Che cosa c’è (se c’è qualcosa) di sbagliato nel capitalismo? Tre strategie della critica
p. 91-118
Texte intégral
I. Introduzione
Le congiunture della critica del capitalismo
1La critica del capitalismo è ora in auge. Plasmata dall’umore dei tempi, è talvolta piuttosto diffusa, seppur spesso non sufficientemente complessa, e per taluni aspetti risulta persino inaspettatamente inflazionata1. Ciò nondimeno, l’attuale boom ha invero delle buone ragioni, o perlomeno riposa su cause fondate.
2Ma qual è, in verità, il problema del capitalismo? È forse un sistema falso, ingiusto, irrazionale, sbagliato? È forse cattivo, stupido, oppure, semplicemente, non funziona? Per porre la questione in un altro modo: su quali basi è possibile criticare il capitalismo?
3In questo contributo non fornirò alcuna nuova informazione per cercare di rispondere a tale questione, né offrirò una nuova diagnosi di taglio empirico della situazione economica mondiale, né tantomeno delineerò delle proposte costruttive in grado di alleviare la crisi in atto. Ciò che vorrei fare qui, piuttosto, è esaminare e problematizzare sul piano metodologico tre possibili strategie di critica del capitalismo. Analizzerò cioè come tali critiche procedano, e quali possibilità dischiudano per sviluppare una critica del capitalismo inteso quale tipo specifico di organizzazione economica e sociale – pertanto mi concentrerò soprattutto sulla seguente questione metodologica: quali figure argomentative sono qui in gioco, e quanto sono promettenti?
4La domanda «Che cosa c’è (se c’è qualcosa) di sbagliato nel capitalismo?», ovviamente non è intesa in senso cinico. Non dubito difatti che ci sia qualcosa di problematico nel sistema economico globale e nella costituzione delle nostre società. Mi pare, tuttavia, che non sia affatto evidente quale tra i molti mali del mondo possa essere attribuito specificamente al capitalismo; oppure se ci sia qualcosa, stando alla questione posta da Philippe Van Parijs, di intrinsecamente sbagliato nel capitalismo2.
5La domanda, insomma, è se ci sia qualcosa che non sia soltanto un effetto collaterale di alcune manifestazioni contingenti del capitalismo, ma la cui occorrenza sia invece sistematicamente correlata a esso (e soltanto a esso), e che nel contempo sia fondamentalmente problematica. L’oggetto della nostra critica – se deve essere una critica del capitalismo – non può infatti concernere qualcosa che occorra in tutte le formazioni sociali immaginabili; né la critica – se deve essere una critica del capitalismo – può concernere qualcosa la cui occorrenza sia legata a esso in modo soltanto accidentale. In altri termini, se c’è qualcosa che deve essere considerato sbagliato o problematico nel sistema sociale analizzato, dobbiamo domandarci se a esserne responsabile sia effettivamente il capitalismo, o se l’elemento in gioco non sia invece riconducibile, per esempio, alla modernità, oppure alla conditio humana in generale.
6La questione, dal mio punto di vista, non è affatto banale. Dopo tutto, noi dovremmo sapere esattamente che cosa stiamo criticando nel momento in cui prendiamo in considerazione un ordinamento economico mondiale (apparentemente) ingiusto e soggetto a crisi. Rispetto alle note strategie del «contenimento» e dell’«addomesticamento» del capitalismo, dovrebbe inoltre risultare decisivo il fatto di non trattare il sistema economico come una scatola nera; di contro, dovremmo domandarci se non vi sia qualcosa che si contrapponga, nella costituzione stessa e nelle dinamiche di questo sistema, a un suo contenimento dal punto di vista della «cornice» democratica e di quelle istituzioni «moderatrici» che incorporano delle istanze orientate nel senso della giustizia3. (Con il richiamo all’«approccio della scatola nera» intendo qui riferirmi alla tendenza a parlare soltanto di come si dovrebbe distribuire la ricchezza prodotta entro un sistema economico, e non invece a come essa venga prodotta, né a quale tipo di ricchezza debba essere prodotta).
Che cos’è il capitalismo?
7Nel quadro delle seguenti riflessioni, il termine «capitalismo» verrà a designare un sistema sociale ed economico; esso pertanto includerà l’intero insieme delle dimensioni economiche, sociali, culturali e politiche che plasmano il modo di vita delle società organizzate in modo capitalistico.
8In altri termini, la parola «capitalismo» designa un ordine economico e sociale che si è sviluppato in Europa in seguito alla dissoluzione del sistema feudale avvenuta alla fine del Medioevo, e che poi, nel corso del xviii e xix secolo, è divenuto dominante sul piano mondiale quale capitalismo industriale, grazie a un alto livello tecnologico e a una consistente concentrazione dei capitali. In termini sistematici, possono essere considerati come caratteristici del modo di produzione capitalistico e delle società plasmate dal capitalismo i seguenti elementi:
la proprietà privata dei mezzi di produzione e la separazione tra questi mezzi e i produttori;
l’esistenza di un libero mercato del lavoro;
l’accumulazione del capitale e, quale sua conseguenza,
la tendenza a utilizzare il capitale in vista del profitto anziché dei bisogni, quindi del suo incremento anziché del suo dispendio, ovvero a detrimento di un suo uso volto a garantire la sussistenza;
nel capitalismo il mercato generalmente funziona come meccanismo di coordinamento per l’allocazione e la distribuzione dei beni, così che il capitalismo e l’economia di mercato sono legati strettamente l’uno all’altro, sebbene non siano identici4.
Tre dimensioni della critica
9Qual è, allora, il problema del capitalismo? Tralasciando gli indicatori triviali inerenti all’avidità personale, possiamo distinguere tre possibili strategie della critica.
10Primo, una strategia argomentativa di tipo funzionale: il capitalismo non può funzionare come sistema sociale ed economico; esso è intrinsecamente disfunzionale e soggetto a crisi.
11Secondo, una tipologia argomentativa morale o orientata nel senso della giustizia: il capitalismo è basato sullo sfruttamento; esso nega alle persone, in modo iniquo e ingiusto, i frutti del loro lavoro, e le intrappola nella servitù di un sistema che le defrauda di ciò che spetta loro. Detto in breve (e meno drammaticamente): il capitalismo è basato su una struttura sociale sfruttatrice e ingiusta, oppure la produce lui stesso.
12Terzo, l’argomento etico: una vita plasmata dal capitalismo è una vita cattiva (per esempio alienata). È una vita impoverita, senza senso, vuota; vengono cioè annichilite le componenti essenziali per poter condurre una vita umana soddisfacente, felice e, soprattutto, «veramente libera». In breve, il capitalismo conduce alla – ed è basato sulla – alienazione.
13Ognuna di queste tre strategie argomentative – rinvenibili già agli albori del capitalismo e della sua critica – ha avuto il suo periodo di fulgore, e si è incamminata lungo sentieri diversi. Si può ciò nondimeno sostenere che nella critica dell’economia politica di Marx5 queste tre strategie convergano in una modalità particolarmente interessante, seppur non sempre trasparente.
14Ora, chiediamoci se ognuna di queste strategie riesca a rispondere alla domanda che abbiamo posto sopra; il che equivale a domandarsi se esse riescano a fondare un tipo di critica in grado di cogliere ciò che è specificamente sbagliato del capitalismo. In particolare, dovremo stabilire se ognuna delle tre modalità critiche in gioco (a) riesca a cogliere gli elementi specifici del capitalismo, e (b) riesca a render conto del suo carattere erroneo o dei suoi deficit normativi.
15Cercherò ora in primo luogo di delineare con maggior precisione le tre strategie argomentative che ho differenziato al fine di metterne in luce sia gli elementi produttivi sia i limiti.
II. Il teorema del deficit funzionale
16Iniziamo dalla critica funzionalista. La strategia argomentativa «funzionale» sostiene che il capitalismo non funzioni come sistema economico e sociale: esso è intrinsecamente disfunzionale e soggetto a crisi.
