«Il singolo non può nulla contro questo stato di cose»: i Minima Moralia come critica delle forme di vita
p. 33-60
Texte intégral
1. «La questione dell’ordinamento del mondo»1
1È possibile criticare le forme di vita? Si può forse dire che siano buone, riuscite, o persino razionali? A partire da Kant si dà per assodato che, in contrapposizione alla correttezza morale, la felicità o la vita buona non possano essere determinate in termini filosofici. A partire da Rawls, si è poi convenuto che, muovendo dal punto di vista dell’irriducibile pluralismo etico proprio delle società moderne, il contenuto etico delle forme di vita non sia discutibile. La filosofia ha pertanto abbandonato la questione socratica di «come si dovrebbe vivere», per limitarsi al problema di come, di fronte alla molteplicità di «dottrine comprensive» reciprocamente incommensurabili, possa essere assicurata una convivenza giusta, in quanto «coesistenza» tra forme di vita differenti. Così facendo, le questioni concernenti le forme e i modi secondo cui dovremmo condurre le nostre vite vengono confinate nell’ambito delle preferenze individuali, oppure delle problematiche altrettanto insondabili inerenti alla sfera identitaria. Come sulla questione del gusto, anche sulle forme di vita non c’è più niente da discutere.
2Una tale riserva è estranea alla teoria critica di Adorno. Che sia così lo si vede in modo particolarmente chiaro nei Minima Moralia: lo testimoniano non soltanto la sensibilità e la puntualità di molte delle osservazioni qui presentate, ma l’ambito stesso dei fenomeni da analizzare prescelto, e il modo diretto e radicale con cui viene rintracciata quella «falsità» dei rapporti sociali che si annida fin dentro i comportamenti apparentemente più privati e remoti. I temi qui affrontati concernono infatti l’arte del donare e il tempo libero, l’ospitalità e la discrezione, i nostri rapporti con frigoriferi e automobili, le forme dell’abitare e i modi di amare: «Nell’amore fanatico e sviscerato per le automobili vibra la sensazione, sempre presente, della mancanza fisica di riparo e domicilio»2; «Gli uomini disapprendono l’arte del dono»3; «La tecnicizzazione – almeno per ora – rende le mosse brutali e precise, e così anche gli uomini»4. Viene pertanto tematizzato il rapporto con se stessi, con gli altri e con l’altro, quale si mostra rispetto agli oggetti più modesti e nelle faccende quotidiane più insignificanti. A essere diagnosticata è la «paralisi del contatto»5, la formazione e la limitazione delle modalità della percezione, oppure l’«irruzione di condotta istituzionalmente pianificata nell’ambito sempre più contratto dell’esperienza»6. Come ha osservato giustamente Andreas Bernard, i Minima Moralia sono «il tentativo intrapreso da Adorno di ricostruire con precisione l’alienazione dell’individuo nelle più sottili ramificazioni della vita quotidiana, e di riflettere sulla ricaduta nella barbarie a partire dall’invenzione dei pomelli delle porte, degli articoli regalo, e del room service»7. Non ci si deve quindi far ingannare da quella che si configura come una marginalità soltanto apparente: la critica qui esercitata nei confronti dell’«ordinamento del mondo» mette fondamentalmente in discussione il nostro rapporto complessivo con il mondo e con noi stessi, muovendo dalle esperienze più personali e proseguendo nel dettaglio. Dalla fenomenologia della vita quotidiana discende così una critica del capitalismo in quanto forma di vita, che s’impernia appunto sul fatto che il confine tra il pubblico e il privato, tra il giusto e il bene, tra la validità universale e la validità particolare, non è tanto facilmente individuabile.
La prospettiva dei Minima Moralia
3La prospettiva che caratterizza i Minima Moralia può essere abbozzata nel modo seguente.
«Non c’è più nulla di innocuo»8. Questa frase descrive in modo pregnante l’approccio adottato nei Minima Moralia rispetto ai propri oggetti di analisi. Niente è innocente. Se qui i fenomeni diventano significativi «fin nelle più sottili ramificazioni della vita quotidiana», è così perché sotto lo sguardo dei Minima Moralia tutto – dal nostro rapporto con le porte, all’arte del dono per giungere fino alla cortesia – può diventare un particolare che sta per l’universale di una forma di vita, nel quale quest’ultima si riflette e si manifesta9. In tal senso, ogni singolo aspetto sta per l’intero, ed è decifrabile come istanza di un complesso di pratiche sociali e istituzioni che può essere definito – con Hegel – la sfera dello «spirito oggettivo».
Per come le esamina Adorno, le forme di vita hanno un contenuto di verità. Nessuno dei fenomeni su cui cade lo sguardo dei Minima Moralia è sottratto alla critica perché privato o idiosincratico. Dalla prospettiva di Adorno, le questioni concernenti la forma e il carattere dei comportamenti quotidiani e delle modalità di vita, così come gli orientamenti che in essi si esprimono, possono condurre alla verità. A essi pertanto non viene conferita soltanto significatività, ma anche, implicitamente, una pretesa di verità rispetto alla quale i comportamenti e gli orientamenti in gioco debbono poter essere commisurati e criticati. I passaggi sincopati con cui Adorno talvolta passa dalle questioni «etiche» a quelle «morali», e quindi da questioni che in taluni concezioni contemporanee vengono distinte tra quelle del giusto morale e quelle etiche della vita buona, lascia supporre che egli non consideri tale distinzione come decisiva10.
Va inoltre sottolineato il carattere «oggettuale-materiale» dell’analisi di Adorno. L’attenzione dei Minima Moralia non è rivolta soltanto – come accadrebbe nella formulazione tradizionale della problematica etica – alla questione di «come dovremmo agire?» o di «cosa dovremmo fare?». Qui, infatti, viene anche chiesto: «che cosa ci permette di agire, o meglio che cosa ci fa agire?». Viene pertanto tematizzato come il mondo nel quale agiamo sia ordinato e costituito concretamente e «materialmente», e come questo ordinamento influenzi le nostre azioni e le nostre possibilità di vita. In tal senso, la qualità degli oggetti e il rapporto che abbiamo con essi – la circostanza cioè per cui disimpariamo «a chiudere piano, con cautela e pur saldamente una porta»11, oppure la prospettiva percettiva soggettiva che assumiamo quando siamo alla guida di un’auto – sono tutti oggetto di analisi. Adorno ci dà un’indicazione dell’idea retrostante a tale approccio quando, richiamandosi questa volta all’esempio delle pantofole, rimarca «come in molte cose e oggetti di uso comune sono iscritti, per così dire, dei gesti, e quindi anche delle forme di comportamento»12.
L’irriducibilità dell’etico
4È possibile, insomma, criticare le forme di vita? È possibile discutere, sulla base di buone ragioni, delle forme di vita? Anche se ci si rapporta criticamente alla tendenza totalizzante di Adorno, e anche se non si condivide la tonalità cupa e disperata che impregna le sue riflessioni, c’è tuttavia una cosa che si può imparare dai Minima Moralia: la questione «etica» di «come si dovrebbe vivere» non può certo essere abbandonata perché ha trovato già risposta, implicitamente o esplicitamente, in ogni formazione sociale. Il capitalismo, per come è tematizzato da Adorno, cioè come forma di vita, abbraccia e plasma quei rapporti che si hanno con se stessi e con il mondo che precedono, o meglio che stanno alla base di ogni possibile concezione della vita buona13. Se si prendono in seria considerazione le osservazioni di Adorno sulle pratiche sociali e sulle (micro)istituzioni della società, sull’approccio al mondo e sulle forme della percezione, sugli atteggiamenti e sulle disposizioni comportamentali che costituiscono la nostra vita, allora ci si rende conto che la questione della possibilità di una critica etica, per certi aspetti, non è posta nel modo corretto. Non a dispetto, ma precisamente a causa della situazione complessiva delle società moderne – della «immane potenza che trae a sé l’uomo»14 (Hegel) –, le questioni etiche, in quanto questioni che concernono sempre anche una forma di vita condivisa, non possono essere risospinte nella sfera riservata delle predilezioni e delle condizioni particolari.
5Alla luce della discussione generale che abbiamo iniziato a tracciare, i Minima Moralia vengono a configurarsi come un tipo di critica dell’ideologia incentrata sulla tesi della neutralità: contro l’idea di fondo «liberale» secondo cui le istituzioni sociali comprensive sarebbero, o meglio dovrebbero restare neutrali nei confronti dei contenuti delle forme di vita particolari, e dei punti di vista etici dei singoli. Ma è precisamente questa la via che rende nuovamente attuali i Minima Moralia. Nella misura in cui, infatti, la sobrietà etica del liberalismo politico15 raggiunge i suoi limiti – e in tal senso vi sono a mio avviso sia ragioni interne sia esterne16 –, viene di nuovo a ripresentarsi la questione del contenuto etico e della razionalità delle forme di vita. Di conseguenza, ciò che una rilettura dei Minima Moralia può oggi offrirci – forse proprio grazie al fatto che siamo ormai distanti dall’approccio per certi aspetti troppo disinvolto di Adorno – è un nuovo sguardo sul problema di una difesa trascendente il contesto, o meglio di una critica delle forme di vita.
