imprese individuali) non in senso eufemistico, ma in modo apertamente cinico, tale per cui delle forme esistenziali segnate dall’insicurezza vengono poste pubblicamente quali modelli guida, resta fermo che tale neologismo acquisisce la sua forza ideologica grazie al rimando alle idee di indipendenza, di autonomia e di libera iniziativa. Idee condivise socialmente anche da coloro che però non debbono in verità aspettarsi niente di buono dalla demolizione delle sicurezze del sistema sociale così operata. Di fronte a fenomeni come questi, si può affermare che i rapporti sociali reclamino una critica dell’ideologia.
Difficoltà della critica dell’ideologia
7Per diverse ragioni nella teoria inerente alla critica dell’ideologia predominano però delle «difficoltà». Non abbiamo forse perso il riferimento al vero, o alla realtà autentica, di cui la critica necessita per poter smascherare qualcosa come «mera ideologia»? E se la critica dell’ideologia vuole superare il dominio dissolvendo la falsa immagine che si ha di sé e del mondo, da quale prospettiva è però in grado di farlo10? Qui non è problematica solo l’asimmetria, apparentemente insuperabile, che sembra ergersi tra il critico dell’ideologia e chi è «accecato dall’ideologia»11, con le conseguenze paternalistiche che ne derivano; qui la messa in discussione del procedimento della critica dell’ideologia concerne anche la questione se essa possa essere, in linea generale, una critica sui generis, o se resti invece ancorata a degli standard normativi che devono essere stabiliti indipendentemente da essa.
II. I paradossi della critica dell’ideologia
8Vorrei sviluppare le mie riflessioni partendo dalle due tesi seguenti. Primo, l’argomento di Adorno secondo cui nelle ideologie «il vero e il falso» sarebbero «sempre intrecciati l’uno all’altro»12. Secondo, l’osservazione (critica) di Anton Leist per cui sarebbe un «mito della critica dell’ideologia» pretendere che essa sia una «critica non moraleggiante o non-normativa» che «nondimeno ha significato normativo»13. A prima vista queste due caratteristiche sembrerebbero offrire un ausilio perfetto per chi volesse avvolgere il problema della critica dell’ideologia nella nebbia più densa: che qualcosa debba essere contemporaneamente vero e non vero è certamente, secondo l’opinione corrente, altrettanto paradossale che sostenere una posizione che vuole essere critica senza con ciò essere normativa. E tuttavia, è precisamente in questa struttura apparentemente paradossale che si nasconde il fulcro e la fecondità della critica dell’ideologia.
Primo paradosso: la compenetrazione di vero e falso
9Veniamo allora al primo paradosso, alla compenetrazione di vero e falso. Come può una ideologia essere contemporaneamente vera e falsa? È effettivamente vera e falsa rispetto a un unico e medesimo aspetto – e come potrebbe essere possibile una tale condizione? E ancora: se le ideologie debbono essere contemporaneamente vere e false, non si potrebbe allora ugualmente (o ancor meglio) affermare che esse non sono né vere né false? Se così fosse, nel caso delle ideologie avremmo a che fare non solo con un intreccio peculiare, ma anche con una singolare inadeguatezza dei criteri di verità. Concentriamoci però anzitutto con lo stato di cose a cui Adorno allude con la sua affermazione.
10Libertà e uguaglianza come ideologia. Prendiamo in considerazione un esempio celebre (seppur complesso) di critica dell’ideologia14: il carattere ideologico che Marx attribuisce agli ideali di libertà e uguaglianza quali si presentano nella società borghese capitalistica15. L’ideologia della libertà e dell’uguaglianza, per come la intende Marx, è effettivamente (anche secondo l’interpretazione marxiana) «contemporaneamente vera e falsa». L’idea giusnaturalistica di libertà e uguaglianza, a cui la società borghese capitalistica si richiama quale suo genuino principio organizzatore, per un verso corrisponde alla realtà della società borghese. Il contratto di lavoro capitalistico viene infatti stipulato tra parti (formalmente, quindi legalmente) libere e uguali. In fondo qui si presentano l’una di fronte all’altra parti contraenti indipendenti, che agiscono in quanto libere e uguali in un senso determinato: il lavoratore non è un servo della gleba, né qui vigono le limitazioni di status del diritto feudale. Per un altro verso però la realtà dei rapporti di lavoro capitalistici sembra confutare queste norme borghesi. Non soltanto per la maggior parte dei lavoratori domina di fatto una costrizione a entrare in un tale rapporto (pena la morte per fame); ma anche l’effettiva disuguaglianza materiale che si stabilisce tra le parti contraenti, secondo l’analisi di Marx non è casuale, ma è indotta sistematicamente.
11Ora si potrebbe dire: ecco! Il discorso del «contemporaneamente vero e falso» ha tutt’al più un’efficacia retorica, e il paradosso è invero facilmente risolvibile. L’idea della libertà e dell’uguaglianza è difatti, da un certo punto di vista – quello concernente lo status giuridico e politico degli interessati –, certamente «vera», poiché descrive in modo adeguato la realtà che dovrebbe descrivere. Al riguardo si può poi distinguere un secondo punto di vista, che si potrebbe chiamare quello della realizzazione materiale. E, da questo punto di vista, è chiaramente falso affermare che nella società borghese libertà e uguaglianza siano di già realizzate.
12Ora però c’è da considerare un’altra circostanza, che complica ulteriormente le cose: secondo Marx l’ideologia della libertà e dell’uguaglianza è essa stessa un fattore originario della costrizione e della disuguaglianza. Ciò significa che essa è efficacemente produttiva in un modo, o meglio in virtù di un effetto per cui essa stessa concorre al rovesciamento delle idee in essa incorporate. Gli ideali normativi, dunque, non sono soltanto qualcosa di non ancora pienamente realizzato, ma nella loro realizzazione sono rovesciati. La libertà e l’uguaglianza perciò non sono affatto «mere idee»; sono invece idee che hanno acquisito una efficacia sociale, e che si sono sedimentate nelle istituzioni sociali. La loro efficacia consiste – e per Marx questo non è un effetto casuale ma necessario – nel fatto che nel corso della loro realizzazione esse minano se stesse. (Com’è possibile? Se, stando alla sintesi di Jon Elster dell’analisi marxiana, nel capitalismo «lo sfruttamento è la creazione dell’ingiustizia economica realizzata per mezzo delle transazioni del libero mercato»16, allora il contratto di lavoro, in quanto precondizione degli scambi di mercato, rappresenta l’incorporazione della libertà e dell’uguaglianza e sincronicamente il mezzo per creare la disuguaglianza. La questione qui non è che della libertà o dell’uguaglianza si parla soltanto – «talking freedom» –, senza poi attuarle, ma il fatto che il modo in cui esse vengono (necessariamente) attuate nelle condizioni di produzione capitalistiche è tale da produrre l’effetto di una nuova forma, seppur nascosta, di illibertà e di sfruttamento).
13È questa sistematica contraddittorietà delle idee e della prassi sociale da esse impregnata a condensarsi nel discorso dell’ideologia come «falsa coscienza necessaria». Questa formula ha pertanto più aspetti di quanti non appaia a prima vista.
Da un lato la coscienza è falsa (nel senso tradizionale) nella misura in cui si ritrova entro una interpretazione e concezione della realtà falsa.
D’altra parte però se questa coscienza deve essere «necessaria», è così perché essa nel contempo corrisponde appunto tuttavia alla realtà.
Terzo, la coscienza non è però soltanto falsa da un lato e necessaria dall’altro, ma è entrambe le cose insieme: necessariamente falsa, ovvero falsa per necessità. La coscienza è falsa per necessità perché non può essere nient’altro che falsa, e non può essere nient’altro, se non falsa, non perché deve necessariamente ingannarsi (quindi perché sul suo lato sussisterebbe un deficit cognitivo), ma piuttosto perché corrisponde a una realtà falsa. Non si tratta, dunque, soltanto della falsa coscienza, ma della falsa coscienza indotta socialmente17. (Per questo le ideologie non possono essere comprese neanche quale inganno consapevole. Anche se attori sociali diversi traggono vantaggio dalle ideologie in modi diversi, una struttura ideologica designa nondimeno qualcosa in cui sono coinvolte entrambe le parti).