17La versione teoreticamente più semplice di tale critica – anche se sul piano empirico è quella più facilmente criticabile – è la teoria della «pauperizzazione». Il capitalismo, così è stato diagnosticato fin quasi dai suoi albori, sul lungo periodo non può assicurare la sussistenza degli individui in gioco a causa dei processi economici della concentrazione e della razionalizzazione. Lo sviluppo dell’economia capitalistica comporterà infatti il costante e sempre più grave impoverimento di una massa della popolazione via via più ampia, così che infine si giungerà al crollo del sistema6. Già più complessa è invece la teoria delle crisi sistematiche della produzione e della distribuzione, la cui versione più sofisticata è sicuramente quella della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto formulata da Marx7, secondo cui la dinamica del capitalismo è tale da minare virtualmente il suo stesso terreno mediante delle trasformazioni nella cosiddetta «composizione organica del capitale» (ovvero nel rapporto tra lavoro vivo e macchinari). In ogni modo, si possono individuare argomenti sui deficit funzionali anche al di fuori di questo quadro teoretico. Si può per esempio sostenere che la «mano invisibile» del mercato ideale non sia in grado di garantire la produzione di beni pubblici, dai quali tuttavia esso nel contempo dipende. E forse a questo punto non è irrilevante sottolineare che la «critica funzionalista» del capitalismo non è riducibile agli scenari della crisi economica. Si può infatti sostenere che il capitalismo presenti un deficit funzionale anche nel senso indicato da Daniel Bell (nonché da Joseph Schumpeter)8, nel momento in cui sottolinea che esso mina sistematicamente le disposizioni psichiche e cognitive di cui però esso stesso necessita per potersi conservare.
18Ora, tale strategia argomentativa funzionalista – in quanto strategia argomentativa – ha dei vantaggi notevoli. Tra le altre ragioni, essa risulta attraente perché sembra procedere senza aver bisogno di criteri di giustificazione. Non soltanto, infatti, il capitalismo non funziona; il punto è che esso risulta evidentemente inefficace secondo i suoi stessi parametri. Qualcosa è infatti non-funzionale se mina la sua propria capacità di funzionamento a partire dalle basi fondanti che esso pone per se stesso – esso pertanto confuta se stesso, interamente e palesemente. Ancor meglio: tale «non-funzionamento» mette in dubbio la tesi che a lungo andare il problema possa risolversi da sé o essere eliminato.
19In ogni modo, si può certamente dubitare di molti dei suddetti teoremi, e in effetti in molti casi si è già dubitato di essi, nonostante le crisi finanziarie ed economiche degli scorsi decenni abbiano minato la tesi secondo cui il capitalismo «supera con successo ogni crisi». In questa sede però io non voglio concentrarmi sulla confutazione di questa concezione delle crisi. Piuttosto, vorrei cercare di far chiarezza sulla struttura stessa di una tale argomentazione di taglio funzionalista, al fine di farne emergere le carenze.
La struttura dei deficit funzionali
20Che cos’è, insomma, un deficit funzionale? Quando qualcosa mostra un deficit funzionale significa che non sta funzionando come dovrebbe: non funziona come aveva garantito, o secondo gli obiettivi prescritti. La funzione di un coltello è quella di tagliare. Un coltello smussato, quindi, dal momento che non taglia, non funziona9.
21Ascrivere un deficit funzionale sistematico va però al di là della mera circostanza fattuale tale per cui qualcosa non sta funzionando come dovrebbe, poiché si afferma che esso non è in grado di svolgere le funzioni richieste per ragioni sistematiche. Non si tratta solo del fatto che i deficit emergono regolarmente, o in modo reiterato. Qualcosa che non funziona in modo sistematico è tale perché gli mancano i requisiti necessari per funzionare come ci si aspetterebbe da lui. Un coltello che non ha neanche la lama, o che ha una lama di plastilina, è deformato o è stato costruito male rispetto alle funzioni che dovrebbe svolgere. Gli manca infatti un presupposto importante rispetto alle sue funzioni in quanto coltello (cioè tagliare). In questo senso primario, si tratta di un non-funzionamento sistematico, non soltanto casuale o contingente.
22La formulazione più radicale (si potrebbe dire «dialettica») di un tale non-funzionamento sistematico deve però essere articolata in modo leggermente diverso. Possiamo descrivere questo teorema come un caso in cui il non-funzionamento è intrinseco al funzionamento di un oggetto. O meglio: il non-funzionamento è l’altra faccia della funzionalità. Il che significa che qualcosa funziona in un modo tale per cui allo stesso tempo mina la sua funzionalità – mette cioè a repentaglio le basi stesse della sua funzionalità specifica. Ora, però, questo argomento circolare suona in un certo senso oscuro e paradossale; e tuttavia, io credo che grossomodo sia proprio questo il senso della analisi marxiana, dal momento che si riferisce al capitalismo in quanto sistema disfunzionale di organizzazione sociale ed economica.
Problematicità della critica funzionalista
23Il carattere problematico della critica funzionalista emerge chiaramente non appena si considera quanto segue. Primo, la tesi in gioco, in senso stretto, non afferma che l’oggetto descritto (cioè il sistema descritto) che appare minare la propria funzionalità nel corso del suo funzionamento, funziona nello stesso senso in cui non funziona. Si ha questa impressione soltanto quando significati molteplici e potenzialmente differenti vengono sovrapposti gli uni agli altri. In questo caso (cioè quello del sistema capitalistico), si può dire che qualcosa – ora – funziona in un modo tale per cui nel lungo periodo – quindi in futuro – non funzionerà più. (Un esempio di questo caso è dato dallo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali: tale sfruttamento ora ci permette di mantenere un certo livello di prosperità, ma nel contempo mette a repentaglio le condizioni future della vita umana). Oppure, potremmo dire che da un particolare punto di vista, o rispetto a un dato elemento, qualcosa funziona, mentre da un altro non funziona. È difficile per esempio negare che in una società organizzata in modo capitalistico esistano sia la povertà sia la ricchezza: la dinamica dello sviluppo economico correlata alla modernizzazione capitalistica ha difatti certamente creato una impressionante quantità di ricchezza, e tuttavia tale prosperità non è andata a beneficio di tutti in egual misura.
24Nel momento in cui distinguiamo tra questi vari significati nel modo appena delineato, emerge però che la tesi della disfunzione sistematica e del «minare se stesso» del sistema capitalistico non è così facile da difendere come potrebbe sembrare. Segnalando il carattere «disfunzionale», e quindi persino «contraddittorio» di una certa formazione sociale, potremmo difatti fondere degli aspetti che potrebbero invece essere separati in modo altrettanto congruo; si potrebbe pertanto affermare che il deficit funzionale (del capitalismo) appare tale soltanto perché andiamo alla ricerca di soluzioni di problemi che non sono però necessariamente correlati l’uno all’altro. (Un problema di questo tipo può esser dato per esempio dall’esigere non solo una crescita economica e produttiva, ma anche una distribuzione equa dei suoi frutti; oppure dalla tesi secondo cui il capitalismo non deve curarsi soltanto del presente, ma anche del futuro; e così via). Naturalmente io non ho la minima intenzione di porre in dubbio il fatto che sia desiderabile che una società soddisfi tali requisiti; il punto qui concerne i miei dubbi in merito al fatto che tali obiettivi desiderabili possano o debbano essere perseguiti secondo i parametri di una critica funzionalista.
25Dalle riflessioni presentate finora possiamo trarre la seguente, cruciale conclusione: nel momento in cui fonde o sovrappone differenti punti prospettici – come sopra descritto –, la critica funzionalista mostra di chiamare necessariamente in causa dei giudizi di tipo teleologico e di valore. Questa osservazione rimanda alla discussione generale della funzionalità nel suo complesso: qualcosa funziona sempre e soltanto in relazione a qualcosa – cioè in relazione a una funzione definita. Il coltello difatti funziona (o non funziona) in relazione all’attività del tagliare. Noi attribuiamo tale funzione al coltello virtualmente, senza porla in questione: per che cos’altro – al di là del tagliare – dovrebbe infatti servire un coltello? Ora, però, è meno chiaro quale sia la funzione che il capitalismo dovrebbe assolvere. E in generale, perlomeno rispetto alle entità o alle circostanze della realtà sociale, «funzioni» e «funzionalità» non sono date in modo incontrovertibile – esse cioè non sono «date» in modo immediato, né sono circostanze inerenti alla realtà sociale indipendenti da ogni interpretazione.
26Ora, se i deficit apparenti di un oggetto sono sempre legati alle funzioni assegnate a quello stesso oggetto, e se perlomeno rispetto a determinati «oggetti» (ovvero alle entità sociali) non è possibile desumerne la funzione direttamente dalla loro «natura», allora il criterio della non-funzionalità poggia sulla assegnazione delle funzioni, e quindi su criteri che non sono dati in modo intrinseco.