6È grazie alla peculiare tensione tra riservatezza e franchezza della critica che i Minima Moralia possono sciogliere alcuni nodi ormai sclerotizzati della discussione contemporanea, dischiudendo così nuove interessanti prospettive. Per un verso, infatti, essi contraddicono la sobrietà liberale nei confronti delle pretese di verità delle forme di vita – precisamente il fatto che la vita si sarebbe ridotta alla mera «sfera del privato»17 rappresenta appunto per Adorno un segno di declino; per un altro verso, le «meditazioni della vita offesa» testimoniano inoltre l’impossibilità di un accesso diretto alla «vita buona». Qui il legame alla «questione socratica» è rappresentato nel contempo dalla questione delle condizioni di possibilità di queste stesse questioni. Rispetto al «perfezionismo etico» di una critica che ritiene di poter presentare degli argomenti sull’essenza o sul fine ultimo dell’uomo o dei potenziali umani, i Minima Moralia risultano pertanto assai prudenti; mentre su un altro versante operano nondimeno utilizzando in modo deciso i criteri di valore di una critica etica.
Il metodo critico
7Allorché nel seguito cercherò di rileggere i Minima Moralia come una critica delle forme di vita (al di là degli altri significati che il testo può avere), il mio interesse si concentrerà soprattutto sul suo metodo critico, e meno sull’interpretazione dei vari contenuti dei temi ivi esposti – posto che così facendo non voglio stabilire una distinzione tra «contenuto» e «forma», tra sostanza e metodo. La questione è: stando ai Minima Moralia, come è possibile cogliere, comprendere e fondare il contenuto di verità delle forme di vita? Come è possibile analizzare e criticare una forma di vita in quanto forma non riuscita o «offesa»?
8Si è sostenuto che i Minima Moralia sarebbero in grado di persuaderci non grazie ad argomentazioni, ma per mezzo di «un peculiare meccanismo dell’assenso» che sarebbe ancorato a un retroterra comune dischiuso dall’evocazione di una sorta di «rifugio immaginario della vita retta»18. Si può concordare con una tale interpretazione nella misura in cui i Minima Moralia sembrano ancorati, in modo peculiare, a una «forza dischiudente»19 che ci permette anzitutto di poter vedere per la prima volta determinate cose, relazioni e fenomeni. Tuttavia, la forza interpretativa dei Minima Moralia non si esaurisce nel rendere visibile quanto era invisibile; Adorno, infatti, considera anche dei rapporti che si dischiudono anzitutto in termini concettuali20. Inoltre, l’approccio fondativo di Adorno viene sottostimato anche quando non si coglie la molteplicità dei modi con cui vengono fatte giocare le sue figure argomentative: figure che di fatto possono non essere collocate né all’interno, né interamente all’esterno del quadro etico precedentemente condiviso. I diversi momenti della «critica immanente», a cui Adorno si richiama riallacciandosi eccentricamente a Hegel, evidenziano più un ampliamento, che non una presa di distanza da quanto può essere interpretato come una forma di «persuasione argomentativa» nel quadro delle questioni etiche.
9Qui la chiave per capire i Minima Moralia è data per un verso dalla correlazione tra etica e critica sociale, e per un altro verso dalla forma specifica del loro «negativismo». In particolare, la possibilità di un accesso diretto alla «questione socratica» viene preclusa su un doppio fronte. Su un primo lato, la domanda «che cosa devo fare?» non può esser posta indipendentemente dal contesto delle istituzioni della società e delle pratiche sociali all’interno delle quali è collocata – non è cioè indipendente dalle forme di vita nelle quali è incorporato l’agire dei singoli. Sull’altro lato, alla domanda in gioco non si può rispondere positivamente, ma solo nei termini di una negazione della falsità, e del disvelamento delle «offese» subite dalla vita (retta). Nel prosieguo mi dedicherò prima a questi due aspetti, per poi affrontare la discussione delle figure effettive della «critica immanente» di taglio negativistico in gioco nei Minima Moralia.
2. «Le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti»: la correlazione tra etica e critica sociale
10I Minima Moralia concernono l’etica e nel contempo la critica dell’etica. Concernono l’etica nella misura in cui spiegano la problematica della vita nella società contemporanea (tardo)capitalistica a partire dalla questione, via via sempre più aporetica, di come il singolo debba comportarsi; in tal modo, rispetto all’impossibilità di comportarsi in modo retto – sia che si tratti dell’impossibilità «di abitare» in assoluto, sia che si tratti del dilemma del rovesciamento del tatto sociale –, diventa visibile la problematicità oggettiva della situazione. I Minima Moralia concernono altresì la critica dell’etica nella misura in cui le patologie discusse non soltanto non si lasciano risolvere ricorrendo alla determinazione filosofica delle forme comportamentali individuali corrette; il testo, difatti, rimanda anche a un limite di principio inerente alle determinazioni di tipo etico-normativo – e così facendo rinvia all’analisi e alla critica della società in quanto elemento di fatto necessario dell’impresa etica.
11Se dunque non c’è alcun dubbio sul fatto che la questione della «vita retta» sia un elemento indispensabile della logica che caratterizza l’approccio di Adorno, è però altrettanto vero che dal suo punto di vista la credenza secondo cui sarebbe possibile rispondere a tale questione in modo diretto o immediato deve essere considerata alla stregua di un misconoscimento ideologico. È proprio in ragione del fatto che a tale domanda viene sempre data una risposta, e che le istituzioni sociali e le forme di produzione e di scambio contemplano sempre degli orientamenti etici al loro interno, che non si può porre la «domanda pratica»: «che cosa devo fare?», o «come dovremmo vivere?», in quanto tale – per così dire nella sua forma pura. Se, come dice Adorno, «lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna»21, allora soltanto una posizione epistemica che tematizzi come la vita è ordinata, e non solo come dovrebbe essere ordinata, può spezzare tale carattere ideologico.
Etica e critica sociale
12Nel momento in cui Adorno colloca «l’etica nell’ambito della critica sociale»22, la relazione che egli intende stabilire in tal modo tra etica e critica sociale è in verità più complessa di quanto non possa apparire a un primo sguardo. Se infatti è vero, come dice Adorno, che «la premessa dell’etica è la critica al mondo amministrato»23, questo però non significa soltanto che la vita retta, virtuosa o buona possa essere realizzata per la prima volta quando il mondo amministrato viene criticato, o meglio superato – per esempio perché si ritiene che così facendo verrebbero poste le premesse sociopolitiche per una vita di questo tipo. Questa posizione condurrebbe infatti soltanto alla tesi (di per sé giusta) secondo cui la realizzazione della vita buona necessita di determinate condizioni sovraindividuali. La posizione di Adorno però si spinge oltre, e sul piano metodologico è foriera di conseguenze feconde. Egli infatti mette in discussione precisamente la concezione secondo cui la «vita buona» si lascerebbe determinare in quanto tale, e fungerebbe così da criterio – sovratemporale e trascendente il contesto – per discriminare il buono e giusto ordinamento del mondo, che dovrebbe a sua volta essere realizzato in un passo successivo, indipendentemente dalla determinazione della vita buona. Viceversa, la «critica del mondo amministrato» è una premessa in senso stretto dell’etica stessa, dal momento che il falso ordinamento del mondo in un certo modo mina il buono stesso: non viene minacciata soltanto la sua realizzazione, ma (insieme a essa) anche la possibilità della sua determinazione, e infine della sua esistenza, persino in quanto ideale normativo stesso. Detto in modo più semplice: all’interno di una società falsa non è possibile fare il bene, né è possibile riconoscerlo; indipendentemente dalla sua realizzazione, esso inoltre non esiste neanche, pertanto non vi è a disposizione alcun criterio (controfattuale) indipendente per valutare l’agire retto. (Tale posizione aggira tutti i tentativi della filosofia di operare in qualità di legislatore nei confronti di una realtà problematica). In che modo, però, la vita buona può dipendere dall’ordinamento della società – in un senso diverso da quello per cui essa può essere realizzata in una società che risulti a sua volta buona? Perché in una società «falsa» non dovrebbe essere in alcun modo possibile determinare, né invero riconoscere ciò che sarebbe bene fare?