14Risoluzione del paradosso. Il paradosso (apparente) della critica dell’ideologia ha ora acquisito un senso comprensibile:
Le ideologie sono «contemporaneamente vere e false» nella misura in cui sono contemporaneamente adeguate e inadeguate, appropriate e inappropriate nei confronti della «realtà» (quale essa sia, e quale che sia il modo in cui si voglia concepire il rapporto di corrispondenza). In quanto indotte socialmente, le ideologie non sono semplicemente un inganno o un errore cognitivo, ma piuttosto un errore che risulta motivato da una prospettiva determinata, perché co-fondato nella costituzione della realtà18.
Le ideologie sono inoltre «contemporaneamente vere e false» nella misura in cui il valore di verità delle norme a cui si allacciano non è stato realizzato. Il critico dell’ideologia non critica infatti gli ideali di libertà e di uguaglianza in quanto tali, ma la loro realizzazione deficitaria. Nel contempo tuttavia, la circostanza per cui la norma non è realizzata (ritornerò più avanti sul rapporto tra la critica e il suo «parametro») non lascia inalterato il suo contenuto di verità. Il «vero elemento» dell’ideologia (l’ideale dell’uguaglianza), nelle condizioni della sua realizzazione deficitaria (o meglio rovesciata), non resta quindi semplicemente vero: è sincronicamente contaminato dall’«intreccio» con il non vero (Adorno).
15Che cosa ci ha mostrato, allora, il primo paradosso? Muovendo dalla compenetrazione di vero e falso constatata da Adorno, abbiamo visto che sotto diversi aspetti si tratta qui di un rapporto complesso (e reciprocamente costitutivo) tra norme e pratiche. Per la critica dell’ideologia ne deriva allora quanto segue.
Essa deve criticare sia la falsa opinione di una situazione, o meglio di uno stato di cose (sociale), sia la costituzione di questa stessa situazione. Le ideologie non sono soltanto «contemporaneamente vere e false», sono sempre anche (come sottolinea anche Raymond Geuss) un problema sincronicamente epistemico e normativo. La critica dell’ideologia rivela che comprendiamo in modo errato qualcosa (le condizioni sociali), e che queste sono false19. A rigore la critica dell’ideologia non critica quindi soltanto l’ideologia, ma anche una prassi che viene mantenuta mediante l’ideologia, o meglio che viene costituita grazie a essa. In questo senso la critica dell’ideologia non mira soltanto a rettificare l’errore epistemico, ma a trasformare – in senso «emancipatorio» – la situazione. Essa ritiene che questi due fattori siano reciprocamente importanti l’uno per l’altro. È per questo che una tale critica non ha bisogno soltanto di «coraggio, compassione e buona vista», come sostiene Walzer riferendosi alla critica sociale, ma anche di una buona teoria20.
Se quindi la critica dell’ideologia non può consistere semplicemente nel rivelare errori e non-verità nel senso usuale – ovvero nel tentativo di sostituire una interpretazione vera a una falsa –, essa d’altra parte non consiste però di certo neanche nella interpretazione normativa dell’agire corretto. Essa è piuttosto il fermento di un processo pratico trasformativo che concerne sia la realtà (sociale), sia la sua interpretazione: devono essere trasformate entrambe. Com’è, però, che la critica dell’ideologia guida il nostro agire? Detto altrimenti, come si rapporta alla questione pratica di cosa dovrei, o di cosa dovremmo fare?
Secondo paradosso: «una critica non-normativa che ha significato normativo»
16Vengo così al secondo paradosso sopra menzionato: alla tesi secondo cui la critica dell’ideologia è «una critica non-normativa che ha significato normativo». È questa l’asserzione che Anton Leist critica quale «mito della critica dell’ideologia», e con ciò quale falsa, seppur seducente, autointerpretazione.
17Lo status normativo/non-normativo della critica dell’ideologia. Ma in che senso la critica dell’ideologia è effettivamente «non-normativa e ha ciò nondimeno significato normativo», ovvero critico? O meglio: in che senso essa sostiene di esserlo?
18Rispetto alla prima parte dell’asserzione la spiegazione sembrerebbe esser semplice. La critica dell’ideologia non è normativa nella misura in cui non fa alcuna affermazione su come qualcosa dovrebbe essere (per esempio su come le istituzioni sociali dovrebbero essere regolate per poter essere buone o giuste, oppure sul senso in cui sono cattive e ingiuste), ma analizza semplicemente come sono costituite le istituzioni e le pratiche sociali che si trova davanti. Quando entra in gioco, infatti, la critica dell’ideologia raccoglie anzitutto indizi. Essa rivela relazioni, segnala contraddizioni interne, decifra meccanismi che contribuiscono a nascondere queste contraddizioni, e analizza gli interessi, o meglio le funzioni del dominio. Qui viene mostrato che una situazione si presenta in modo diverso da come afferma di essere: determinate norme hanno una funzione diversa rispetto a quanto si riteneva inizialmente, oppure hanno una genesi o un effetto diversi rispetto a quanto si era inizialmente pensato.
19Nel caso dei nostri esempi, dunque, la critica dell’ideologia analizza in che misura lo scambio libero e uguale che avviene secondo il modo di produzione del plusvalore (è questo il compito qui svolto dalla teoria del valore marxiana) generi una disuguaglianza sistematica, e come la libertà «borghese» generi una illibertà sistematica21. La critica dell’ideologia stabilisce la correlazione tra gli ideali normativi di libertà e uguaglianza, e l’effettivo ordinamento delle istituzioni che da questi ideali vorrebbero essere dirette. Essa decifra i meccanismi per cui è possibile che proprietà privata e contratto appaiano come un qualcosa di naturale anziché come un prodotto storico-sociale; rimanda al fatto che l’interesse particolare di una determinata classe viene qui spacciato per interesse generale; pone la domanda cui bono?, mostrando così, per esempio, in che senso la libertà contrattuale, intesa in senso ideologico, procuri dei vantaggi a una delle parti contraenti.
20La critica dell’ideologia raccoglie quindi indizi, muovendosi nella logica del sospetto. Non fonda però alcuna norma (così perlomeno suona l’accusa dei suoi critici), e non si richiama neanche – perlomeno non esplicitamente – a criteri normativi. Un «punto di vista della critica» effettivamente normativo non è stato infatti ancora addotto o reso valido, né tanto meno è stato esposto – nel senso della sua fondazione. Ciò significa che la critica dell’ideologia non sostiene esplicitamente (per restare all’esempio marxiano) che la non-realizzazione di libertà e uguaglianza sarebbe cattiva, né fornisce una motivazione che renda conto del fatto che libertà e uguaglianza in linea generale avrebbero un carattere normativo.