27Ma se è così, allora il criterio della funzionalità e della non-funzionalità non è «a sé stante». Il fatto di minare le condizioni future della vita umana risulta infatti un deficit funzionale soltanto se all’economia contemporanea attribuiamo anche il compito di rendere possibile la vita futura (invece di dire: «chi tardi arriva male alloggia»). Detto più in generale: non soltanto il capitalismo sembra resistere, piuttosto che collassare; ma pare anche riuscire a funzionare in modo lineare. Il suo non-funzionamento, difatti, è tale soltanto nella misura in cui si assume il punto di vista di finalità particolari, e ci si riallaccia a giudizi di valore o a norme. La prospettiva del non-funzionamento, pertanto, è sempre già connotata in senso normativo. La simultaneità di povertà e prosperità diventa difatti una contraddizione soltanto sotto specifiche condizioni, ed è disfunzionale soltanto se la sua presenza è interpretata come qualcosa di scandaloso in termini normativamente carichi. Nella misura in cui anche la reazione delle parti coinvolte rientra poi nel non-funzionamento di un sistema sociale, questa componente normativa è certo ben evidente: la «plebe» generata dalla dinamica dell’economia borghese – come nella famosa analisi di Hegel dell’«opprimente problema della povertà nella società civile» – non è semplicemente impoverita, è indignata. Ed è questa indignazione, con le sue conseguenze, a minacciare la coesione della società.
28Certo deve esserci un punto in cui una data capacità di funzionamento incontra i propri limiti invalicabili. E tuttavia, vi sono delle società che in un certo senso «funzionano» anche quando gli strati superiori, e persino quelli medi, si sentono sicuri soltanto vivendo dentro «quartieri blindati»; oppure, al contrario, quando una parte non insignificante della popolazione trascorre la propria vita dietro le sbarre. (In ogni caso i poveri o sono chiusi fuori, o sono chiusi dentro). La nostra tesi secondo cui tale società non funziona in quanto società, dipende quindi precisamente dal fatto che noi la riteniamo non funzionare bene, il che significa che la riteniamo tale rispetto al modo in cui dovrebbe funzionare. Una società rinchiusa dietro delle inferriate, come una dinamica economica che va a discapito del futuro, non corrisponde infatti alla nostra idea di come la società dovrebbe essere. Ne consegue che le crisi funzionali (del capitalismo) sono sempre anche delle crisi normative. Se il capitalismo come sistema sociale ed economico minaccia di fallire – una possibilità che oggi diversi critici sembrano nuovamente prospettare –, questo fallimento è però tale sempre e solo rispetto alla considerazione per cui noi non vogliamo vivere in questo modo specifico (e non semplicemente rispetto al fatto che non possiamo vivere così).
Valutazione conclusiva del modello della critica funzionalista
29Stando all’analisi svolta finora, dunque, alcuni degli elementi che sembrerebbero rendere la critica funzionalista particolarmente buona in quanto critica del capitalismo, per alcuni aspetti risultano in verità dubbi. Se il fascino della tesi funzionalista è dato dal fatto di poter rinunciare a un retroterra normativo – ovvero all’idea secondo cui se qualcosa non funziona, il suo non-funzionamento è semplicemente un deficit che non richiede ulteriori spiegazioni –, ora dobbiamo invece considerare il fatto che essa sembra dipendere implicitamente da un retroterra normativo (dipendere cioè da dei presupposti inerenti a come una certa cosa dovrebbe funzionare) che dovrebbe essere esplicitato.
30Se allora ci interroghiamo sul senso in cui la critica funzionalista soddisfa i requisiti della nostra questione – e dunque ci poniamo la domanda se essa possa fornire i criteri sostanziali per misurare l’intrinseca falsità del capitalismo –, la risposta è la seguente:
un argomento funzionalista (se è valido) soddisfa certo il primo requisito nel momento in cui disvela una problematica che è sistematica e specifica del capitalismo. E tuttavia permane qui il problema dato dal fatto che un tale argomento funzionalista non può eludere la questione normativa (la questione infatti non concerne semplicemente il perché il capitalismo funzioni in un certo modo, ma il perché questo modo sia sbagliato). Esso dipende insomma da criteri normativi che omette di esplicitare.
Ora, questo risultato non deve però essere inteso come se implicasse il fatto che il momento funzionale e la questione delle possibili disfunzioni dei sistemi sociali ed economici capitalistici non siano importanti, o siano del tutto inconsistenti. Anche se una tale analisi, come ho argomentato, non può semplicemente sostituire una valutazione normativa, resta infatti fermo che ogni presa di posizione normativa rimanda a sua volta a quella dimensione «materiale» che emerge da considerazioni di tipo funzionalistico10.
Dal mio punto di vista, tuttavia, il significato degli aspetti funzionali della «critica funzionalista del capitalismo» si spinge oltre; e questo concerne una questione sistematica centrale. Ritengo, infatti, che a un livello concettuale di base ci siano entità che in linea generale non possano essere caratterizzate esclusivamente dalla loro facoltà di incappare in crisi funzionali in quanto tali.
Al riguardo, infatti, se è vero che un tratto caratteristico delle forme di vita socio-culturali e delle istituzioni sociali è quello di incappare in crisi, bisogna però considerare che queste crisi hanno sempre un carattere normativo, e che emergono soltanto in ragione delle assunzioni normative implicate nel carattere strettamente «funzionale» delle istituzioni sociali. Nel contempo, però, le crisi normative hanno a loro volta sempre un aspetto funzionale: si esprimono nella forma di problemi pratici e di disordini. Se pertanto persino l’indicatore di un deficit funzionale dipende da un elemento normativo, questo indicatore (ovvero il fatto di minare le condizioni della nostra esistenza futura) non è banale. Fa infatti differenza se consideriamo la povertà come un problema autogenerato di disintegrazione della società civile, come fa Hegel, o se lo consideriamo invece semplicemente come moralmente scandaloso.
31Veniamo ora alle altre due forme di critica del capitalismo che, di contro all’argomento funzionalista, assumono più o meno esplicitamente un punto di vista normativo, tale quindi da comportare un giudizio o una valutazione della situazione (in termini di giusto e sbagliato). Come abbiamo detto sopra, in questo caso ci sono due versioni della critica normativa del capitalismo; versioni a cui io vorrei riferirmi nei termini di una critica morale o orientata nel senso della giustizia su un versante, e di una critica etica o orientata nel senso della vita buona sull’altro. Come ora vedremo, questa distinzione non potrà però essere mantenuta a lungo. La differenza e la relazione stessa tra le due opzioni necessita oltretutto di una spiegazione. Infine, se colleghiamo l’alienazione, in termini generali, al tema che usualmente designiamo come la questione della vita buona, sembrerebbe allora che, al contrario, noi ci si possa riferire allo sfruttamento come a qualcosa di connesso al problema morale della giustizia (in senso stretto).
III. La critica morale del capitalismo
32Vorrei concentrarmi anzitutto sulla critica del capitalismo di tipo morale, o orientata nel senso della giustizia.
33Di preciso come procede questa critica? L’argomentazione di taglio morale o orientato nel senso della giustizia, come ho detto, sostiene che il capitalismo si basi sull’ingiustizia, o che esso produca e riproduca una struttura sociale ingiusta. Questa è una dimensione della critica del capitalismo che spesso è legata alla tesi dello sfruttamento.
34Secondo questa critica, il capitalismo sfrutta gli esseri umani sottraendogli in modo scorretto e ingiusto i frutti del loro lavoro. In altri termini, le persone vengono «schiavizzate» da un sistema che le defrauda in molti modi di ciò che gli spetta, e che le trascina in relazioni sociali immorali e degradanti. L’indignazione nei confronti dello sfruttamento, così perlomeno sembra, corrisponde perfettamente alle intuizioni quotidiane nei confronti della immoralità e crudeltà del capitalismo. La concezione assunta intuitivamente – giustamente o meno – dalla maggioranza delle persone viene pertanto a convergere con gli standard morali e con gli elementi di teoria della giustizia della critica del capitalismo proposta da Marx.
