4. Le sociologhe si inventano il femminismo
p. 96-125
Texte intégral
1. A scuola di rivolta: le studentesse arrivano a Trento
1Proprio come per il ’68, anche per capire come Trento diventi uno dei primi centri propulsori del femminismo italiano è indispensabile evitare forzate linearità cronologiche, che fanno entrare in scena il movimento delle donne nel 1969 quasi per un esito naturale della fase calante del movimento studentesco. In altre parole, anche in questo caso è necessario fare un passo indietro, riannodando i fili del prima: prima che il femminismo nasca, in quel tempo liminale, sospeso tra non più e non ancora, che costruisce le premesse per quello che verrà:
Vengo da Sondrio, da una famiglia numerosa, otto figli. Ho vissuto a Sondrio dagli otto anni fino a quando sono andata a Trento. Prima, fino agli otto anni, sono vissuta in un paesino di montagna insieme alla mia famiglia […]. Mio papà è un negoziante… cioè, le loro origini sono contadine – proprio di montagna, poveri – però il papà è andato molto presto a Roma, a quattordici anni, a fare il commesso di negozio. Da lì ha imparato a fare il negoziante, poi è anche stato uno che ha avuto un discreto successo ed è riuscito a portare avanti questa grossa famiglia. La mamma quando vivevamo al paese era mezza contadina, come si usa lì, ma non contadina vera e propria perché faceva la sarta. Poi quando ci siamo trasferiti con tutta la famiglia a Sondrio entrambi lavoravano in negozio, un negozio storico che c’è ancora adesso. (Silvia Motta)
Io arrivo da Trieste… Famiglia abbastanza modesta, nel senso che mio padre era quello che guidava l’Atm [il tram] e mia madre faceva la casalinga. Le origini: mia madre istriana e famiglia di contadini, mio padre di una ricca famiglia di Rimini, ma parente povero perché orfano. In tenera età è allevato dai parenti ricchi, ma è rimasto povero e quindi se n’è andato. Una storia, sai, come succedeva nei primi del ’900, andati via da casa a sedici anni e quelle robe lì. (Luisa Abbà)
Il mio babbo faceva il calcerolo: era un manovale specializzato che faceva la calce. Mia madre invece ha sempre lavorato nel turismo come cameriera, poi come cuoca e come barista, perché a Rimini quelle erano un po’ cose che facevano tutti. (Giovanna Pompili)
2Le storie familiari testimoniano l’inedita apertura di classe del neonato Istituto di scienze sociali, a cui, come abbiamo visto, si può accedere anche con diplomi non liceali. Le intervistate hanno origini per lo più piccolo-borghesi, oppure, più raramente, proletarie e le loro storie sono un affresco dell’Italia del dopoguerra: uscita da condizioni di semi-povertà e avvio di una moderata ascesa sociale, transizione tra civiltà contadina e piccola borghesia inurbata, rami ricchi e rami poveri di famiglie scomposte e ricomposte, l’impiego nel settore turistico dell’Italia delle prime villeggiature…
3Si tratta della «prima generazione» (Socrate 2018) di femministe, quella delle fondatrici, giunte a Trento durante i primi anni di vita dell’istituto. Un periodo contraddittorio, in cui agli accenni di modernizzazione del costume si accompagnano permanenze di tradizionalismo.
4Sebbene ancora nell’orizzonte di un emancipazionismo in cui le donne «dovevano migliorare, non esprimersi» (Piccone Stella 1993, p. 132), cominciano ad aprirsi nuove possibilità e prospettive, a patto d’esser capaci di immaginazione e abilità strategica:
Lì [in Gioventù Studentesca] avevo conosciuto Paolo Padova, che è un altro compagno di Trento che poi è stato lì a Trento tutti gli anni del movimento, […] e lui in una vacanza di questo gruppo mi ha detto che esisteva una facoltà, a Trento, di Sociologia. […] Allora ho subito scritto all’istituto di mandarmi la documentazione, ma questo già in quarta ragioneria. Ho subito fatto l’abbonamento a una rivista che si usava molto allora nell’ambito sociologico e appena finita ragioneria sono venuta a fare Sociologia. I miei in questo senso non hanno mai fatto nessuna obiezione o discriminazione su chi studiava o non studiava in famiglia, io sono l’unica laureata per dire… gli andava benissimo. (Silvia Motta)
Io sono arrivata da Milano avendo fatto un anno di Medicina che mi aveva assolutamente sconvolto per la stupidità e la noia soprattutto dei compagni, ma anche il fatto che non ci fossero strumenti: c’era un unico microscopio per duecento persone iscritte, quindi veramente una cosa tragica… […] L’altra ragione sicuramente abbastanza importante era che volevo venire via da Milano e ho preso l’unica facoltà che non c’era a Milano: Sociologia di Trento. Anche perché i rapporti con mio padre erano abbastanza tesi. (Elena Medi)
5Colpisce, nelle interviste raccolte, la determinazione, la capacità di pianificazione con cui queste ragazze ancora così giovani imparano ad aggirare ostacoli e divieti, insistendo nella progettazione di un corso di vita alternativo. Le amicizie e gli incontri nei gruppi di pari in questa fase servono ad accendere la fantasia. Spesso avvengono nell’ambito del cattolicesimo democratico, bacino formativo per tante/i delle/gli studenti di Sociologia. Le famiglie sono in trasformazione e hanno un ruolo ambivalente: da una parte, investono ambizioni e risorse nei percorsi di studio delle figlie e, dall’altra, temono la perdita del controllo. Non di rado in questo processo di negoziazione di spazi vi sono tensioni, in special modo con i padri (Passerini 1988; Bravo 2008; Socrate 2018).
[…] Chi all’epoca aveva la media dell’8 aveva diritto, in automatico, al presalario. Era una cosa importantissima per gente che… mio padre faceva il muratore e prendeva degli stipendi da fame, [se] mantenevi una media alta ed eri in regola con gli esami loro ti davano ogni anno 500.000 lire. Però, se tu tieni presente che all’epoca un pasto all’università costava 350 lire e io sono stata alle Dame di Sion [lo studentato femminile di Trento] che costava 8.000 lire al mese, non proprio ci campavi, però ci potevi fare i conti molto bene, se non pagavi anche le tasse. (Giovanna Pompili)
6Giunte da tanti e diversi luoghi d’Italia – dai grandi centri e dalla provincia, dal Nord al Sud – le studentesse del neonato Istituto superiore di scienze sociali hanno in comune una nuova, fondamentale esperienza: la libertà, in primo luogo economica. Entro il rigido sistema di controllo sociale dell’Italia di allora, la possibilità di trasferirsi in un’altra città, studiare, essere autonome grazie al presalario1 costituisce una possibilità nuova ed entusiasmante. Il percorso universitario sancisce la tanto agognata uscita dalle maglie del controllo familiare e apre alla possibilità di sperimentare il mondo e se stesse più liberamente.
7Comincia in quel periodo un intenso confronto tra pari, non solo tra ragazzi e ragazze, ma anche al femminile, che a Trento avrà un ruolo importante nel cementare rapporti di conoscenza e fiducia reciproca tra donne (Passerini 1991; Bellè 2019a, b):
Con tante che diventeranno poi parte del femminismo eravamo tutte in collegio, siamo arrivate insieme. Arrivò una torinese che disse “Sono andata a casa e ho scoperto che mia sorella più piccola non sa cos’è l’utero”. Allora aveva comprato questo libro – non c’era quasi niente sul sesso – che si chiamava Il matrimonio moderno. Era un olandese che era molto esplicito e abbiamo cominciato a fare delle letture collettive nelle camere delle suore! […] Non so, eravamo una decina, appollaiate sui letti e facevamo queste letture collettive di autoformazione. (Leslie Leonelli)
8Il contesto della piccola città, la condivisione di aspetti quotidiani di vita nell’ambiente “protetto” dello studentato femminile, le letture e gli stimoli intellettuali (l’antropologia, Simone de Beauvoir, i nuovi manuali sul sesso), sia interni al percorso universitario, sia esterni ad esso, sono gli elementi che caratterizzano questa prima fase, prepolitica ma preparatoria al successivo percorso femminista (Bellè 2019a, b). La soggettività individuale, attraverso il racconto, la condivisione, la riflessione, si fa progressivamente collettiva e ha in sé già diversi tratti che saranno poi peculiari della pratica femminista, soprattutto iniziale: il piccolo gruppo, la presa di parola a turno, la messa in comune delle esperienze. Si tratta di un passaggio cruciale, tanto più se si considera che:
[l]’elemento di maggiore differenziazione fra maschi e femmine tuttavia era dovuto al fatto che la rete di protezione indispensabile per la praticabilità del conflitto giovani-adulti – l’esistenza di un gruppo di coetanei garante e solidale – si parava con un volto assai meno rassicurante per le donne, che non disponevano ancora di strutture di supporto autonome nel loro sesso. […] In effetti in tutte le forme di aggregazione e di incontro con i giovani della loro età, le donne si trovavano allora particolarmente esposte al confronto con un sesso più potente, mentre il proprio era ancora assai poco garante e sicuro come entità collettiva. (Piccone Stella 1993, pp. 125-126)
9In questo processo di scoperta e riappropriazione di sé la sessualità riveste un ruolo di rilievo, proprio perché oggetto di tabù e forme di controllo rigide. Una prima rottura del silenzio di portata radicale, se si considera che in quegli anni i giovani, e soprattutto le giovani, venivano ancora programmaticamente tenute/i all’oscuro di tutto ciò che riguardava il corpo e il piacere (Giachetti 2005).
