Capitolo II. La società avvenuta
p. 151-179
Plan détaillé
Texte intégral
Il giardino delle delizie, ovvero gli eletti e gli esclusi
fino a che il cielo ovunque non collassi:
e sull’inferno, che è qui, cada il suo soffitto di cristallo.
Tommaso Ottonieri, Le strade che portano al Fucino
Vetrificato. Esposto. Disinnescato.
Régis Debray, Vita e morte dell’immagine
1La società avvenuta è il mondo così come si è configurato nel Dopoguerra, dove alle molte e puntualmente difettose utopie del perfetto ordine sociale, armonioso e privo di conflitti, è subentrata la realtà monodimensionale delle società a capitalismo avanzato, divenuta in questi ultimi anni scenario postdemocratico ipermediatizzato, segnato dalla volontà di trasformare la politica in amministrazione apolitica. L’ideologia in cui siamo oggi ancora totalmente immersi è quella che si plasma sull’ordine dell’esistente (Tafuri 1980, p. 24), un orizzonte culturale unico per il quale tornare a dare spazio alla prospettiva di un diverso assetto sociale rappresenta il più impronunciabile dei tabù. In questo nuovo ordine (sedicente) poststorico e solo apparentemente pacificato che ne è stato dunque della civiltà della trasparenza? Innegabilmente, nel secondo Novecento, e sempre più negli ultimi decenni, si è assistito al divenire sistemico dell’uso di architetture trasparenti, ossia al trionfo incondizionato, ovunque nel mondo, di quelle che per dirla col titolo di un fortunato romanzo di Paul Auster possiamo chiamare città di vetro. Per limitarci agli ultimi trent’anni e alla sola Europa, basti pensare alle cattedrali diafane del potere che si sono andate moltiplicando esponenzialmente in varie capitali, dalla Parigi degli anni Ottanta, con i monumentali edifici voluti da François Mitterrand per i suoi Grand Projets1, alla Berlino della Germania riunificata sotto la gigantesca cupola trasparente che domina il Reichstag (1993). Ci è stato detto che questo è il giardino delle delizie, e che se abbiamo un briciolo di senno faremo di tutto per starci dentro: per essere gli eletti, insomma, e non gli esclusi, del mondo presente (di quello a venire non mette nemmeno più conto parlarne). Mentre l’idea di permeabilità, ossia di reversibilità di esterno e interno, del muro che lo sguardo può penetrare, si rovescia sempre più spesso nell’isolamento di barriere ermetiche, ovvero nella separazione e nella ghettizzazione di una parte della società rispetto all’altra, mantenendo però intatta la reciproca visibilità, gli interrogativi che letteratura, arte e cinema si sono posti dal Dopoguerra a oggi sul tema della trasparenza vanno, ci pare, in almeno tre distinte direzioni. La prima è la riflessione sul ruolo della civiltà dei consumi. Ci soffermeremo su un caso particolarmente emblematico, sia da un punto di vista socio-culturale che letterario: l’Italia degli anni Cinquanta-Sessanta. Cosa vuol dire, nella stagione del boom, trovarsi al di qua di un’occhieggiante vetrina? Che cosa ne è, in quegli stessi anni, di quella sorta di ipervetrina che chiamiamo grattacielo, e delle sue promesse di progresso? La seconda questione è legata alla crescente ossessione per il tema della sicurezza, particolarmente evidente negli ultimi decenni: chi è ammesso e chi è respinto fuori dal perimetro incantato del giardino delle delizie? La terza investe invece una fantasia peculiare degli ultimi quindici anni, ovvero l’ipotesi per così dire catastrofico-apocalittica che nasce, come sempre in questi casi, delle paure dell’oggi. E se a essere estromessa, questo lo scenario che alcuni libri e film recenti prospettano, fosse un’intera comunità, per non dire l’umanità nel suo complesso, tagliata fuori o imprigionata nella trasparenza?
2I tre paragrafi finali indagheranno, con esempi tratti da vari linguaggi creativi, questi nodi e fantasmi della nostra contemporaneità.
Oltre la vetrina
Non basta, urgono altri mercati per queste merci umane,
pei colli qui accatastati, altre rate; nelle vetrine lucide di spazio
le bambole si abbandonano ai loro congegni, camminano.
Piero Bigongiari, Camminano, e tu cammini, ed io cammino
3La ristrutturazione psico-politica del cittadino-cliente – sempre meno cittadino e sempre più cliente – è un dato centrale della cultura occidentale degli ultimi cento anni. In tal senso, la letteratura italiana del secondo Novecento rappresenta un’ottima specola da cui osservare il diffondersi del potere della merce in un paese occidentale minore, che ha conosciuto lo sviluppo socio-economico con forte ritardo e in modo del tutto dirompente e violento. Certe forme ormai arcaiche di riflessione sul tema della vetrina nella nostra tradizione letteraria fanno quasi sorridere: penso per esempio a un breve racconto di Achille Campanile intitolato La città delle vetrine, compreso nel volume Cantilena all’angolo della strada del 1933. Memore probabilmente dello Zola di Al paradiso delle signore, Campanile prospetta un paese idilliaco dove non ci sono altro che vetrine e dove ogni giorno è la vigilia di Natale, cosicché le buone madri di famiglia non hanno altra preoccupazione che quella di fare shopping. Col tono canzonatorio che lo contraddistingue, lo scrittore romano non intende certo qui stigmatizzare gli eccessi dell’orgia consumistica: il suo è un bonario bozzetto di costume, un sorridente divertissement appena venato di sfumature comico-parodiche e misogine. Il narcisismo consumistico vi è visto come un elemento accessorio, un dato contingente, e non l’orizzonte totalizzante e onnipervasivo che poi si rivelerà.
4È nel Dopoguerra, come Pasolini non si stancherà di ripetere, facendone il perno del suo discorso socio-politico, che la mercificazione, simboleggiata dalla occhieggiante trasparenza delle vetrine, fa il suo prepotente ingresso nel paesaggio fisico e mentale degli italiani. Per limitarci alla narrativa, pensiamo solo all’opera di Giovanni Testori, i cui libri degli anni Cinquanta, a partire da Il ponte della Ghisolfa, pullulano di vetrine rilucenti e piene di seduzioni, tra i bar e i negozi che spuntano come funghi e rimodellano il paesaggio urbano meneghino, trasformando i sobborghi in periferie. Gli esempi in tal senso potrebbero moltiplicarsi a dismisura, pescando a caso dai romanzi, racconti e film italiani dei decenni Cinquanta-Sessanta, dove spesso le vetrine funzionano da dispositivi di esposizione e moltiplicazione degli sguardi desideranti dei personaggi al tempo della diffusa e incontenibile aspirazione al benessere. Particolarmente paradigmatico, anche per il tono satirico-umoristico che lo contraddistingue, risulta in tal senso un racconto di Alberto Moravia, intitolato Felicità in vetrina e compreso nella raccolta L’epidemia del 1956, anche se scritto nel decennio precedente. Ne è protagonista l’indigente famiglia Milone, la quale, durante una passeggiata, ha l’occasione di veder esposta nelle «vetrine grandi incorniciate di travertino lucidato» una merce particolarmente preziosa e pressoché introvabile: la felicità (Moravia 1956, p. 981). Disponibile in grande assortimento e in confezioni di diversa grandezza e valore, quel prezioso articolo, scrive Moravia, negli Stati Uniti «era, se non comune, per lo meno accessibile» (Moravia 1956, p. 981), mentre in Italia non si era mai visto. La felicità luccicante che le vetrine sembrano promettere, e su cui Moravia imbastisce il proprio piccolo apologo satirico, suscita la riprovazione del vecchio padre, piccolo borghese moralista e senza più desideri, mentre diventa per la figlia Giovanna, giovane ma infelice, il fulcro di ogni desiderio, il culmine di tutte le aspirazioni a lungo represse. Proprio perché «contigua» ma «inattingibile», per usare le parole di Bassani, la merce-felicità, ovvero la sirena del consumo, le appare come la soluzione di tutti i suoi tormenti, la promessa di scioglimento di ogni sua angoscia.