35Qui però non voglio esaminare la tenuta sul piano empirico di questa sfida al capitalismo lanciata dalla prospettiva dello sfruttamento, impostazione che ha peraltro una grande capacità di mobilitazione, e che può rivendicare, richiamandosi all’evidenza, un alto grado di plausibilità. Ciò che voglio, invece, è concentrarmi sulle insidie nascoste in questa strategia argomentativa in quanto tale.
36Il problema di questa strategia risiede già nella concettualizzazione dello sfruttamento, che a sua volta rimanda però a un problema concettuale della critica morale del capitalismo.
Possiamo intendere lo sfruttamento nell’accezione suggerita dalle intuizioni morali quotidiane. In questo caso si tratta allora di un «concetto spesso» o «pregnante» (thick concept), come l’ha definito Bernard Williams11, o di un concetto nel quale valutazione e descrizione sono legati inestricabilmente l’uno all’altro, così che non ha senso chiedere che cosa ci sia di sbagliato nello sfruttamento12. Tuttavia, alla luce dei criteri tracciati sopra, se vogliamo adoperare lo «sfruttamento» quale metro per sviluppare una critica del capitalismo, dobbiamo chiederci se questo concetto – che intuitivamente risulta ben plausibile sul piano morale argomentativo – concerne un problema specifico del capitalismo. Dopo tutto, lo sfruttamento potrebbe essere soltanto qualcosa a cui capita di «accadere» nel capitalismo. Inoltre, potrebbe anche darsi che vi sia sfruttamento in una grande varietà di ordinamenti sociali diversi dal capitalismo.
Sull’altro fronte, la versione marxista della teoria dello sfruttamento funziona in un modo notoriamente differente. Qui lo sfruttamento è un concetto tecnico-analitico che mira a descrivere come funziona una economia capitalistica. Questo concetto di sfruttamento, commisurato in modo specifico alle relazioni sociali di tipo capitalistico, incorre tuttavia nel ben noto problema seguente: nella misura in cui descrive semplicemente i modi di funzionamento generali del capitalismo, non sembra essere nella posizione ottimale per poter criticare quest’ultimo in quanto sistema normativamente (o moralmente) carente.
37Posto che la modalità di critica del capitalismo che stiamo ricercando deve individuare quanto vi è di specificamente sbagliato in esso – ossia: a) i suoi tratti specifici e b) la sua erroneità –, la situazione a cui siamo ora approdati sembra invece tale da non offrici né una critica normativamente valida (persino se ne mettiamo tra parentesi la validità) né un’analisi appropriata.
38Al fine di venire a capo di questa situazione problematica, qui di seguito procederò così: primo, analizzerò lo sfruttamento in generale, o perlomeno rispetto ai nostri preconcetti principali; secondo, chiarirò il ruolo che il concetto di sfruttamento ha per Marx; infine, cercherò di mostrare che le difficoltà inerenti al concetto di sfruttamento (in Marx), e il problema corrispondente della sua classificazione normativa, possono essere risolti soltanto se cambiamo prospettiva e interpretiamo lo sfruttamento alla luce dell’ampio background dischiuso dal capitalismo in quanto forma di vita. In termini hegeliani: la critica di Marx deve essere rivolta nei confronti della «vita etica capitalistica». È anzitutto grazie all’adozione di tale prospettiva che può esser colto il «deficit morale» del capitalismo. A partire da qui, potremo poi tracciare i lineamenti atti a delineare una critica morale del capitalismo in generale, e far luce nello stesso tempo su alcuni dei problemi generali correlati a tale approccio.
L’opinione comune sullo sfruttamento
39Ciò che definiamo come «opinione comune» o «corrente» sullo sfruttamento sembra implicare una molteplicità di intuizioni ampiamente diffuse13.
40Il lavoro infantile è sfruttamento. Coloro che consentono la fabbricazione dei propri prodotti nelle «fabbriche di schiavi» dei paesi poveri del terzo mondo, o che vendono tali prodotti, approfittano dello sfruttamento della popolazione locale. Un terapista che intrattiene una relazione sessuale con una sua paziente la sta sfruttando emotivamente. Ma anche fenomeni come quelli della prostituzione e dell’utero in affitto rappresentano delle relazioni di sfruttamento potenzialmente soggette a critica. Già questo breve resoconto di alcuni tipi (più o meno controversi) di sfruttamento mostra la complessità del concetto in gioco. La questione dello «sfruttamento» sembra implicare in prima istanza i seguenti elementi:
essere sfruttati significa anzitutto che l’individuo in gioco non riceve ciò che merita rispetto al principio di uno scambio equo. In tal senso, lo sfruttamento designa una inadeguatezza quantitativa dei rapporti di scambio.
Rispetto al lavoro infantile, però, non si tratta soltanto del fatto che i bambini vengono pagati troppo poco. Allo stesso modo, il fatto che l’«utero in affitto» possa rappresentare un rapporto di sfruttamento non concerne primariamente la questione di un compenso economico più o meno inadeguato. Di fronte a questi casi, il nostro sospetto concerne piuttosto il fatto che venga stabilito un rapporto di scambio dove invece non dovrebbe esserci un rapporto di questo tipo. Qui lo sfruttamento, o perlomeno così sembra, concerne una inadeguatezza qualitativa del rapporto di scambio (che possiamo anche definire nei termini di strumentalizzazione, spregio, degradazione o reificazione).
In tutte queste relazioni, infine, si percepisce una forma di asimmetria e una distribuzione ineguale del potere in gioco – e quindi un certo tipo di dominazione e di coercizione.
41Che cosa comporta però tutto questo nei termini di una critica del capitalismo basata sul concetto di sfruttamento? Nella misura in cui una critica dipende da questa (complessa) opinione corrente, risulta relativamente chiaro in che senso il capitalismo possa rappresentare un male (morale) – cioè proporzionale al grado di sfruttamento imposto. (E io ho già menzionato il fatto che questi diversi elementi e fenomeni hanno, e hanno avuto in passato una capacità di mobilitazione molto alta rispetto ai movimenti di resistenza al capitalismo). Tuttavia, non è chiaro se tale conclusione possa applicarsi a un male che sia specifico del capitalismo. Dopo tutto, il lavoro infantile, la tratta degli schiavi e molte altre gravi forme di oppressione sfruttatrice sono state ben presenti anche in società precapitalistiche. Inoltre, i sostenitori del libero mercato non si stancano di rimarcare che la colpa degli eccessi, evidentemente deplorabili, della globalizzazione capitalistica (quali per esempio le «fabbriche di schiavi», il lavoro infantile, e la persistenza di lavoro forzato) debba ricadere non sul mercato capitalistico di per sé, ma piuttosto sul fatto che questo mercato non sia stato ancora ben consolidato.
42Se vogliamo adottare la critica morale – basata sul concetto di sfruttamento – dobbiamo allora mostrare che anche i rapporti umani che non sono affetti da queste forme evidenti e persino sfacciate di povertà e di coercizione sono nondimeno basati sullo sfruttamento; bisogna cioè dimostrare che c’è una forma di sfruttamento anche al di là degli scenari alla Oliver Twist (posto che questo tipi di scenari sono purtroppo ben reali anche ai nostri giorni). Inoltre e soprattutto, dobbiamo mostrare che c’è un tipo specifico di sfruttamento che è caratteristico del capitalismo, e che merita di essere criticato. Di conseguenza non basta mostrare che anche il capitalismo sfrutta le persone – come facevano la società feudale e l’antica società schiavista –: bisogna mostrare che lo fa sistematicamente, e in una modalità specifica propria. È alla luce di questo problema che vorrei ora analizzare il concetto di sfruttamento di Marx, che è indirizzato in modo specifico al capitalismo, ed è rivolto precisamente alla questione del carattere sistematico-necessario dello sfruttamento (così come alla ingiustizia che ne consegue).
Lo sfruttamento in Marx
43Com’è che si configurano allora le cose allorché si adotta la teoria dello sfruttamento di Marx?