10D’altra parte, i limiti di questa nuova libertà sono diversi per le ragazze, per le quali la morsa del controllo è allentata, ma di certo non sciolta:
Quando sono arrivata a Trento sono andata al collegio femminile. Noi avevamo il rientro alle 22.30 ma le suore dissero “Ah, no, è troppo tardi!”. E queste suore pigliano e scrivono ai nostri genitori dicendo “Ma voi date il permesso a vostra figlia di uscire fino alle 22.30 o fino alle 20.30-21.00?”. E così avevano messo un limite di rientro più basso. Noi del primo anno eravamo incazzatissime e stavamo mugugnando quando quelle dell’ultimo anno – che erano più agguerrite – hanno detto “Noi accettiamo questa storia qui? Ma col cavolo! Adesso andiamo tutte giù alla segreteria e protestiamo”. Loro ci hanno insegnato la rivolta, a non accettare l’esistente e che uniti si vince. È stata una lezione indimenticabile e io sono molto, molto grata. (Leslie Leonelli)
11Sono proprio le suore, in un cortocircuito tra percorsi di femminilità contrapposti, a farsi custodi della norma. Di fronte alla riproposizione della dinamica di controllo e divieto, che le ragazze ben conoscono sin dall’adolescenza (Piccone Stella 1993; Socrate 2018), non è più il tempo della mediazione, né del fronteggiamento individuale. E dunque la lotta per l’orario di rientro, così minuta eppure così autentica nel suo quotidiano rimarcare una perdurante minorità, rimane un punto fermo nei ricordi ed è rievocata con gratitudine per “le più grandi” e la loro “lezione di rivolta”.
2. Il ’68 delle donne, tra appartenenze e fratture
Silvia Motta Io ero molto militante nel movimento, quindi militavo, come si suol dire.
Luisa Abbà Ecco, io ero leggermente meno militante.
Luisa Abbà Tutte e tre abbiamo fatto parte del movimento, abitavamo insieme, ma con gradi differenti.
Elena Medi Ma non c’era nessuno che… cioè, io non conosco nessuno che venisse all’Università come noi – da fuori, eccetera – e che non fosse nel movimento. Io mi ricordo che di militanza nel movimento degli studenti ne ho fatta tanta! Le occupazioni…
Luisa Abbà Altroché! Anche io ho dormito 67 giorni per terra.
Silvia Motta Le occupazioni, il volantinaggio, c’è stato tutto il Vietnam…
Elena Medi Ma era il tuo atteggiamento che non aderiva fino in fondo.
Luisa Abbà Che non aderiva fino in fondo, però io ho dormito 67 giorni per terra. Adesso, proprio 67 no, perché gli ultimi sono stata a casa, però forse ero meno…
Silvia Motta Il movimento l’abbiamo fatto tutto, quello delle occupazioni. […] Poi la militanza consisteva anche nel fare, oltre le assemblee, tante riunioni non di assemblea ma di meno persone.
12Le studentesse raccontano di una partecipazione generalizzata al movimento («non conosco nessuno che non fosse nel movimento»), ma al contempo diversificata per intensità. C’è chi è pienamente parte dei processi politici più interni (le riunioni ristrette, i volantinaggi davanti alle fabbriche) e chi invece sceglie una misura più distaccata, anche nelle esperienze più totalizzanti, come la lunghissima occupazione del ’68 («anch’io ho dormito 67 giorni per terra!»).
Ai cortei, abbiamo vissuto tutto, tutte le manifestazioni, sia quelle operaie, sia quelle studentesche. […] eravamo amici, un bel ricordo, ma a Sociologia non si entrava: non era il nostro mondo, non era il nostro ambiente. […] Perché poi avevamo la nostra vita, mia sorella e io. […] Con tutti i nostri conflitti, anche. Perché magari loro erano un po’ meno controllati: noi avevamo un vento di libertà, ma eravamo meno dentro la cosa. […] Perché poi mia sorella ed io lavoravamo, anche. Quindi avevamo tutta una vita strutturata, personale, con i nostri interessi: il nostro corso di inglese, andavamo alla Filarmonica al concerto, le nostre amicizie. E poi questo era parte della nostra vita, il nostro lavoro. Il nostro punto di partenza è stato il nostro posto di lavoro. (Pia Bruni)
13Interessante è poi lo sguardo di chi, come Pia e sua sorella Cina Bruni, è di Trento, non frequenta l’università («non era il nostro mondo»), ma partecipa a tutti i momenti pubblici della contestazione, studentesca e operaia. Ciò a dimostrazione di un ’68 che, al di là delle narrazioni un po’ “turistiche”, non è solamente enclave studentesca radicale, ma anche cambiamento mediato, e dunque profondo, della società locale. Una partecipazione particolarmente interessante proprio perché liminale: l’esser dentro al vento di rivolta, conservando però l’appartenenza a un proprio, diverso mondo (le amicizie, la vita culturale cittadina, il lavoro, soprattutto), prossimo ma esterno alla totalizzante comunità studentesca.
14Comincia a delinearsi in questo periodo una delle ambivalenze strutturali del ’68 delle donne, che genererà la prima scintilla femminista: l’eterno ritorno della dicotomia pubblico-maschile/privato-femminile. Le donne sono parte integrante di questa nuova stagione di protagonismo, tuttavia la loro presenza, non problematizzata dentro a un movimento fusionale e convinto d’essere egualitario, rappresenta una rottura forse più radicale e profonda di quella operata dal movimento stesso: l’irruzione femminile sulla scena pubblica, in modalità e quantità impensabili sino a pochi anni prima. Un destabilizzante attacco all’ordine di genere, benché ancora non intenzionale, che incorre, inevitabilmente, nel sanzionamento:
Occupare un’università comporta […] anche dei pericoli. Di non essere compresi, anzitutto, di essere fraintesi, poi, di suscitare infine nell’opinione pubblica reazioni sproporzionate alla realtà dei fatti. È il caso delle studentesse che, in un certo numero, partecipano attivamente alla occupazione. Il fatto che esse dividano il desco con i loro colleghi e, orrore, passino la notte all’interno dell’istituto, ha fatto storcere il naso a più di una persona. Nessuno, direttamente, ha mosso critiche, ma le voci, e ciò è peggio, sono giunte ugualmente, di seconda mano. Ad esse, […] le studentesse occupanti la facoltà rispondono in questi termini “Le studentesse della facoltà di sociologia di Trento per evitare eventuali, facili illazioni sulla loro attiva e completa partecipazione all’occupazione della facoltà, già sufficientemente motivata, riaffermano il loro pieno diritto ad aderire a quanto promosso dal movimento studentesco”. ( “Alto Adige”, giovedì 27 gennaio 1966)2
Col mondo senz’altro [c’erano dei conflitti]. Senz’altro, sia parentali che di gente. Eravamo additate [lei e la sorella Cina], tanto che a mia madre dicevano: “Ah, lei, signora, ha ben da fare, con quelle figlie che ha”, però mia madre era pronta a rispondere: “Cos’ha da dire delle mie figlie? A me vanno benissimo”. E proprio era molto categorica, tenendo conto che avevamo anche vicino, però, degli zii che erano proprio comunisti. Avevano un’attività commerciale in via Suffragio [poco lontano dal bar pasticceria di famiglia] ed erano anche comunisti. Perché la famiglia di mia mamma, a differenza di quella di mio padre, era di tendenze socialiste. Già mio nonno, il padre di mia madre, era socialista. (Pia Bruni)
15L’estratto dal quotidiano locale “Alto Adige”, pur di orientamento progressista, e la testimonianza di Pia si echeggiano l’un l’altra, presentando due declinazioni diverse delle stesse resistenze socioculturali. Da un lato, la partecipazione delle studentesse alla prima occupazione della facoltà desta scandalo nella parte più conservatrice dell’opinione pubblica, in particolare per via della promiscuità che porta con sé, implicito riferimento al più grande degli spettri: una sessualità femminile svincolata dal controllo istituzionale e sociale del matrimonio. D’altro canto, la riprovazione sociale non si rivolge solo alla comunità studentesca, percepita come esterna, ma è anche interna al contesto cittadino. Si appunta infatti anche su due ragazze del ’68, ma trentine, e dunque soggette a un controllo sociale e familiare più diretto, che le studentesse lontane da casa non devono più subire. Molto interessante è anche il passaggio, in controtendenza rispetto a un clima improntato al forte conflitto intergenerazionale, sulla madre solidale, proveniente da una famiglia di tradizione socialista della val di Non, dunque avvezza a tenere una posizione di non conformità nel contesto del Trentino di allora. Infine, è importante tenere presente come questa lotta per una piena partecipazione si giochi non solo nei momenti politici pubblici del movimento, ma anche (forse soprattutto?) nelle interazioni sociali minute, quotidiane. Per esempio nei rapporti di vicinato, con il negozio poco distante, dove c’è il ramo comunista della famiglia a fare da scudo.
Fig. 1

Due foto tratte dall’articolo del quotidiano locale “Alto Adige” sulla prima occupazione, 27 gennaio 1966. Significativa la rappresentazione che appiattisce, anche iconograficamente, ragazze e ragazzi in ruoli stereotipati, le prime associate alla cura e al retroscena, i secondi a una guerresca ribalta.
Poi i primi del ’68 c’erano gli annunci della perdita di verginità, una passa per le scale e fa “Sai, prendo la pillola”. Come dire: lo sto facendo. Perché comunque era una conquista. Sai, eravamo tutte figlie di Maria lì. (Leslie Leonelli)
E soprattutto io all’università ho incontrato Nome e Cognome – lei era al quarto anno – con cui legammo subito, per cui cominciammo tutta una serie di giri e avventure, nel senso che facevamo l’autostop. Andavamo in autostop a trovare i suoi e poi tornavamo per un weekend. […] si viaggiava sempre in autostop, all’epoca: abbiamo fatto in un anno tipo 15.000 km. C’erano dei giorni in cui né lei andava a *** [città d’origine], né io andavo a Rimini; ci mettevamo davanti al casello dell’autostrada e il primo che passava noi salivamo. Se andava a Venezia andavamo a Venezia, se andava a Bari andavamo a Bari. Erano altri anni, ovviamente. (Giovanna Pompili)
16Nonostante le resistenze e i tentativi di restaurazione, la fuga in avanti di queste giovani donne non conosce ripensamenti, anzi, accelera, sulla spinta di anni convulsi e pienissimi. I due ultimi stralci sanciscono l’irrevocabilità della rottura, chiamando in causa due dimensioni cruciali, in quanto storicamente precluse alle donne: la libera sessualità e il viaggio. La sessualità come “annuncio” e passaggio, fine del giogo della verginità. Il viaggio in autostop, che induce al mescolamento sociale, fuori dai circuiti monetari («erano altri anni, ovviamente»). Entrambe questioni potenti e poliedriche, tanto profondamente interiori, quanto cifra pubblica di un avvenuto cambiamento, che frantuma proibizioni secolari, proiettando una vita finalmente padrona di sé nelle relazioni e nel mondo. Finisce così, precipitosamente, il tempo degli orari di rientro.