5Echi di questo tema si trovano in molti degli autori delle generazioni a seguire: penso per esempio alla narrativa di uno scrittore certo molto lontano dal mondo di Moravia come Gianni Celati. Negli scenari urbani descritti in libri dai titoli parlanti come Quattro novelle sulle apparenze e Cinema naturale, la vetrina e le merci che essa contiene ricorrono come motivi paradigmatici della alienazione che caratterizza la vita dell’uomo occidentale, sempre in connessione con il tema delle illusorie promesse di appagamento e facile soddisfazione generate dalle lastre trasparenti. Vale la pena citare per esempio un breve brano tratto da Cinema naturale, in cui la parola vetrina ricorre per ben tre volte, ossessivamente accompagnata dal tema delle luci. Ne è protagonista una donna perduta in un paesaggio che pure dovrebbe esserle familiare:
Mentre camminava verso casa, ecco le nuove vetrine con grandi scritte all’americana, i nuovi bar con nomi in inglese, i negozi di lusso con manichini in vetrina, un centro vendita di automobili con luminarie colossali. Tutta quella roba per far bella figura era già morta, secondo lei, e avevano un bel pulire le vetrine, e illuminarle con grandi scritte al neon per dire: «Comprate! Comprate!». Tutto quello che vedeva era già morto e sepolto nella polvere, secondo lei (Celati 2001, p. 56).
6Sono trascorsi quasi quarant’anni da Felicità in vetrina e ora quella stessa merce-felicità che tanto incantava la Giovanna di Moravia non solo ha perduto il proprio fascino, ma si rivela addirittura ripugnante, funerea, a dispetto delle eccitanti seduzioni che le vetrine, pulite e illuminate a dovere, si sforzano di generare.
7Tornando ai decenni Cinquanta-Sessanta, questo è anche il periodo in cui arriva in Italia la tipologia di edificio che più di ogni altra simboleggia l’avvento del secolo americano, ovvero il grattacielo, somma promessa di epocali trasformazioni sociali, politiche, psichico-esperienziali oltre che neo-monumentale iper-vetrina. Fin dalla loro prima comparsa, lo si è visto (cfr. supra, § Gli indifferenti (gli spietati)), queste faraoniche costruzioni sono state interpretate ora come il segno del felice pragmatismo della civiltà statunitense, ora come il simbolo di un processo di disumanizzazione in atto, partito proprio dagli Stati Uniti (si ricordi il caso di Ejzenštejn). Di questa dicotomica lettura troviamo riflessi, sia pure in ritardo di trent’anni, anche nella letteratura italiana. Pasolini scriverà versi molto accorati sulla scomparsa delle città italiane «dietro mareggiate di grattacieli | che coprono interi orizzonti» (Pasolini 1961, p. 926), ma l’esempio più rilevante è certo il Luciano Bianciardi dinamitardo de La vita agra (1962), romanzo il cui protagonista sogna di far brillare il moloch-«torracchione» (identificato ora con il Pirellone, ora con la Torre Galfa) che domina Milano e, neppure troppo metaforicamente, tutto il paese, in nome del profitto e di nuove – ma in realtà vecchissime – forme di classismo. Per restare al tema della trasparenza, che solo in parte interseca quello del grattacielo – dal momento che esistono, ovviamente, anche grattacieli non trasparenti – ci limiteremo tuttavia ai casi di Toti Scialoja e Italo Calvino, due grandi autori del secolo scorso che, in modo del tutto indipendente, si ritrovano nel Dopoguerra a riflettere sulla natura della città verticale dalla specola privilegiata degli Stati Uniti.
8Prima di avviare l’analisi dei testi, occorre ricordare come la vicenda di Calvino e Scialoja si inserisca all’interno di un più vasto movimento di fuga, reale o solo culturale, dal Vecchio Mondo. Terminata la terribile stagione dei totalitarismi e dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale, molti artisti e intellettuali avvertono infatti il bisogno di abbandonare il peso soverchiante della cultura europea, gravata da una secolare inadeguatezza e propensione al disastro, per cercare negli avveniristici scenari d’Oltreoceano un paradigma di libertà, quasi che la necessità di fare tabula rasa con il passato, proclamata a chiare lettere da Walter Benjamin, avesse dovuto attendere il supremo disastro dei fascismi e del conflitto globale per farsi urgente esigenza vitale. Le metropoli nordamericane punteggiate da skyscraper diventano allora un luogo carico di promesse e speranze per chi, uscito dalle lugubri, tenebrose notti della Seconda guerra mondiale, segnate da lunghe ore di oscuramenti antiaerei, avverte una gran sete di luce, libertà, vitalità.
9È questa la molla che spinge uno dei maggiori pittori e poeti del nostro Novecento, Toti Scialoja, a trasferirsi a New York, non a caso sul finire di un anno-spartiacque per il secolo breve come il 1956. Le ragioni di questo soggiorno sono principalmente creative: Scialoja desidera rinnovare la propria pittura attraverso lo studio dell’esperienza informale, da lui considerata a quell’altezza come la punta più avanzata della ricerca artistica mondiale. Lo anima la convinzione che quella di Pollock e compagni sia un’arte rivoluzionaria, nuova e libera, «una pittura trasparente, direttamente umana fuori d’ogni principio di autorità e di trascendenza: una pittura senza crosta» (Scialoja 1991, p. 27). L’aggettivo «trasparente», qui caricato di un valore estremamente positivo, non è scelto a caso, né ha un significato soltanto simbolico, trovando una precisa eco nel panorama architettonico della metropoli americana. Ce lo conferma questa suggestiva pagina del suo Giornale di pittura, datata «New York, 28 novembre - 4 dicembre 1956», dove lo scrittore racconta le impressioni suscitate in lui dalla vista della città dalla sommità del colossale Rockefeller Center:
La città sconfinata, miliardi di piccole luci, ma come se trasparissero da una materia organica, un immenso polipaio, immensi molluschi traslucidi in cui la vita si accendesse e trasparisse come da un cervello fosforescente. Il fondo del mare della vita, brulicante, rivelato, vivo come fosse sbucciato. Ecco cosa era New York: una città senza crosta. L’idea di costruire i grattacieli di vetro appariva già attuata o comunque naturale, dato che la vita accendendosi traspariva, e quelle torri sconfinate ed accese apparivano già tutte di vetro o di qualche plastica trasparente. Era nello spirito di quella vita apparire, manifestarsi: costruire lo spazio con la sola nuda vita, le nude attività umane: il respiro del lavoro collettivo, organizzato, volto solo a fare attivamente, produrre, moltiplicare, creava come una rete, un’immensa tela di ragno per reggere l’uomo soltanto, l’uomo spoglio di miti, terrori, pregiudizi. Un involucro per l’uomo mero, ignudo, spoglio d’ogni principio di autorità, di ogni trascendenza e gerarchismo sacerdotale (Scialoja 1991, pp. 26-27).
10In questo passo influenzato da echi dell’esistenzialismo e della fenomenologia francesi, coordinate filosofiche decisive per Scialoja, il trasparente paesaggio newyorkese è dunque assimilato a uno scenario vivente, al pari di un organismo biologico, e in quanto tale rappresenta la promessa di una nuova civiltà umana miracolosamente libera dalle catene del passato, spoglia di «miti, terrori, pregiudizi». Sia in riferimento alla pittura che alla città, lo si sarà notato, Scialoja parla di una realtà «senza crosta», cioè aperta, autentica, permeabile. Sono temi che abbiamo già visto tornare a varie riprese tra Otto e Novecento, e che qui si ripetono con uno slancio, con un’ansia di purezza e una fiducia nel rinnovamento che per certi versi appaiono ingenui, per altri commuovono, soprattutto se si pensa alle macerie europee che Scialoja si lasciava alle spalle.
11Come la grande pittura ha abbandonato le rive della Senna per quelle dell’Hudson, esaltandosi nei rivoluzionari lavori degli action painter statunitensi, così la civiltà occidentale ha ritrovato a New York quello slancio, quella vitalità che sembravano perdute. In questo senso, la trasparenza architettonica rappresenta agli occhi del poeta un modo di essere «umano», come lui stesso scrive, «fuori d’ogni principio di autorità e di trascendenza», ossia oltre le millenarie gabbie spirituali, morali, operative che ancora vedeva condizionare il pensiero e l’azione dei cittadini del Vecchio Continente. Non a caso Scialoja, nel magnificare l’incontenibile vitalità della città del futuro, insiste su due fattori che, abbiamo visto, risultano decisivi per tutti i fautori della poetica della trasparenza: la luminosità, in primis – Scheerbart e Taut riecheggiano per esempio in questa riflessione del giugno 1960: «Non si capisce se tutte queste luci siano accese oppure sfavillino riflettendo il fuoco radente del sole» (Scialoja 1991, p. 159) – e in secondo luogo la leggerezza: la Big Apple dell’American Dream è infatti vista come «[…] unico crogiuolo di una città immensa, lievissima, libera e disancorata» (frammento del dicembre 1956 in Scialoja 1991, p. 44).