44Ho già accennato al doppio senso della sua teoria: su un primo fronte, anche Marx sembra adottare l’interpretazione accennata supra. Se egli infatti sostiene che si debbano «rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole»14, risulta allora ben difficile negare che qui stia esprimendo indignazione morale. Lo sfruttamento è uno dei mali che gli esseri umani possono esperire da parte di altri esseri umani; e un ordinamento sociale che si basa o che genera questo male è criticabile. Su un secondo fronte, però, lo «sfruttamento» in Marx è anche un concetto tecnico-analitico, il cui significato coincide soltanto in parte con quello adottato quotidianamente dall’opinione comune. Dalla prospettiva della teoria marxiana del valore-lavoro, infatti, lo sfruttamento è inteso come appropriazione da parte dei capitalisti del pluslavoro dei lavoratori, cioè della appropriazione di quanto il lavoratore ha prodotto oltre il limite di quanto è necessario per la riproduzione della propria forza lavoro. In altri termini, lo sfruttamento equivale alla appropriazione del plusvalore15. Nella sua forma capitalistica, quindi, lo sfruttamento non si basa su un rapporto esplicito di dominazione, o su una violenza diretta, ma piuttosto sulla coercizione indiretta determinata dalle circostanze. Non lo si può pertanto descrivere esattamente nei termini di una rapina16.
45Ora, tale analisi ha una conseguenza interessante: da questa prospettiva lo sfruttamento non concerne in prima istanza la compassione che può ispirare il lavoro infantile, ma piuttosto il normale lavoro salariato nel suo insieme. Nel contempo, il concetto di «sfruttamento» nel suo puro senso tecnico non rappresenta però uno scandalo morale, ma designa semplicemente il modo di funzionamento del capitalismo. Il concetto di «sfruttamento» verrebbe pertanto a descrivere solo ciò che il capitalismo fa, nella misura in cui tale caratteristica è – in un certo senso – condizione del suo funzionamento17.
46Se Marx descrive lo sfruttamento quale sottrazione dell’eccedenza prodotta, e dunque come un rapporto inerente a ogni forma di lavoro salariato in quanto produttore di plusvalore, tale interpretazione deve forse essere intesa come una sdrammatizzazione del concetto di sfruttamento? O rappresenta invece, al contrario, una drammatizzazione del carattere negativo proprio del lavoro salariato? E ancora, si tratta forse del fatto che Marx è riuscito a isolare il carattere dello sfruttamento specifico del capitalismo, lasciandosi però sfuggire dalle mani ciò che di tale rapporto, invece, meritava effettivamente di esser criticato?
47Qui dobbiamo render conto dell’affermazione di Marx, invero sorprendente, secondo cui il modo di produzione da lui analizzato non è ingiusto in sé. In altri termini, una volta che si accettano le condizioni e i prerequisiti di base dell’economia capitalistica, non resta più alcun problema da risolvere, né pertanto alcunché da criticare. Questa tesi conduce però davvero alla conclusione per cui lo sfruttamento, secondo Marx, verrebbe a rappresentare un rapporto normativamente non problematico né meritevole di critica?
48Sì e no – suona così la mia risposta. Al fine di comprendere lo status (normativo) dell’analisi dello sfruttamento di Marx e il punto di vista normativo da cui egli muove effettivamente la sua critica del capitalismo, è importante ricordare il contesto in cui tale analisi è collocata, e nella fattispecie le premesse implicate e la situazione entro cui opera la critica marxiana del capitalismo.
49Il progetto di Marx di una «critica dell’economia politica» può essere interpretato come un tentativo di spiegare i difetti normativi del capitalismo (e quindi l’ineluttabile presenza in esso di dominazione e sfruttamento) al di sotto della superficie impersonale e obiettiva dell’economia capitalistica e dei rapporti contrattuali della società civile. Se la vera innovazione istituzionale dell’economia capitalistica è rappresentata dall’esistenza di un libero mercato del lavoro, e se questo a sua volta è caratterizzato dalla libertà contrattuale delle parti contraenti e dall’idea della equivalenza (lavoro per salario, ovvero salario come compenso del lavoro, anziché lavoro forzato e prelievi obbligatori), allora a un primo sguardo non è facile riconoscere come questi rapporti siano interpretabili come rapporti di sfruttamento. E non lo è neanche se ci rifacciamo alla miseria delle condizioni del lavoro tipica delle prime fasi del capitalismo: né il carattere coercitivo (la mancanza di libertà di scelta), né la disuguaglianza dei rapporti qui stabiliti risultano ovvi rispetto ai rapporti sociali propri della società di mercato borghese-capitalistica. Tuttavia, poiché Marx analizza lo sfruttamento capitalistico come un rapporto – seppur sottile – di dominazione e coercizione, ne consegue che il «carattere tecnico» della sua analisi sembra rispondere alla sottigliezza e alla opacità di questi rapporti – cioè al carattere strutturale e impersonale della coercizione qui in gioco. Ma è precisamente questo fatto che ci consente di interpretare la differenza (che inizialmente ci aveva sorpreso) tra: a) l’opinione comune dello sfruttamento da noi condivisa, e la sua apparente valenza morale e b) l’interpretazione «tecnica» di Marx che abbiamo ora spiegato nella sua ambivalenza.
Il concetto di sfruttamento ha un significato etico o morale?
50La mia tesi è che possiamo risolvere il problema del carattere critico-normativo della teoria dello sfruttamento di Marx (e il suo sorprendente rifiuto di considerarne le implicazioni morali) soltanto se interpretiamo la critica marxiana non come una critica morale in senso stretto (o fondata su una teoria della giustizia), ma piuttosto come una critica eticamente ispirata. In altri termini, se interpretiamo la critica di Marx come una forma di critica che si applica alla forma di vita del capitalismo nella sua interezza, allora possiamo comprendere come essa si rivolga a quella struttura sociale responsabile di un modo di dominazione impersonale e di coercizione invisibile che può essere definito, in modo cogente, nei termini di «sfruttamento».
51Ciò che è erroneo, allora, non concerne il fatto che il modo di produzione sia basato in sé sullo sfruttamento (ovvero sulla sottrazione del plusvalore). Questo fatto rappresenta semplicemente il suo modo di funzionare ed è incontestabile secondo i suoi propri – interni – criteri di giustizia. Il problema concerne invece il fatto che esso funzioni in questo modo: ciò che è erroneo è il modo di produzione stesso. Tuttavia, il carattere di questa erroneità – e questo punto è cruciale – è di un tipo differente rispetto all’ingiustizia dello scambio ineguale, o della distribuzione iniqua. Qui infatti non è più in gioco la questione della ingiustizia in senso stretto. Si tratta piuttosto di «ingiustizia» in un senso più ampio, inerente a una forma di vita intera, tale da rendere anzitutto possibile la dominazione impersonale e le dinamiche coercitive descritte.
52La critica morale o orientata nel senso stretto della giustizia dovrebbe sviluppare una analisi e una critica del capitalismo come modo di produzione (e inoltre come forma di vita) in grado di concepire il capitalismo come un problema specifico. I problemi di tipo morale in senso stretto, infatti, non sono soltanto irrisolvibili; essi in verità non possono neanche essere compresi se non li interpretiamo dalla prospettiva della forma di vita capitalistica intesa in senso ampio. Il carattere «ingiusto» [«Unrecht»] del capitalismo risulterebbe allora «completo» – nello stesso senso in cui è completa la discussione del «diritto» [«Recht»] nella Filosofia del diritto di Hegel – nella misura in cui la discussione del «giusto» [«Recht»] anche qui contempla la razionalità e la statura etica di un ordinamento sociale nella sua interezza. Il male specifico del capitalismo non è dato dal suo carattere ingiusto e immorale, ma dalla sua mancanza di eticità (nel senso hegeliano), esso risulta cioè carente in quanto rapporto etico.