Il carattere alienato del mondo
13Per comprendere questa tesi bisogna tener presente il punto da cui parte Adorno, e che possiamo definire quale carattere reificato o alienato del mondo «male ordinato». «Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti»24. Qui non è implicata soltanto la tesi per cui l’individuo è intrecciato alla società; ancor più importante è comprendere quelle potenze oggettive che imprimono una «forma alienata» al compimento della vita dei singoli.
14Ciò che rende le relazioni sociali «false» e «malefiche» non è la mera sommatoria delle intenzioni false o malvage riconducibili agli individui che vivono in essa; qui non si tratta del risultato delle carenze in fatto di virtù, o della dimenticanza dei propri doveri da parte di molti singoli individui, né semplicemente dei comportamenti sbagliati dei dominanti o dei potenti. «Il singolo non può nulla contro questo stato di cose»25, scrive Adorno. Ciò non significa soltanto che per cambiare il falso ordinamento del mondo sarebbe necessaria una maggioranza schiacciante o qualificata. Qui ci si riferisce anche alla dinamica propria di quei rapporti che, rispetto a coloro che agiscono all’interno delle loro maglie, sono diventati delle «potenze estranee». Si tratta pertanto del fatto che gli uomini sono nel contempo responsabili e non-responsabili di questa circostanza. Ed è questa tipica esperienza della modernità – divenuta appunto l’esperienza della alienazione –, che separa i Minima Moralia dalla tradizione classica dell’etica.
15Agli occhi di Adorno, il mondo non è soltanto «ordinato in modo falso» e pervaso dall’interesse per il dominio: esso è bloccato nella sua falsità sia teoreticamente sia praticamente, ed è impenetrabile e imperscrutabile per i singoli, le cui pratiche sono nel contempo incorporate al suo interno, e che a loro volta cooperano a costituirlo. La questione etica, se la si vuole porre, deve allora spingersi «più in profondità»: fino a toccare le condizioni della facoltà di agire degli individui stessi. La «falsità» della società colpisce infatti la nostra facoltà di agire e di conoscere in modo così radicale, che solo dopo il suo superamento saremmo nella condizione di porre la «questione pratica». Il superamento di questo blocco – attraverso la «critica dell’ideologia» – rappresenta pertanto la premessa di ogni possibile accesso alla vita retta. È sempre per questa ragione che, prima ancora di poterci porre la questione normativa di cosa dovremmo fare, dobbiamo anzitutto essere nella condizione di comprendere – grazie all’analisi – in quali condizioni ci troviamo ad agire26.
16In ogni modo, la posizione di Adorno può essere interpretata in questi termini: «soltanto la presa di coscienza di questa situazione di costrizione – e non il suo camuffamento – costituisce la premessa perché si possa porre correttamente la questione di come oggi si debba vivere. L’unica cosa che forse oggi è possibile dire è che ai nostri giorni la vita retta potrebbe assumere l’aspetto di una resistenza rispetto a quelle forme di vita falsa che sono state decodificate e superate criticamente dagli stadi più avanzati della coscienza»27. Si tratta appunto di quanto viene intrapreso nei Minima Moralia – in un modo che può essere considerato «frammentario» rispetto ai precedenti critici dell’alienazione.
La dipendenza dal contesto delle virtù
17Quando Adorno accusa le classiche virtù borghesi – quali per esempio «lo spirito di indipendenza, la tenacia dei propositi, la capacità di previsione, l’avvedutezza del comportamento» – di essere «corrotte fino alle midolla»28, tale corruzione deve essere ricondotta essenzialmente al fatto che le suddette disposizioni all’azione sono divenute illusorie in una determinata situazione storica. «Poiché mentre le forme di vita borghese vengono conservate con feroce ostinazione, i loro presupposti economici sono venuti a mancare»29. Le disposizioni che un tempo, secondo Adorno, erano «buone e onorevoli», divengono pertanto false perché ora risultano inadeguate rispetto a un contesto sociale nel quale la relativa autonomia economica di soggetti economici reciprocamente indipendenti (in base all’analisi di Adorno) è ormai scomparsa; sebbene tale inadeguatezza non sia chiaramente intelligibile né invero confessabile. I soggetti, pertanto, coltivano una facoltà d’azione in un luogo dove sono di fatto impotenti, consolidando in tal modo – sempre secondo la logica di Adorno – la propria impotenza.
18Le virtù sono dunque tali in una situazione determinata, e in relazione a circostanze particolari rispetto alle quali operano, e che a loro volta operano su di esse. Il venire a mancare delle loro precondizioni si ripercuote sulle virtù stesse, il «bene» non è infatti indifferente rispetto alle condizioni della sua realizzazione. E così, proprio nel punto dei Minima Moralia in cui la riflessione di Adorno più si avvicina a una dottrina delle virtù, egli la elude ancora una volta. Le virtù sono collocate in un contesto operativo, ed è possibile comprenderle e valutarle soltanto in relazione a tale contesto. Il fatto che in un momento determinato (quello della borghesia liberale) fossero corrette, «buone e onorevoli», non è pertanto che l’esito di una costellazione storica fortunata. Questo fu il momento in cui pretese e realtà si accordarono reciprocamente, e in cui la peculiare attitudine individuale corrispose all’universalità del contesto operativo dell’azione.
19Attitudini e modalità comportamentali non possono essere giudicate come di per sé buone o cattive, virtuose o viziose: esse infatti, come nota Adorno rispetto al tatto, hanno la propria «ora storica precisa»30. Questa tesi però va oltre quella secondo cui le virtù, come avviene già in Aristotele, sono legate in un certo modo a una situazione specifica (se una data azione deve essere considerata come un atto di coraggio, e quindi come una virtù, o invece come sfrenatezza, dipende infatti dal contesto in cui avviene l’azione). In Adorno non solo il compimento di una attitudine specifica, ma anche il valore di questa stessa disposizione comportamentale dipende da circostanze non controllabili dal singolo. Lo «spirito di indipendenza e la tenacia dei propositi» sono pertanto virtù soltanto dove si accordano a una data situazione, mentre in una situazione inadatta sono già della attitudini false. In breve, tali virtù non restano vere indipendentemente dal contesto nel quale operano, in cui cioè vengono realizzate – in altri termini, il «bene» non è dato quale metro esterno e atemporale da applicare a una realtà cattiva.
20Al riguardo c’è una considerazione illuminante di Adorno su Horkheimer (e che è altrettanto valida rispetto allo stesso Adorno): «Egli si rifiuta di pensare alla società come a una sorta di sfera di vetro, attraverso il cui solido ma trasparente involucro si possa scorgere il regno del vero, del bello e del bene. Secondo lui, la verità e i processi vitali della società sono intrecciati gli uni all’altra in profondità; non però nel senso della relativizzazione sociale della verità, ma perché la forma del vero stesso è costantemente connessa alla critica determinata di taluni momenti sociali, e ha il suo metro di misura nell’idea, rinnovata ininterrottamente, di una società giusta. La filosofia diventa, nel senso più forte, teoria critica»31.
21Se «il vero, il bene e il bello» non esistono «all’interno» della sfera di vetro, essi però non esistono neanche in un qualche luogo «al di fuori» di essa, ove possano permanere illesi. Non c’è alcun metro-originario, né alcun criterio esterno al quale commisurare la società, e a partire dal quale essa si lasci criticare32. Tale criterio, dunque, deve trovarsi in essa, senza nondimeno essere identico alla società per come essa di fatto è. La «vita buona» esiste, allora, nella misura in cui è una possibilità sempre esistente insita nella realtà – al di là della deformazione della realtà stessa. Questo ci conduce al negativismo dei Minima Moralia, ovvero alle forme e ai modi in cui in questo testo Adorno pratica il suo negativismo.
3. Negativismo etico: il senso della questione della vita falsa
22Adorno nega la possibilità di poter accedere in modo diretto alla vita buona anche in un secondo senso: è soltanto indirettamente, in quanto questione concernente le offese subite dalla vita, che è possibile porre la questione della vita buona. È questa la posizione di Adorno che possiamo definire come «negativismo etico». Se questo suo negativismo non deve rappresentare soltanto il portato di una autoillusione, come presume Martin Seel – un «trauma e dogma» da cui si dovrebbe salvarlo33 –, allora l’approccio alla vita offesa, alla «caricatura della vera vita»34 scelto nei Minima Moralia può rappresentare la condizione di possibilità prima ricercata perché si possano criticare le forme di vita, o meglio difendere delle posizioni etiche in relazione alle forme di vita, senza approdare nel contempo a una posizione perfezionistica in senso stretto. (Come ora argomenterò, ciò non si contrappone all’esplicita presenza, nei Minima Moralia e più in generale nell’opera di Adorno, di immagini e motivi di taglio positivo).