21Diventa allora più difficile risolvere la seconda parte dell’asserzione della critica dell’ideologia, e rispondere alla domanda di come essa, nonostante tutto, possa restare critica; la critica infatti non può consistere solamente nel dire come qualcosa è: deve contemplare una posizione inerente al modo in cui una certa cosa dovrebbe essere, o meglio come tale cosa, per l’appunto, non dovrebbe essere. È infatti perlomeno poco chiaro che cosa di effettivamente normativo possa scaturire dalla analisi/decifrazione/disvelamento della critica dell’ideologia – e come ciò possa avvenire. Il mascheramento della funzione, dell’effetto o della genesi di una prassi o di una istituzione sociale, non diviene infatti problematico precisamente nel momento in cui questo effetto o questa funzione deve essere respinta? La risposta alla domanda «a chi giova questa concezione del mondo?» posta dalla critica dell’ideologia non mantiene la sua presa critica soltanto qualora si presupponga che questo vantaggio è, in un senso o nell’altro, dannoso, oppure falso?22
22La critica dell’ideologia ha uno status normativo parassitario? L’accusa di «autofraintendimento» rivolta alla critica dell’ideologia parrebbe così confermata. La si può inoltre inasprire nel modo seguente: dal punto di vista normativo, la critica dell’ideologia è una impresa parassitaria, dipendente da standard normativi che non può generare da sé23. Ciò implica una sorta di «divisione del lavoro»: la teoria normativa in senso forte fornisce le norme; la critica dell’ideologia aiuta a svelare il loro non-adempimento. Detto altrimenti, con la sua tipica modalità di procedere attraverso la decifrazione e il disvelamento, la critica dell’ideologia in fondo sarebbe soltanto una «fornitrice di materiali», o un elemento retorico supplementare rispetto al compito «proprio» della critica. Se così fosse, la critica dell’ideologia potrebbe giocare un ruolo pratico effettivamente significativo, senza però poter rappresentare una forma della critica normativamente autonoma. L’«analisi» e la «critica» verrebbero allora separate nel modo più tradizionale: l’analisi ricadrebbe sul versante della critica dell’ideologia, mentre il lavoro effettivamente critico della decisione normativa ricadrebbe al di fuori del suo ambito. I criteri della critica, dunque, in una maniera o nell’altra sarebbero «esterni», verrebbero cioè costruiti da un punto di vista imparziale, così come avviene in un modo o nell’altro per i filosofi morali, oppure verrebbero forniti da una teoria oggettiva predefinita della vita buona. Sebbene una tale «divisione del lavoro» possa anche risultare rispettabile, essa però contraddice in ogni caso l’autointerpretazione della critica dell’ideologia. La sua rivendicazione di autonomia si fonda infatti sull’asserzione per cui essa è contemporaneamente entrambe le cose: in quanto analisi è critica (e non una mera descrizione dell’esistente), e in quanto critica è analisi (e non una mera pretesa avanzata nei confronti dell’esistente).
23La critica dell’ideologia come fluidificazione o trasformazione? Ma la critica dell’ideologia può allora essere intesa alla stregua di una affilata «fallacia naturalistica», cioè di un metodo che transita dall’essere al dover essere? Effettivamente la possibilità di una critica dell’ideologia (e l’idea di una unità di analisi e critica) è basata sulla presupposizione di una compenetrazione di descrizione e valutazione. La critica dell’ideologia rivendica infatti di essere una comprensione diversa, e sincronicamente una stima diversa dei dati di fatto sociali. La ragione che rende plausibile stabilire una tale relazione riposa sulla circostanza per cui anche ciò che viene criticato dalla critica dell’ideologia, ovvero l’ideologia, è sempre entrambe le cose. Le ideologie, in quanto modi di concepire il mondo, sono normative. In quanto concezioni del mondo, esse stabiliscono quali siano in linea generale le opzioni dell’agire possibile, determinando così – a un livello fondativo assai profondo – che cosa si deve fare. Esse circoscrivono pertanto lo spazio di possibilità dell’agire; e questa circoscrizione, determinazione e delimitazione delle possibilità, sulla quale la critica dell’ideologia richiama l’attenzione, è essa stessa un fatto normativo. La critica dell’ideologia consiste quindi non da ultimo nel disvelare il carattere normativo di (determinate?) descrizioni.
24La critica dell’ideologia sarebbe allora contraddistinta da una caratteristica che si potrebbe chiamare in via sperimentale una «normatività di secondo livello»: una normatività che consiste nel rendere esplicito il carattere artificioso e prospettico di un ordinamento determinato. Essa opera cioè come una sorta di «fluidificazione» dell’esistente, o come una «dimostrazione della modificabilità»24 delle pratiche e delle istituzioni sociali – quindi come un superamento dei meccanismi di «costruzione-dell’ovvietà» sopra abbozzati. Questo procedimento ha un «significato normativo» nella misura in cui dischiude la possibilità di azioni alternative, e in tal modo le condizioni perché possano essere poste anzitutto delle «questioni pratiche». Nel momento in cui la critica dell’ideologia rende riconoscibile il normativo in quanto tale, lo priva della sua forza coercitiva.
25La critica dell’ideologia, tuttavia, non può risolversi in una tale impresa. Tutti i modi di interpretare il mondo sono di certo (e precisamente dal punto di vista della critica dell’ideologia) prospettici, «artificiosi» e prescrittivi nel senso suddetto, dato che non può darsi alcuna realtà (sociale) senza una determinazione delle sfere di senso e possibilità. Una tale dimostrazione di per sé non è però ancora critica. La mera indicazione dell’«esser-fatto», della non-ovvietà e della modificabilità per principio dell’esistente non offre di per sé alcun criterio atto a stabilire se e perché istituzioni e concezioni determinate della realtà sociale siano false e, dunque, debbano essere modificate25. La critica dell’ideologia resterebbe allora «negativa» nel senso che potrebbe invero criticare soltanto i limiti alla sfera delle possibilità posti dalle relative pratiche sociali e soluzioni istituzionali. In fondo, essa allora criticherebbe ogni determinata prassi sociale o istituzione in quanto tale, e non più determinate pratiche sociali in quanto false. La stessa «fluidificazione dell’esistente» critico-ideologica correrebbe così il rischio di scomparire. Si giungerebbe a una sorta di ampliamento totalizzante del sospetto ideologico, questione che il sociologo Karl Mannheim aveva già problematizzato. La critica dell’ideologia, allora, se vuole restare la critica di una coscienza falsa, o meglio di una prassi sociale falsa, e non limitarsi a voler descrivere le peculiarità di ogni concezione del mondo, deve essere in grado di indicare come le determinazioni adeguate delle sfere di significato e di possibilità si differenziano da quelle problematiche o inadeguate. Ciò però significa che la critica dell’ideologia – a differenza per esempio delle correnti della teoria dell’ideologia, da Althusser a Butler, che tendono a trattare ogni formazione sociale come inevitabile da un lato, e restrittiva dall’altro – deve dimostrare la differenza che corre tra l’opera di plasmazione necessaria, e la deformazione.
26In altri termini, la normatività della critica dell’ideologia deve essere concepita in modo «più forte». Se la critica dell’ideologia vuole essere una impresa normativa autonoma, allora non deve mirare soltanto a un’opera di «fluidificazione», ma a un superamento trasformativo dell’esistente verso una situazione nuova, migliore26.
27Risoluzione del paradosso. La problematica specifica della critica dell’ideologia, dunque, consiste nel fatto che essa rivendica di essere il fermento di un tale superamento trasformativo dell’esistente, senza però dover disporre di un criterio esterno dato, o di una alternativa positiva preesistente alle pratiche criticate27. Ma è proprio a questo punto che possiamo giungere alla soluzione del nostro problema: in quanto unità di analisi e critica, la critica dell’ideologia non ricorre ad alcun criterio esterno, ma li sviluppa invece a partire dagli stessi rapporti criticati. La critica si sviluppa mediante l’analisi dei processi considerati (in un senso tale per cui l’analisi è più di una mera condizione preliminare della critica). Una tale critica è sincronicamente determinata e negativa: a differenza della «posizione della fluidificazione» sopra criticata, essa critica pratiche sociali determinate in base ai loro deficit; in tal modo essa procede secondo il modello della negazione determinata (o di una «dinamica di sviluppo dialettica»), dunque secondo il principio fondamentale della variante hegeliana della critica immanente: il giusto si sviluppa dal superamento «conservante» del falso.
28Ciò considerato possiamo ora risolvere il paradosso del «metodo critico di per sé non-normativo ma dal significato normativo»28 nel modo seguente: la critica dell’ideologia è certo «normativamente significativa», e tuttavia non è normativista. L’uso del termine «normativista», introdotto da Michael Theunissen, qui designa il porre dei criteri normativi esterni ai quali la realtà viene commisurata – il commisurare la realtà al «dovere astratto». Ora, nella misura in cui la critica dell’ideologia commisura la realtà esistente ai criteri a essa immanenti, essa può continuare a essere normativamente significativa senza però procedere in modo normativista29. La normatività implicita della critica dell’ideologia, dunque, secondo la sua autointerpretazione, non ha bisogno di un criterio posto al di fuori del processo critico, senza nondimeno che ciò comporti la perdita del suo carattere critico-normativo. È difatti a partire dalle autocontraddizioni delle norme e della realtà date che la critica dell’ideologia genera i criteri per il loro superamento.