2.1. «C’era una che era più forte di tutte, era l’unica che parlava»: eros, massa e potere
17In linea con i tratti generali del movimento, anche il ’68 trentino abolisce definitivamente i tradizionali canali di rappresentanza, in favore di forme radicali di democrazia diretta. Lo spazio pubblico, simbolico e, per dirla con Goffman (1959), drammaturgico dell’assemblea, nuova Comune, è senz’altro il fulcro della vita politica, il luogo dove tutto inizia e, catarticamente, finisce. Come per ogni fase di sperimentazione, anche in questo caso si pongono problemi legati all’inventarsi metodi di costruzione del consenso che non passino più attraverso la delega. Una questione tutt’altro che banale, soprattutto se si considera il contesto italiano, in cui la dittatura fascista aveva spogliato il tessuto sociale di corpi intermedi e possibilità di autoorganizzazione.
18La democrazia diretta è quindi un’arena di totale sperimentazione, dove cade il monopolio della presa di parola di dirigenti politici e intellettuali – Rossanda ricorda un’assemblea parigina dove Sartre si mette in coda per parlare (Bravo 2008) – in favore di una visione egualitaria, antigerarchica, critica delle tradizionali forme democratiche in cui vincono ruoli, procedure, formalizzazioni. In questo non voler più stare al proprio posto vi sono però ambiguità e rischi (Passerini 1991): la fusionalità assembleare non esclude infatti dinamiche decisionali opache, elitarie. Soprattutto, è problematica la questione della leadership, citata non solo dalle donne, ma largamente condivisa3. Il contesto dell’assemblea fotografa e riproduce le gerarchie interne, consacrando il gruppo dei “leader”, che a loro volta incarnano uno specifico tipo di mascolinità egemonica (Connell, Messerschmidt 2005), quella dell’eroe rivoluzionario (anche se vi sono repertori di leadership meno canonici)4. Ad essa si lega un altro paradosso dell’assemblearismo, dato dalla fusione fra politica e amicizia, giacché «la coesione amicale è uno dei meccanismi attraverso i quali un gruppo si trasforma, volontariamente o no, in una élite politica» (Bravo 2008, p. 94). La questione dei leader e del loro circolo di amici più stretti non è peraltro caratteristica esclusiva di Trento, ma accomuna diversi contesti (Passerini 1988).
19Le interviste, è importante sottolinearlo, non scaricano sulla figura del leader carismatico, Mauro Rostagno (peraltro ricordata con stima e affetto profondi), una responsabilità unilaterale. La centralità dei leader, così paradossale se guardata alla luce dell’antiautoritarismo, non si può comprendere se non si tiene conto dell’intensità e sperimentalità di quella fase, in cui la politica è investita da una domanda di radicalità e adesione esistenziale profonda. Un’eccedenza veicolata e in certa misura depositata su singole figure carismatiche, capaci di stare in rapporto di osmosi simil erotica con il movimento, dando a questo “tutto e troppo” non solo le parole, ma anche corpo e voce (sulla dimensione erotica della leadership nel ’68 si vedano le illuminanti considerazioni di Passerini 1988).
20Nonostante gli afflati antiautoritari e l’irrisione verso ruoli imposti, qualcosa di profondamente gerarchico continua a riproporsi tra uomini e donne, nel segno della ripetizione.
Le donne niente, non si muovevano. Che strano, mi dicevo io, eppure le vedevo in gamba! C’era l’Elena Medi che era l’unica mosca bianca, perché lei era arrivata da un collegio: le borghesi sapevano parlare, avevano letto Marx, Engels e tutti questi qua. E comunque quando iniziava a parlare tutti urlavano “Elena, finirai come Giovanna D’Arco, finirai sul rogo!” e la fermavano. Porca miseria. Io ho detto “No, questa cosa non funziona”. (Lara Foletti)
Per esempio c’era l’unica che parlava nelle assemblee perché guarda, te lo devo rifare: le donne che parlavano in quell’epoca lì dicevano “Scusate compagni, sono molto emozionata” ma per fortuna adesso non lo fa più nessuna. Era terribile, guarda! C’era una che era più forte di tutte, che si chiamava Elena Medi… Lei era l’unica che parlava. E lo sai cosa le canticchiavano, per gioco? “Elena Medi, finirai bruciata sul rogo!”. Per giocare, però era brutto come gioco, se ci pensi adesso. […] A me girava il culo, capito? Ad un certo punto mi dico “Ma che cavolo sto a fare qua?”. (Leslie Leonelli)
21In linea con quanto già visto per altri contesti, lontani ma vicini, come ad esempio gli Stati Uniti (Passerini 1991), i tentativi di spezzare il monopolio maschile della presa di parola vengono messi in atto da poche ragazze, in possesso di capitale simbolico e culturale compensatorio rispetto all’infrazione commessa. Gli sconfinamenti di queste eccezioni vengono puntualmente sanzionati, attivando dinamiche di gruppo tese a ristabilire l’ordine di genere “appropriato”.
22Il ricompattamento della gerarchia di genere non si alimenta solo delle dinamiche assembleari, ma anche della ripartizione di ruoli e compiti legati al lavoro riproduttivo. I racconti restituiscono una netta divisione di genere del lavoro politico, che vede le ragazze confinate in ruoli ancillari, di retroscena, ma al contempo fondamentali per la gestione delle tante esigenze quotidiane del movimento.
C’è stato il terremoto del Belice, giù in Sicilia, e allora riunione, tutti in facoltà: bisogna andare ad aiutare questi del Belice. Cominciamo a parlare: “Facciamo questo, quello, andiamo a raccogliere i viveri, i soldi, di qua e di là” e poi dicono “Allora, chi è che va?”, alzano la mano un po’ di persone e alzo la mano anche io, ma quelli dicono “No, le donne no”. Solo una, perché era siciliana. E io, che ero incerta, ho detto “A me no?! Col cazzo!” e ho trovato un altro amico che era di Roma e siamo venuti giù con l’autostop. (Leslie Leonelli)
Elena Medi […] Però io questo volevo dire: che forse anche importante è stato intanto il riconoscere: che due palle ’sti movimenti! Cioè, tutto il lavoro era sulle nostre spalle: anche nelle occupazioni eravamo noi che facevamo, eravamo noi che procuravamo da mangiare…
23Un altro motivo di rottura profonda, che torna al politico passando dal personale, chiama in causa, nuovamente, la sessualità:
E poi facevano una cosa che a me disturbava tanto: i leader si dividevano le ragazze più carine per portarsele a letto. Io mi ricordo al bar Duomo che dicevano “Tu chi ti porti a letto stasera? Tu ti porti la, tu ti porti quella…”. Loro ci tenevano – le ragazze – perché andare col capo era un onore, andare con chi comandava era un onore… (Lara Foletti)
[…] poi il senso di adorazione verso il capo che doveva essere quasi assoluta. Ma non è che il capo lo pretendesse, era proprio un portato spontaneo del gruppo. […] Le vergini si immolavano, dicevano “Voglio perdere la verginità con te”, capito? Questo purtroppo è un meccanismo… Avevo un’amica carissima che non era coinvolta nel femminismo però è andata lì e ha detto “Sì, facciamo l’amore, io sono vergine” e lui disse “No, io questa responsabilità non me la prendo!” e ha passato una notte ad accarezzarla senza fare niente. (Leslie Leonelli)
24La questione, assai contraddittoria, del libero amore e dei suoi malintesi sensi ricorre con straordinaria consonanza in quasi tutte le testimonianze raccolte, come un elemento critico, foriero di conflitti profondi, tanto interiori, quanto con “i compagni”. Una questione che, come vedremo, si articolerà lungo tutto il corso del decennio successivo, rappresentando uno dei più interessanti nodi di ambivalenza di quella fase politica. L’osmosi tra leader e movimento si gioca anche sul versante dell’intimità, a riprova della densità totalizzante delle relazioni. Una dinamica certamente dominata dagli uomini, dentro alla quale però le donne sono coinvolte e chiamate in causa, anche e non secondariamente in termini di complicità con le forme del dominio maschile. Una complicità messa a fuoco progressivamente, a cui è necessario sottrarsi.
Poi eravamo scottate, perché due che erano di *** e che erano liberissime sono rimaste tutte e due incinte prematuramente e si sono fottute per molto tempo. Perché una è finita che il tizio che ha conosciuto nel ’68 – lei è rimasta proprio incinta durante l’occupazione – lui era di *** e lei di ***, è andata a finire a *** [città di lui], in una casa che non era la sua, che non conosceva, un’altra cultura, poi lei era anche di lingua non italiana […]. E l’altra anche: si è messa a fare figli e poi non si è più laureata, la seconda. Quindi noi abbiamo detto “Regà, bisogna stare attenti! Sì, facciamo sesso, però protetto” e quindi è stata tutta un’evoluzione, in questo senso. (Leslie Leonelli)
25Le vecchie forme di dominio, dissolvendosi, lasciando aperte contraddizioni e differenziali di potere. La critica alla famiglia e alla sessualità borghese come istituzioni repressive, avanzata grazie alla ricezione di autori freudo-marxisti come Reich e Marcuse, rimane sul piano, molto teorico, della palingenesi rivoluzionaria (Balestracci 2019), ma non scende nel concreto dei rapporti interpersonali, né della vita quotidiana. Una distanza tra teoria e pratica che interroga la linea di confine, insieme politica e di educazione sentimentale, tra pubblico e privato, che di lì a poco le ragazze del ’68 trentino faranno saltare in aria, ponendo le premesse per un’altra rivoluzione.