23Che cosa significa, però, porre la questione della vita falsa (o offesa)? E in che misura Adorno, così facendo, evita le aporie e i problemi legati alla questione della vita retta? Il rovesciamento della questione è certo suggestivo. Tuttavia, le conseguenze e i vantaggi di una tale riformulazione sono meno scontati di quanto non possa apparire inizialmente. In quanto mero rovesciamento, l’approccio alla vita falsa sarebbe banale – o rappresenterebbe una pseudosoluzione. Se non è possibile porre la questione della vita buona, perché quella sulla vita falsa dovrebbe invece poter trovare una risposta? Com’è che si potrebbe giungere a sapere che nella vita falsa c’è qualcosa che non torna, se non si è già avanzata un’assunzione sulle condizioni della vita retta? Riarticolando la questione in modo diverso: com’è possibile identificare una offesa fintanto che non è chiaro cosa viene offeso, cioè l’elemento che viene pregiudicato per mezzo di questa offesa?
24Si potrebbe ora sostenere che vi è una certa asimmetria tra il «retto» e il «falso». «Ciò che è inumano, lo conosciamo perfettamente», dice Adorno nelle sue Lezioni di filosofia morale35. Questo non significa che noi si debba avere una concezione completa dell’«umano» o si debba disporre di una «definizione dell’uomo», oppure di ciò che la «vita buona» dovrebbe essere per l’uomo. Detto altrimenti: è facile riconoscere quando gli uomini soffrono. Viceversa, è pressoché impossibile determinare le molteplici configurazioni della felicità – e le condizioni della sua realizzazione. La concezione «negativista» dei Minima Moralia potrebbe allora essere accostata a una figura argomentativa che oggi è diventata popolare nel quadro (tra gli altri indirizzi) del liberalismo postmoderno. Richard Rorty per esempio, riallacciandosi a Judith Shklar, interpreta il liberalismo della contingenza come una teoria il cui precetto (pubblico-politico) più alto è la prevenzione della crudeltà. Una tale concezione è moralmente sensibile nella misura in cui si pone il compito di identificare le fonti della sofferenza, e nel contempo è eticamente parsimoniosa, poiché si astiene dal richiamarsi ai valori positivi e alle immagini di una vita riuscita.
Negativismo liberale versus negativismo dialettico
25Il suddetto parallelismo tuttavia è fuorviante. La concezione di Adorno secondo cui il compito della filosofia morale consisterebbe nella «denuncia dell’inumano», infatti, non ha soltanto un retroterra differente, ma ha anche delle conseguenze diverse rispetto a quelle eticamente sobrie del «negativismo liberale». Non soltanto la tesi secondo cui la sofferenza, al contrario della felicità, sarebbe facile da riconoscere non è sempre e necessariamente vera: a volte anche la felicità è riconoscibile in modo semplice e inequivocabile36. E la sofferenza, al contrario, non è sempre riconoscibile in modo immediato, indipendentemente da ogni interpretazione. Di questo fatto, in quanto critico del pensiero dell’immediatezza, Adorno è consapevole.
26È più importante tuttavia il punto seguente: nel momento in cui si volesse interpretare la metodologia adottata nei Minima Moralia come analoga alla forma di minimalismo etico liberale sopra abbozzata, lo spettro dei fenomeni discussi da Adorno e l’approccio critico adottato nei loro confronti risulterebbero semplicemente incomprensibili. Certo è vero che nell’aforisma intitolato Sur l’eau – nel quadro di una discussione dell’inadeguatezza delle controimmagini orientate nel senso della «realizzazione delle possibilità umane» rispetto alla falsità delle condizioni esistenti – si trova la seguente affermazione: «Risposta delicata sarebbe solo la più grossolana: che nessuno debba più patire la fame»37. Tuttavia, l’analisi dei fenomeni presentata da Adorno di certo non comporta soltanto che l’«umanità liberata» non debba più «patire la fame». Si dovrebbe anche entrare nelle stanze nel modo appropriato, chiudere le porte con delicatezza, e «pensare l’altro come un soggetto»38 quando gli si fa un regalo. Si potrebbe forse riacquisire persino la capacità di «abitare»39, o di «mostrarsi deboli» in amore «senza provocare in risposta la forza»40. Anche il richiamo presente nell’aforisma sopracitato (Sur l’eau) al rien faire comme une bête, cioè all’utopia del «giacere sull’acqua» – che Adorno distingue dagli ideali della società emancipata propugnati dagli attivisti «naturalisti barbuti» (come lui li definisce) – evoca qualcosa di più della mera assenza della sofferenza o della fame41.
27Nei Minima Moralia, pertanto, viene denunciato di più della sola crudeltà. Ma in che senso, allora, il modo in cui chiudiamo le porte può avere a che fare con la prevenzione della crudeltà? E per evitare quali sofferenze sarebbe necessario abolire i negozi di articoli da regalo o i film hollywoodiani? E ancora, in che modo la brillante analisi di Adorno dell’occultismo moderno quale «segno di una regressione della coscienza»42 può preservare qualcuno dal subire dei danni?
28Nei Minima Moralia, perlomeno ciò che è falso, la «vita falsa», non è detto essere eticamente «parsimonioso», è invece eticamente «denso». La validità delle asserzioni in gioco non viene mai ristretta, qualsiasi sia l’esito dell’esperienza soggettiva, alla sfera idiosincratica personale. E quando Adorno rimarca: «Il borghese, viceversa, è tollerante. Il suo amore per la gente così com’è nasce dall’odio per l’uomo come dovrebbe essere»43, egli è ben lontano dalla sobrietà liberale nei confronti dei valori. Per lui le questioni concernenti la «vita buona» sono chiaramente portatrici di verità, e non sono separabili dalle questioni «più parsimoniose» inerenti a una «mutua coesistenza» giusta, o perlomeno che non sia danneggiata.
29A questo punto si potrebbe sostenere che con la sua analisi Adorno fosse sulle tracce delle premesse per stabilire la «prevenzione della crudeltà». Il «deperimento» o l’atrofizzazione dell’esperienza di cui egli parla, il «congelamento» del mondo sotto i segni di relazioni cosificate e strumentali, la cattiveria e la stupidità che «nonostante ogni vigilanza» Adorno vede crescere in se stesso dopo ogni spettacolo cinematografico cui assiste44: sarebbe questa l’origine dei processi di quella insensibilità morale che approda infine alla crudeltà, o perlomeno a una certa indifferenza nei suoi confronti. Sarebbe questa, allora, la via da seguire per comprendere il passaggio talvolta repentino e inaspettato che avviene in alcuni aforismi, nei quali si transita appunto da gesti «divenuti brutali» quali lo sbattere le porte o la guida automobilistica, fino alla «violenza, la brutalità, la continuità a scatti dei misfatti fascisti»45. È certamente vero che nei Minima Moralia c’è una tale traccia, volta ad ampliare la sensibilità morale e la nostra facoltà di percepire la crudeltà (nei confronti delle cose e delle persone). Rispetto a un punto decisivo, tuttavia, il testo si spinge oltre, superando così l’intuizione di base del «negativismo liberale».
L’universale positivo
30Ciò che differenzia sistematicamente l’approccio dei Minima Moralia dalle posizioni presenti nel quadro teorico liberale è dato dal fatto che il primo (di contro a queste ultime) muove dal concetto positivo di un «universale buono». Se le offese diagnosticate da Adorno sono delle offese che hanno sempre una forma di vita sovraindividuale, allora l’analisi dei loro deficit assume validità in un contesto di tipo «etico» [sittlichen] (nel senso hegeliano del termine). Di conseguenza, entro tale quadro generale vi sarebbe un’altra forma, non deficitaria ma riuscita, alla quale l’analisi rimanderebbe.
31Una società «giusta», infatti, non soltanto non ostacolerebbe le possibilità di felicità del singolo, ma si adopererebbe invero per renderla possibile; non soltanto non ne limiterebbe l’individualità, ma sarebbe condizione della sua possibilità: noi diventiamo «particolari in rapporto all’universale»46, scrive Adorno. Questo richiamo positivo all’universale si accompagna a una critica dell’ideale di autenticità individualistico47. «Non solo l’io è strettamente intrecciato alla società, ma le deve la propria esistenza nel senso letterale della parola. Tutto il suo contenuto proviene da essa, o – più semplicemente – dal rapporto con l’oggetto. L’individuo diventa tanto più ricco, quanto più si dispiega liberamente nella società e la rispecchia, mentre la sua definizione e cristallizzazione, che esso rivendica come origine, non fa che limitarlo, ridurlo e impoverirlo»48. Viceversa, Adorno sottolinea lo scambio reciproco paradossale tra individualità e conformità: «Lo stato di cose in cui l’individuo sparisce, è insieme quello dell’individualismo scatenato […]. All’interno della società repressiva, l’emancipazione dell’individuo non va senz’altro a suo vantaggio. La libertà della società lo spoglia della forza di essere libero»49.