29Ne consegue che la stessa analisi assume un carattere normativo autonomo, e non più strumentale. Gli standard normativi di una tale critica, infatti, non possono essere stabiliti indipendentemente dalla corretta comprensione della realtà – ove la realtà è pensata, ambiziosamente, come qualcosa che non si lascia cogliere tramite il mero «guardare». Se la critica immanente è, non da ultimo, un procedimento volto a stabilire correlazioni, e il riconoscimento e l’esistenza di tali correlazioni è la condizione per poter riconoscere in esse delle contraddizioni, allora le contraddizioni, a cui la critica si applica, non sono date incondizionatamente, ma vengono rese accessibili anzitutto grazie all’analisi. E anche la normatività implicita nelle pratiche e nelle istituzioni sociali verso cui è rivolta la critica dell’ideologia non è affatto evidente. Dal punto di vista della critica dell’ideologia in quanto procedimento della critica immanente (e proprio in ragione di esso), le differenze analizzate e i giudizi critico-normativi – analisi e critica – sono due aspetti dello stesso processo. (Ove il momento normativo e quello non-normativo, per ritornare al paradosso, sono indissolubilmente annodati: il descrittivo diviene normativo, e il normativo descrittivo).
III. La critica dell’ideologia come critica immanente
30Ora, in che senso però la critica dell’ideologia opera in modo «immanente»? E questo operare che conseguenze ha rispetto alla questione degli standard di verità e di correttezza della critica dell’ideologia? Per rispondere a tali domande devo però ampliare lo spettro dell’indagine. Vi sono infatti modi molto diversi di interpretare l’«immanenza» dei criteri della critica. La più semplice e immediata è forse la versione (difesa nella celebre teoria di Michael Walzer30, ma molto comune anche nell’interpretazione corrente) secondo cui norme e ideali determinati appartengono sì all’autointerpretazione di una determinata comunità, ma de facto non vengono realizzati in essa. Si possono così accusare gli Stati Uniti d’America, rispetto alla loro attuale politica estera ma anche sociale, di tradire i valori della democrazia, dei diritti umani e della libertà – quindi i valori fondamentali della costituzione statunitense. (Questo per esempio è il modello di patriottismo di Oliver Stone, che nei suoi film rende onore agli ideali perduti dell’America d’un tempo, di contro a una realtà politica oggi degradata). In questi casi la realtà di pratiche e istituzioni determinate viene commisurata agli ideali «perduti» ma ancora presenti in chi esercita tali pratiche. Questa è una forma della critica che viene praticata senza dubbio di frequente e talvolta con grande efficacia, e il cui vantaggio consiste nel fatto che può allacciarsi ad aspettative normative già esistenti. Il suo svantaggio è però altrettanto evidente: resta legata particolaristicamente alle norme esistenti di una comunità (che al riguardo si immagina peraltro come chiusa in sé)31.
31La critica immanente, di contro, per come la intendo io (e che vorrei distinguere dalla variante di critica interna qui descritta), ha una pretesa più forte. Per un verso – come ha mostrato Axel Honneth differenziando la critica immanente tra la versione della «sinistra hegeliana» e la versione «ermeneutica», che (in lui) è la «critica ricostruttiva» –, la critica immanente non muove soltanto da norme effettive, ma da norme giustificate. Oltre a questo aspetto, io vorrei però sostenere che essa (perlomeno per la versione che è rilevante per la critica dell’ideologia), anche se applicata in modo immanente, non è tanto orientata alla ricostruzione o alla risoluzione di potenziali normativi, quanto piuttosto, mediante l’analisi dei problemi e delle contraddizioni immanenti a una determinata costellazione sociale, a una auspicata trasformazione dell’esistente. La critica immanente, dunque, come dice Marx, «non si contrappone alla realtà con un ideale prefabbricato», né lo estrae semplicemente da essa, ma sviluppa invece questo ideale dal contraddittorio «modello dinamico della realtà» stessa. È questa versione – per così dire «negativista» – della critica immanente che secondo la mia tesi rappresenta il fondamento della critica dell’ideologia.
Che cos’è la critica immanente?
32Per essere brevi, ci sono cinque caratteristiche che contraddistinguono una tale forma di critica immanente.
La critica immanente muove da norme che sono inerenti a una situazione (sociale) esistente. Queste norme, tuttavia, non sono semplicemente valori che noi, o «noi in quanto comunità» abbiamo in modo contingente o tradizionale. Le norme a cui la critica immanente può ancorarsi sono norme che in una modalità determinata sono costitutive per pratiche sociali determinate e per i loro quadri istituzionali. Anche il fatto che la norma esista in generale secondo questa interpretazione non è contingente: le norme poste in questione – in una modalità da spiegare – non sono date soltanto fattualmente, sono piuttosto norme fondate, razionali.
La critica immanente non segue affatto i modelli argomentativi tipici della critica interna (o della critica ermeneutico-ricostruttiva), tali per cui una comunità avrebbe perso il legame con i suoi ideali. Essa considera infatti la correlazione tra norme e realtà nella situazione da essa criticata non come sciolta o indebolita, ma piuttosto come invertita o rovesciata in sé. Ciò significa che le norme sono (come nel caso suddetto dei valori di libertà e uguaglianza costitutivi della società borghese) efficaci, ma in quanto efficaci sono divenute contraddittorie e deficitarie.
La critica immanente è pertanto orientata verso la contraddittorietà interna della realtà e delle norme che la costituiscono. La realtà istituzionale di una società può essere «contraddittoria in sé» nel senso che incorpora pretese e norme costitutivamente contrastanti l’una con l’altra, che non possono essere realizzate in modo non-contraddittorio, oppure che nella loro realizzazione si rovesciano necessariamente contro le loro intenzioni originarie. (Nel nostro esempio ciò valeva per le norme della libertà e dell’uguaglianza; rispetto ai nostri giorni si pensi per esempio ai processi sociali in cui la responsabilità viene al tempo stesso attribuita e minata, in cui è richiesta la creatività ma l’uniformità è apprezzata…)32. A ciò si accompagna l’idea – non pacifica – che qui si tratti di una contraddizione necessaria, non casuale, e in un certo senso costrittiva. Stando a questa assunzione, è allora nel carattere delle norme, e nella costituzione delle pratiche e delle istituzioni in vigore, che riposano le ragioni per cui queste non possono essere realizzate in modo non-contraddittorio. (In questi casi l’appello di Oliver Stone a una nobilitazione morale risulta pertanto vano).
La critica immanente è trasformativa. Essa mira non tanto al ristabilimento di un ordine esistente e alla reintegrazione delle norme e degli ideali vigenti, quanto piuttosto alla loro trasformazione. Essa pertanto non ristabilisce una concordanza un tempo funzionante tra norme e realtà, ma è guidata dalla necessità di far transitare la situazione contraddittoria verso qualcosa di nuovo.
La trasformazione che diviene qui necessaria concerne però, e questo è decisivo, entrambi i poli: la realtà deficitaria e le norme stesse. Le norme infatti non restano immuni dal fatto di non essere realizzate in una data situazione. La critica immanente, pertanto, è la critica di una prassi a partire dalle norme (con le quali questa non concorda), e sincronicamente la critica di queste stesse norme. La critica immanente – e spesso le conseguenze di questo fatto vengono trascurate – non critica quindi soltanto una realtà deficitaria in base ai criteri della norma, ma agisce anche in senso contrario. Ciò significa che la realtà contraddittoria (una realtà nella quale le norme possono essere realizzate soltanto contraddittoriamente) richiede una trasformazione di entrambe: della realtà e delle norme. E non secondo un semplice adattamento della realtà agli ideali (che si tratti del recupero, oppure della risoluzione di un certo potenziale)33.
33Nella misura in cui – come nel nostro esempio dell’esame della società borghese capitalistica sviluppato nel senso della critica immanente dell’ideologia – le contraddizioni tra le norme giusnaturalistiche dell’uguaglianza e la realtà sociale possono venir risolte soltanto attraverso un nuovo principio di organizzazione economica e sociale, allora anche i concetti di libertà e uguaglianza (in questo caso) si trasformano nella direzione di una interpretazione più ampia e profonda della libertà quale «libertà positiva», oppure di una «concezione materiale dell’uguaglianza». Il criterio della critica si sarebbe così trasformato durante il processo stesso della critica. (O meglio: si è trasformato e contemporaneamente è rimasto il medesimo).