12A questa esaltazione della civiltà del grattacielo trasparente come sorta di realizzazione della promessa utopica di un’umanità libera perché povera di esperienza, in parte conforme all’auspicio espresso da Benjamin nel suo capitale saggio del 1933 Esperienza e povertà, si contrappone invece la larga schiera di coloro che, per motivi diversi, hanno in sospetto o francamente avversano il modello della città di vetro. Tra questi, ma con sfumature su cui vale la pena soffermarsi, c’è un convinto ammiratore di Scialoja come Italo Calvino, il quale proprio negli anni Cinquanta iniziava a riflettere sulle trasformazioni in atto nel paesaggio italiano. Con mossa caratteristica della sua poetica, il romanziere sanremese non si limita a descrivere l’esistente ma proietta il proprio discorso nel futuro e in spazi fantastici, entro una parabola che dalla «grande città industriale» dove si aggira smarrito il povero Marcovaldo (1963) giunge alle peregrinazioni interplanetarie del misterioso Qfwfq in Le Cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967) – personaggio che peraltro rappresenta una sorta di reincarnazione cosmica dello stesso Marcovaldo (Barenghi 2003, p. 1370).
13Conviene, prima di procedere all’analisi del testo calviniano che intendiamo affrontare, ricordare brevemente ciò che in quegli stessi anni andavano scrivendo un grande poeta americano, Wystan Hugh Auden, e un grande filosofo marxista, Ernst Bloch. In uno dei suoi componimenti più celebri, City without walls (Città senza mura), attraverso il martellare di un verso ritmato e allitterante Auden descrive Manhattan e più in generale la società urbana moderna come un deserto di solitudine e desolazione, una selva mostruosamente inospitale. Il poeta insiste sul fatto che il crollo dei muri della tradizione abbia lasciato la vita dell’uomo priva di direzione e senso, cosicché gli esseri umani si sono trasformati in eremiti prigionieri di spelonche di vetro e acciaio (Auden 1969, p. 41). Sul piano concettuale questa posizione, che richiama da vicino i temi della Glass House ejzenštejniana – penso a un verso come «where no ones cares what his neighbor does», «dove a nessuno importa quel che fa il suo vicino» (Auden 1969, p. 42) – riecheggia inaspettatamente le pagine del capolavoro filosofico di Ernst Bloch Il principio speranza (1959). Rovesciando le attese palingenetiche di Benjamin, Bloch considera l’architettura della trasparenza, definita superficiale ed «eternamente funzionale» (Bloch 1959, p. 849), come la massima espressione della levigata vuotezza borghese. La trasparenza, sostiene il filosofo, non è affatto un valore in sé: manipolata dalla società tardocapitalistica, sottomessa al dominio della macchina, tradottasi in mero funzionalismo, non è che uno strumento di mantenimento e autolegittimazione dell’ordine esistente (Bloch 1959, pp. 850-851). Per questo, anche i maestri di inizio secolo, il «pancosmico» Scheerbart e Bruno Taut, non erano che degli illusi. Inoltre, il grattacielo ha a suo giudizio qualcosa di mortuario: non già l’organismo brulicante di vita di cui parla Scialoja, bensì un luogo dal quale la vera vita risulta assente, una gelida lastra che «riflette e raddoppia in effetti il mondo freddo come il ghiaccio degli automi della società della merci, della sua estraniazione, dei suoi uomini vittime della divisione del lavoro, della sua tecnica astratta» (Bloch 1959, pp. 857-858).
14Tenendo a mente le posizioni di Auden e Bloch2, torniamo a Calvino. Nell’aprile del 1967 lo scrittore sanremese pubblica sulle pagine de «Il giorno» una «storia cosmicomica» intitolata I cristalli, che poi confluirà in Ti con zero. Il protagonista, Qfwfq, afflitto e logorato dalla nostalgia per qualcosa che non è mai esistito – ossia un mondo perfetto e compiuto, tutto fatto di cristallo – così descrive le sue giornate newyorkesi:
Anch’io corro come facciamo tutti, prendo il treno ogni mattina (abito nel New Jersey) per infilarmi nell’agglomerato di prismi che vedo emergere di là del Hudson, con le sue cuspidi aguzze; ci passo le giornate, lì dentro, su e giù per gli assi orizzontali e verticali che attraversano quel solido compatto, o lungo i percorsi obbligati che rasentano i lati e gli spigoli. Ma non cado nella trappola: so che mi fanno correre tra lisce pareti trasparenti e tra angoli simmetrici perché io creda di essere dentro un cristallo, perché vi riconosca una forma regolare, un asse di rotazione, una costante nei diedri, mentre non esiste nulla di tutto questo. Il contrario, esiste: il vetro, sono solidi di vetro quelli che fiancheggiano le vie, non di cristallo, è una pasta di molecole alla rinfusa che ha invaso e cementato il mondo, una coltre di lava raffreddata all’improvviso, irrigidita in forme imposte dall’esterno, mentre dentro è il magma tale e quale come ai tempi della Terra incandescente (Calvino 1967, p. 248).
15Venduta come un paradiso di solidi e prismi cristallini, la Grande Mela si rivela invece come una selvaggia, disordinata giungla di vetro. Si tratta, naturalmente, dello stesso scenario che aveva entusiasmato Scialoja qualche anno prima: solo che adesso le promesse della città organica e sorgiva celebrata dal poeta e pittore romano, luogo dove l’esistenza prolifera nella molteplice ricchezza delle sue diverse manifestazioni, si rivelano inadeguate, menzognere, insidiose, persino terrificanti. Chi scrive sa che il grattacielo non ha niente a che vedere con la perfezione egizia del cristallo, perché sotto la «pasta di molecole alla rinfusa» che ha irrigidito il mondo «in forme imposte dall’esterno», brulica un terribile caos primigenio, un magmatico divenire cosmico che può solo fingere di essere un Eden. Proprio come il vetro è solo una cattiva imitazione del cristallo, così la metropoli moderna è un’assai imperfetta realizzazione delle utopie della città ideale. L’illusione, la «trappola» rappresentata da questo luogo labirintico è confermata dalla falsa promessa di una futura vita paradisiaca nell’«ipercristallo», in una realtà capace cioè di riassorbire in sé «cristalli e non-cristalli» (Calvino 1967, p. 255), dove però Qfwfq e la sua compagna-rivale Vug si troveranno costantemente divisi, impossibilitati a ricongiungersi:
Sognai un mondo di cristallo, a quei tempi: non lo sognai, lo vidi, un’indistruttibile gelida primavera di quarzo. Crescevano poliedri alti come montagne, diafani: attraverso il loro spessore traspariva l’ombra di chi stava al di là. – Vug, sei tu! – Per raggiungerla mi avventavo su pareti lisce come specchi; scivolavo indietro; m’afferravo agli spigoli, ferendomi; correvo lungo perimetri ingannevoli, e ad ogni svolta era una diversa luce – irradiante, lattiginosa, opaca – che la montagna conteneva (Calvino 1967, p. 251).
16Con la sensibilità e l’intelligenza sociale che lo contraddistinguono, Calvino coglie perfettamente il tramonto di un’utopia che tanto aveva contato nel primo Novecento: non solo il mondo luminoso, ordinato e piacevole che pensatori e artisti visionari come Scheerbart e Taut avevano sognato non si è mai realizzato, ma è stato sostituito da una mediocre e ingannevole copia: «[…] il preteso cristallo che m’imprigiona adesso è vile vetro», dice Qfwfq (Calvino 1967, p. 251), e «[…] questo che voi chiamate ordine è uno sfilacciato rattoppo della disgregazione […]» (Calvino 1967, p. 251). Il narratore sanremese giunge dunque qui, per altra via, alle stesse conclusioni di un Auden, di un Bloch: il mondo di superfici lustre e vuote di contenuti, lievi e disancorate che l’architettura della trasparenza simboleggia è in realtà la traduzione in termini costruttivi e urbanistici dello spaventoso potenziale disumanizzante del mondo moderno. La società avvenuta è tutta in questa immagine calviniana di un vetro che si finge cristallo, in questa città invisibile, che aspira cioè letteralmente all’invisibilità e alla trasparenza, divenuta invivibile (Turi 2012). L’armonia prestabilita delle civiltà consumistiche e tecnocratiche, insomma, resta una promessa incompiuta: ci sono guai anche in paradiso.