32Dove la società esistente è l’«intero cattivo», quindi, il suo scandalo non risiede semplicemente nel fatto che il singolo non possa sottrarsi alla pressione conformistica da essa esercitata, ma piuttosto nel fatto che gli è tolta la possibilità di potersi intendere, definire e individuare in relazione a, e in quanto parte di, una società giusta. Dove si riscontra l’«impossibilità della convivenza umana nelle attuali circostanze»50, quale controimmagine della «freddezza borghese» viene allora a stagliarsi non l’idea liberale della convivenza non danneggiata (e la concezione correlata di una autorealizzazione idiosincratica nel senso dell’unicità privatistica), ma piuttosto l’idea di un’altra modalità di vita in comune, intesa come una «spontanea unità delle differenze», e libera dal giogo della necessità e dalla freddezza dei rapporti strumentali. Ciò che qui emerge è una variante dell’idea (hegeliana) di una «autorealizzazione nell’universale», nella quale è anzitutto l’universale ad approntare le condizioni per la singolarità e la diversità. Se dunque la sobrietà negativistico-liberale nei confronti delle determinazioni positive della «vita buona» è motivata (anche) dall’intento di proteggere il singolo in quanto essere soggetto alla sofferenza, senza però dovergli accollare l’istanza di un «universale etico» sostanziale, per Adorno la questione si pone invece in modo diverso. Ancorandosi alle forme rovesciate dell’universale, e non alle limitazioni e alle offese individuali operate attraverso l’universale, il giudizio di Adorno non si appunta sulla pretesa dell’universale in assoluto, ma sulle pretese di un universale falso. Ne consegue quindi che, dalla prospettiva di Adorno, anche la strategia di «privatizzazione del bene» risulta controintuitiva.
33Il potenziale di un negativismo etico qual è quello di Adorno, dunque, non concerne il fatto che esso escluderebbe la questione della verità nei confronti delle forme di vita51. Al contrario, Adorno ritiene che attraverso l’approccio negativo si possa cogliere questa verità, e in tal modo si possa pervenire ai criteri di una critica etica.
34Il negativismo dei Minima Moralia, pertanto, può essere interpretato come segue: non si può dire quale possa essere l’organizzazione di una società liberata; si può però analizzare in modo puntuale che cosa tale società impedirà oggettivamente di fare. Le questioni etiche, quindi, hanno un portato di verità, senza che ciò comporti la necessità di disporre di una immagine compiuta della vita «buona», retta o riuscita, utilizzabile come criterio per giudicarle. Come può procedere, però, una tale critica «etica» delle forme di vita, senza far riferimento in modo perfezionistico alla vita buona, oppure al potenziale realizzabile degli uomini? E in che misura un tale negativismo, nel momento in cui deve essere «eticamente denso», continua a restare «negativo»?
Negativismo come «reciprocità asimmetrica»
35A uno sguardo ravvicinato il rapporto tra determinazioni positive e negative è più complicato di quanto ci si aspetterebbe. Poiché il negativismo di Adorno è un negativismo dialettico che rientra nella tradizione della critica immanente (nel senso proprio e stretto di Hegel), per questo metodo della critica ci sono due aspetti determinanti: esso muove da «ciò che non dovrebbe essere»52, ovvero dalla vita nella sua «forma alienata» o «rovesciata»; e si àncora alle contraddizioni interne di questo non-dover-essere, ovvero a ciò che, all’interno della realtà cattiva, spinge al di là di essa. Se ora ritorniamo alla nostra questione di come sia possibile in assoluto un approccio alla vita falsa che non disponga di una controimmagine di una vita buona o retta, e assumiamo la prospettiva del metodo sopra abbozzato, possiamo allora formulare due risposte.
36Primo, l’aspetto decisivo di un procedimento negativistico in etica, ovvero nella critica sociale, non è che esso non necessiti di alcuna immagine della felicità e della riuscita. Decisiva è invece l’idea per cui queste (contro-)immagini siano in quanto tali necessariamente indeterminate e vaghe, e tali certo da motivare, per quanto si possa essere motivati da un desiderio indeterminato, e non appunto da un progetto positivo e articolato chiaramente di una «realtà diversa». Il positivo – come una sorta di anticipazione – si lascia pertanto determinare anzitutto grazie alla mediazione offerta dalla prospettiva di ciò che non dovrebbe essere. In tal senso, Uwe Justus Wenzel spiega l’impostazione di un’etica negativistica sulla base del modello di una «reciprocità asimmetrica»: «certo la posizione etica negativista concepisce ciò che dovrebbe essere a partire da ciò che non dovrebbe essere; essa, però, non interpreta nello stesso modo ciò che non dovrebbe essere a partire da ciò che dovrebbe essere, ma soltanto in relazione a esso. Nel corso della negazione del negativo, prima di tutto deve essere determinato il positivo, se si vuole coglierne il concetto preliminare». Si tratta, dunque, di un «modello differenziato», «nel cui quadro il criterio positivo, seppur anticipato attraverso un concetto preliminare, è concretizzato anzitutto per via negationis»53.
37La posizione etica negativista, dunque, non è caratterizzata semplicemente dalla totale assenza di controimmagini (alcune le ho già citate sopra) o di esperienze positive54. È stato del resto lo stesso Adorno a richiamare di continuo l’attenzione sulla forza di queste esperienze, e sul fatto che fossero necessarie per poter plasmare quella costellazione che permette di percepire la negatività della realtà. Nel quadro della sua critica, egli conferisce tuttavia a questi fattori uno status differente rispetto a quanto non faccia il perfezionismo etico. La compilazione di una «lista» degli elementi che dovrebbero essere soddisfatti perché si possa avere una vita umana buona – attitudine piuttosto diffusa negli approcci contemporanei dell’etica oggettivista55–, dal punto di vista di Adorno non può non risultare qualcosa di astruso.
38Che sia così, lo si vede bene prendendo in considerazione i momenti citati da Adorno. Quando, come nel caso del fare un dono, la descrizione di un certo male vira verso la controimmagine positiva – «la vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario»56 –, ci si richiama a un potenziale, o persino al senso originario del donare. Questo però non implica il contrario, cioè che – in linea di principio – nel quadro di una vita buona debba rientrare l’arte del dono, e che pertanto la riuscita di una forma di vita possa essere misurata in base al fatto che essa permetta o meno tali pratiche sociali. La pratica del donare è investigata perché, e nella misura in cui, essa è già data socialmente; è in ragione del fatto che conosce forme differenti, e nella misura in cui è stata soggetta a delle trasformazioni, che può essere esperita una discrepanza tra la realtà e la possibilità proprie di una tale pratica.
39Anche nei Minima Moralia vi sono pertanto svariate controimmagini, seppur talvolta determinate solo in base al contesto, della cattiva realtà (l’attenzione rispettosa nei confronti di cose e persone rientra in esse). Ciò nonostante – ed è soltanto su questo che il negativismo etico deve insistere – sarebbe del tutto insensato lanciare sul tavolo verde dell’utopia un modello positivo del bene, astorico e distaccato. (Non per nulla la maggior parte delle cosiddette «utopie positive» seducono grazie alla loro semplicità). È precisamente là dove le attitudini eccellenti (e positive) vengono differenziate ed esplicitate da Adorno, e dove emerge la forza persuasiva delle immagini da lui evocate, che il loro profilo viene disegnato con maggior precisione in quanto controimmagini, tali cioè da acquisire una netta fisionomia in virtù della contrapposizione alle attitudini e alle pratiche esistenti. E non di rado la forma positiva di tali modelli rientra esclusivamente nel quadro di costellazioni del tutto peculiari, nel bilanciamento tra possibilità di volta in volta false, che Adorno ripercorre compiendo inaspettate e vertiginose giravolte concettuali.
40Appurato che il fulcro del negativismo di Adorno non consiste nella totale assenza di momenti positivi, ma piuttosto nel fatto che il positivo non fronteggia il negativo in quanto modello astratto e irrelato, ora possiamo delineare il secondo aspetto essenziale del suo negativismo: la sua idea, ripresa da Hegel, di immanenza e di negazione determinata. Il «positivo» non deve esser posto quale criterio irrelato, ma deve invece esser tratto dalla «normatività interna della realtà sociale stessa» (Theunissen). Da questo punto di vista, il positivo non è quindi semplicemente assente, ma è piuttosto «oscurato» dal negativo57. È precisamente in questo senso che «critica» significa la «critica determinata di momenti sociali», che «ha il suo metro di misura nell’idea, rinnovata ininterrottamente, di una società giusta»58. Il negativo, quindi, non è soltanto ciò che non dovrebbe essere, ma piuttosto ciò che non può sussistere senza contraddizione, ciò che non è pensabile, o meglio che non può vivere senza contraddirsi.