La normatività del processo
34Il fondamento, il punto di riferimento normativo della critica dell’ideologia risiede pertanto nella normatività e razionalità di questo processo da essa avviato. La correttezza normativa (come la verità epistemica) non è «qualcosa là fuori», ma emerge soltanto nell’esecuzione di questo processo, che in senso ampio può essere inteso come un processo di problem solving.
35Il carattere dinamico-trasformativo della critica immanente conduce infatti a un risultato decisivo: la trasformazione sopra schizzata, per come è mediata dalla critica immanente, deve essere intesa quale processo di sviluppo o di apprendimento34. Sono tre gli aspetti importanti che caratterizzano questo processo.
Le contraddizioni interne a cui si applica la critica immanente non sono logiche, sono invece contraddizioni pratiche. Ciò non significa che siano «impensabili», ma piuttosto che conducono a delle crisi, a esperire dei deficit o dei fallimenti. Una realtà (sociale) che è determinata dalle crisi in questo modo – questa l’assunzione comune di Hegel e Marx – non è solo moralmente falsa, ma in un certo senso non «funziona» neanche.
La critica immanente quale fermento di un tale processo esperienziale non è semplicemente distruttiva: è costruttiva o affermativa. Il «nuovo» qui è sempre il risultato di una trasformazione del «vecchio», che in tale processo viene «superato» – nel triplice senso della parola: annullare, conservare e innalzare. Riprendendo la sintetica espressione di Hegel: essa si compie nel modo della negazione determinata.
È precisamente in ragione del fatto che nel processo in gioco l’esperienza e il compimento delle crisi vengono «superate», che possiamo interpretare un tale processo esperienziale quale processo progressivo – quale processo di una trasformazione in meglio (in un senso di primo acchito non particolarmente forte).
36Le pretese di validità della critica dell’ideologia (come della critica immanente), quindi, si basano sull’idea che il risultato del processo della critica, o meglio della trasformazione che essa vorrebbe dirigere, è la soluzione adeguata di una crisi che è sistematicamente necessaria (ovvero inserita entro certi rapporti) e sincronicamente produttiva (quindi appronta i mezzi per la sua soluzione). La verità o il fondamento della validità della critica dell’ideologia riposa pertanto su una sorta di «indice storico», cioè sulla razionalità di un processo esperienziale e di apprendimento che deve essere concepito quale storia della soluzione e del superamento dei deficit e delle crisi, quale processo di problem solving. E viceversa: orientandosi verso le contraddizioni e le crisi emerge, quale criterio per stabilire la falsità epistemica e normativa, il criterio del «non-funzionamento». L’assunzione, dunque, è che dall’esistenza di una contraddizione pratica segua una forma di impedimento pratico. L’ideologico pertanto è ciò che «non rende giustizia» alla realtà, e che ostacola la nostra prassi sociale (oppure che, come dice Karl Mannheim, «non riesce a rendersi conto della realtà»35).
Alcune difficoltà della critica dell’ideologia
37Sebbene io abbia riformulato il modello hegeliano adottando una prospettiva in certo qual modo pragmatista, è proprio qui (o al più tardi qui) che riemergono le «difficoltà» della critica dell’ideologia. Un tale sviluppo (e con ciò il processo di trasformazione mediato dalla critica immanente) come può infatti caratterizzarsi, di preciso, quale miglioramento, se non si vuole con ciò far ricorso a un telos ultimo della storia, ovvero del processo preso in considerazione? E in generale com’è possibile interpretare le «crisi» quali motori di questa dinamica, se sull’altro versante proprio l’esame degli sviluppi storici mostra che le crisi (e le loro soluzioni) non sono «date oggettivamente», ma dipendono invece dalle interpretazioni, dai processi di autocomprensione, e dalle catene e concatenazioni di azioni da essi ispirate? Ne consegue che il problema del punto di riferimento normativo della critica dell’ideologia sembra esser stato soltanto rimandato. Del resto già la questione di che cosa siano effettivamente una contraddizione pratica, una crisi, e la loro «soluzione», deve ancora trovare una risposta: in che senso la disuguaglianza materiale è una «contraddizione» rispetto all’uguaglianza legale? In che senso il fatto che la società civile – stando alla formulazione di Hegel – «con tutte le sue ricchezze non è ricca abbastanza» per risolvere il pressante problema della povertà e dell’esclusione, rappresenta una «crisi» proprio di quella formazione sociale? Che cos’è qui che non «funziona», e che cosa, invece, funziona?
38In questa sede posso offrire soltanto alcune tracce per la soluzione di questi problemi36.
39Primo, la questione di come si decide cosa debba esser considerato come «funzionante», e cosa come «problema», rinvia anzitutto a una ambiguità del discorso sulle «norme intrinseche». Queste possono infatti essere norme in senso funzionale, oppure norme etiche. Nel primo senso, la norma dice soltanto che una determinata modalità dell’agire «è buona per» la sussistenza di una determinata prassi sociale, e quindi rispetto a essa è funzionalmente necessaria. Nel secondo caso l’adempimento di una norma rimanda invece a una pretesa di validità etica, che rende la prassi corrispondente «buona» in senso ampio.
40La concezione che ho presentato sembra però sottrarsi a una tale differenziazione. Le norme qui considerate, infatti, sono chiaramente delle norme che concernono sincronicamente il funzionamento e la validità etica. In relazione ai processi sociali qui considerati, il termine «funzionamento» significa qualcosa di più di un decorso senza intoppi: significa sempre un «buon funzionamento» in un senso contemporaneamente funzionale ed etico. Una «contraddizione pratica» è pertanto contraddistinta dal fatto che gli impedimenti e le crisi che compaiono in essa sono normativamente problematici in entrambi i sensi: qualcosa non funziona (bene), e non è buono il modo in cui funziona. Questo intreccio peculiare del punto di vista funzionale con quello normativo (o etico in senso stretto), ci conduce così a tener conto del fatto che nel sociale non c’è alcun tipo di funzionamento che sia indipendente dalla sua validità etica. A ciò è correlata specularmente la tesi controversa secondo cui la validità etica trova una fonte nel funzionamento (sociale), o meglio nelle necessità del funzionamento sociale. Non è questo il luogo per approfondire il tema. Tuttavia, rispetto alla nostra questione dei criteri dei problemi e delle loro soluzioni, emerge qui una indicazione: i problemi sarebbero sempre anche dei problemi normativi; e i problemi normativi, specularmente, sarebbero sempre anche dei problemi di malfunzionamento. L’individuazione dei problemi dovrebbe allora iniziare in certo qual modo su entrambi i fronti, e sperare in un loro accordo.
41Secondo, il processo di sviluppo preso qui in considerazione, su cui si basa il movimento immanente (della critica dell’ideologia), non dovrebbe essere descritto come un processo terminabile, ma piuttosto come uno sviluppo fallible e «aperto-verso-l’alto»: verso una direzione sempre migliore. È pertanto il criterio del «sempre meglio» che risulta in grado di risolvere i problemi, o meglio le crisi insorgenti. A questa soluzione pertiene anche la capacità (per riprendere una tesi di Alasdair MacIntyre) di comprendere come si è giunti a questa crisi, e di narrare una storia che renda conto in modo plausibile della soluzione adottata, in quanto soluzione del problema affrontato. Si può allora mostrare che in senso stretto resta indecidibile se questa interpretazione sia «costruita» o corrisponda alla «realtà». (Può anche darsi il caso che questa distinzione non risulti poi così importante).