3. La nascita del soggetto politico autonomo: il Cerchio spezzato
3.1. La coscienza di sfruttata
26Se il malessere serpeggia, non si è però ancora fatto discorso collettivo. Nel 1969, si costituisce un gruppo di studio composto da quattro ragazze, Luisa Abbà, Gabriella Ferri5, Elena Medi, Silvia Motta, e da un ragazzo, Piergiorgio Lazzaretto6. L’idea di una tesi di collettiva nasce dai frequenti scambi e dalla stretta amicizia, poiché il gruppo condivide un appartamento in centro città (in cui vivono altre due studentesse, che però non faranno parte del progetto di tesi). Si è infatti inaugurata la fase delle comuni, prime sperimentazioni di un abitare politico, che iniziano a moltiplicarsi in città e che avranno poi lunga vita in tutta la provincia. L’idea iniziale è ancora distante dall’approccio femminista.
Luisa Abbà Siamo inciampate in Arrighi perché volevamo fare una tesi sulle donne, per tutte quelle storie personali o meno che avevamo avuto lì, e davamo molta importanza a questa lettura strutturale della società: marxismo, contraddizione principale, contraddizione secondaria. […] E quindi abbiamo proposto questa tesi un po’ marxista, che le donne bloccavano la lotta di classe […]. Io ho questo ricordo che lui disse “Ma voi siete pazze!”. Ci ha dato da leggere alcuni documenti delle femministe americane, ci ha detto “In America stanno succedendo delle cose, anche Sisa [Luisa Passerini], mia moglie a Milano si interessa di…” e avevano messo in piedi, nello stesso periodo a Milano, un gruppo di donne.
Silvia Motta L’Anabasi. […] Ce li fatti avere Arrighi, sì, ma Arrighi era con Passerini, lui quei documenti li aveva ottenuti dalla Passerini. […]
Luisa Abbà Testi fondamentali. Li hai tradotti tu! Non tutti.
Elena Medi No, alcune cose.
Luisa Abbà Mi ricordo che la sorella di un amico ne ha tradotti quattro, tra cui Orgasmo vaginale e clitorideo. Aveva diciotto anni e diceva “Ma che cosa state leggendo!”. […]
Silvia Motta C’era mi sembra anche qualcosa della Shulamith Firestone.
27L’incontro con un professore, Giovanni Arrighi, docente di economia, è cruciale perché apre nuove finestre sul mondo e rafforza alcune intuizioni del gruppo. I primi testi femministi delle americane, tradotti in proprio, rendono bene l’idea del clima di assoluta sperimentazione e novità. Si avviano in quel periodo anche i primissimi contatti tra gruppi di donne, in maniera ancora molto destrutturata ma già efficace (per esempio, la moglie di Arrighi, Luisa Passerini, femminista che diverrà poi un’importante studiosa di storia e storica delle donne, allora parte del gruppo Anabasi a Milano).
Luisa Abbà [Lo scambio con Arrighi e le letture dei testi femministi] è stato quello che ci ha fatto virare la testa dal marxismo all’altro. […] Ed è su quella lettura che poi è nata tra di noi tutta una grande discussione. […] il primo vero gruppo di autocoscienza viene fatto tra di noi. Perché ci sono state – in casa e persino in una vacanza che abbiamo fatto insieme quell’estate al mare – così tante discussioni, ma anche liti, perché non era facile comunque cambiare una cosa che peraltro ti aveva dato molto. Perché non era un’esperienza su cui tu potevi sputare, quella di Trento, aveva tanti elementi positivi nella storia di ciascuna e quindi era molto difficile destrutturare. […]
Silvia Motta Ma sì, perché eravamo lì in bilico tra queste interpretazioni marxiste, per cui esistevano solo le proletarie, e un’interpretazione a partire da sé, in quanto donna. E noi siamo arrivate all’“in quanto donna”, con un’accusa generale da parte degli altri che eravamo borghesi, controrivoluzionarie, eccetera.
28È in questo primo periodo che la testa «vira dal marxismo all’altro», ponendo le basi per una presa di coscienza che è al tempo stesso personale, di gruppo, intellettuale e politica. Il processo non è privo di fatica e scontri: non è facile abbandonare la prospettiva maturata negli anni intensi e formativi del movimento per arrivare all’“in quanto donna”. Bisogna poi fare i conti con le accuse dei compagni, alcuni dei quali bollano quel primo abbozzo di riflessione come controrivoluzionario e borghese. Sono i primi vagiti dell’annosa querelle sullo statuto del femminismo rispetto alla lotta di classe e, soprattutto, alle tensioni legate alla doppia militanza di tante femministe negli spazi della sinistra: una vicenda complessa e senz’altro lacerante per le protagoniste (Gramaglia 1987; Voli 2006; Stelliferi 2018a). Alle disquisizioni teoriche faceva da complemento la goliardia: la casa del gruppo di tesiste (sita in via Belenzani, a pochi passi dalla facoltà) è ribattezzata significativamente da alcuni del movimento studentesco come “il troiaio”, a eloquente dimostrazione di quanto ancora vi fosse da mettere in questione.
29Il percorso di elaborazione della tesi conferma, declinandoli in chiave femminista, alcuni elementi tipici della fase. Innanzitutto, la già citata fusionalità dei legami, che nasce dall’intreccio di dimensioni diverse (la casa, l’amicizia, il lavoro intellettuale e quello politico). Dall’altra, il rapporto osmotico tra studio e politica, tratto distintivo del movimento trentino, a sua volta legato alla scelta “schierata” della sociologia. La tesi verrà discussa nel 1971 e pubblicata l’anno successivo da Mazzotta con il titolo La coscienza di sfruttata. Il testo
[…] si può leggere come il tentativo di conciliare le tesi del materialismo storico con quelle del femminismo radicale chiedendo aiuto, per così dire, alle teorie psicanalitiche rivisitate anche loro in chiave femminista. […] fu allora un libro che godette di notevole diffusione. (Calabrò 1987, pp. 234-235)
Silvia Motta E mentre si faceva [la riflessione attorno alla tesi] si è detto “Eh no, qui bisogna prendere in mano la situazione” e quindi si è avviato a fianco della tesi, perché era mentre la facevamo che abbiamo detto: “Incominciamo a fare il gruppo delle donne”. […]
Luisa Abbà E noi quando abbiamo discusso così non è che pensassimo di fare il gruppo di autocoscienza, ma discutevamo di come fare la tesi naturalmente e farla giusta, però di fatto lo facevamo perché quasi tutte noi raccontavamo la nostra storia.
Elena Medi Anche perché eravamo un gruppo noi stesse e poi perché raccontavamo… noi eravamo una casa con sei donne.
30Questo primo momento interno fa sorgere nel gruppo l’esigenza di estendere la discussione, trasformandola in un momento più ampio. Nasce così, in maniera ibrida e graduale, uno dei primi gruppi femministi italiani, che tanta parte avrà nella fondazione teorica e pratica del movimento delle donne degli anni Settanta.
3.2. «Giù la maschera, ma del tutto»: l’autocoscienza
31All’inizio il gruppo è piccolo, circa una decina di ragazze: si tratta prevalentemente di studentesse e di alcune, poche ragazze del luogo. Le riunioni si tengono sempre nella casa del gruppo di tesiste. Piergiorgio, unico uomo, abbandona gli incontri:
Silvia Motta Decidiamo che dobbiamo trovarci solo tra donne, questa è la decisione che ha fatto nascere il gruppo femminista.
Elena Medi A questo punto abbiamo emarginato l’uomo che era con noi.
Ricercatrice E come l’ha presa?
Silvia Motta Bene, perché era una persona molto speciale.
Elena Medi Capiva benissimo ed era intelligente.
Luisa Abbà Poi lui aveva assistito a tutto il processo. Anzi…
Elena Medi Era più convertito di me! In quel momento era il mio moroso e mi diceva “Ma guarda che ha ragione la Silvia!”
32La scelta di restringere gli incontri alle sole donne segue a una fase iniziale mista (seppur in larga parte femminile), che si mantiene non solo nel periodo di stesura della tesi, ma anche nei primi incontri allargati. Il congedo da Piergiorgio viene descritto come del tutto pacifico (mentre sui rapporti con l’esterno, non altrettanto sereni, vedremo a breve). Si conferma a Trento un aspetto che Passerini (1991) definisce interessante ma poco approfondito negli gli esordi del movimento femminista italiano: la presenza, seppur minoritaria, di alcuni uomini che diedero un contributo di riflessione iniziale.
Ci sono molte indicazioni in questo senso: […] il Demau prevedeva anche l’emancipazione degli uomini; ancora nel 1972 uno dei testi importanti del movimento delle donne in Italia, La coscienza di sfruttata, sarà firmato da quattro donne e un uomo. Alcuni uomini ebbero un ruolo rilevante per il movimento delle donne nella sua prima fase: stabilirono contatti, portarono documenti, trasmisero idee. (Passerini, 1991, p. 145)
33È necessario rilevare il carattere del tutto sperimentale, pionieristico del gruppo, nel quale anche le scelte più forti vengono prese in maniera spontanea, quasi artigianale, senza il peso di un’identità politica precostituita. In quel periodo, infatti, il gruppo mette in pratica, fra i primi in Italia, il metodo allora chiamato all’americana con il termine di “presa di coscienza”.
Elena Medi Una ascoltava quello che una diceva e poi parlava delle sue cose. C’entrassero o non c’entrassero, ma insomma, erano tutte lì.