4. Figure della critica
41I vantaggi di un tale procedimento immanente-ricostruttivo per una critica delle forme di vita sono evidenti: se i parametri della critica risiedono nelle forme di vita, nella realtà sociale stessa, allora i criteri normativi qui utilizzati nei suoi confronti non hanno bisogno di essere giustificati; si tratta piuttosto di commisurarli all’istanza che essi stessi pongono. Per i successori di Hegel, da Marx alla teoria critica contemporanea, la grande attrattività di questo metodo è costituita altresì dal fatto che in tal modo sembra possibile sfuggire al problema del «dovere vuoto» e del moralismo sterile: ciò che viene ricercato è già precostituito nella realtà, non distaccato o presente solo quale utopia. Oppure, come dice Adorno, con il suo peculiare talento nell’imprimere nuovo slancio al noto modello tradizionale della sinistra hegeliana: «Tutto sarebbe quasi così come è – anzi no: completamente diverso».
42Ci sono tuttavia dei problemi concettuali correlati al metodo della critica immanente che non possono certo essere negati. Come è possibile ancorarsi alla realtà sociale in modo immanente se nello stesso tempo si ritiene, come fa Adorno, «che la sostanzialità dei costumi, quindi la possibilità di una vita retta nelle forme in cui la comunità esiste», si sia «svuotata radicalmente»59? Come è cioè possibile porre i criteri della critica nella stessa realtà criticata, e ciò nonostante superarla? Certo è chiaro che l’immanenza della critica qui deve significare qualcosa di più e qualcosa di diverso rispetto all’ancoraggio interno alle convinzioni assiologiche disponibili in una data comunità (un modello simile è presente per esempio in Michael Walzer). Qui tuttavia sembra di ritrovarsi di fronte al problema per cui o si resta vincolati a una posizione relativistica, oppure ci si àncora a delle assunzioni molto forti. L’idea per cui nella realtà stessa è insita una normatività che dovrebbe fornire il criterio per la sua critica, oltre ad affermare che nel quadro di una particolare forma di vita esistente vi siano dei valori di fatto disponibili, richiede anche che questa realtà stessa sia normativamente carica – per esempio nella direzione tracciata da Hegel dell’incorporazione di una ragione storica in sé realizzantesi.
43Questo però ci conduce a un secondo problema: l’idea, connessa alla critica immanente quale negazione determinata, secondo cui il nuovo o il positivo emerge quale risultato del movimento realizzantesi di per sé di una contraddizione presente nella realtà, dipende invero da un abuso (o perlomeno da un uso poco chiaro) del concetto di contraddizione. È una questione spinosa stabilire come il rapporto (logico) della contraddizione possa essere applicato alle contraddizioni (pratiche) nella realtà di una società.
44La mia ipotesi è che Adorno abbia reagito di fronte a questa situazione problematica, anche se poi non ha ben chiarito tale reazione. Se per un verso egli ha infatti insistito con veemenza sulla critica dialettica immanente dell’esistente, per un altro verso però la sua fiducia nella «normatività interna» dell’esistente è andata perduta in un modo tale per cui non è stato più possibile ancorarsi semplicemente a essa. Siamo ormai molto lontani dalle esperienze negative qui raccolte per cui «laddove c’è pericolo, aumenta anche la salvezza» (Hölderlin). Si devono confrontare le «Tesi contro l’occultismo»60 di Adorno con la critica della religione di Marx, per misurare la distanza che corre tra l’ottimismo di chi considera la critica della religione la «premessa di ogni critica» (Marx) perché crede che attraverso di essa si possa trasformare in senso emancipatorio la speranza contenuta in modo immanente nella religione tradizionale, e chi invece nell’occultismo contemporaneo ritrova soltanto una degradazione della coscienza religiosa, la cui evidente follia non può ormai più metterne a repentaglio la validità sociale e la tenuta. D’altra parte questo però non significa che non ci sarebbe più alcun punto di vista rispetto al quale l’occultismo risulti falso e, in quanto «falso miracolo» e «metafisica degli stupidi»61, criticabile nel modo più deciso. È ancora una volta in virtù dell’opera di bilanciamento tra l’assenza di criteri della critica e il carattere deciso che sincronicamente le viene conferito, che le dettagliate analisi svolte nei Minima Moralia risultano particolarmente interessanti. I punti di forza dei Minima Moralia risiedono infatti precisamente là dove il testo riesce a convincerci grazie a un procedimento analitico assai minuzioso dei fenomeni considerati, senza nondimeno che tale forza persuasiva si basi, in modo aconcettuale e immediato, sulla mera evocazione di certezze, oppure, come dice Rüdiger Bubner, sulla «magia nera con cui alcune delle sue formule toccano le emozioni più diffuse»62.
Figure argomentative
45Vorrei ora applicare quanto detto ad alcune tipiche figure argomentative dei Minima Moralia. Iniziamo dalla figura della discrepanza tra realtà sociale e comportamenti individuali (ivi inclusa l’autointerpretazione che accompagna tali comportamenti). Si assume qui che le virtù borghesi63 sopra menzionate siano delle reazioni inadeguate rispetto a una condizione sociale ormai cambiata. In quanto inattuali, esse sono diventate inadeguate rispetto alle loro condizioni di attuazione (alle loro premesse). Perché, però, una condotta in tal senso inattuale diventa falsa? E anche là dove viene conservata una condotta che esistenzialmente risulta per così dire fuori tempo massimo – «I borghesi sopravvivono a se stessi come spettri annunciatori di sventura»64 –, il fatto di per sé non dovrebbe comunque rappresentare una ragione sufficiente per denunciare la falsità della forma di vita borghese. Infine, vi sono anche valori e condotte ereditati dal passato e ormai inattuali che vengono però considerati da Adorno quali elementi correttivi di un presente degenerato. Si tratta allora degli effetti peculiari di un tale processo di conservazione: il mantenimento delle virtù borghesi nel quadro di condizioni mutate (come visto sopra), è effetto e nel contempo causa di una autoillusione individuale e collettiva. Una tale condotta risulta pertanto falsa anche perché impedisce la riflessione, e pertanto una definizione adeguata della situazione; viceversa, all’azione retta sembrano appartenere sia la riflessione sui suoi effetti, sia la comprensione del contesto in cui essa è collocata.
46In questo processo di rinnegamento è cruciale in primo luogo un modello relazionale, di percezione e di pensiero, che si potrebbe definire di dissolvenza dell’universale. «La mano diligente e premurosa che continua a curare e a coltivare il suo giardinetto come se non fosse diventato, da tempo, un “lot” anonimo e impersonale»65, non comprende che il destino del giardinetto è legato al destino del mondo che lo circonda. Il «privativo», in cui secondo Adorno è qui degenerato il «privato», si nutre della negazione del contesto (universale) nel quale è posto l’agire individuale (particolare).
47Che cosa c’è di sbagliato, però, nel curare e coltivare il proprio orticello? Certo la tesi di Adorno secondo cui vi sarebbe una connessione necessaria tra la cura del giardinetto e il rifiuto di offrire asilo è una esagerazione, tanto perfida quanto metodologicamente consapevole. Questa esagerazione rivela tuttavia una connessione interessante: chi si prende cura del giardinetto senza rendersi conto di ciò che gli accade intorno diventa «impenitente e malvagio» nella misura in cui non comprende, non coglie la propria situazione; il soggetto qui esercita nei confronti del rifugiato quel potere di intervento violento di cui invero non dispone rispetto al proprio progetto di vita («al cieco attaccamento al proprio interesse particolare si è aggiunta e mescolata la rabbia di non essere nemmeno più in grado di vedere e di capire»66). La cura del proprio, di per sé non biasimevole, in queste condizioni diventa l’altra faccia dell’esclusione dell’estraneo. E tanto meno è nostro quanto ci appartiene, tanto più questa esclusione è spietata. Il criterio di falsità di una tale condotta consiste pertanto nelle formazioni reattive (ancora una volta inadeguate) dello spostamento e della compensazione, che possono ritrovarsi per esempio anche là dove il tempo libero a disposizione è decodificabile quale «piacere sostitutivo» nei confronti di un lavoro alienante e senza senso, oppure là dove l’intimità del privato si configura quale formazione reattiva all’esclusione dalla dimensione pubblica. Qui, dunque, non sono false soltanto le condotte: sono false anche le alternative rispetto a cui si è costretti a reagire; in questi come in altri casi, l’indicatore della falsità è costituito dal carattere coercitivo con cui l’una segue all’altra.