42Terzo, se la critica dell’ideologia, come la critica immanente, è «un procedimento che mira a stabilire delle correlazioni», allora bisognerebbe in certo qual modo imprimere a questa prassi dello stabilire correlazioni una svolta «costruttivista-performativa»: le correlazioni, come le contraddizioni, che forniscono il principio dinamico di questa critica, sono contemporaneamente «date» e «fatte». La qual cosa equivarrebbe a dire che l’analisi critico-ideologica non «scopre» semplicemente le correlazioni contraddittorie della realtà sociale, né le costruisce liberamente. Anche se le contraddizioni sulle quali verte qui il discorso non hanno quella forza coercitiva che in ambito critico-ideologico è stata loro talvolta attribuita, esse sono nondimeno il risultato di problemi pratici e, se è certamente vero che non sono indipendenti dall’interpretazione, esse tuttavia – come il sintomo – in qualche modo si «manifestano», comportano cioè delle conseguenze pratiche e delle rotture. La critica dell’ideologia, dunque, non può basare le sue analisi e valutazioni né su «ragioni ultime» vincolanti, né su una interpretazione della realtà sociale di validità assoluta e indipendente dagli attori. Essa pertanto analizzerà e sincronicamente farà emergere problemi e contraddizioni. Un tale procedere non è però arbitrario, ma dipende da una sorta di «equilibrio di riflessioni, o meglio di interpretazioni», e da un accordo tra le prospettive soggettive (cioè degli attori) e quelle oggettive. Se poi attraverso questa interpretazione la realtà (sociale) viene nondimeno intesa come qualcosa che, anche se non è «data», ci oppone resistenza, non restiamo tuttavia privi di criteri.
43Quarto, la critica dell’ideologia deve tener conto della moltiplicazione delle contraddizioni. Oggi non si tratta più della scoperta di una, o della contraddizione centrale della società capitalistica, ma di contraddizioni molteplici, che si moltiplicano e collidono parzialmente l’una con l’altra. Ne consegue, tra le altre cose, che ci si deve misurare con la persistenza di tali conflitti e contraddizioni, o meglio con le collisioni dovute alle contraddizioni. La critica dell’ideologia, dunque, non è ancorata a un ideale romantico-armonico di assenza di ogni contraddizione, all’idea cioè di un superamento definitivo dei conflitti, ma dipende invero proprio da tali conflitti. A differenza però delle posizioni che perpetuano la contraddittorietà in quanto tale, la critica dell’ideologia la considera invece come un momento del movimento che preme, sempre temporaneamente, per un superamento.
IV. Conclusioni
44Le mie ultime considerazioni sono legate l’un l’altra in virtù di un fatto: mirano a dischiudere per la critica dell’ideologia un ambito che da una particolare prospettiva è, di nuovo, un ambito di confine. La critica dell’ideologia, così considerata, si colloca infatti non solo tra i concetti della realtà sociale in quanto «data» e in quanto «fatta», ma anche e soprattutto, in quanto critica immanente nel senso da me descritto, tra oggettivismo e soggettivismo, quindi tra pretese di validità puramente oggettive e meramente soggettive. Ritorno così da ultimo all’elemento al quale si può forse attribuire la maggiore responsabilità del dilagare delle «difficoltà» della critica dell’ideologia: il problema dell’asimmetria, ovvero il rapporto apparentemente inevitabilmente asimmetrico che sussiste tra coloro che sono assoggettati a una ideologia, e il punto di vista della critica, o meglio del critico che smaschera tale condizione come ideologica.
45Se in apertura mi sono richiamata al discorso di Ricœur dell’«ermeneutica del sospetto», ora muovo dal fatto che un tale procedimento per un verso – ovvero il momento del sospetto – rompe con l’assoluta sovranità interpretativa del soggetto coinvolto. La ricerca di correlazioni nascoste di funzioni e interessi è difatti importante proprio là dove non sono evidenti e non possono essere articolate immediatamente. Anche per mostrare i meccanismi del «rendere ovvio» e della naturalizzazione vi è certamente bisogno, in modo del tutto esplicito, della rottura di quella percezione di sé e del mondo divenuta «seconda natura». Per un altro verso, però, una tale ermeneutica del sospetto resta pur sempre ermeneutica. Essa infatti tenta di ricostruire i modi di vedere degli interessati, di comprendere la loro comprensione, e di ricostruire la problematica di un certo avvenimento, non in modo esterno-oggettivistico, dal di fuori, ma dal loro punto di vista. Essa tuttavia non opera soltanto come una sorta di «purificazione» degli errori o della manipolazione del punto di vista soggettivo37 (posizione che ha a che fare con il problema di dover dimostrare che cosa distingue la manipolazione dalla plasmazione); il suo approccio ai problemi e alle crisi di una situazione la fa infatti diventare il fermento di un processo nel quale non si dà più alcun «di fuori» oggettivo, né alcun criterio esterno, ma solamente il proseguimento di un processo che, in modo affine a quello psicoanalitico, non sarebbe possibile senza la collaborazione della posizione criticata (e dei suoi protagonisti). La critica dell’ideologia pertanto non si colloca «all’esterno» della correlazione criticata in quanto ideologica; il critico cioè non è separato da quanto criticato (e da coloro che sono sottoposti alla sua critica), ma è piuttosto «parte dell’auto-comprensione sociale sempre già esistente»38, che viene però ambiziosamente concepita quale parte dell’(auto)scioglimento di una correlazione ingannevole. La critica dell’ideologia, dunque, non è posta al di fuori di una realtà sociale concepita come un insieme di correlazioni accecanti; è piuttosto l’istanza che ci mette a confronto con problemi e contraddizioni in una modalità tale per cui essa è nel contempo il fermento della loro trasformazione. La critica dell’ideologia ha pertanto uno status peculiare: è infatti in certo qual modo al tempo stesso attiva e passiva. Poiché si riferisce sempre anche all’effetto pratico-performativo della scossa critico-ideologica, essa è, come ciò che critica, contemporaneamente teoria e (in quanto teoria) prassi. Inoltre, essendo legata al procedimento della critica immanente, la critica dell’ideologia, come ogni processo emancipatorio, è un «processo che conosce soltanto partecipanti» (Habermas).
46Per quale fine, allora, abbiamo bisogno della critica dell’ideologia? Ne abbiamo bisogno perché la critica dell’ideologia non soltanto porta alla luce altri fenomeni, per esempio quando scopre rapporti di dominio là dove sono poco evidenti e quasi invisibili. La sua particolarità consiste inoltre nel fatto che vede in modo diverso fenomeni il cui carattere ingiusto o di dominio è del tutto evidente. La singolarità della critica dell’ideologia consiste quindi, e non da ultimo, nel fatto che essa non si riferisce a (singole) azioni malvagie, ma a rapporti in quanto rapporti. La critica dell’ideologia, dunque, è fatta per la critica del «dominio strutturale», e per la critica strutturale del dominio.
Notes de bas de page
2 Così si esprime J. Larrain in Id., The Concept of Ideology, London, Hutchinson, 1979, p. 34.
3 Cfr. R. Rorty, Feminism, ideology, and deconstruction: A pragmatist view, in S. Žižek, Mapping Ideology, London - New York, Verso, 1995, p. 232.
4 Qui tratto la critica dell’ideologia nel senso ampio di un metodo del pensiero critico. Una sintetica ma assai utile introduzione alla critica dell’ideologia è offerta da H. Schnädelbach, Was ist Ideologiekritik? Versuch einer Begriffsklärung, “Das Argument”, vol. 50, n. 10 (1969). Una presentazione generale e una energica difesa dell’importanza della critica dell’ideologia si trova in T. Eagleton, Ideology, London - New York, Verso, 1994. La più chiara analisi concettuale delle concezioni dell’ideologia e una utile griglia classificatoria dei diversi concetti di ideologia sono stati approntati da R. Geuss, The Idea of a Critical Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1981 [tr. it. di E. Moriconi, L’idea di una teoria critica, Roma, Armando, 1989].
5 Per questa ragione le ideologie si nascondono non solo nei sistemi di idee, ma anche nelle pratiche e nelle forme dell’habitus. Vi sono pertanto pratiche che hanno effetti ideologici, e vi sono, specularmente, critiche dell’ideologie di tipo pratico, ovvero pratiche di critica dell’ideologia – da Guy Debord fino a Judith Butler, dalle azioni distruttive dell’Internazionale situazionista fino agli attuali tentativi «queer» volti a eludere la binarietà di genere. La fecondità di Althusser risiede non da ultimo nell’aver sviscerato il fatto che le ideologie sono una questione di «relazioni vissute». Vi è inoltre il fatto che, come è evidente, l’analisi di Bourdieu di habitus e doxa può essere intesa come un contributo alla critica dell’ideologia, anche se Bourdieu si distanzia dal lessico correlato al concetto di ideologia (a riguardo cfr. P. Bourdieu e T. Eagleton, Doxa and common life: an interview, in S. žižek (a cura di), Mapping Ideology cit., pp. 265-278).
