Per concludere. Ha ancora senso sognare in avanti?
p. 181-183
Plan détaillé
Texte intégral
1Giunti alla fine del lungo percorso che dall’Inghilterra vittoriana del Crystal Palace ci ha condotti fino alle cupole apocalittiche di Stephen King e Matt Groening, crediamo opportuno concludere il presente saggio con una breve riflessione sul tema dell’utopia, questo vecchio arnese umanistico che ha attraversato i millenni dall’antichità fino al xviii secolo ora con maggiore, ora con minor fortuna e incisività per poi rapidamente usurarsi nel corso della modernità, fino a venir brutalmente espulso dall’orizzonte concettuale del Novecento maturo – con qualche illustre eccezione: basti pensare al caso di Ernst Bloch, padre di quel principio speranza che fa da contraltare all’«essere-per-la-morte» heideggeriano. Le vicende legate al mito della trasparenza architettonica con cui ci siamo sin qui confrontati risultano in tal senso esemplari. Capitolo dopo capitolo abbiamo visto come agli occhi di scrittori, poeti, artisti e cineasti contemporanei tale mito, le cui radici affondano sia nel magma della tradizione (biblica, medievale, favolistica) sia nel fertile terreno del Settecento illuminista, abbia conosciuto una parabola che dal sogno di una palingenesi sociale è approdata all’incubo dell’ossessione totalitaria-assolutista (nella doppia declinazione dittatoriale e capitalistica), finendo addirittura per assumere i contorni di una vera e propria apocalisse. Come accaduto ad altre utopie, ciò che era finzione, per riprendere i termini concettuali entro cui il nostro studio si è giocato, ha ceduto interamente le armi alle ragioni della funzione, il gioco dell’immaginario ha lasciato il passo alla ferrea progettualità di realtà concretate: ed è a quel punto che il sogno si è rovesciato in incubo. Per noi abitanti del neonato terzo millennio la questione diventa allora: ha ancora senso «sognare in avanti», per riprendere un’espressione di Ernst Bloch? Non varrebbe la pena accettare di dichiarare ogni utopia fallimentare, pericolosa, invariabilmente destinata a creare danni e ingiustizie? Personalmente credo di sì, che abbia ancora senso sognare in avanti. E di no, ossia che non si debba approdare a uno scetticismo radicale, considerando incoerenti e inconsistenti le spinte propulsive verso una trasformazione del reale. Così facendo si corre infatti il rischio, tanto insidioso quanto morbidamente seducente, di pervenire a quel feticismo dell’esistente che è da sempre l’anticamera dell’emergere delle più oscure spinte reazionarie e oppressive.
2Come Remo Bodei osservava anni fa proprio a proposito di Bloch, non si tratta di negare i diritti della realtà, ovvero di sovrapporle formule di felicità preordinate e castranti, ma piuttosto di avere una concezione plastica della realtà stessa, rifiutando di leggerla come un fenomeno codificato da leggi immutabili (Bodei 1994, p. xv). Il tracollo del mito della trasparenza è avvenuto quando un’utopia libertaria ed egualitaria si è trasformata in distopia autoritaria e omologante, quando il progetto di sottrarre gli uomini all’impero delle tenebre è stato rimpiazzato dal tentativo di dissolvere ogni ombra sotto una luce accecante e uniformante, preordinata e asettica, fino a fare di ogni individuo un’astrazione, un elemento neutrale, indifferenziato e intercambiabile. Ciò che caratterizza le vere utopie è invece la capacità di creare uno spazio immaginario che non necessariamente deve tradursi in spazio empirico, ma che è chiamato a fingere, cioè a plasmare, nuove forme di esistenza per il singolo, nuove condizioni di convivenza per la collettività.
3È proprio in tale contesto fluido e metamorfico che l’arte, il cinema, la letteratura, la sfera creativa ed espressiva insomma, può e deve assumersi il compito di una riattualizzazione del pensiero utopico. Se «l’arte è un laboratorio e allo stesso tempo una festa di possibilità eseguite» (Bloch 1959, p. 254), l’immaginario può essere un terreno stagnante, un luogo dove si fa coltura di conformismo e asservimento, ma può anche agire come uno spazio di sviluppo. Dal momento che regolano il normale respiro dell’intelligenza, per dirla con Borges, le finzioni rivestono una funzione decisiva non solo nel configurare la realtà ma anche nel prefigurare i suoi sviluppi. È solo attraverso la carica utopica dell’immaginazione creatrice che gli scrittori, gli artisti, i cineasti possono oggi ancora rifiutarsi di concepire fantasie sclerotizzate o comunque addomesticate, acquiescenti rispetto all’ordine vigente, per mettersi invece in tensione col proprio tempo, creando miti e prospettive sociali che non mistificano, ma aprono un passaggio nel cul-de-sac del reale, un varco verso qualcosa di diverso. È là, nell’orizzonte mobile che da qui si scorge, in un domandare che non ha già previsto la sua risposta, che all’individuo è dato di rinascere alla speranza, di vedere il proprio futuro tornare a fluire: insomma di sognare in avanti. Se questa è dunque l’utopia, un incessante approssimarsi a una realtà immaginata, niente vieterebbe, oggi, di riprendere e interpretare diversamente il mito architettonico della trasparenza, superando la disillusione modernista e il catastrofismo postmodernista per porlo invece sotto il segno dell’anticipazione trasformatrice. Un invito che Bloch rivolgeva già dalle pagine del suo capolavoro filosofico:
E anche l’aspetto relativamente più interessante di oggi o di ieri, l’utopia di una casa di vetro, ha bisogno di forme che meritino la trasparenza. Esige configurazioni che mantengano l’uomo come problema e il cristallo come risposta che dev’essere ancora mediata, anzi ancora formulata (Bloch 1959, p. 851).
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