48Allorché nelle «Tesi contro l’occultismo»67 il destino – tale per cui il «bisogno di trascendenza» e la necessità di spiegare il mondo si sono compiuti entro l’infrastruttura pratico-tecnologica moderna di un mondo strutturalmente secolare – è concepito quale «segno di una regressione della coscienza»68, viene appunto a entrare in gioco il motivo sociale e individuale della regressione. Richiamandosi alla tesi della razionalizzazione di Max Weber, ovvero alla «storia del progresso» delle religioni universali, l’occultismo moderno si rivela una ricaduta all’indietro rispetto al livello che era stato raggiunto con il passaggio che dal monoteismo aveva condotto alla secolarizzazione: «il monoteismo si dissolve in una specie di seconda mitologia», una mitologia che sarebbe «più falsa della prima»69. Se infatti la prima è in certo modo innocente e naïf, il misconoscimento motivato della «secondo mitologia» la rende invece colpevole: «Questa era stata, di volta in volta, il sedimento del livello conoscitivo delle sue varie epoche, ciascuna delle quali ci presenta una coscienza un po’ più libera dal cieco ingranaggio delle forze naturali di quanto non lo fosse nel periodo immediatamente precedente. L’altra, confusa e prevenuta, si disfa della conoscenza già acquisita di sé nel bel mezzo di una società che, tramite la diffusione capillare del dominio universale del rapporto di scambio, elimina proprio quella realtà elementare di cui gli occultisti pretendono di essere in possesso»70. Una tale immagine del mondo è regressiva in senso stretto, nella misura in cui riduce un dato livello di complessità – qui vengono richiamati dei motivi di filosofia della storia. Essa è inoltre criticabile anche perché opera in quanto «reazione, sfruttata razionalmente, alla società razionalizzata»71, come «fenomeno complementare alla reificazione»72. Questa figura, utilizzata da Adorno assai di frequente – e che talvolta mostra la sorprendente complementarità dei fenomeni –, attinge la propria forza persuasiva dal rimando a una forma determinata di contraddittorietà: una condotta, una immagine del mondo, una pratica si pone involontariamente al servizio proprio di quelle forze alle quali vorrebbe invece sottrarsi.
Inadeguatezza
49Possono del resto essere enumerati altri motivi e figure dei Minima Moralia, nonché altri criteri della critica dotati di una forza persuasiva più o meno convincente. Per quanto poi concerne ulteriori elementi fruibili ai fini del progetto di una critica delle forme di vita, e in relazione alla problematica sopra schizzata della sua «critica immanente», la mia tesi è articolabile nel modo seguente.
50Qui Adorno sta portando avanti la critica immanente fino ai suoi limiti, cioè fin dove è possibile, anche se mancano il «lieto fine» e il «superamento automatico» dialettico della negazione determinata di Hegel; una critica quindi dove le contraddizioni, le discrepanze e le controtendenze inseguite da Adorno non possono più essere ricomposte in una contraddizione che spinga verso il superamento. La discrepanza tra realtà sociale e possibilità («che le cose potrebbero andare anche diversamente e in modo migliore»73) resta una richiesta generale avanzata contro un mondo che nega una tale possibilità. E l’incapacità mostrata da alcune forme di vita nel relazionarsi alle loro proprie premesse, quale si palesa nelle diverse modalità della formazione reattiva, dello spostamento e della regressione, è il segno distintivo del loro fallimento. Persino questa discrepanza, tuttavia, non viene più risospinta nel rigido modello della «contraddizione» interna, là dove le grandi aspirazioni di una ragione carica sul piano della filosofia della storia sono ormai svanite. La mia ipotesi è che le relazioni conflittuali e le faglie individuate da Adorno possano essere meglio comprese quali prove di diverse forme di inadeguatezza. L’inadeguatezza non è difatti meno falsa, né invero meno cogente di una contraddizione.
51E anche dove l’adeguatezza può significare entrambe le cose, ovvero coerenza interna e corrispondenza, armonia e appropriatezza rispetto a una cosa e a un parametro obiettivo74, si tratta soprattutto di una prova del fatto che la forte pretesa avanzata da una critica immanente delle forme di vita non può rinunciare a una nuova ridefinizione di ciò che può essere la razionalità nella storia. E così, Adorno da un lato lascia il critico delle forme di vita nella condizione che egli (riferendosi alla questione del giudizio delle opere d’arte) descrive come quella del minatore che procede al buio: «che non vede dove va, ma al quale il tatto indica esattamente la conformazione dei cunicoli, la durezza degli ostacoli, i punti sdrucciolevoli e gli spigoli pericolosi, cosicché i suoi passi non si affidano mai al caso»75. Adorno congeda pertanto il critico, come fa con il minatore, senza però esimerlo dal compito di mostrare i criteri obiettivi della riuscita.
Notes de bas de page
1 «Ciò che oggi può forse essere ancora considerato come moralità, concerne la questione dell’ordinamento del mondo – si potrebbe dire: la questione della vita retta sarebbe la questione della politica retta, se una tale politica retta fosse a sua volta ancora nella condizione di poter essere realizzata» (Th.W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie [1963], a cura di Th. Schröder, in Id., Nachgelassene Schriften, a cura del Theodor W. Adorno Archiv, parte IV: Vorlesungen, vol. 10, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1996, p. 262).
2 Th.W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1951, Erste Auflage 1969, § 91, p. 182 [tr. it. di R. Solmi, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1994, § 91, p. 163].
3 Ivi, § 21, p. 46 [tr. it. Minima Moralia cit., § 21, p. 38].
4 Ivi, § 19, p. 42 [tr. it. Minima Moralia cit., § 19, p. 35].
5 Ivi, § 20, p. 44 [tr. it. Minima Moralia cit., § 20, p. 37].
6 Ivi, § 38, p. 73 [tr. it. Minima Moralia cit., § 38, p. 63].
7 A. Bernard, in Id. e U. Raulff (a cura di), Theodor W. Adorno «Minima Moralia» neu gelesen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2003, p. 8.
8 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., § 5, p. 21 [tr. it. Minima Moralia cit., § 5, p. 16].
9 Non a caso i Minima Moralia sono anche il diario di un esilio, la cui capacità di osservazione si giova del fatto che le forme di vita diventano evidenti in quanto forme di vita nel momento in cui sono estranee all’osservatore.
10 Rispetto ai concetti di «etica» e di «morale» Adorno utilizza comunque un lessico differente, al riguardo cfr. Th.W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie cit., pp. 23 sgg.
11 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., § 19, p. 42 [tr. it. Minima Moralia cit., § 19, p. 36].
12 Ivi, § 72, p. 140 [tr. it. Minima Moralia cit., § 72, p. 124].
13 Ciò non significa che esso operi ovunque allo stesso modo; qui non si deve seguire la tesi della totalità e omogeneità di Adorno.
14 G.W. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821), Hamburg, Felix Meiner, 2009-2011, § 238 Z. [tr. it. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1987, nuova ed. 1999, aggiunta al § 238, p. 354].
15 Mi riferisco qui al «liberalismo politico» in quanto posizione filosofica, quale la si trova, tra gli altri, nell’ampio contesto rappresentato dalle opere di John Rawls.
16 Sebbene non possa qui introdurre la questione, credo che questo emerga, dal punto di vista interno, dai dibattiti etici inerenti alle nuove tecnologie (genetiche), che poggiano su indicazioni e determinazioni riprese da posizioni fondamentali di tipo etico; dal punto di vista esterno, vi sono fenomeni quali il fondamentalismo, con i quali il mondo occidentale in quanto forma di vita si scontra. Ma anche ogni discussione sulla formazione, l’educazione e le infrastrutture culturali e sociali delle società moderne si scontrano con la circostanza per cui esse sono introdotte sempre e anche – perlomeno implicitamente – a partire da una prospettiva che ha dei lineamenti etici di fondo.
17 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., Zueignung, p. 7 [tr. it. Minima Moralia cit., p. 3].
18 A. Bernard, Theodor W. Adorno «Minima Moralia» neu gelesen cit., p. 17.
19 Cfr. A. Honneth, Über die Möglichkeiten einer erschließsenden Kritik. Die «Dialektik der Aufklärung» im Horizont gegenwärtiger Debatten über Sozialkritik, in Id., Das Andere der Gerechtigkeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2001 [tr. it. di R. Giovagnoli La “Dialettica dell’illuminismo” nell’ottica dei dibattiti attuali sulla critica sociale, “Paradigmi”, n. 48, 1998, pp. 501-514].
20 In tal senso la posizione di Adorno risulta nettamente contraria alla tendenza verso forme della critica di tipo ateorico, quale viene propugnata da autori molto diversi come Rorty e Walzer.
21 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., Zueignung, p. 7 [tr. it. Minima Moralia cit., p. 3].
22 J. Butler, Giving an Account of Oneself, New York, Fordham University Press, 2005, p. 8 [tr. it. di F. Rahola, Critica della violenza etica, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 17].
23 Cfr. Th.W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie cit., p. 261: «Perché nella seconda natura, nella condizione di dipendenza universale in cui versiamo, non c’è alcuna libertà; per questa ragione non c’è alcuna etica neanche nel mondo amministrato; e, pertanto, la premessa dell’etica è la critica del mondo amministrato».