17Il tema torna poi a far capolino in un altro episodio dell’opera calviniana, la prosa Altre città, sorta di appendice alle città invisibili. Mi riferisco in particolare al breve paragrafo La città di vetro. Qui, ancora una volta, l’illusione di contiguità, supportata da una certezza d’intangibilità, si fonda su un’illusione: quella di far passare solo ciò che è puro, ovvero la luce, bloccando l’impura, caotica presenza dei corpi. Scrive Calvino:
C’è una città dove tutti i muri sono di vetro; le vie scorrono ai piedi di grattacieli trasparenti; a ogni piano le vetrate riflettono le vetrate di fronte o lasciano intravedere una successione di vetrate. Secondo l’ora e la luce, lo sguardo attraversa tutta la città e vede una nuvola nel cielo oltre l’ultima finestra. Ma come gira il sole e i vetri si fanno opachi, sembra che la nuvola passi tra vetro e vetro, percorra tutte le vie, sia chiusa in ogni stanza.
Alle volte una faccia umana spunta in un angolo d’una finestra al centesimo piano, pallida, a occhi sbarrati, schiacciando il naso contro il vetro. E non c’è modo di sapere se è davvero da dietro quel vetro che sta guardando, o se vi si specchia dalla casa di fronte, oppure se guarda da una finestra della facciata opposta, e questo che si vede è un riflesso su una finestra della casa successiva che traspare fin qui. A meno che non sia né qui né di fronte né lì dietro, ma un complicato gioco di specchi trasmetta questa sfocata immagine a chilometri di distanza.
A ogni piano, ci sono facce che fanno capolino dietro i vetri, si guardano, si tirano indietro con paura. Forse è sempre la stessa faccia. Forse ha paura di capire che in tutta la città non c’è che lei (Calvino 1976, pp. 384-385).
18C’è come un’eco dei fantasmi di Bontempelli (cfr. supra, § Como) in questo brano dove lo scrittore sanremese sembra ricapitolare, sia pure con un taglio meno esplicitamente politico e intersecando il tema della trasparenza con quello dello specchio, tanto le intuizioni distopiche di Zamjatin (cfr. supra, § Pietrogrado) quanto quelle di Ejzenštejn (cfr. supra, § Gli indifferenti (gli spietati)) circa l’ipotesi di una città ipervetrinizzata, composta cioè esclusivamente di enormi grattacieli vitrei.
19Lo spazio che si vorrebbe ideale si presenta invece ancora una volta come deformato, disturbante e claustrofobico, per dirla nei termini di Anthony Vidler (2000), ossia irrespirabile. Oltre la parete diafana, oltre le superfici lisce e levigate del grattacielo – questo lo scenario che Calvino ci presenta – non c’è che lo sguardo occhiuto di un corpo isolato, prigioniero, visibilmente sofferente: e poco importa che non ci sia nessuno a sorvegliarlo, che i suoi gesti non siano spiati da un onnipotente sguardo dispotico ma al limite, come in quegli anni andava insegnando Foucault, da una selva di micropoteri sorretti da diffusi meccanismi di consenso amministrato. La sua condizione è quella di chi vive in una scatola opprimente, «a occhi sbarrati, schiacciando il naso contro il vetro». La civiltà della trasparenza non è giunta a liberarci, ad aggregarci e a consentirci un’illimitata possibilità di movimento, sostiene Calvino, ma a generare nuove forme di segregazione e dolore. Se, come afferma Byung-Chul Han, l’imperativo della trasparenza sospetta di tutto ciò che non si sottomette alla visibilità, e in ciò consiste la sua violenza (Byung-Chul Han 2012, p. 28), questa non si esercita solo nei regimi totalitari, ma anche nell’Occidente più progredito e multinazionale, nella società dell’ipercomunicazione e del panottico digitale, nelle forme sempre più immateriali del capitalismo avanzato. Oltre la vetrina, dentro l’ipervetrina, non c’è che una solitudine sterminata.
Dentro la fortezza
20Il secondo Novecento ha conosciuto un incremento esponenziale della trasparenza architettonica come elemento di differenziazione e separazione sociale, ovvero come strumento di isolamento delle classi benestanti da quelle indigenti. Il mondo creato dal capitalismo integrale non solo non ha conosciuto la promessa pax universalis consumistica ma si fonda sul conflitto e la scissione sociale, sul respingimento dei corpi estranei, alieni, indesiderabili – i poveri, i soggetti improduttivi. Lo sparuto drappello dei detentori di potere d’acquisto, potremmo dire parafrasando i versi del poeta siciliano Bartolo Cattafi, «[…] si salda e chiude / in faccia al mondo», «s’inchiavarda con cura / libero in sé / recluso nel suo bene» (Tra le mura, 1977, in Cattafi 2000, p. 53). Pensiero ecologista, pratiche consumistiche e politiche ultraliberali hanno trovato una sorta di grottesca armonia nella costruzione di luoghi dove alla trasparenza è affidata una funzione soltanto selettiva: la trasparenza è insomma, oggi, davvero esclusiva, parola chiave del marketing pubblicitario che naturalmente implica, ma non esplicita, il correlato concetto di esclusione – così come privato implica, ma non esplicita, il senso di privilegiato. Non a caso Mike Davis ha intitolato il suo libro su Los Angeles City of Quartz: descrivendo le nuove forme di discriminazione intrinsecamente legate alla progettazione urbanistica del territorio, lo studioso statunitense allude a un luogo ben preciso della città (il quartiere-fortezza di Quartz Hill) ma al contempo sottintende la natura cristallina della metropoli contemporanea, dove il cristallo significa perfezione solo nel senso di chiusura, isolamento, separazione (Davis 2006).
21Mentre nelle grandi città del mondo continuano a esistere interi quartieri di edifici fatiscenti e proliferano numerose le baraccopoli, mentre le città d’arte e i siti archeologici cadono a pezzi – quanto risuonano ancora attuali le previsioni di John Ruskin! – il proliferare delle vetrine e più in generale di spazi trasparenti riflette sempre più spesso la volontà di isolare una minima frazione dell’umanità in modo da sottrarla all’invasività e alla caotica indeterminatezza del mondo circostante. Il fenomeno ottocentesco che ha visto il progressivo trasformarsi delle città in vetrine, e il sorgere di vere e proprie città-vetrina, da qualche decennio si è fatto parossisistico con il totale riassorbimento del mondo esterno in un interno chiuso, recintato, climatizzato. Come osserva Giandomenico Amendola,
la città-spettacolo, del gusto e dell’estetizzazione di massa, è fondata sulla disuguaglianza sociale e sul suo riconoscimento, in quanto un fattore importante nella spinta verso i consumi discrezionali è la loro capacità di distinguerci dagli altri […]. La lama sottile su cui vive in equilibrio la città nuova postmoderna è data dal fatto che da una parte essa ha bisogno di una diffusa coscienza delle disuguaglianze per promuovere i consumi distintivi e, dall’altra, deve detematizzare o occultare gli effetti, soprattutto estremi, di queste disuguaglianze. Chi è escluso dal sogno può costituire, infatti, un pericolo per la stessa esistenza del sogno. La bolla incantata può essere rotta e il sogno trasformarsi in un incubo (Amendola 1997, p. 210).
22Il mondo del consumo, insomma, nota Massimo Ilardi, «non è abitato solo da consumatori che felicemente consumano affascinati dalle merci, ma anche da coloro, e sono la maggioranza, che vivono sulla loro pelle lo scarto tra desideri e possibilità reali» (Ilardi 2004, p. 81). Alla base del fenomeno c’è comunque il paradosso di un isolamento in piena visibilità: l’abbattimento delle barriere visive infatti non solo non è un problema, ma è anzi incoraggiato in quanto visibilità e isolamento sono legati da una paradossale, inversa reciprocità. Detto altrimenti, la logica delle città-vetrine sicurizzate impone che ci sia una relazione perversa, generatrice di quello scarto di cui parla Ilardi, tra gli invisibili che stanno fuori, ossessionati dal desiderio di entrare, e i visibili che stanno dentro, segregati nel loro benessere, scaldati dalla luce dei neon e protetti da cancelli di vetro e acciaio che non vogliono, non possono valicare3.
23Ecco allora che se l’incubo novecentesco era ancora quello concentrazionario, benthamiano, del palazzo-città-prigione, l’ipotesi che funesta i sogni dell’Occidente è oggi quella di un mondo in cui il palazzo delle favole destinato agli eletti, recinto inaccessibile ma decisamente invitante, promessa di un godimento modellato sulla forma-consumo, venga preso d’assalto dagli esclusi, da quegli individui cioè che la società ha spinto «in uno spazio fuori controllo», perché vegetino «in una zona crepuscolare» come scrive Slavoj Žižek (Žižek 2008, p. 528). Ora, cosa sono gli zombi, i morti viventi del cinema di George Romero che poi hanno ispirato uno dei nostri scrittori più visionari e innovativi, Tommaso Ottonieri, se non questa massa di reietti che abbandonano le loro waste land per dare l’assalto ai simmetrici, ostentati palazzi di cristallo dei nostri giorni, ovvero agli shopping mall?