Silvia Motta […] è tutta una fase di messa in comune: portare lì le proprie esperienze, i propri disagi. E poi c’era questa spinta che si voleva esserci in un’altra maniera nel mondo, da come ci era stato insegnato e da come avevano preteso.
Luisa Abbà Solo la funzione della parola, il fatto di parlare e dare voce a quelle cose di cui prima non… questa qui è stata una funzione fondamentale.
Silvia Motta Che poi voleva dire rinforzarsi nei propri desideri.
E ognuno portava la propria esperienza: la famiglia, il rapporto coi genitori, con l’ambiente, nel loro… nel mondo studentesco, anche, perché no? I rapporti coi ragazzi… Il rapporto come donne, come ragazze. Quindi questi rapporti dove si parlava di se stesse, sviscerando proprio i problemi di ragazze. […] Là mi sono anche resa conto delle difficoltà che tante ragazze potevano avere in famiglia, di rapporti… dove noi, senz’altro, non abbiamo avuto queste difficoltà di rapporti con i genitori, no. (Pia Bruni)
34Se il reciproco raccontarsi è senz’altro parte della storia delle donne, siamo qui di fronte a un salto fondamentale nella funzione della parola: narrazione di sé, scavo nella propria esistenza, ma anche riconoscimento di una condizione di oppressione comune che «è già politica» (Chinese et al. 1977)7. Dalle tante esperienze di violenza sino a quel momento non riconosciuta come tale, alle storie familiari, a quelle d’amore, alla sessualità, ci si scopre diverse, ciascuna con la propria storia, ma anche accomunate da un destino sociale che comincia a farsi discorso collettivo, e a essere percepito come sovvertibile.
35Per comprendere appieno la portata trasformativa di questa fase è indispensabile inserirla nel contesto: si tratta di una pratica ancora del tutto sperimentale, che arriva dalle femministe degli Stati Uniti e di cui in Italia si sa ancora poco, dal momento che il gruppo di Trento è uno dei primi ad essere attivo in Italia.
Adesso si parla di autocoscienza, ma lì non era strutturata. La questione era: io sono stata formata da questa cultura, quindi il maiale ce l’ho nella testa. Noi siamo tutte definite da qualcun altro, quindi chi sei veramente? Abbiamo studiato gli uomini che ci hanno definito, abbiamo studiato i testi di filosofia, storia e letteratura, ma noi personalmente, oggi, come ci definiamo? Quali sono le questioni sul tappeto? E quindi non potevamo che partire da noi – come si disse dopo. Si partiva proprio da un’elaborazione passata attraverso il tuo vissuto, che però veniva portata in modo che gli altri ci si potessero confrontare, perché se no non è autocoscienza, se no è testimonianza e racconto personale. (Lara Foletti)
Là noi siamo riuscite a rompere, in quel momento dell’autocoscienza, a rompere questa cosa, a battere quel pugno nel cerchio. Partendo dall’autocoscienza, perché là instauri la solidarietà. Tu sai che hai di fronte una donna che ha vissuto, vive le tue stesse problematiche. Non la vedi né rivale, né controparte, né più brava, né meno brava, né più elegante, né più grassa, né più magra. Hai una donna. Non hai etichette. È stato fondamentale. Ci sarebbe da ripartire dall’autocoscienza. (Pia Bruni)
36Comincia un lavoro di scavo ed emersione la cui portata innovatrice è ancora oggi difficile da realizzare appieno. Si tratta di trovare una propria voce e, prima ancora, di cercare parole e categorie per pensare alla propria esistenza, inghiottita nel gorgo di una storia di maschile universale. Si tratta di rimettere al centro se stesse e, con sé, l’altra, le altre, “senza etichette”, spezzando il cerchio dell’oppressione attraverso quel mutuo riconoscimento che solo rende possibile la solidarietà. Si tratta, parafrasando Carla Lonzi, di sputare su Hegel, regalando al mondo un destino imprevisto: quello di ricominciare il proprio cammino, per percorrerlo con la donna come soggetto.
Era una cosa bellissima. Per me… per noi [lei e la sorella] era una scoperta, un trovare questi rapporti con altre ragazze. Sconosciute, non amiche… perché ci si vedeva solo, credo di mercoledì, una sera in settimana. […] È stata un’esperienza fondamentale nella mia vita, in quella di mia sorella. Mi spiace non ci sia più, ma direbbe le stesse cose, perché è un percorso che abbiamo condiviso, che ci siamo portate nella vita […]. L’autocoscienza sono stati momenti: giù la maschera, proprio. Giù la maschera, ma del tutto. (Pia Bruni)
3.3. «Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna. Non c’è liberazione della donna senza rivoluzione»
Ma tornando al punto dell’autocoscienza, siamo andate avanti qualche mese. Però, come in tutte le cose, quando una cosa sta per finire, si ha bisogno del pratico. Tenendo conto che nel frattempo, partendo da un piccolissimo gruppo di otto, dieci… il gruppo si ingrossava… prevalentemente ragazze di Sociologia. E anche qualche ragazza di Trento. Poche. E quindi è sorta anche la necessità di organizzarci in modo diverso. E là ci siamo divise in gruppi di lavoro… cinque gruppi: la famiglia, il lavoro, la sessualità, servizi sociali… la maternità… io ero nel gruppo dei servizi all’infanzia […] Il gruppo era così: ognuno faceva la propria ricerca e poi ci si trovava e si discuteva delle ricerche tutte assieme. […] penso anche attraverso la letteratura di quei tempi, le documentazioni, come la ricerca sugli asili: fai la ricerca di quanti asili ci sono, quanto si paga la retta, dei servizi per i bambini o le donne. Era tutta una ricerca, mica improvvisata. (Pia Bruni)
37La fase dell’autocoscienza va esaurendosi e subentra la necessità di passare “al pratico”, dandosi una struttura compatibile con i nuovi numeri, che non sono più quelli di un piccolo gruppo. Si decide dunque di dividersi in gruppi di lavoro – l’eco delle commissioni del movimento è evidente – che si occupano di vari temi. Non sono purtroppo stata in grado di rintracciare documentazione scritta dell’attività dei gruppi, all’infuori della relazione del sottogruppo asili (Uct 1991a). Si tratta di un’analisi sorprendente per la sua capacità di anticipare nodi ancora non sciolti sul tema della doppia presenza (Balbo 1978), della conciliazione tra maternità e lavoro, sul tratto strutturalmente familistico del sistema di welfare italiano e sulla eterna provvisorietà delle donne nel mercato del lavoro italiano (Villa 2010).
38Un altro passaggio decisivo, non solo localmente, ma più in generale per la storia del femminismo italiano, è l’elaborazione del manifesto politico del gruppo Non c’è rivoluzione senza la liberazione della donna. Non c’è liberazione della donna senza rivoluzione8.
39Redatto e distribuito nel dicembre del 1970, a un anno circa di distanza dalle prime riunioni, il documento costituisce la messa a punto di prassi e idee maturate nel percorso compiuto sino a quel momento. Si tratta di un testo teoricamente ambizioso, che tiene insieme la critica al capitalismo di matrice marxista, maturata dall’interno del movimento studentesco, con l’analisi specifica dell’oppressione delle donne9. Un’oppressione trasversale ai rapporti di classe e ad essi intrecciata, dunque difficile da cogliere con gli strumenti analitici tradizionali della sinistra, proprio per via del suo carattere elusivo di categorizzazioni rigide e dogmatisimi.
40Anche per questo motivo, sulla scorta della riflessione statunitense, il testo fa riferimento alla categoria analitica di casta e all’esperienza del movimento per i diritti civili dei neri, che divampa in quegli anni negli Stati Uniti. È importante rilevare il ponte analitico teso verso la questione razziale, per due ordini di motivi: in primo luogo perché anticipa e richiama elaborazioni ben successive, che si collegano al femminismo postcoloniale e all’approccio intersezionale. In secondo luogo perché quest’apertura scomparirà presto dall’orizzonte del femminismo italiano, poi centrato su un’analisi di e per “native” (Stelliferi 2017). La specifica oppressione femminile si declina all’interno del sistema capitalistico, intrecciandosi ad esso e generando forme ulteriori e specifiche di sfruttamento.
41Se l’eco del lessico politico della nuova sinistra è ben presente nel testo, vi è però soprattutto una critica dei «parametri comuni dell’oppressione che la donna subisce anche all’interno della sinistra studentesca, sotto una copertura di parità formale come identificazione con il ruolo maschile» (Spagnoletti 1971, p. 157). Nasce il soggetto politico femminista, a partire dal «riconoscersi in quanto donna, non più come inferiore, ma come sfruttata […]. Solo un movimento organizzato e autonomo delle donne può avviare un effettivo percorso di liberazione» (ibid.). La conclusione è lapidaria e indicativa di quel che verrà: «Decideremo da noi le posizioni politiche e pratiche da prendere. Faremo la teoria e porteremo a termine anche la pratica. Saremo noi a decidere quali misure, quali strumenti e quali programmi usare per liberarci»10.
Fig. 2

Prima pagina del ciclostilato (copia di Elena Medi, conservata presso il Centro di documentazione Mauro Rostagno della Fondazione museo storico del Trentino, Fondo movimento studentesco, busta 5).
3.4. Verso l’esterno
42Il consolidamento del gruppo è testimoniato da due passaggi importanti, il cui ordine cronologico rimane purtroppo incerto: l’affitto di una sede e la scelta di un nome.
E noi, come gruppo, abbiamo affittato in fondo a via Roma, la casa ad angolo, una stanza, un piccolissimo appartamento con un ingresso anche strano, che si entrava da un negozio per salirci, allora. (Pia Bruni)
Avevamo messo dei manifesti, i tazebao, quello di Rivolta femminile […]. Io mi ricordo sempre che l’avevamo dipinta di rosa, erano venuti ad aiutarci a preparare la sede, e lì c’erano tua madre e c’erano queste ragazze di Trento, nella sede, che lavoravano molto. (Lara Foletti)
43La sede, sita sempre in centro, a poca distanza dall’appartamento di via Belenzani e dalla facoltà, proietta il gruppo verso l’esterno, aumentandone la riconoscibilità e rendendolo più autonomo rispetto all’origine universitaria; essa si adatta inoltre alle nuove esigenze logistiche (ampia partecipazione, lavori di gruppo).