6 Cfr. S. Hall, W.F. Haug e V. Pietilä, Projekt Ideologietheorie (a cura di), Die Camera obscura der Ideologie. Philosophie-Ökonomie-Wissenschaft. Drei Bereichsstudien, Berlin, Argument, 1984, p. 99.
7 Sulle concezioni neutrali o persino affermative dell’ideologia è assai utile lo schema tipologico di R. Geuss, The Idea of a Critical Theory cit. [tr. it. L’idea di una teoria critica cit.].
8 La questione se la critica dell’ideologia sia un modo specifico della critica, o se abbia un oggetto specifico, ovvero le ideologie, risulta pertanto obsoleta. La critica dell’ideologia è una forma della critica la cui peculiarità consiste nel comprendere, ovvero nel decifrare il proprio oggetto in quanto ideologia. Che qualcosa sia una ideologia, o sia ideologico, non si può stabilirlo prima che la critica dell’ideologia sia entrata in gioco.
9 Questo è un sospetto già espresso da Adorno alla luce della «trasparenza» delle relazioni nel capitalismo organizzato; cfr. Th.W. Adorno e W. Dirks, Soziologische Exkurse nach Vorträge und Diskussionen, Frankfurt am Main, Europäische Verlagsanstalt, 1956, p. 170 [tr. it. di A. Mazzone, Lezioni di sociologia, a cura di M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Torino, Einaudi, 1966, p. 214].
10 Sono precisamente la logica dell’ermeneutica del sospetto e il discorso sulla falsa coscienza che vengono a loro volta sospettati di operare una immunizzazione rispetto alla critica, di non considerare cioè le evidenze che militano contro di loro. L’esempio più stringente di una tale strategia di autoisolamento è forse costituito da quel passaggio dell’Interpretazione dei sogni in cui Sigmund Freud, il «maestro del sospetto», interpreta il sogno di un suo paziente, che contraddice la sua teoria per cui il sogno rappresenta sempre l’appagamento di un desiderio, quale soddisfazione del desiderio del paziente di mostrare che Freud si sbaglia; cfr. S. Freud, Die Traumdeutung, in Id., Studienausgabe, vol. 2, Frankfurt am Main, Fischer, 1989, p. 167 [tr. it. di E. Fachinelli e H. Trettl Fachinelli, L’interpretazione dei sogni, in Id., Opere, vol. 3, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 151].
11 Per un tentativo di riattualizzazione della critica dell’ideologia che fa a meno di questo aspetto e cerca pertanto di superare la problematica correlata della asimmetria tra la prospettiva interna di chi è coinvolto e la prospettiva esterna del critico dell’ideologia, cfr. R. Celikates, From critical social theory to a social theory of critique: On the critique of ideology after the pragmatic turn, “Constellations”, vol. 13, n. 1.
12 Cfr. T.W. Adorno, Beitrag zur Ideologienlehre, in Soziologische Schriften I, Gesammelte Schriften, vol. 8, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1972, p. 465.
13 Cfr. A. Leist, Schwierigkeiten mit der Ideologiekritik, in E. Angehrn e G. Lohmann, Ethik und Marx: Moralkritik und normative Grundlagen der Marxschen Theorie, Königstein im Taunus, Hain-Athenäum, 1986, p. 59.
14 Qui tratto la critica del capitalismo di Marx nel suo insieme quale critica dell’ideologia, e pertanto non mi riferisco prioritariamente ai passi, complessivamente insufficienti, nei quali lui stesso esplicita metodologicamente il discorso dell’ideologia.
15 Mi concentro dunque sull’analisi delle figure argomentative della critica dell’ideologia di Marx, che utilizzo soltanto quali esempi, e non sui contenuti di verità sostanziali delle affermazioni in gioco.
16 Cfr. J. Elster, Exploring exploitation, “Journal of Peace Research”, vol. 15, n. 1, pp. 3-17.
17 Il discorso sulla «falsa coscienza» è stato attaccato da diversi fronti. Tuttavia, proprio quelle obiezioni rivolte alla localizzazione della «falsità» dell’ideologia nella «coscienza», e quelle che al riguardo vedono all’opera una epistemologia (rappresentazionale) antiquata, misconoscono il fatto che qui il discorso sulla «coscienza» ha un carattere eminentemente ambivalente. Qui è difatti quasi fuorviante continuare a parlare di coscienza, dal momento che questa coscienza non soltanto viene costituita attraverso la prassi sociale, ma è a sua volta effettivamente operativa, non più in quanto coscienza contrapposta all’«essere» (o rispetto alla contrapposizione tra «struttura» e «sovrastruttura»), ma piuttosto quale formazione nella quale entrambi gli aspetti si compenetrano: si tratta di un complesso intreccio di norme, ideali e pratiche che si influenzano reciprocamente. Inoltre, il peculiare status che pone l’ideologia tra verità e falsità rimanda al fatto che nel concetto di ideologia entra in gioco una concezione del vero e del falso che non concorda con il modello rappresentazionale tradizionale. In ogni modo, non viene affatto stabilito che dietro la falsità o la deformazione dell’ideologia vi sia una realtà da interpretare nel senso di una realtà che non sia costruita, o che non debba esser colta in termini concettuali.
18 Su questo cfr. anche J. Habermas, Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus in Id., Theorie und Praxis: sozialphilosophische Studien, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1978, p. 437 [tr. it. di E. Agazzi, Sulla discussione filosofica intorno a Marx e al marxismo, in Id., Dialettica della razionalizzazione, Milano, Unicopli, 1983, p. 83]: «La coscienza stessa diviene falsa per via del rispecchiamento – talvolta esatto – di una falsa realtà».
19 La critica dell’ideologia, però, non tematizza semplicemente i due aspetti; essa rimanda alla tesi nient’affatto scontata di una correlazione sistematica tra la comprensione errata e la falsità delle relazioni in gioco (la falsità normativa di uno stato di cose, e la falsità epistemica della sua interpretazione). La realtà stessa sembra esser falsa in una modalità che si accompagna alla comprensione errata, sì che la circostanza per cui noi intendiamo una certa cosa in modo errato, viene a rappresentare una sorta di indicatore del fatto che queste relazioni stesse sono false.
20 Cfr. M. Walzer, Mut, Mitleid und ein gutes Auge, “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, vol. 48, n. 5 (2000), pp. 709-718 [tr. it. di M.A. Marena, Critica sociale e teoria sociale, in Id., Il filo della politica, a cura di Th. Casadei, Reggio Emilia, Diabasis, 2002].
21 Al riguardo è importante chiarire che la critica dell’ideologia non aggiunge qualcosa alle nostre conoscenze e al mondo; si tratta piuttosto di una procedura grazie alla quale il nostro sapere sul mondo viene visto sotto una luce diversa. Vorrei pertanto suggerire che la tesi su Marx e sul ruolo della sua teoria del valore è che essa, anche se non ha semplicemente lo status di una teoria oggettiva «esterna», è nondimeno costituita intrinsecamente nel senso della critica dell’ideologia. Una tale lettura di taglio non scientista – che naturalmente può essere invero contraddetta da altre interpretazioni e da altri aspetti delle opere di Marx e Engels –, include la prospettiva secondo cui l’«economia politica» concerne un ambito oggettuale che non è indipendente dalle modalità con cui viene concepito.
22 Certo si può sostenere che la dimostrazione di una contraddizione abbia di per sé un valore normativo. Tuttavia, la critica dell’ideologia non può vertere sulla scoperta di contraddizioni di per sé. La decifrazione svolta dalla critica dell’ideologia si accompagna infatti a una valutazione negativa degli effetti di questa contraddittorietà. Lo si vede quando ci si immagina una situazione sociale – in effetti difficilmente immaginabile – nella quale la disuguaglianza sia ufficialmente bandita, e nella quale domini di fatto una ricca ed equa distribuzione. Il critico dell’ideologia troverà forse questa situazione bizzarra. L’analisi della situazione dovrà nondimeno perdere quel tono aspro che contraddistingue la critica dell’ideologia. Ciò dipende tra le altre cose dal fatto che si vorrà preservare la situazione di fatto esistente, anche qualora si voglia qui superare cautamente l’autoillusione; mentre nel caso speculare il superamento dell’inganno ideologico dovrebbe servire a trasformare la situazione. Inoltre, non è forse vero che siccome ogni contraddizione è risolvibile su due fronti, non risulta del tutto chiaro se a essere modificate debbano essere le norme, o invece le pratiche che a esse non corrispondono?