Sfruttamento come «ingiustizia assoluta»
53Mi associo qui alla tesi di Georg Lohmann, secondo cui nella teoria di Marx ci sono «due concezioni della giustizia»: una in senso stretto, relativa alla giustizia distributiva interna, e una in senso ampio, relativa alla giustizia di una forma di vita in quanto tale18. Quest’ultima tematizza le basi stesse della distribuzione, l’ordinamento distributivo di per sé, e nel contempo ciò che egli chiama i protovalori fondativi di una intera forma di vita. Emerge così – questa la tesi – non soltanto la non-equivalenza del salario rispetto al lavoro, ma una inadeguatezza qualitativa del rapporto con il mondo e con se stessi che si palesa quando il «lavoro astratto» è scambiato nel libero mercato. Questo ci rimanda non soltanto alla «dimensione qualitativa» dello sfruttamento, che abbiamo già introdotto; ci rinvia anche al fatto che la dimensione morale del capitalismo – il suo «male» specifico – non è «a sé stante». Lo si può comprendere soltanto nel quadro della dimensione «etica» [sittliche] dei suoi deficit o problemi crescenti. Il problema non pertiene quindi alla prassi dei contratti di lavoro, ovvero a come l’acquisto del lavoro salariato truffi i partecipanti; certo è indubbio che questo avvenga di frequente; tuttavia, la disputa sui salari, sulle condizioni del lavoro e sulla lunghezza della giornata lavorativa, da una certa prospettiva, sono semplicemente una «parte del gioco» a cui si deve giocare. Questo gioco, di fatto, non contempla altra prospettiva se non quella dell’interesse per il profitto di chi è coinvolto. Se vogliamo criticare qualcosa al riguardo, allora dobbiamo criticare «il gioco stesso». In tal caso possiamo per esempio criticare le condizioni che in linea generale riducono la forza lavoro allo status di una merce. Per tradurre la questione in un altro set di criteri: se la sottrazione del plusvalore non è iniqua o immorale allorché la si intende come una transazione tra il lavoratore e colui che compra la sua forza lavoro, il fatto che il capitalista si appropri del plusvalore potrebbe invece risultare normativamente problematico dal punto di vista dell’ordinamento sociale nella sua interezza. Tale questione ci rimanda però alle basi a partire da cui consideriamo i beni in questione, e trascende peraltro non solo il dominio delle relazioni interpersonali, ma anche il domino dei problemi morali in senso stretto. (Potremmo dire, per esempio, che in linea di diritto l’eccedenza prodotta non appartiene né al lavoratore né al capitalista. Di contro, una società socialista potrebbe trattare l’eccedenza prodotta come una proprietà comune alla società e istituzionalizzare delle vie democratiche per decidere come utilizzarla19. Questo però comporterebbe un cambiamento radicale della nostra concezione della proprietà e del merito).
54Si potrebbero fornire molti altri esempi a questo riguardo. La mia tesi, comunque, è che se tematizziamo quei «protovalori» che plasmano i modi della produzione stessa – e le nostre forme di vita in quanto tali –, dobbiamo effettivamente trascendere gli stretti limiti di una critica morale o orientata nel senso di una teoria della giustizia.
Conclusioni sulla critica morale
55Dalle considerazioni finora schizzate possiamo trarre tre conclusioni rispetto alla critica morale e alla nostra questione di fondo. Anche se assumiamo che si possa riuscire a stabilire dei criteri della critica (posto che qui avanzo tale assunzione senza problematizzarla ulteriormente), essa continua a restare indeterminata rispetto al suo oggetto. Da questa prospettiva (e alla luce delle definizioni che abbiamo dato del suo compito), la critica morale non è ancora indipendente, o «a sé stante». Come è emerso dalla nostra interpretazione di quella che (a prima vista) si configurava come una ambivalenza (tra normatività e non-normatività) della concezione dello sfruttamento di Marx, la critica morale mostra di essere incorporata in una analisi dei «rapporti etici» che costituiscono il capitalismo. Il che significa che questa critica è correlata a quelle condizioni strutturali essenziali del capitalismo che generano un «risultato» moralmente (e dal punto di vista della teoria della distribuzione) discutibile. Questo insieme di cose culmina nella posizione, che Marx riprende da Hegel, sintetizzabile nella famosa accusa secondo cui la moralità si riferirebbe a un «dovere vuoto». Da questa prospettiva, infatti, la critica dei rapporti capitalistici che possiamo definire di tipo «morale» è soggetta a una peculiare impotenza, dal momento che la moralità è (e dovrebbe essere vista come) incorporata nella «vita etica».
56Ma come procede, allora, una critica etica del capitalismo? Come ora vedremo, anche una critica che si rivolge a quelli che ho chiamato protovalori del capitalismo stesso incorre in taluni problemi. (Di certo le difficoltà emergono se si parte dalle opinioni comuni quotidiane della critica etica o culturalista a cui mi sono richiamata all’inizio – quindi se si muove da una visione ordinaria e diffusa).
IV. La critica etica del capitalismo
57La critica etica del capitalismo sostiene, in diverse versioni, quanto segue: la vita plasmata dal capitalismo è una vita in senso lato brutta o alienata; è impoverita, senza senso o vuota. Il capitalismo distrugge gli elementi essenziali di una vita appagante e felice, e soprattutto «realmente libera». In breve, la critica etica tematizza il capitalismo in quanto rapporto con il mondo e con se stessi; e si focalizza in particolare sull’influenza che il capitalismo esercita rispetto a tutte le nostre relazioni vitali, e al rapporto con noi stessi e con il mondo.
58Le critiche di questo tipo sono peraltro vecchie quanto il capitalismo stesso. (Di certo non si tratta di una prerogativa della critica della alienazione di Marx: bisognerebbe anzi dire il contrario; da questo punto di vista, infatti, Marx fu figlio del suo tempo: dette una sua peculiare interpretazione a dei problemi che erano già stati trattati – ritorneremo più avanti su questo punto)20. Tra i sintomi qui ascritti al modo di vita capitalistico vi sono, per esempio, i fenomeni della cosificazione [Versachlichung] e dell’impoverimento qualitativo delle relazioni vitali, additati invero fin dall’inizio dello sviluppo capitalistico. Tratto che del resto emerge già nelle vesti auliche del testo di Werner Sombart Il capitalismo moderno21, ove il rapporto personale di una donna contadina precapitalista con le sue mucche è posta in contrasto – piuttosto stucchevolmente – con il rapporto cosificante e calcolante che nel capitalismo viene adottato rispetto a oggetti e creature viventi. È invece con ben altra profondità di sguardo (e superiore consapevolezza dell’ambivalenza in gioco) che nella sua Filosofia del denaro22 Georg Simmel si misura con la cosificazione in quanto tendenza fondamentale della vita moderna emergente dall’economia di scambio capitalistica. Il problema della mercatificazione [Vermarktlichung], in quanto commercializzazione e mercificazione, è del resto un problema ben presente anche ai nostri giorni, seppur in forme del tutto inaspettate. In ogni modo, i sintomi problematizzati dalla critica etica includono sia l’avidità istituzionalizzata, sia il mai sopito dinamismo del capitalismo. Infine, la stupidità e la vuotezza psichica e spirituale, l’impoverimento e la superficialità di un mondo costretto dagli interessi materiali entro i limiti della «strumentalità» sono stati del resto tematizzati di frequente dalla letteratura e non solo.
Il senso della prospettiva etica
59Io considero questa prospettiva – e lo sottolineo con decisione – assai significativa rispetto alla realtà dei rapporti capitalistici e anche quale strategia della critica. Il fatto che il capitalismo abbia anche una «cultura», e che plasmi ed esiga determinati modi di vita, rappresenta difatti un elemento rilevante rispetto a ogni sua possibile interpretazione.
60Senza dubbio il potere di una critica etica del capitalismo consiste perlomeno nel chiarire delle condizioni che spesso restano celate. Alla luce della critica delle tendenze alla mercatificazione, diviene per esempio in certo qual modo chiaro che il capitalismo non assicura, nell’ambito del mercato, uno schema distributivo dei beni semplicemente «neutrale». Al contrario, ai beni viene conferito un carattere determinato.
61Ciò che viene chiarito persino dalle varianti culturalmente più conservatrici e nostalgiche della critica etica del capitalismo è quindi il fatto che la sfera economica – ovvero le transazioni commerciali che avvengono nel mercato capitalistico – non è eticamente neutra. Ciò che avviene in essa e il modo in cui vi avviene sono espressioni di una forma di vita e di una visione del mondo particolari, tale da escludere o perlomeno da influenzare forme di vita e concezioni del mondo differenti. Il fatto che cose, capacità e relazioni particolari vengano concepite come «merci» non significa soltanto che esse debbano essere tradotte – in modo eticamente neutro – in un altro medium. Piuttosto, il fatto di concepire le cose come alienabili, interscambiabili e sostituibili con altri beni (e rispetto al medium comune del denaro) genera una concezione assai peculiare degli oggetti, delle relazioni e delle capacità. (Per usare un’espressione introdotta sopra: queste relazioni concernono i «protovalori» che costituiscono la nostra forma di vita).