44Il gruppo si dà un nome, Cerchio spezzato, elaborando anche un proprio simbolo, che è la traduzione grafica del nome stesso e ha un ruolo importante nella creazione di una prima rete e di un primo dibattito femminista in Italia. Ad esempio, è presente al al I Congresso del Movimento di liberazione della donna, federato al Partito radicale, che si svolge il 27 e 28 febbraio 1971 a Roma. In quella occasione, si crea una spaccatura e una contestazione interna, in cui diverse realtà femministe contestano molto vivamente il carattere non separatista e la scelta di mantenere una struttura federata. Pochi testi ricordano che a partecipare a quell’acceso dibattito non è solo Rivolta femminile, ma anche il Cerchio spezzato11.
Fig. 3

Il simbolo del Cerchio spezzato, disegnato in calce a un documento (fondo privato).
Silvia Motta Ricordo il simbolo che abbiamo inventato, che era il cerchio spezzato, con il pugno che spezza…
Elena Medi In pezzettini il cerchio.
Luisa Abbà Il cerchio era il simbolo femminista.
Silvia Motta Non l’abbiamo poi quasi mai usato quel nome, non ci piaceva. Noi parlavamo di movimento delle donne.
Elena Medi Sì, parlavamo di movimento, però ci si riconosceva.
[…] già forse in giro nelle altre città cominciavano i gruppi delle donne. E quindi è nata la necessità di darci un nome, ed è nato Il Cerchio spezzato. […] La discussione in merito era: se dare il nome di qualche donna, non so, tipo Luxemburg. Ci abbiamo pensato, non è nato spontaneamente il nome. Non piaceva a tutte. A me piaceva. Ah, beh, certo, qualcuno che spezza il cerchio! Ha anche un significato molto politico, oltre che femminista. Perché femminismo è politica, non c’è niente da fare. Il femminismo, la lotta delle donne, se non è agganciata alla lotta per i diritti sociali, è una lotta fine a se stessa. È emancipazione, no? […] Il simbolo è legato al nome. Il cerchio e il pungo che lo spezza. È simbolica ’sta cosa. Per forza mia sorella ed io eravamo d’accordo con questo nome e col simbolo. Perché avevamo molto forte, noi, la coscienza di sinistra. Adesso è passato di moda anche dire comunista. (Pia Bruni)
45È interessante notare la divaricazione delle opinioni circa il nome, che da talune viene percepito come un’esigenza di riconoscibilità esterna e non genera entusiasmo. Si tratta di una posizione in linea peraltro con la storia successiva del movimento delle donne, che di rado sentirà la necessità di marcarsi attraverso la nominazione, scegliendo spesso di identificarsi con il nome della via in cui è sita la sede (via Pomponazzi e via del Governo vecchio a Roma, via Dogana e via Cherubini a Milano), oppure attraverso firme molto asciutte e descrittive (collettivo femminista di quartiere, collettivo femminista-comunista e simili). La scelta di nomi più identificativi rimarrà appannaggio di gruppi con una lettura ideologica specifica, ad esempio Lotta femminista, oppure precedenti al consolidamento del movimento, quali Demau e Rivolta femminile. Vi è però anche chi si identifica con entusiasmo nel nome scelto, trovando in esso l’espressione di una forza e di un posizionamento dalla duplice radicalità. La radicalità del femminismo che si inaugura allora, il cui orizzonte non è più quello dell’emancipazione, ma della liberazione, insieme alla rivendicazione di una lotta a tutto tondo, contro l’oppressione femminile e contro lo sfruttamento di classe a un tempo. Il simbolo si ispira ai documenti delle americane, che circolano in quantità sempre maggiore (Uct 1991a).
46Il gruppo comincia poi a porsi il problema di entrare in relazione con il panorama del movimento cittadino e con la “casa madre”, ovvero la facoltà. Un banco di prova importante, per condividere il percorso di riflessione sinora fatto, ma generativo di forti tensioni, dovute al rapporto intenso e ambivalente con i compagni, e con la loro difficile elaborazione della scelta di separazione/separatismo. Una questione complessa, visto il clima politicamente infuocato di quegli anni e la già citata tendenza fusionale del movimento trentino: si ingenera un senso di tradimento che mescola una forte componente affettiva a una ideologica (il “tradimento” della lotta di classe e delle esigenze prioritarie del movimento). Ricorda a questo proposito Marta Losito, una delle fondatrici e componenti più attive del gruppo, poi divenuta docente presso la facoltà di Sociologia12:
Il gruppo era nello stesso tempo in alternativa al movimento, dal quale ricevemmo molta ironia, attacchi pesantissimi, accuse di corporativismo. Quando, per coprire delle spese di ciclostile, chiedemmo una parte del finanziamento universitario destinato alle attività ricreative, che allora veniva diviso all’interno del movimento studentesco, ci furono degli scontri tremendi e nessun riconoscimento. (Uct 1991a, p. 14)
47Se è indispensabile, visto il clima, marcare una netta separazione, la comune storia nel movimento è fatta di contrapposizioni ma anche di rapporti di affetto e condivisione profonda, entro un quadro di reazioni non solo oppositive:
Noi eravamo dentro questa casa, e i maschi soli al Bar Italia: “Siamo vedovi!”. (Leslie Leonelli)
Una volta, credo nel ’71 o ’72, io sono andato lì, ho bussato e ho chiesto “Ma perché non vi fate più vedere?”. […] E la mia reazione non era ostile, cercavo di capire. Perché questo loro separatismo, mentre nel ’68-’69 in tutte le foto te le posso indicare le donne, specialmente Silvia Motta che è riconoscibile. C’erano sempre e quindi loro hanno fatto parte integrante del movimento del ’68 e del ’69, ma da un certo momento in poi, dopo la tesi di laurea e dopo aver costituito e formato il gruppo Il Cerchio spezzato […] c’è la fase del separatismo. Hanno proiettato l’antiautoritarismo anche sul movimento studentesco. (Marco Boato)
48Una volta scritto il testo Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna. Non c’è liberazione della donna senza rivoluzione, vero e proprio manifesto politico, il gruppo è forte di una propria lettura e di un posizionamento preciso. I tempi sono quindi maturi per un confronto aperto. L’occasione per tale passaggio è l’organizzazione di una mostra fotografica, in facoltà, in cui si distribuiscono copie del documento stesso e di altri testi femministi:
La prima azione esterna fu la distribuzione, nell’atrio della facoltà, di traduzioni, di scritti delle femministe americane e di un documento, che avevamo redatto noi […]. Sistemammo anche dei pannelli con fotografie delle donne del movimento, di donne palestinesi, di Angela Davis, simbolo di emarginazione dei neri d’America […]. In altre occasioni abbiamo installato dei cartelli davanti a dei negozi per coinvolgere le donne che facevano la spesa. Ricordo una festa della mamma: volendo trasformarla da festa consumistica in un momento di riflessione, ci siamo installate davanti all’Upim per discutere sulla sessualità e la libera scelta della donna. (Marta Losito, in Uct 1991a, pp. 14-15)
49Si moltiplicano poi le iniziative anche nel tessuto cittadino, che marcano il consolidamento politico e organizzativo del gruppo e, soprattutto, una ormai riconosciuta presenza femminista.
50Ai primi passi pubblici del gruppo segue un momento particolarmente importate, che sancisce un punto di svolta:
Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna, non c’è liberazione della donna senza rivoluzione. Perché da lì poi abbiamo fatto anche l’azione in Università: abbiamo indetto un’assemblea in Università aperta a tutti, maschi e femmine. L’abbiamo tenuta e i maschi sono stati anche abbastanza bravi perché avevano il diritto di parola, però si sono tenuti abbastanza schisci. […] è stata un’azione di forza grossissima, perché da quell’assemblea è nato il movimento di Trento, non era più il nostro gruppo. Tutte sono diventate femministe, tutte. […] non mi ricordo poi bene neanche io cosa ci siamo dette, ma so che quella è stata l’apertura dal gruppo che si riuniva a casa nostra a qualcosa che è dilagato. Dopodiché noi sappiamo anche poco come è dilagato. (Silvia Motta)
51Dai primi incontri nella comune di via Belenzani molta strada è stata fatta, seppure in poco tempo, e «qualcosa è dilagato»: l’assemblea pubblica a Sociologia è occasione per chiarire divergenze e posizioni con il movimento studentesco e soprattutto per presentare il documento e il percorso del gruppo ad altre donne. Sono gli anni della crescita: l’esperienza dei piccoli gruppi si moltiplica, cominciando ad esserci relazioni crescenti fra collettivi di varie città. Anche a Trento i tempi sono maturi per la trasformazione del femminismo da esperienza pionieristica di un gruppo di donne sperimentatrici in un movimento diffuso.
4. «Qualcosa che è dilagato»: preludio agli anni Settanta
52La nostra storia prosegue, quindi, cambiando di passo: entriamo ora nel pieno degli anni Settanta, in quel fiorire di gruppi, consultori autogestiti, esperienze politiche che consolida il movimento delle donne come soggetto politico sulla scena della storia.