24 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., Zueignung, p. 7 [tr. it. Minima Moralia cit., p. 3].
25 Ivi, § 18, p. 41 [tr. it. Minima Moralia cit., § 18, p. 34].
26 Questo significa che se non vi è direttamente «l’unità di rappresentazione e critica» di Marx, vi è però un deciso intreccio e una interconnessione reciproca tra analisi e critica. Ed è precisamente questa connessione che è stata nuovamente tralasciata da alcune delle correnti della filosofia politica contemporanea (o non vi è mai stata presente).
27 Th.W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie cit., p. 248.
28 Id., Minima Moralia cit., § 14, p. 34 [tr. it. Minima Moralia cit., § 14, p. 28].
29 Ibidem.
30 Ivi, § 16, p. 36 [tr. it. Minima Moralia cit., § 16, p. 30].
31 Th.W. Adorno, Radiorede über Max Horkheimer, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1997, vol. 20, p. 154. La considerazione citata si trova nel contesto di una spiegazione della correlazione tra filosofia e sociologia che muove a sua volta dal fatto che Horkheimer era professore di entrambe le materie presso l’Università di Francoforte.
32 In questo contesto non è irrilevante ricordare che Adorno concepisce i Minima Moralia come delle meditazioni non sulla, ma della vita offesa.
33 Su questo cfr. M. Seel, Adornos Philosophie der Kontemplation, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2004: «Fin dai suoi anni giovanili Adorno ha sempre rimarcato che libertà e felicità, morale e giustizia, e il bene individuale e sociale in generale, nelle condizioni attuali possono essere determinati soltanto in negativo. Sarebbero riconoscibili soltanto nello loro forme rovesciate. Questa tuttavia è una autoillusione eclatante. Per Adorno, infatti, l’etica ha un punto di partenza radicalmente positivo, e muove inoltre da esperienze radicalmente positive. Qui il motivo ripreso da Proust e Benjamin della pienezza temporale gioca un ruolo assai significativo».
34 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., Zueignung, pp. 7 sg. [tr. it. Minima Moralia cit., p. 4].
35 Th.W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie cit., p. 261.
36 Ciò vale precisamente in relazione al senso di piacere che Adorno conferisce alla felicità.
37 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., § 100, p. 206 [tr. it. Minima Moralia cit., § 100, p. 184].
38 Ivi, § 21, p. 46 [tr. it. Minima Moralia cit., § 21, p. 39].
39 Ivi, § 18 [tr. it. Minima Moralia cit., § 18].
40 Ivi, § 122, p. 255 [tr. it. Minima Moralia cit., § 122, p. 230].
41 C’è una peculiare ambivalenza in Sur l’eau: per un verso l’utopia del giacere sull’acqua designa un rinvio, una sorta di astinenza rispetto alle concrete utopie dell’attivista naturalista-barbuto. Per un altro verso – e questa è la linea interpretativa battuta anche da Martin Seel –, essa è una protesta e una controutopia rispetto all’ideale attivo dell’attivista: qui (contenutisticamente) l’idea del «poter-lasciar-essere» si contrappone alla realizzazione attiva di tutte le possibilità umane. Io tuttavia ritengo che questo «lasciar-essere» debba essere inteso soprattutto nei termini di un «lasciare-aperto».
42 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., § 151, p. 321 [tr. it. Minima Moralia cit., § 151, p. 291].
43 Ivi, § 4, p. 20 [tr. it. Minima Moralia cit., § 4, p. 16].
44 Ivi, § 5, p. 21 [tr. it. Minima Moralia cit., § 5, p. 17].
45 Ivi, § 19, p. 43 [tr. it. Minima Moralia cit., § 19, p. 36].
46 Ivi, § 88, p. 176 [tr. it. Minima Moralia cit., § 88, p. 157].
47 Anche dove Adorno dice che il matrimonio rappresenterebbe «una possibilità di formare nuclei umani nell’universale inumano», ciò non avviene rinunciando e in modo indipendente dall’universale, ma al contrario includendolo e riferendosi a esso; cfr. Adorno, Minima Moralia cit., § 11, p. 30 [tr. it. Minima Moralia cit., § 11, p. 24 sg.].
48 Ivi, § 99, p. 203 [tr. it. Minima Moralia cit., § 99, p. 181].
49 Ivi, § 97, p. 197 [tr. it. Minima Moralia cit., § 97, p. 176].
50 Ivi, § 16, p. 39 [tr. it. Minima Moralia cit., § 16, p. 32].
51 Bisognerebbe qui ricordare ancora una volta che Adorno pensa in modo unitario il cattivo e il falso, e pone come unità la vita non vera e cattiva. Su questo cfr. M. Theunissen, Negativität bei Adorno, in L.v. Friedeburg e J. Habermas (a cura di), Adorno-Konferenz 1983, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1999: «Del resto il tema di Adorno è la negatività ontica di ciò-che-non-dovrebbe-essere, del cattivo, che egli può affrontare appunto soltanto in quanto falso perché ha un concetto di non-verità che rimanda a una realtà cattiva».
52 Su questo cfr. M. Theunissen, Negativität bei Adorno cit.
53 Cfr. U.J. Wenzel, Negativistische Ethik?, in M. Hattstein et al. (a cura di), Erfahrungen der Negativität: Festschrift für Michael Theunissen zum 60. Geburtstag, Hildesheim, Olms, 1992, p. 358.
54 Ne consegue che proprio la circostanza a cui si richiama Martin Seel, secondo cui Adorno si sarebbe ispirato a delle immagini di appagamento tratte dall’infanzia, non può appunto rappresentare un indizio della autocontraddittorietà del suo negativismo. Non per nulla, le immagini oniriche dell’infanzia, le fantasie, i fantasmi e i desideri infantili che qui predominano, oppure i momenti di felicità trascorsa, sono ciò che deve esser colto nella sua inattualità.
55 In tal senso si muove per esempio Martha Nussbaum.
56 Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., § 21, p. 46 [tr. it. Minima Moralia cit., § 21, p. 39].
57 Su questo Cfr. M. Theunissen, Negativität bei Adorno cit., p. 50: «Se però il negativo è il tutto solo in quanto è il dominante, la sua universalità non significa in alcun modo che non si dia niente di positivo. Essa significa soltanto che nel mondo esistente il negativo oscura tutto il resto. Il negativo può essere riconosciuto dall’interno, poiché il positivo è racchiuso segretamente in esso».
58 Th.W. Adorno, Radiorede über Max Horkheimer cit., p. 154.
59 Th.W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie cit., p. 10: «Ora vorrei dire che la ragione principale per cui oggi il tema della filosofia morale è diventato così problematico è data dal fatto che la sostanzialità dei costumi, quindi la possibilità di una vita retta nelle forme in cui la comunità esiste, che sarebbe già costituita e presente, si è svuotata radicalmente, non c’è più, al momento attuale cioè non ci si può contare in alcuna forma».
60 Ivi, § 151 [tr. it. Minima Moralia cit., § 151].
61 Ivi, § 151, p. 325 sg. [tr. it. Minima Moralia cit., § 151, p. 296].
62 R. Bubner, Adornos Negative Dialektik, in L.v. Friedeburg e J. Habermas (a cura di), Adorno-Konferenz 1983 cit., p. 38.
63 Cfr. Th.W. Adorno, Minima Moralia cit., § 14 [tr. it. Minima Moralia cit., § 14].
64 Ivi, § 14, p. 35 [tr. it. Minima Moralia cit., § 14, p. 29].
65 Ivi, § 14, p. 34 [tr. it. Minima Moralia cit., § 14, p. 29].
66 Ivi, § 14, p. 34 [tr. it. Minima Moralia cit., § 14, pp. 28 sg.].
67 Ivi, § 151 [tr. it. Minima Moralia cit., § 151].
68 Ivi, § 151, p. 321 [tr. it. Minima Moralia cit., § 151, p. 291].
69 Ivi, § 151, pp. 321-322 [tr. it. Minima Moralia cit., § 151, pp. 291-292].
70 Ivi, § 151, p. 322 [tr. it. Minima Moralia cit., § 151, p. 292].
71 Ibidem.
72 Ivi, § 151, p. 323 [tr. it. Minima Moralia cit., § 151, p. 293].
73 Ivi, § 14, p. 34 [tr. it. Minima Moralia cit., § 14, pp. 29 sg.].
74 Su questo vedi il volume collettaneo a cura di B. Merker, L. Siep e G. Mohr, Angemessenheit, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1998.
75 Th.W. Adorno, Ohne Leitbild, in Id., Gesammelte Schriften cit., vol. 10, p. 298 [tr. it. di E. Franchetti, Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 13].

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