24Penso a un film come Zombi, da anni ormai studiato in chiave politica ma non, a quanto ci risulta, in relazione al tema qui preso in esame. Nella pellicola i morti viventi cingono d’assedio un grande centro commerciale, entrano cioè per la prima volta in contatto, nella storia del cinema, con la realtà consumistica e con l’architettura autoreferenziale e rigidamente perimetrata della fortezza-vetrina. Non è forse un caso che il film esca nel 1978, poco dopo la pubblicazione di un saggio seminale come The Fall of Public Man (Il declino dell’uomo pubblico) di Richard Sennett. In quel testo, il grande sociologo e scrittore di Chicago proclama la morte dello spazio pubblico e rileva la diffusione di «una concezione architettonica nella quale il muro, per quanto permeabile, isola le attività che si svolgono all’interno dell’edificio dalla vita esterna. Dunque, in quest’idea progettuale si fondono estetica della visibilità e isolamento sociale» (Sennett 1977, pp. 14-15). Queste parole ben rispecchiano quella fantasmatica reincarnazione del palazzo delle delizie proveniente dalla tradizione favolistica che è il centro commerciale, spazio acquietato ma non onninclusivo, se la sua ipervetrinizzazione risulta discriminatoria non già sulla base dell’appartenenza etnica, religiosa o politica, bensì solo ed esclusivamente in ragione del censo.
25Quello che accade nel mall di Zombi è dunque il frontale contrapporsi della realtà del ghetto – letteralmente, lo spazio dei ripudiati – a quella dell’enclave esclusiva, blindata dietro le sue solide, lisce pareti di cristallo. In questo caso, è precisamente l’impenetrabilità della barriera trasparente a scatenare la reazione violenta dei morti viventi4. Come nota Mario Perniola, quando la trasparenza perde il suo carattere di fragilità, con l’introduzione di materiali infrangibili, a partire cioè dal momento in cui «si può esporre qualcosa o qualcuno senza fargli correre più nessun pericolo, senza che il fatto di mostrarlo costituisca più una sfida […] l’esposizione assume i tratti dell’arroganza e dell’insolenza» (Perniola 1998, p. 88). L’infrangibilità, osserva il filosofo,
[…] pone fine alla delicatezza della trasparenza e genera il vandalismo fine a se stesso, il fatto che ciò che è esposto sia al riparo dalla contestazione lo involgarisce e lo trivializza. Nello stesso tempo involgarisce e trivializza anche la sua negazione che diventa cieca distruzione (Perniola 1998, p. 89).
26È esattamente ciò che vediamo accadere nel film di Romero, dove masse di zombi, caracollando precariamente sui loro arti putrefatti, fanno ressa contro le vetrine infrangibili del mall, senza nessuna speranza di poterle valicare. Quello che qui ci preme sottolineare non è tanto il modo di agire dei non-morti, quanto quello dei protagonisti del film, i presunti eroi della vicenda barricati dentro il centro commerciale. Il confronto vis-à-vis che essi instaurano attraverso la trasparenza delle porte scorrevoli con i loro deboli assalitori, incapaci di usare efficacemente le mani e tantomeno di darsi una disciplina di gruppo, è quello tracotante e violento di chi si sente al riparo dietro lisce, solide pareti di cristallo: li prendono in giro, li insultano, fanno sfoggio di tutta la superiorità fisica e mentale di cui dispongono, mentre si preparano a sopprimerli. Questo comportamento arrogante dei vivi, cioè degli eletti, nei confronti degli esclusi, condensa alla perfezione i concetti espressi da Sennett – sul rapporto ambiguo tra visibilità e isolamento – e Perniola – sulla «trasparenza infrangibile» e il senso di superiorità che essa suscita. Romero, insomma, non ne fa mistero: le vittime sono gli zombi, noi gli aguzzini.
27Quanto queste suggestioni romeriane, e in particolare il rapporto esistente tra le seduzioni della superficie idilliaca iperrealista – gli spazi trasparenti del mall – e il loro terrificante, osceno risvolto, siano profondamente rivelatrici del mondo contemporaneo lo ha ben capito Tommaso Ottonieri, autore di uno dei più originali esperimenti narrativi italiani degli ultimi trent’anni, Crema acida, libro scritto negli anni Ottanta ma ambientato sul finire del 1999 in qualche parte imprecisata dell’Emisfero Nord. In una lingua saporita e plasticamente proliferante, lo scrittore porta in scena la «bulimia da merce» che rende fameliche le «anime associate e cooperanti a pullulare senz’altro scopo che il consumo: esponenzialmente il Consumo» (Ottonieri 1997, p. 54). Il magistero del regista statunitense è evocato in più punti del testo, ma in modo inequivocabile in questo brano ambientato nello spiazzo antistante la fantomatica catena di grandi magazzini GoodBuy, la plaza dove i giovani si accalcano
per schiere, mucchi l’un contro l’altro volti, no non contro l’altro, anzi al cristallo serrato blindatissimo diaframma del sogno dei sogni che si sognano diurni, ad occhi aperti, mesmerizzanti aperti come su uno schermo che sparisce quindi traspare (Ottonieri 1997, p. 40).
28Proprio come la moltitudine degli zombi romeriani, quella di adolescenti reietti del futuro immaginata dallo scrittore italiano è composta da «chi ritorna senza sapere perché in quei posti da cui è stato escluso una volta e per sempre, e in essi vaga confuso» (Ottonieri 1997, p. 41). La fantasmagoria della merce attira come falene masse di morti-in-vita anestetizzati dalla voglia di consumare prodotti e immagini – il nesso civiltà trasparente / civiltà mediale è qui esplicitato dalla parola «schermo» – inutilmente smaniosi di aprire una breccia nell’arrogante, infrangibile porta di cristallo, «blindatissimo diaframma del sogno dei sogni». Il paradiso è un luogo esclusivo, si sa, e loro, sventuratamente, sono appunto gli esclusi. Tuttavia, il riscatto dei non-eletti è solo posticipato.
29Venticinque anni dopo Zombi e sei dopo il distopico futuro immaginato da Ottonieri un altro film romeriano, Land of the Dead (2005), riprende queste intuizioni contrapponendo, in uno scenario fantapolitico piuttosto verosimile, gli abitanti di un’esclusiva cittadella-fortezza-vetrina dotata di ogni comfort agli indigenti-favelados che gravitano all’esterno e ai non-morti confinati al di là di un secondo, inaccessibile perimetro5. Fiddler’s Green, centro commerciale effettivamente esistente a Los Angeles, è un vero e proprio giardino delle delizie, isolato dal contatto con le impurità e dal caos del mondo circostante attraverso quelli che, parafrasando Vanni Codeluppi, possiamo definire «[…] sistemi rigidamente chiusi e protetti che cercano di lasciare all’esterno la componente più povera e pericolosa della popolazione» (Codeluppi 2000, p. 80). I nuovi zombi dispongono però di risorse che i loro predecessori non possedevano: sono più evoluti, hanno imparato a usare pistole e oggetti, e soprattutto sono uniti, si sono aggregati, possono attaccare il nemico in modo organizzato. Il vetro, questa arrogante parete trasparente, forse non è più infrangibile.
30Particolarmente significativa risulta per noi la scena in cui l’armata dei non-morti, superate le ultime difese dei vivi, raggiunge finalmente Fiddler’s Green trovandosi davanti a un ultimo «blindatissimo diaframma», la luccicante vetrina che funge da ingresso alla cittadella-fortezza. Per qualche istante i reietti restano immobili, ammaliati dalla meraviglia e dallo splendore delle luci. Poi, uno dopo l’altro battono i pugni contro la superficie diafana, smaniosi di entrare. Infine, seguendo l’esempio del loro ispiratore, ennesima reincarnazione della figura eroica del leader rivoluzionario, calano su di essa, in una serrata sequenza di piani ravvicinati, pale, mazze, martelli pneumatici, fino a che la lastra, perfetto simbolo del senso di inappartenenza e ingiustizia che ha innescato la ribellione, finisce in frantumi, proprio come la Bastiglia sotto i colpi furiosi dei parigini. Neppure troppo tra le righe il regista americano sembra avanzare l’idea che forse davvero l’ultimo tipo di rivoluzione possibile sia quella degli emarginati condannati al buio assoluto dell’invisibilità, di coloro che niente hanno da perdere – When you got nothing, you got nothing to lose, come cantava Bob Dylan – e che per questo non hanno più ragione di stare fuori ad ammirare col naso schiacciato ai vetri una felicità tanto prossima quanto inattingibile. È solo questione di punti di vista: quella che qualcuno chiama Zombie Apocalypse può per altri essere il segno di un riscatto, che renda finalmente veritiero il famoso epilogo delle favole, solo che lo si corregga al negativo: And they (un-)lived happily ever after.