53Dentro questo passaggio la vicenda del Cerchio spezzato va perdendosi: molte delle fondatrici si laureano e si spostano altrove, ma l’attività dei gruppi di lavoro continua almeno sino al 1971-72. Ma prima di voltare pagina, è importante dare un ultimo sguardo alle vite di alcune di alcune componenti del gruppo, in procinto di lasciare Trento con una laurea in sociologia:
Poi c’è stata un’altra cosa, però questa è stata come un po’ conclusiva, che è stata proprio la tesi. Anche la tesi è stata un happening sociale in università, perché ovviamente era una cosa anomala – cinque, non è uno scherzo: magari due o tre, ma cinque era un po’ pesantuccia la cosa. […] siccome la nostra tesi e il gruppo, è stato vissuto anche dalle studentesse come un tutt’uno, era pieno di studentesse e anche di studenti. Insomma, si sapeva che era un appuntamento politico quella tesi, tanto che sono venute con gli striscioni e con i cartelli e a un certo punto dal pubblico la Marta [Losito] si è alzata dicendo che voleva intervenire. Lì si è creato un problema, perché nelle tesi non può intervenire il pubblico. (Silvia Motta)
54Come in un racconto circolare, i fili della vicenda femminista, cominciata con la politicizzazione di massa dentro al movimento, la lotta per la laurea in sociologia e per un ruolo critico del mestiere sociologico, finisce proprio lì, tra quelle aule che ancora una volta intrecciano studio e lotta politica. La discussione della tesi è occasione per rivendicare il percorso femminista sin lì svolto e per una presa di parola collettiva, che rompe la prassi accademica e i suoi codificati rituali. Una vicenda che si ripete quasi identica a pochi mesi di distanza, nel luglio 1971, quando si laureano altre due attiviste, Lara Foletti e Leslie Leonelli:
Quando mi sono laureata io quel giorno ci sono state due tesi, una di Leslie Leonelli che ha fatto la tesi sui ruoli sessuali, un altro studente ha fatto la tesi sull’hashish o non so che, sulle droghe leggere, e io sul divieto d’aborto e oppressione della donna. E arrivò a Trento l’equipe di Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, che dopo sono state nel gruppo di Pompeo Magno […] per riprendere la mia tesi. Il gruppo di Elvira [Banotti] ha detto “Là a Trento Lara Foletti fa una tesi così”. Che poi la Rony Daopoulo ha fatto un documentario, Aggettivo Donna, con la mia tesi e con quella di Leslie. (Lara Foletti)
55Trento si riconferma, anche dal punto di vista accademico, un’avanguardia del pensiero femminista, che avanza anche grazie ai lavori di tesi. Se La coscienza di sfruttata avrà grande fortuna nel movimento, la tesi di Lara Foletti si occupa dell’aborto clandestino, con un lavoro, insieme sociologico e giuridico, sulla situazione italiana. Anche in questo caso la tesi diventerà un libro, Per il diritto di aborto, edito nel 1972 da Samonà e Savelli (curato da Lara Foletti e Clelia Boesi). Si tratta di uno dei primi contributi sul tema: era stato pubblicato nel 1968 Inumane vite, a cura di Maria Lusia Zardini sugli aborti clandestini nelle borgate romane e, nel 1971, La sfida femminile. Maternità e aborto, prima grande inchiesta di Elvira Banotti con interviste a donne di estrazione sociale, età, provenienza geografica diverse. Si tratta di contributi molto importanti, poiché hanno il merito di squarciare il velo di silenzio ipocrita che ancora circonda l’aborto clandestino, in un periodo in cui il tema è ancora lontano dal divenire centrale nel dibattito pubblico.
56Come prevedibile, anche la discussione di Lara si trasforma in un appuntamento politico, che fa il giro della scena femminista. Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, già attive nel femminismo romano, arrivano con la cinepresa e una sezione del loro documentario L’aggettivo donna è dedicata alla «discussione di una tesi sull’aborto»13. Nelle immagini, purtroppo molto scure, si riconosce una delle aule a gradoni della facoltà dove, tra tazebao e pugni chiusi, Laura Foletti dichiara:
Quello di oggi non vuol essere un momento burocratico, ma soprattutto l’occasione per fare un atto di denuncia. Esiste la realtà di un mercato clandestino, per cui le cifre ufficiali parlano di 850.000 aborti secondo il Ministero della sanità, 1.200.000 secondo le indagini dell’Unesco, 3.500.000 secondo i ginecologi.
57Allo stesso modo, Leslie Leonelli e la sua compagna di tesi, Luciana (Ciana) Dorigatti, pubblicheranno un libro tratto dal loro lavoro in comune, di taglio diverso ma anch’esso sperimentale: si tratta di una disamina critica del rapporto tra storia del pensiero e visione della donna, approcciata però anche sulla base dell’esperienza soggettiva delle autrici, dunque di una inaccettabile violazione del paradigma scientifico di “neutralità e oggettività”. Il libro uscirà nel 1973 per l’editore Guaraldi con il titolo, infelice e non voluto dalle autrici, di Autobiografica, scelta ancora oggi ricordata con disappunto da Leslie. Colpisce, guardata con gli occhi dell’oggi, l’intensa attività editoriale che gravitava non solo attorno al Cerchio spezzato, ma più in generale al movimento trentino: una dimostrazione del dinamismo della vita culturale del tempo, del clima di sperimentazione culturale e di compenetrazione tra livelli diversi del discorso pubblico.
Avevano preparato un documentino e allora io dicevo “Io non discuto la tesi, parlano le casalinghe”. “Non si può, la tesi la deve discutere la candidata”. Allora c’è stato un braccio di ferro tra noi e la commissione […] si alzavano per andare via. Tutta l’aula si ribellava, gliene dicevano di tutti i colori, si spaventavano e si risedevano. C’erano anche mio padre e mia madre, col vestito della festa, seduti sui banchi con i sessantottini. E mio padre quando vedeva che io ero così e tutti che urlavano si girava verso quelli del ’68 e diceva “Eh, mia figlia è un po’ ribelle”. Si giustificava, poverino! (Lara Foletti)
58Anche nella discussione di Lara viene rivendicato un diritto di parola collettivo delle donne, che politicizza immediatamente il conteso accademico; ritroviamo inoltre l’irrisione, il gusto del sovvertimento di rituali e gerarchie, così proprio del ’68 genericamente inteso, praticato con particolare applicazione (e gusto) proprio a Trento, nota nel movimento per il largo ricorso all’happening e all’azione simbolica (Agostini, Giorgi, Mineo 2014). Tenerissima è poi l’immagine dei genitori di Lara che, venuti dalle valli di Comacchio «col vestito della festa», per celebrare una laurea senz’altro conquistata con sacrificio, si ritrovano tra i «banchi con i sessantottini», nel pieno di una insurrezione accademica capeggiata proprio dalla loro figlia «un po’ ribelle».
59È tempo ormai, per tante delle nostre protagoniste, di lasciare Trento, alla volta di altri luoghi:
Silvia Motta […] dopo questo lavoro a Trento abbiamo detto “E adesso cosa facciamo nella vita? Andiamo a continuare a fare le cose che stiamo facendo, andiamo a Milano”. Tiri su baracca e burattini e insieme veniamo a Milano. Poi a Milano ognuna cerca un lavoro, senza particolare impegno a quei tempi, mentre mi interessava continuare a fare i gruppi delle donne, ed è quello che facevamo, o che facevo.
Elena Medi Anche con una specie di sovrapposizione, di riscoperta. […] Il tentativo di portare queste idee anche a Milano e in certi posti come Quarto Oggiaro.
Luisa Abbà Abbiamo fatto un asilo, te lo ricordi?
Silvia Motta Abbiamo fatto un asilo nel quartiere di Quarto Oggiaro. Da un lato abbiamo fatto un gruppo qui che poi ha dato origine al collettivo di Via Cherubini.
60La prima partenza è di una parte del gruppo di lavoro de La coscienza di sfruttata: Luisa Abbà, Elena Medi e Silvia Motta, laureatesi nel febbraio del 1971, decidono di muoversi insieme alla volta di Milano; le seguirà anche Gabriella Ferri. Come si diceva a Parigi nel Maggio, non è che l’inizio: l’attività femminista continua intensa, con un asilo a Quarto Oggiaro, in cui si tenta di tenere insieme il discorso di classe e quello femminista (una specie di sovrapposizione, di riscoperta). Le “trentine” anche in questo caso anticipano una delle tendenze successive del movimento, specie di matrice marxista, quando, forse con un po’ di paternalismo, ma senz’altro con grande convinzione rivoluzionaria, si deciderà di fare lavoro femminista nelle periferie14. Le tre amiche continueranno ad animare il dibattito milanese, partecipando a molti dei suoi momenti fondativi. Le riunioni nelle case private e i primi incontri pubblici quindicinali alla Società umanitaria, fra il 1971 e il 1972 e poi la costituzione del gruppo di via Cherubini 8, in cui convergeranno percorsi diversi: Demau, ex militanti del Manifesto, donne senza specifiche appartenenze e altre, ma solo a titolo personale, provenienti da Rivolta e dall’Anabasi (Lussana 2012).