62Ora, sembra tuttavia caratteristico del capitalismo il negare precisamente questo tipo di valore, e di conseguenza anche il suo status in quanto forma di vita particolare – in tal modo ne viene reso invisibile il carattere non-naturale e non-auto-evidente. (Una conseguenza di questo fatto è che le persone coinvolte in questa forma di vita non sarebbero in grado neppure di concepire una alternativa a esso). E forse questo elemento rappresenta già una ragione sufficiente – una sorta di metaragione – per accettare la tesi che nel capitalismo ci sia qualcosa di sbagliato.
I problemi della critica etica
63I problemi di una tale critica etica del capitalismo (rispetto ai criteri che stiamo ricercando) sembrano tuttavia essere i seguenti:
Il primo problema (nel senso della questione già posta della erroneità specifica del capitalismo) è il seguente: non è sempre chiaro quali siano i sintomi, tra quelli di cui una critica etica si occupa, che pertengono specificamente al capitalismo. Questi sintomi hanno veramente a che fare con il capitalismo o sono invece riconducibili alla modernità in generale? E, nei casi dubbi, quali sono le loro reciproche correlazioni? Certo l’espansione dell’economia monetaria e del mercato influenza i rapporti tra le persone e le cose; e tuttavia molte forme di strumentalizzazione sono nondimeno rinvenibili anche in formazioni sociali assai diverse – basti pensare alla tratta degli schiavi. Ne consegue che le attuali tendenze di «espansione del mercato» (dall’utero in affitto agli eserciti mercenari contemporanei) non possono essere criticate fintanto che non si è mostrato come, nelle condizioni capitalistiche, la strumentalizzazione in gioco abbia assunto delle forme specifiche (io peraltro credo che si possa mostrarlo, sebbene venga fatto solo di rado).
C’è tuttavia un secondo problema ben più pressante, inerente alla identificazione dei criteri della critica in questione. In particolare, che cosa risulta problematico degli elementi da me indicati? Possiamo sottolineare l’indifferenza del mercato nei confronti delle qualità concrete e il suo livellamento delle eterogeneità – e in tal modo criticare lo svuotamento di senso o «l’impoverimento» delle nostre vite. Possiamo denunciare la cosificazione e la depersonalizzazione delle relazioni sociali, intendendole quali forme di atomizzazione e di strumentalizzazione. Possiamo anche criticare la liquidazione di certe qualità e capacità che avviene attraverso la cosificazione e la reificazione. Certo, molte di queste diagnosi virano verso una critica culturale e un pessimismo culturale che in ogni caso tende a una visione romantica e nostalgica di modi di vita passati, e dei prodotti, delle pratiche e delle consuetudini a essi correlate. Come si ritenne, allorché venne introdotta la ferrovia, che la sua velocità avrebbe di certo condotto alla pazzia, così oggi noi lodiamo la tranquillità del treno: la «genuina e autentica esperienza del viaggiare» che ci offre; mentre lo contrapponiamo alla accelerazione esistenziale introdotta da easyJet. Se poi l’introduzione della divisione del lavoro mediante catena di montaggio all’epoca fu considerata quale disciplina inumana e fonte di alienazione, oggi invece, a uno sguardo retrospettivo, il sistema «fordista» di assistenza viene quasi riabilitato: consentiva infatti una coesione comunitaria e una solidità identitaria a cui oggi si contrappongono le dinamiche del nuovo e accelerato «capitalismo flessibile», tali da svuotare di senso le esperienze e da intaccare le identità personali.
64Il principio della nostalgia qui all’opera, tutto considerato, induce perlomeno a dubitare dell’effettiva affidabilità e fecondità dei criteri operativi adottati. Non a caso la descrizione della vita moderna presentata da Georg Simmel all’insegna dell’interscambiabilità e del denaro – un’interpretazione del capitalismo come forma di vita invero magistrale e ancora ineguagliata – è spiccatamente ambivalente. L’indifferenza nei confronti delle relazioni particolari e delle qualità intrinseche dei beni, infatti, significa anche libertà. Così come l’assenza di legami mediata dal denaro significa anche indipendenza. Nella misura poi in cui il libero mercato del lavoro – con tutti i suoi rischi e pericoli – ha rimpiazzato le gerarchie feudali, esso risulta fondato non soltanto sul valore dell’efficienza (posto che lo persegua effettivamente); al di là di questo, il mercato incarna anche un principio etico, come quello della libertà della modernità – in quanto libertà di scelta –, che consiste nel vivere la propria vita indipendentemente dagli altri. (Marx, in ogni modo, era certo consapevole di questi meriti del capitalismo moderno – basti ricordare la lode che ne fece in quanto forza motrice della modernità tale per cui «vengono dissolti tutti i rapporti stabili»)23.
65Se questa ambivalenza dei fenomeni qui tracciati fornisce un’indicazione ulteriore del fatto che non è certo semplice individuare i criteri etici sulla cui base giudicare e condannare la forma di vita capitalistica, a partire da che cosa possiamo allora stabilire il nostro metro di misura? E, di conseguenza, come possiamo elaborare una critica del capitalismo che non slitti ancora una volta in un discorso puramente astratto sulla virtù – tale, diciamo, da appellarsi ai valori?
Sintesi e conclusioni
66Lasciatemi ora riepilogare rapidamente i risultati finora raggiunti. Siamo andati alla ricerca di una critica del capitalismo in quanto specifica organizzazione sociale ed economica, che nel contempo fosse in grado di stabilire dei criteri normativi, e dunque la sua stessa fondazione normativa. A partire da qui, possiamo tracciare le seguenti conclusioni:
la critica funzionalista è sicuramente specifica (perlomeno là dove è plausibile); essa però non è normativamente a sé stante perché la dimostrazione delle «disfunzioni» risulta inseparabile da criteri di valore che non può generare o difendere da sé.
La critica morale o orientata nel senso della teoria della giustizia, per un altro verso, sebbene ci fornisca dei criteri normativi24, non è specifica del capitalismo. Per questa ragione, tale critica non riesce a render conto del capitalismo in quanto fonte specifica di mali morali determinati. È difatti orientata sugli effetti, mentre perde completamente di vista le dinamiche specifiche e la costituzione di quelle istituzioni sociali ed economiche che causano tali effetti. (Il che significa che adotta «l’approccio della scatola nera» già criticato, e che è soggetta alla famosa accusa della «impotenza del dovere morale»). Come ho già suggerito, questa è la ragione (ma ve ne sono anche altre) per cui Marx non si impegnò in una critica morale del capitalismo, pur richiamandosi allo sfruttamento.
La critica etica incontra una difficoltà, oltre alla debolezza (verosimilmente superabile) connessa alla cornice specifica del suo oggetto, nell’individuare i propri criteri normativi. Un problema che a sua volta minaccia di ricondurci nel vicolo cieco (e altrettanto «vuoto») del discorso sulla virtù.
67La conclusione della mia analisi delle «tre strategie della critica del capitalismo» può allora essere sintetizzata nel modo seguente: per un verso, tutte e tre le strategie sono feconde da un certo punto di vista; tuttavia, per un altro verso, ognuna di esse si rivela deficitaria sotto diversi aspetti. Di fronte a questa situazione abbiamo molteplici alternative. A rigore, non c’è in verità niente di sbagliato nel criticare una formazione sociale esistente da «fronti incrociati». Potremmo pertanto ipotizzare che le differenti prospettive critiche talvolta (ma non sempre) possano rischiararsi reciprocamente l’un l’altra. Forse, allora, non c’è uno specifico problema del capitalismo da cui la critica debba muovere, ma piuttosto un insieme di problemi; né vi è soltanto uno standard della critica che sia universalmente, eternamente e indiscutibilmente valido.
68Ciò nondimeno vorrei lanciare ancora un ultimo sguardo su alcuni deficit della terza strategia critica, quella etica, che potrebbe forse condurci a un risultato più convincente (o meno modesto) di quello raggiunto.
69L’ipotesi che vorrei analizzare è la seguente: le dimensioni della critica del capitalismo descritte potrebbero non essere caratterizzate semplicemente dai punti di forza e dai deficit deducibili dalle loro differenti sfere di applicazione. Piuttosto, i loro deficit potrebbero essere risolti se considerassimo le tre «dimensioni» in gioco – e non più le «strategie»! – in modo unitario. Una critica del capitalismo come forma di vita – è questo il titolo generale che vorrei proporre per un tale approccio – risulterebbe allora legare tutte e tre le dimensioni in gioco: quella funzionalista, quella morale e quella etica25.