31Quanto agli eletti, anche quando nessuna minaccia esterna sembri incombere, non è detto che la fortezza perfettamente isolata e autosufficiente non possa trasformarsi rapidamente in una trappola per chi la abita. I problemi, infatti, potrebbero venire da dentro. È quanto accade in uno dei migliori romanzi di James Graham Ballard, Il condominio, che per certi versi ci riconduce alle atmosfere del progetto della Glass House di Ejzenštejn, e per altri ancor più indietro, agli inquietanti scenari dostoevskijani, anche se la polemica contro le città verticali si declina qui secondo i modi propri della fantascienza distopica anni Settanta. I protagonisti di High-rise, romanzo del 1975 che Hugh Ferriss avrebbe probabilmente definito un «modern metropolitan drama» (Ferriss 1929, p 15), sono infatti dei benestanti che vivono in un elegante e imponente grattacielo londinese, una città-fortezza di quaranta piani perfettamente autonoma, dal momento che contiene, oltre agli appartamenti, ogni genere di attività, dal supermarket alla banca, dal salone di parrucchiere alla scuola materna.
32«Là», scrive Ballard, le dimensioni della vita «erano lo spazio, la luce e i piaceri connessi a una sfumata, sottile forma di anonimato»: il grattacielo sembra infatti costituire uno «sfondo emotivamente neutrale» (Ballard 1975, p. 9 e 18). In effetti, quella che si conduce tra le lisce, gelide pareti dell’edificio è una vita arida, acquiescente e controllata, di totale e reciproco isolamento. Non a caso, i condomini guardano la televisione senza audio: non un gesto di civiltà, naturalmente, ma un segno di instabilità psichica e un inquietante ritorno del motivo dell’acquario, rafforzato anche dalla presenza di due grandi piscine nel cuore dell’edificio. Sennonché, in seguito a un evento in sé non certo catastrofico (l’interruzione dell’energia elettrica), quel «pianeta chiuso e rettilineo» dalla «faccia vitrea» (Ballard 1975, p. 113), quell’ordinato e asettico paradiso residenziale nel cuore di Londra, si trasforma progressivamente in un vero girone infernale, fungendo da oscuro attivatore di energie psichiche represse. Tutte le tensioni a lungo trattenute esplodono selvaggiamente, cosicché, proprio come succedeva nel grattacielo di Ejzenštejn, se in un primo momento domina l’indifferenza – sia pure meno sistematica, e scientifica, di quella cui abbiamo assistito nella Glass House – in breve tempo si trascende, passando dalle provocazioni agli insulti, poi ai disordini, infine alla violenza più scatenata e primordiale. Il tutto condito, naturalmente, da eccessi di piacere voyeuristico. Significativamente, il romanzo è scandito sin dal primo capitolo dall’ossessiva presenza di vetri rotti – frammenti di bottiglie, parabrezza danneggiati, finestre panoramiche sfondate – simbolo, è il caso di dirlo, trasparente dell’andare in frantumi della vita civile all’interno del grattacielo.
33Al motivo del passaggio dall’indifferenza alla violenza si accompagna poi quello del delirio di onnipotenza da parte dell’architetto progettista, Anthony Royal, un «convinto sostenitore del funzionalismo razionalista» come ricorda Andrea Chiurato (Chiurato 2013, p. 31), dettaglio questo estremamente rivelatore dell’humour noir di cui l’autore fa prova. Nel corso del romanzo Royal viene presentato come una sorta di Dio-demiurgo, spesso colto in «pose messianiche» (Ballard 1975, p. 126) e convinto – al pari, si badi, del Leopold Bloom joyciano nel suo sogno da cattiva digestione (cfr. supra, § Dublino) – di aver creato molto più di un semplice condominio, addirittura una «nuova Gerusalemme» (Ballard 1975, p. 78). The Vertical City, la città verticale di Royal, è dunque l’ennesima, e per quanto lo riguarda definitiva, incarnazione dell’Eden mistico-architettonico sognato da secoli e ora aggiornato alla paradisiaca, (sedicente) conclusiva età del capitalismo avanzato. Tuttavia, anche il sogno di questa archistar, esattamente come quello di molti suoi predecessori letterari, compreso l’illustre everyman dublinese, non è destinato a durare, e si infrange di fronte al sorgere del caos incontrollabile che precipita l’edificio verso la rovina. Né sarà un caso che il destino del Dio - Padre Royal incontri quello del figlio putativo – e naturalmente, ribelle – Richard Wilder, altro protagonista del romanzo, che in ossequio alla migliore tradizione edipica si assumerà il compito di uccidere l’architetto, ponendo fine al suo regno di follia. Oltre la vetrina, dentro la fortezza, ovunque la trasparenza regni, sembra non esserci scampo. Ma il peggio deve ancora arrivare.
Sotto la cupola
Avete mai letto i romanzi di Anthony Trollope? Sono […] così realistici come se un gigante avesse tagliato un grosso pezzo di globo terrestre e l’avesse messo in una teca di vetro, con tutti i suoi abitanti impegnati nelle loro faccende quotidiane, e senza che abbiano il sospetto di essere stati messi in mostra.
Anthony Trollope, Un’autobiografia [riportando un giudizio di Nathaniel Hawthorne]
Ed ora
tutto è in un fermo vetro trasparente.
Bartolo Cattafi, A Vittorio
34Lo scenario avveneristico della cupola trasparente deputata a custodire un’intera civiltà, facendola crescere e prosperare nel mentre che la preserva dal nocivo contatto con l’esterno, è uno dei grandi sogni del Dopoguerra. Prima il genere fantascientifico, con la ricorrente immagine dei globi e delle sfere terraformanti (in grado di rendere biologicamente compatibile con la vita un ambiente altrimenti inabitabile), poi la pratica urbanistica e architettonica dei cosiddetti biodome attingono spesso a questo mito6. Si tratta anche in questo caso di un’immagine antica, fiabesca e biblica a un tempo: la rappresentazione più bella che ne abbiamo in pittura è senz’altro quella dataci da Hieronymus Bosch, sommo maestro di un’arte surreale, insieme fantastica ed escatologica, con la sfera che ricopre la terra ne La creazione del mondo, dipinto oggi conservato al Prado di Madrid7. Risulta inoltre piuttosto evidente come l’immagine ancestrale del grembo materno giochi qui un ruolo determinante: e il pensiero corre subito al cinema di Stanley Kubrick, al feto cosmico di 2001: Odissea nello spazio, galleggiante nell’immensità dell’universo e racchiuso nella perfezione di una sfera trasparente.
35Non è dunque un caso che uno degli artisti più visionari del Novecento, Walt Disney, immaginasse la città ideale come un ordinato agglomerato urbano posto all’interno di una cupola isolante. Lo sottolinea Vanni Codeluppi, ricordando che
per Disney World, Disney aveva sviluppato un progetto estremamente ambizioso che comprendeva anche l’idea di una comunità ideale di individui (Epcot), che avrebbe dovuto vivere in una grande cupola chiusa. Nel 1966, poco prima di morire, ha detto infatti a tale proposito: «Sarà come la città di domani dovrebbe essere: una città al servizio della gente. Sarà una comunità pianificata e controllata, una vetrina dell’industria e della ricerca, delle scuole, delle possibilità culturali e educative. In Epcot non ci saranno slums perché non lasceremo che ne sorgano. Non ci saranno proprietari terrieri e quindi nessun controllo elettorale. La gente affitterà le case, invece di comprarle, e gli affitti saranno modesti. Non ci saranno pensionati. Tutti dovranno avere un’occupazione» (Codeluppi 2000, p. 175).