23 Una obiezione simile è discussa anche da Raymond Geuss, seppur dalla prospettiva positiva di un rilancio del progetto della critica dell’ideologia: posto che una ideologia abbia una funzione determinata, e posto che abbia un’origine altrettanto determinata – non abbiamo poi bisogno di un argomento ulteriore che mostri che essa è normativamente falsa? Se infatti una determinata ideologia ha la funzione di mantenere il dominio, deve poi nondimeno essere argomentato che, sul piano pratico-normativo, da ciò consegue che il dominio (in gioco) è falso. Cfr. R. Geuss, The Idea of a Critical Theory cit. [tr. it. L’idea di una teoria critica cit.].
24 Così R. Sonderegger, Wie diszipliniert ist (Ideologie-)Kritik? – Zwischen Philosophie, Soziologie und Kunst, in R. Jaeggi e T. Wesche (a cura di), Was ist Kritik?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2009, pp. 55-80.
25 Delle questioni simili competono anche alla «genealogia come critica». Da questo punto di vista infatti la genealogia è in un certo senso un contromodello o anche un modello-discendente della critica dell’ideologia, che nondimeno condivide con quest’ultimo alcune caratteristiche, e che ne ha «ereditato» alcuni elementi. Sulla genealogia come metodo della critica cfr. M. Saar, Genealogie als Kritik, in R. Jaeggi e T. Wesche (a cura di), Was ist Kritik?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2009, pp. 247-265; Id., Genealogie als Kritik: Geschichte und Theorie des Subjekts nach Nietzsche und Foucault, Frankfurt am Main, Campus, 2007. Sulla questione cfr. anche D. Owen, Kritik und Gefangenschaft. Genealogie und Kritische Theorie, in A. Honneth e M. Saar (a cura di), Michel Foucault. Zwischenbilanz einer Rezeption. Frankfurter Foucault-Konferenz 2001, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2003, pp. 122-144.
26 Qui si ripropone il problema sollevato da Mannheim del superamento del carattere totalizzante del concetto di ideologia, cfr. K. Mannheim, Ideology and Utopia, London, Routledge, 1936, pp. 49-96 [tr. it. di A. Santucci, Ideologia e utopia, Bologna, il Mulino, 1957-1999, pp. 55-106].
27 Il modo in cui si deve qui intendere il rapporto tra critica e prassi per la critica dell’ideologia (a differenza di altri modi della critica), ben rappresenta l’oggetto di un intero saggio a sé stante. Qui i termini «medium» e «catalizzatrice» dovrebbero designare semplicemente il fatto che la critica per un verso dovrebbe essere una critica di per sé «pratica», e quindi in quanto critica in grado di operare effettivamente, ed esser così parte del processo di trasformazione (a differenza di un mero insegnamento, o di un modello orientato sul binomio legislazione/esecuzione), per un altro verso essa però non è identica alla prassi, né deve sostituirla.
28 Cfr. A. Leist, Schwierigkeiten mit der Ideologiekritik cit., p. 59.
29 Procede in modo simile Emil Angehrn: «L’etica implicita nella teoria di Marx mostra di appartenere a un tipo di etica determinato, normativo in senso stretto», in E. Angehrn e G. Lohmann, Ethik und Marx: Moralkritik und normative Grundlagen der Marxschen Theorie cit., p. 146.
30 Tra gli altri cfr. M. Walzer, Interpretation and Social Criticism, Cambridge (MT), Harvard University Press, 1987 [tr. it. di A. Carrino, Interpretazione e critica sociale, Roma, Lavoro, 1990], e Id., Mut, Mitleid und ein gutes Auge cit. [tr. it. Critica sociale e teoria sociale cit.].
31 Inoltre, in caso di dubbio si fa affidamento su un argomento normativo supplementare. Di fronte ai processi di trasformazione e di pluralizzazione delle nostre società, non è difatti per niente chiaro in quale direzione dovrebbe procedere il suddetto allineamento tra ideali e realtà. Dobbiamo rinunciare a norme e ideali, o modificare invece le nostre pratiche? Ci si potrebbe rallegrare della possibilità di potersi richiamare all’ideale della carità cristiana nei confronti dei limiti del diritto di asilo; in altri casi – si pensi alla morale sessuale cattolica – avviene però il contrario: il mutamento pratico delle consuetudini viene utilizzato come occasione per un allineamento da realizzare nella direzione inversa. È inoltre poco chiaro quale debba essere l’ideale effettivo di riferimento, nel quadro di ideali diversi e alternativi. Ho sviluppato una analisi dettagliata delle strutture normative e dei diversi tipi di critica interna e di critica immanente nella mia tesi Zur Kritik von Lebensformen, manoscritto, Frankfurt am Main 2008 [cfr. ora R. Jaeggi, Kritik von Lebensformen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2013].
32 Sulla questione vedi il programma dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte e i contributi raccolti in A. Honneth (a cura di), Befreiung aus der Mündigkeit. Paradoxien kapitalistischer Modernisierung, Frankfurt am Main, Campus, 2002. Qui tuttavia il fuoco dell’analisi si concentra sulle «contraddizioni» mediante il discorso dei «paradossi».
33 Secondo la mia interpretazione, il rapporto tra ideale e realizzazione nel processo della critica immanente è un fenomeno piuttosto complesso. Se infatti la realizzazione degli ideali richiamata dalla critica immanente implica sincronicamente la loro trasformazione, allora qui non siamo di fronte a una realizzazione di quanto dato in senso statico, ma piuttosto nel senso di un movimento autopotenziantesi. Ciò che qui deve essere realizzato emerge anzitutto nel corso del processo stesso della realizzazione. Una tale interpretazione («performativo-costruttivista») del motivo filosofico del potenziale della realizzazione conta sul fatto che non possa mai darsi una congruenza perfetta tra potenziale e realizzazione, e che la correlazione motivazionale tra i due poli continui ciò nondimeno a essere significativa.
34 La «via della fenomenologia dello spirito» è un processo esperienziale di questo tipo, in quanto processo che si arricchisce attraverso l’esperienza di mancanze e di crisi, ma anche la psicoanalisi, se è lecito interpretarne il movimento come una «dialettica della trasformazione», può essere intesa come un processo di questo tipo; cfr. G. Fischer, Dialektik der Veränderung in Psychoanalyse und Psychotherapie, Heidelberg, Asanger, 1989.
35 Su questo vedi la «concezione dinamica e valutativa dell’ideologia» di Mannheim che lo conduce a scrivere: «Se si guarda a tutti questi casi nel loro insieme, noi vediamo come l’idea della “falsa coscienza” assume un nuovo significato. Da questo punto di vista, il conoscere è ideologico, allorché non riesce a rendersi conto dei nuovi elementi insiti nella situazione o quando tenta di passare loro sopra considerandoli in termini ormai del tutto inadeguati», cfr. K. Mannheim, Ideology and Utopia cit., p. 86 [tr. it. Ideologia e utopia cit., p. 94].
36 Ho sviluppato dettagliatamente la questione in R. Jaeggi, Zur Kritik von Lebensformen cit.
37 Una tale concezione della critica dell’ideologia è abbozzata (e comunque non accantonata) da Raymond Geuss nel suo The Idea of a Critical Theory cit. [tr. it. L’idea di una teoria critica cit.], ma la si ritrova anche, seppur in un quadro teoretico assai diverso, tra le posizioni che considerano l’ideologia quale deformazione irrazionale delle preferenze; cfr. per esempio J. Elster, Belief, Bias and Ideology, in M. Hollis e S. Lukes, Rationality and Relativism, Cambridge (MT), The Mit Press, 1997, pp. 123-149.
38 Su questa concezione cfr. R. Celikates, Gesellschaftskritik als soziale Praxis, Frankfurt am Main, Campus, 2009.

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