Prospetto finale: la critica del capitalismo come forma di vita
70Come possiamo criticare il capitalismo in quanto forma di vita? Vorrei concludere con alcune osservazioni al riguardo.
71Primo, per una critica di questo tipo sarebbe anzitutto essenziale, come già suggerito, specificare le «carenze etiche» del capitalismo e analizzare pertanto le qualità e le dinamiche particolari riscontrate – per esempio le condotte strumentali e l’avidità «insaziabile» rinvenibili nel quadro delle condizioni dell’accumulazione di capitale.
72Secondo, si dovrebbero circoscrivere quei momenti della problematica etica proposta che possono essere individuati alla luce di una critica immanente delle autocontraddizioni. La critica dell’alienazione e della cosificazione, per esempio, assume un aspetto ben diverso, e decisamente meno nostalgico, nel momento in cui analizziamo tali fattori come un tradimento delle promesse moderne di libertà e di autodeterminazione in quanto tali.
73Arriviamo così, in terzo luogo, alla strategia della critica che ho discusso all’inizio: è l’intreccio dei disturbi funzionali – di crisi pratiche e di deficit normativi – che può far luce sulla irrazionalità ed erroneità del capitalismo come forma di vita. Ed è questo che rende conto dell’aspetto funzionale criticato sopra. Certo una forma di vita qual è il capitalismo ha sempre fallito sul piano normativo. Tuttavia, il fatto che noi non vogliamo vivere in questo modo non è semplicemente un giudizio di valore etico che discende dall’alto dei cieli (o dalla tradizione); si tratta, piuttosto, di un fatto inseparabile dai deficit funzionali e dalle crisi e difficoltà pratiche che a esso si accompagnano.
74A questo punto possiamo infine tracciare, per una critica di questo tipo, una sorta di metacriterio che si sottrae alla contingenza delle posizioni etiche sostanziali. Una forma di vita riuscita sarebbe quella che ha la qualità di facilitare, e non di ostacolare, processi di apprendimento collettivo riusciti che in parte possono essere innescati da crisi di tipo funzionale. Che poi il capitalismo operi in tal senso, è un’ipotesi più che opinabile.
Notes de bas de page
1 D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, New York, Oxford University Press, 2005 [tr. it. di P. Meneghelli, Breve storia del neoliberalismo, Milano, il Saggiatore, 2005]; Th. Piketty, Le capital au xxie siècle, Paris, Seuil, 2013 [tr. it. di S. Arecco, Il capitale nel xxi secolo, Milano, Bompiani, 2014]; N. Klein, This Changes Everything, New York, Simon & Schuster, 2014 [tr. it. di M. Bottini, Una rivoluzione ci salverà: perché il capitalismo non è sostenibile, Milano, Rizzoli, 2015]; R. Wolff, Democracy at Work: A Cure for Capitalism, Chicago, Haymarket Books, 2012; N. Fraser, Fortunes of Feminism: From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, New York, Verso, 2013 [tr. it. di A. Curcio, Fortune del femminismo: dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Verona, Ombre corte, 2014].
2 Cfr. Ph. Van Parijs, What (if anything) is intrinsically wrong with Capitalism?, “Philosophica”, vol. 34, n. 2, 1984, pp. 85-102.
3 Cfr. J. Beckert, Wer zähmt den Kapitalismus?, in Id. et al. (a cura di), Transformationen des Kapitalismus, Frankfurt am Main, Campus, 2006, pp. 425-442. Cfr. anche J. Habermas, Democracy or Capitalism?, “Reset DOC”, 2013, http://www.resetdoc.org.
4 K. Marx, Das Kapital cit., Band I (1867) [tr. it. A. Macchioro e B. Maffi, Il capitale, Torino, utet, 2009, Libro I]; K. Polanyi, The Great Transformation, New York, Farrar & Rinehart, 1944 [tr. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 2010]; J. Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy, New York, Harper, 1942 [tr. it. di E. Zuffi, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas, 2001].
5 K. Marx, Das Kapital cit., Band I [tr. it. Il capitale cit. Libro I].
6 Ivi, cap. 25 [tr. it. Il capitale cit., Libro I, cap. 25].
7 Ivi, Band III (1894), cap. 13 [tr. it. di M.L. Boggeri, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1966, Libro III, cap. 13].
8 D. Bell, The Cultural Contradictions of Capitalism, New York, Basic Books, 1976 [tr. it. di V. Bertello, Le contraddizioni culturali del capitalismo, Torino, Einaudi, 1978]; J. Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy cit. [tr. it. Capitalismo, socialismo e democrazia cit.].
9 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I.
10 Anche se i criteri della sostenibilità ecologica e la questione della giustizia distributiva vengono da noi ricondotti nel quadro del sistema economico capitalistico, noi possiamo fare questa operazione concettuale sulla base di una analisi che mostra il fatto che, e le ragioni per cui, tali questioni oggi vengono disattese dal sistema.
11 B. Williams, Ethics and the Limits of Philosophy, Cambridge (MT), Harvard University Press, 1985, cap. 8 [tr. it. di R. Rini, L’etica e i limiti della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1987, cap. 8].
12 Sottolineo che qui non sto discutendo se il concetto di sfruttamento debba o non debba essere usato come un «concetto moralizzato»; in quanto «concetto spesso», lo sfruttamento deve pertanto essere distinto dallo «sfruttamento come concetto moralizzato», come ha mostrato A. Wood, Exploitation, “Social Philosophy and Policy”, vol. 12, n. 2 (1985), pp. 136-158.
13 Sull’attuale discussione cfr. A. Wertheimer, Exploitation, Princeton, Princeton University Press, 1996; R.J. Sample, Exploitation: What it is and Why it’s Wrong, Lanham, Rowman & Littlefield, 2003.
14 K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie (1843), in Marx/Engels Gesamtausgabe, Berlin, De Gruyter, 1975-2016 (MEGA), Band I, p. 385 [tr. it. di R. Panzieri, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Id., Un carteggio del 1843 e altri scritti giovanili, Roma, Rinascita, 1954, p. 99].
15 Il grado di sfruttamento risulta pertanto determinato dalla differenza tra il tempo di lavoro giornaliero effettivo e quello necessario per la riproduzione della forza lavoro; dunque dalla relazione tra plusvalore e lavoro necessario, tra lavoro pagato e non pagato; sulla questione cfr. K. Marx, Das Kapital cit., Band I, Teil III [tr. it. Il capitale cit., Libro I, Parte III].
16 Cfr. J. Elster, Exploring Exploitation, “Journal of Peace Research”, n. 15 (1978).
17 Su questo cfr. A. Wood, Exploitation cit.
18 E. Angehrn e G. Lohmann (a cura di), Ethik und Marx. Moralkritik und normative Grundlagen der Marxschen Theorie, Königstein im Taunus, Hain-Athenäum, 1986
19 Questo punto è emerso in una discussione con Nancy Fraser.
20 Cfr. K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 (1844), in MEGA cit., Band I, Parte 2 [tr. it. di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1949, nuova edizione 2004]; H. Marcuse, Neue Quellen zur Grundlegung des Historischen Materialismus (1932), in Id., Ideen zu einer kritischen Theorie der Gesellschaft, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1969 [tr. it. di A. Solmi, Nuove fonti sulla fondazione del materialismo storico, in Id., Marxismo e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1975].
21 W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, Leipzig, Duncker & Humblot, 1902, 2 voll. [tr. it. di K. Pedretti Andermann, Il capitalismo moderno, Torino, Utet, 1967].
22 G. Simmel, Philosophie des Geldes, Leipzig, Duncker & Humblot, 1900, seconda edizione ampliata 1907 [tr. it. di A. Cavalli, R. Liebhart e L. Perucchi, Filosofia del denaro, Torino, Utet, 1984].
23 K. Marx e F. Engels, Manifest der Kommunistische Partei (1848), in MEGA cit., Band I, 6, p. 465 [tr. it. di D. Losurdo, Manifesto del partito comunista, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 10].
24 Preciso che qui non sono andata alla ricerca di tali criteri, dando per scontato che essi siano disponibili.
25 Sottolineo che la questione inerente al fatto che una tale critica debba essere orientata nel senso della riforma o essere invece «radicale», e quindi mirare a una trasformazione completa o alla totale abolizione (del sistema in gioco), per il momento deve esser posta tra parentesi, poiché dipende dalle nostre conclusioni.

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