36L’utopia disneyana di una cupola isolante dove sviluppare, letteralmente in vitro, la società di domani – una prospettiva i cui risvolti inquietanti non è difficile cogliere – è rimasta sulla carta, ma i dome trasparenti, sia pure in forme decisamente meno ambiziose, sono diventati da tempo realtà concretate: si pensi solo alle cupole geodetiche di Richard Buckminster Fuller, alla biocupola di Renzo Piano a Genova o al Biodôme di Montréal di cui parla – collocandolo però per qualche ragione a Toronto – il poeta Valerio Magrelli in una sua prosa:
Il Biodôme non è un giardino zoologico, un acquario, un parco o un giardino botanico, […] [è invece] un enorme carapace in vetro e cemento, guscio di tartaruga senza più tartaruga. Al suo posto, un Eden replicato, museo vivente e arca di Noè. Il modello riprodotto è la Terra stessa. Svuotato e ripulito come l’interno di una conchiglia, lo spazio circolare di questo vecchio velodromo appare suddiviso in quattro parti: un’immensa pizza quattro stagioni, ognuno dei cui settori corrisponde a un diverso ecosistema (Magrelli 2003, p. 108).
37Chissà se mentre scriveva queste righe in cui paragona il Biodôme canadese a «un’incubatrice» e a «una tenda a ossigeno, dove, nei modi più sofisticati, si cerca di scongiurare artificialmente la corruzione di un cadavere» (Magrelli 2003, p. 209), il poeta romano aveva in mente il progetto Biosfera II (1991), l’esperimento di una cupola trasparente su cui il filosofo e sociologo Jean Baudrillard ha scritto, a più riprese, pagine feroci, bollandola come un’allucinazione collettiva e una sorta di grottesca attrazione disneyana. Collocata nel deserto dell’Arizona per simulare un complesso ecosistema spaziale (si va dalla barriera corallina alla foresta di mangrovie, dalla savana al deserto), Biosfera II, tuttora esistente e nel frattempo arricchita di altri edifici, fu al centro tra il 1991 e il 1993 di un esperimento all’epoca fortemente pubblicizzato. Una sorta di microsocietà formata da quattro uomini e quattro donne trascorse al suo interno un lungo periodo di isolamento, con risultati per la verità piuttosto deludenti: cibo e ossigeno scarseggiavano, si verificarono numerosi decessi tra animali e specie vegetali, mentre tra i biospherian, gli scienziati residenti, sorsero fortissime tensioni. Non è certo difficile immaginare quanto Dostoevskij avrebbe sardonicamente sorriso del fallimento di un Paradiso Terrestre tanto cristallino quanto insopportabile8.
38Il fatto è che tutti questi edifici ultratecnologici progettati come contenitori per la vita biologica e contraddistinti da pareti trasparenti non possono che ricondurci ancora una volta al modello pre-moderno su cui abbiamo aperto le nostre pagine: quello della serra. Magrelli stesso lo nota parlando del Biodôme, una sfavillante «casa del verde» la cui vertiginosa altezza risulta «commovente»: «Oltre cinquanta metri di spazio chiaro punteggiato di uccelli. Piove luce dall’alto come in una serra […]» (Magrelli 2003, p. 109)9. Di più: non ritroviamo forse nel brano sopra citato anche quell’immagine biblica dell’«arca di Noè» di cui già parlava Thackeray in Ode del giorno di maggio (cfr. supra, § Il vecchio e il nuovo)? Insomma, grattando sotto la scorza di queste esperienze futuribili finiamo inevitabilmente per ritrovare, come osservava Marcello Fagiolo ormai più di quarant’anni fa, la vecchia utopia del Crystal Palace, di cui la cupola trasparente non sarebbe altro che una semplice variante, un aggiornamento in termini di design e innovazione tecnologica:
Il sogno di rivestire la terra, o almeno di dare una copertura alle maggiori attività umane con una costruzione di cristallo, ha una storia secolare nella civiltà dell’Occidente, dalla prima realizzazione di Paxton alle ipotesi di Buckminster Fuller; non cambia però l’ideologia di situare la vita umana «in vitro», come in una serra, in un hortus conclusus, in un paradiso terrestre. È l’uomo che cerca di abbellire la sua prigione, di trasformare in oro le catene, di accendere i riflettori su se stesso mentre compie evoluzioni eleganti in un acquario (Fagiolo 1974, p. 242).
39Ora è interessante notare come, mano a mano che nel corso del tempo, dagli anni Sessanta a oggi, il sogno di cui parla Fagiolo ha iniziato a realizzarsi e le cupole trasparenti sono divenute realtà effettive, sia pure su piccola scala, la letteratura e il cinema abbiano provveduto ancora una volta a rovesciarne le promesse di benessere e le istanze progressiste in scenari catastrofici.
40Se la cupola difende la vita, fuori da essa non può che esserci la morte, così come se dietro le vetrine dei mall più esclusivi c’è il benessere, all’esterno non possono che esserci gli esclusi e la loro indesiderabile miseria. Qualora Biosfera II in effetti si fosse rivelata un luogo perfetto per ospitare e far prosperare uomini, animali, specie vegetali, quale funzione avrebbe potuto continuare ad avere Biosfera I, ovvero il nostro imperfettissimo pianeta? Il passaggio dal sogno all’incubo che abbiamo visto connotare, in campo letterario e artistico, la dura transizione del mito dell’architettura trasparente dal secondo Ottocento - primo Novecento all’età delle disillusioni dopo la Grande Guerra si ripete negli ultimi decenni con il rovesciamento dell’utopia del microcosmo preservato e salvato perché chiuso sotto vetro. Così, sempre più di frequente le cupole immaginate da scrittori e cineasti sono divenute luoghi mortiferi, che non proteggono ma isolano e soffocano le comunità umane, mentre la natura trasparente delle loro pareti ha acquisito un carattere allucinatorio-apocalittico.
41Per la verità ci sono dei precedenti illustri già nel corso del Novecento: limitandoci a un paio di casi, ricordiamo come in Noi Zamjatin avesse immaginato non solo il muro di vetro che divide la città razionale dall’irrazionale mondo barbaro di fuori, ma anche una terribile Campana Pneumatica usata per difendere «[…] la sicurezza dello Stato Unico, in altre parole, la felicità di milioni» (Zamjatin 1921, p. 67). In Mattatoio n. 5 Kurt Vonnegut parlerà invece della cupola geodetica che gli alieni Tralfamaldore usano per imprigionare il protagonista del romanzo, Billy Pilgrim, come di uno spazio della purovisibilità dal quale non c’è scampo, no walls, no place to hide: «Dentro la cupola non c’erano pareti, non c’era un posto dove Billy potesse nascondersi» (Vonnegut 1968, p. 108). Ma è in tempi più recenti che il sogno di un’enclave racchiusa dentro una semisfera trasparente, stavolta non più limitata a una casa, a un edificio, ma a un intero esteso territorio, si rovescia sistematicamente in incubo. Significativamente Magrelli termina la propria breve prosa sul Biodôme canadese evocando l’immagine davvero apocalittica di «un oggetto-ricordo, una di quelle palle di vetro con la neve dentro, dove basta agitare e i fiocchi cadono» (Magrelli 2003, p. 110). Invece di tutelare la vita, la cupola diventa un giocattolo inquietante o un freddo strumento scientifico, un’enorme lente sotto cui è dato osservare i comportamenti umani, con persone che si agitano, rimescolano e collidono come batteri in un vetrino.
42Guardando alla produzione fantascientifica recente gli esempi in tal senso sono numerosi. Basti pensare al romanzo a tesi Globalia (2004) di Jean-Christophe Rufin. Nello scenario fantapolitico immaginato dall’autore francese, medico e diplomatico oltre che scrittore – è uno dei fondatori di Medici senza Frontiere – l’umanità vive sotto campane di vetro costruite per separare la popolazione fra zones sécurisées (non a caso, situate nell’Emisfero Nord) e non-zones, aree dove vengono confinati i reietti e gli indesiderabili, sprezzantemente etichettati come criminali e terroristi10:
C’era anzitutto questo grande taglio nel cielo. Le nuvole che correvano nel blu, rotonde come bisonti, al di sopra della pianura polverosa urtavano contro un ostacolo invisibile e si perdevano ai lati come sconcertate. Più oltre iniziava un immenso disco di porcellana blu, dai bordi netti, lisci e puri: era una zona sicurizzata (Rufin 2004, p. 317*).