61Vi è una seconda migrazione, leggermente successiva (il 10 luglio 1971 Lara e Leslie discutono la tesi), che è quella del nucleo romano. Ad alcune studentesse attive nel Cerchio spezzato e originarie di Roma, che a Roma decidono di tornare, si uniscono, in tempi diversi, Lara Foletti e Leslie Leonelli:
Poi dopo noi siamo venute a Roma. C’era Leslie Leonelli, […] poi c’era Paola Baroncini, Bibi Dentale, sempre del Cerchio spezzato, che erano romane. Poi c’era Anna Giulia Fani. E quando sono arrivata a Roma Elvira Banotti e tutte queste qua di Rivolta femminile ci prendono nel loro vortice. Però noi avevamo un po’ l’anima sessantottina, assembleare. Con il gruppo che è venuto a Roma abbiamo fatto la prima riunione. […] Anna Giulia Fani fa “Senti, ci troviamo a casa mia” e decidiamo di fare un nuovo gruppo femminista, che si doveva chiamare Collettivo femminista e che poi è diventato Pompeo Magno. Sulla scia di quello di Cerchio spezzato e con delle componenti di Rivolta, però che si apre alla società, non come Rivolta che non voleva uscire: niente manifestazioni, niente cose, sono maschili queste cose. Invece noi dicevamo “No, per conquistare le donne dobbiamo aprirci e fare cose”… (Lara Foletti)
Sono venuta direttamente a Roma: ho fatto fatica, vivevo in stanze in affitto, brutte. Però, nello stesso tempo, mi sono vissuta il femminismo a Roma: ho fatto parte del numero zero di “effe”, dentro c’è la mia fotografia e sono stata partecipe di tutto il primo femminismo romano. […] Io facevo parte di un gruppo che si chiamava Movimento per la liberazione della donna […]. Poi da lì, a un certo punto abbiamo aperto un gruppo sulla salute della donna. […] poi nel ’73 venne una femminista americana… perché erano nati i primi speculum di plastica e questa – in un gruppo tutto femminile – ci insegnò come si vede dentro la vagina e come individuare le infezioni, perché se conosci la macchina non ti fai fregare dal meccanico! (Leslie Leonelli)
62Anche per loro la strada politica del femminismo è ancora tutta da percorrere. La decisione di Lara e delle altre di fondare un gruppo che continui sulla falsariga del Cerchio spezzato, unendo cioè il lavoro di autocoscienza con la proiezione verso l’esterno («avevamo un po’ l’anima sessantottina») porterà alla nascita del Pompeo Magno, uno dei più importanti gruppi del femminismo romano e italiano, che tanta parte avrà nelle successive elaborazioni e lotte15. La testimonianza di Lara è storiograficamente importante per due principali ordini di motivi: in primo luogo, perché dimostra una presenza “trentina” nella fase di fondazione del gruppo, confermando quanto sinora sappiamo sulle sue origini (cfr. Stelliferi 2015); in secondo luogo, mette in luce il carattere dinamico, intrecciato, reticolare del movimento. Una dimensione, quella degli scambi tra gruppi, città, aree geografiche, ancora poco esplorata dalla ricerca, che potrebbe aprire nuove e interessanti prospettive di studio, togliendo finalmente il magmatico mondo della provincia dal cono d’ombra storiografica in cui è stata posta troppo a lungo.
63L’impegno di Leslie nel Movimento di liberazione della donna (Mld), federato al Partito radicale, specialmente sulle questioni legate alla sessualità e al corpo, con le prime autovisite e i primi speculum, ci riporta all’importante fase di avvio di ragionamenti e forme di autoorganizzazione su tali temi (Pisa 2012). Nell’intervista non si accenna a una circostanza specifica, ma con tutta probabilità il riferimento al 1973 è a un momento cruciale per il femminismo romano e italiano: la tappa a Roma di Carol Downer e Debra Law, del Women Health Centre di Los Angeles. È il 6 novembre e, al teatro Eliseo, le due americane conducono una sessione collettiva di self help, illustrando anche l’utilizzo dello speculum (Stelliferi 2015). Infine, per Lara e Leslie vi è anche la partecipazione alle prime riunioni di redazione di “effe”, uno dei principali periodici femministi del tempo16, alla cui fondazione entrambe collaborano. La piccola e periferica Trento, imprevedibile teatro di rivolta, diviene così il nodo di una rete di movimento, restituendoci un’immagine dinamica di quei primi anni, fatti di partenze e rimescolamenti, che mettono in questione i concetti di centro e periferia, in nome di una nuova e più orizzontale geopolitica femminista.
Notes de bas de page
1 Il sistema del presalario fu introdotto con la legge 14 febbraio 1963, n. 80, relativa alla “Istituzione dell’assegno di studio universitario”. La legge, con l’art. 2, attribuiva un assegno di studio agli « studenti universitari appartenenti a famiglia che fruisce di un reddito complessivo netto non superiore a quello esente dall’imposta complementare, aumentato di un quarto per il primo figlio e di un terzo per ogni figlio a carico oltre il primo». L’assegno era pari a 200 mila lire per gli studenti che appartenevano a famiglia residente nel Comune dove aveva sede l’università o in un Comune dal quale essa si potesse raggiungere quotidianamente e a 360 mila lire per gli altri. I cosiddetti “presalari” furono ulteriormente regolamentati con la legge 21 aprile 1969, n. 162, che ne elevava gli importi, e quindi con la circolare ministeriale dell’11 aprile 1969, n. 86. L’amministrazione delle somme disponibili veniva affidata alle opere universitarie dei vari atenei, che di lì a poco sarebbero state “regionalizzate”.
2 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio Movimento studentesco, fondo Elena Medi, busta 1.
3 Si vedano a questo proposito anche le testimonianze raccolte in Agostini, Giorgi, Mineo 2014.
4 In tal senso, la giustapposizione Marco Boato-Mauro Rostagno rappresenta quasi idealtipicamente due repertori politici fondanti per il movimento trentino, quella dei cattolici democratici e quella marxista-rivoluzionaria, che trovano rispecchiamento in codici di maschilità molto diversi : la giacca e la cravatta su una “faccia pulita” ancora molto anni Sessanta per Boato, il vestiario rivoluzionario corredato da barba e capelli lunghi per Rostagno.
5 Gabriella Ferri nasce a Firenze il 10 settembre 1947. Insieme al gruppo della tesi fonda il Cerchio spezzato e dopo la laurea in sociologia si trasferisce a Milano, dove insegna matematica e prosegue l’attività nel movimento delle donne. Trascorre i suoi ultimi anni a Firenze dove muore il 21 aprile 2006.
6 Piergiorgio Lazzaretto nasce a Venezia il 19 febbraio 1942. Dopo un periodo di studi teologici presso il seminario dei domenicani di Bologna si trasferisce con la famiglia a Trento e frequenta la facoltà di Sociologia. Conclusa l’università si sposta a Milano insieme alle compagne con cui ha scritto la tesi (Elena, Gabriella, Luisa e Silvia). Qui, oltre a fare l’insegnante, fonda Alia Musica, uno dei primi gruppi italiani di musica medioevale. Muore a Trento il 18 giugno 1992
7 Maria Grazia Chinese, Carla e Marta Lonzi e Anna Jaquinta scrissero per Rivolta femminile il volume È già politica.
8 Documento politico Non c’è rivoluzione senza la liberazione della donna, non c’è liberazione della donna senza rivoluzione, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio Movimento studentesco, fondo Elena Medi, busta 1. Il documento è reperibile, in versione integrale, in Spagnoletti 1971 e in Anabasi 1972.
9 Il rapporto tra elaborazione politica femminista e marxismo continuerà ad essere stretto anche nel corso del decennio successivo, quando il consolidarsi del femminismo darà luogo, come inevitabile nelle dinamiche di espansione dei movimenti sociali, a orientamenti diversi, fra cui appunto quello di matrice marxista o, più genericamente, socialista. È bene tenere presente che il rapporto tra lettura sessuata e di classe dei rapporti sociali segnerà uno spartiacque importante tra i gruppi femministi. Sul rapporto tra femminismo e marxismo si vedano Boccia 1989, pp. 39-62 ; Arruzza 2010.
10 Ibid.
11 Sull’andamento dei lavori del congresso si vedano gli articoli dei giornali dell’epoca, disponibili alla pagina http://www.herstory.it/mld-movimento-di-liberazione-della-donna [ultima consultazione 23.10.2020] ultima digitalizzati e resi disponibili sul prezioso sito Herstory Mappa online del Lazio, ideato e realizzato da Giovanna Olivieri e Valeria Santini. Il sito è stato realizzato selezionando documenti, foto, volantini, ritagli e manifesti conservati ad Archivia. Archivia ha sede presso la Casa internazionale delle donne di Roma, è stata fondata nel 2003 : 10 fra gruppi, collettivi e associazioni storiche si sono associati per salvaguardare e rendere fruibili, oltre ai propri archivi, la biblioteca e un’emeroteca ricchissime, manoscritti, tesi, materiali di documentazione, fotografie, manifesti, materiali audiovisivi. La biblioteca, con più di 20.000 volumi e 700 testate, rappresenta una risorsa preziosissima per chi voglia avvicinarsi alla storia del femminismo italiano.
12 Marta Losito (30 giugno 1944 - 3 marzo 2008) ha fatto parte del movimento studentesco trentino e di quello femminista, prima nel gruppo Cerchio spezzato e, successivamente, nel Collettivo femminista Trento. È stata attiva nell’insegnamento e nella ricerca universitaria, prima a Trento e poi a Bressanone, interessandosi, fra l’altro, ai rapporti fra sociologia e scienza politica e della ricezione di Weber in Italia. È stata consigliera comunale a Trento per i Verdi (1990-95) e componente della direzione del Museo storico di Trento, contribuendo al suo rilancio. Altro suo interesse, coltivato sin da ragazza, è stata la psicoanalisi, che ha anche praticato come analista.
13 Il documentario è disponibile on line : http://patrimonio.aamod.it/aamod-web/film/detail/IL8600001849/22/l-aggettivo-donna.html?startPage=0&idFondo= [ultima consultazione 15 luglio 2020].
14 Si veda, per l’esperienza romana, il bellissimo lavoro di Stelliferi 2015.
15 Il gruppo, così denominato per la via del quartiere Prati in cui aveva sede, al civico 94, nasce nel maggio 1971 per iniziativa di un gruppo di femministe, quasi tutte provenienti da Rivolta femminile, ma insoddisfatte per il « troppo stretto e soffocante separatismo radicale invocato da Carla Lonzi» (Stelliferi 2015, p. 23). Prima di divenire noto come Pompeo Magno fu conosciuto come Lotta femminista e poi Movimento femminista romano (Mfr).
16 Il numero zero della rivista, inizialmente pensata come settimanale, esce nel febbraio 1973, mentre il numero 1, mensile, è del novembre dello stesso anno. “effe” verrà pubblicato poi sempre come mensile, per i primi due anni dall’editore Dedalo ; successivamente e sino alla chiusura l’editore diverrà invece un’omonima cooperativa autogestita. L’archivio della rivista è stato completamente digitalizzato ed è disponibile on line all’indirizzo http://efferivistafemminista.it/ [ultima consultazione 20.08.2020] : una preziosa risorsa per chi voglia conoscere meglio il femminismo di seconda ondata e il suo dibattito interno.

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