43Coloro che abitano sotto le enormi bulles de verre, cupole di vetro sigillate, hanno un’esistenza la cui stabilità e sicurezza sembrerebbero totalmente garantite. Vivendo in uno spazio chiuso e climatizzato, i cambi di stagione e le incertezze del meteo appartengono al passato. Cibo salutare, scientificamente prodotto, ed eterna giovinezza sono diritti condivisi, ma la struttura sociale è rigidissima e lo spazio per la libertà individuale severamente limitato da un sistema omologante e parossisticamente consumistico. Anche in quell’apparente mondo ideale, la vita si riduce a formicaio. All’esterno invece, nelle non-zones, lo scenario è postapocalittico, caotico e violento; tutto ciò che non fa parte di Globalia viene continuamente devastato da epidemie e guerre che, naturalmente, gli oligarchi delle zones sécurisées manovrano per i propri scopi, quando non ne sono direttamente la causa. La globalizzazione che il titolo del libro richiama rappresenta dunque la negazione speculare di quel sogno di universalismo che tanta parte aveva giocato nella cultura occidentale, da San Paolo ai philosophes illuministi, passando per Erasmo da Rotterdam. Tanto l’universalismo era indiscriminato e inclusivo, quanto la globalizzazione risulta discriminante e selettiva, separando accuratamente gli eletti dagli esclusi. In tal senso le pareti lisce e infrangibili delle grandi bulles de verre, con il loro ambiguo statuto di totale permeabilità ottica e altrettanto totale impermeabilità fisica, creano un paradiso che non solo presuppone un inferno all’esterno, ma che risulta esso stesso un inferno, una gabbia insopportabile per chi la abita.
44Il tema della semisfera trasparente torna in chiave satirico-ecologista tre anni dopo in Simpson: il film (2007)11. Springfield, la città abitata dalla famiglia Simpson, risulta essere il sito più inquinato del globo e per questo, dietro ordine del presidente degli Stati Uniti Arnold Schwarzenegger, un esercito di elicotteri dotati di ventosa depone una gigantesca cupola sul territorio urbano. In questo caso, dunque, il rapporto tra eletti ed esclusi si rovescia: il dome infrangibile serve non già a preservare la vita proteggendo gli abitanti della malsana cittadina dal resto del mondo, bensì al contrario a difendere il resto del mondo dai mostruosi livelli di inquinamento causati dalla centrale di Montgomery Burns. Springfield viene così assimilata, in chiave profana, a una Gerusalemme o a una Babilonia su cui grava una catastrofe apocalittica che naturalmente la famiglia Simpson deve incaricarsi di scongiurare. Il film gioca abilmente col tema dell’isolamento nella trasparenza. Dapprima gli abitanti della città cercano con ogni mezzo di distruggere la cupola. In una breve sequenza vediamo il personaggio di Telespalla Mel battere disperatamente i pugni contro il vetro infrangibile, pronunciando una lamentazione degna di un salmo: «What ruthless madman could have done this to us?», ossia quale folle spietato può averci fatto questo? La risposta giunge immediatamente da un’imperiosa voce tonante: The United States Government. Homer, dal canto suo, vedendo il proprio riflesso nel vetro si convince di essere riuscito a uscire e di trovarsi all’esterno. Esultante e gongolante fa per allontanarsi, ma pochi passi in direzione opposta rispetto alla cupola sono sufficienti per dimostrargli che si sbaglia. Fallito ogni tentativo di abbattere la parete purovisibilista che, vetrinizzandoli, li condanna, oltre che all’isolamento, alla gogna mediatica, i cittadini di Springfield si abbandonano al caos e ai più bassi istinti, fino a devastare la loro stessa città. L’immancabile lieto fine, con Homer e Bart che salvano la situazione per poi avviare la ricostruzione dell’abitato, non smorza la portata satirica del film, dove appunto la cupola rappresenta non già un ambiente protettivo bensì la soluzione autoritaria adottata dal governo per cercare di eliminare definitivamente una comunità sgradita.
45Merita infine soffermarsi su un terzo caso, quello rappresentato dal romanzo Under the Dome (in italiano, The Dome) di Stephen King, da cui poi è stata ricavata una fortunata serie televisiva. La storia è ambientata a Chester’s Mill, cittadina del Maine sulla quale cala all’improvviso un’immensa cupola trasparente, la quale come una sorta di ghigliottina invisibile trancia in due tutto quello che si trova a terra lungo il suo perimetro: cose, animali, persone. Mentre auto, camion, aerei si schiantano contro la misteriosa, impenetrabile lastra di vetro, l’intera area, con i suoi duemila abitanti, resta intrappolata all’interno, isolata dal resto del mondo. King ha dichiarato in più occasioni di aver ideato il romanzo nel 1976, ma l’opera è rimasta nel cassetto per un trentennio, prendendo poi forma solo nel 2007. Si tratta di una parabola temporale particolarmente indicativa, se si considera che il cantiere letterario si è aperto negli anni bui del post-Vietnam e si è concluso negli anni luttuosi e inquieti dell’America contemporanea, sconvolta dall’Undici Settembre e ossessionata dal tema del rapporto tra sicurezza pubblica e diritti del cittadino. «Finché non saremo usciti dalla crisi», spiega lo spietato politicante Big Jim, riferendosi alla drammatica condizione di isolamento imposta dalla cupola, «le libertà individuali dovranno prendersi una piccola vacanza» (King 2009, pp. 237-238). Per quanto in tutto il romanzo aleggi il tema del soprannaturale, come spesso nell’opera di King, e la presenza della cupola si riveli essere non già il risultato di un complotto governativo ma la conseguenza di un intervento alieno, la valenza politica del libro in direzione filoliberale e democratica risulta chiara, così come il sottotesto religioso. Anche qui il rapporto tra eletti ed esclusi risulta rovesciato: la piccola comunità di Chester’s Mill appare come una sorta di luogo maledetto su cui si è abbattuta una terribile punizione divina, una condanna da scontare davanti agli occhi del mondo. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che lo scrittore statunitense riprenda il tema antichissimo della pestilenza, da sempre cartina di tornasole della natura umana, e lo ricontestualizzi, sia pure entro le coordinate del genere horror e senza le sottigliezze, poniamo, di un Saramago, in rapporto alla realtà socio-politica del suo paese.
46Circa il dome, ha qui le stesse caratteristiche delle semisfere di Globalia e di Simpson: il film. La sua consistenza è vitrea, come ribadito a più riprese: «chiuse il pugno e lo batté sul suo lato della striscia, producendo di nuovo quel rintocco di nocche su una lastra di vetro» (King 2009, p. 127). Le pareti sono lisce e infrangibili, impedendo ogni contatto con l’esterno e rendendo inservibile qualunque apparecchiatura elettronica collocata nelle vicinanze. Ancora una volta, il tema dell’incomunicabilità torna a far capolino, e con esso l’immagine claustrofobica dell’acquario: «Adesso so come si sente un pesce in un acquario, pensò Barbie» (King 2009, p. 310). Tuttavia, gran parte del romanzo non è incentrata su ciò che accade lungo il perimetro della cupola, bensì al suo interno, ovvero in città. Seguendo uno schema noto e collaudato, King imposta la storia come una sorta di esperimento fantasociale, oltre che fantapolitico: confinati in un aberrante vetrino, i suoi personaggi si agitano disordinatamente come batteri sotto osservazione. Lo scrittore gioca così con la situazione creata, divertendosi a immaginare quale tipo di dinamiche relazionali potrebbero credibilmente sorgere in una circostanza del genere. Tali dinamiche naturalmente finiscono per estremizzare le psicologie e le azioni dei singoli, con qualche rigidità narrativa che conduce, come per la verità accade spesso nelle opere dello scrittore statunitense, a una contrapposizione frontale e piuttosto manichea tra personaggi positivi, integralmente buoni e portatori di un’istanza vitale, e personaggi negativi, totalmente votati al soddisfacimento dei propri interessi senza alcuno scrupolo morale. Vi è tuttavia anche qui un’interessante eccezione, costituita dal tema dell’appetizione della merce. Il solo momento infatti in cui le decent person della comunità di Chester’s Mill mostrano il loro lato oscuro, abbandonando per un istante l’istinto solidaristico e micro-comunitario di cui fanno ripetutamente prova è quando, rese furiose dall’impossibilità di accedere alle merci luccicanti dietro le vetrine del Food City locale, danno l’assalto al supermercato in un’orgia di violenza e sopraffazione. Qui davvero il tema della vetrina occhieggiante torna a imporsi, attestando il suo immenso, e oscuro, potere di fascinazione.
47È poi interessante notare come nei capitoli finali, mano a mano che le condizioni atmosferiche all’interno della cupola si deteriorano, la gigantesca serra si trasforma in una trappola e l’aria diventa irrespirabile – «era come guardare l’inferno attraverso un oblò», afferma uno dei personaggi (King 2009, p. 231) – il rapporto tra chi sta fuori e chi dentro, ossia tra coloro che circondano la cupola (giornalisti, militari) e gli abitanti della cittadina, diventa sempre più stretto e intimo. In queste battute conclusive King gioca molto sul tema della trasparenza, sia in senso reale che metaforico. Sul piano metaforico, la contrapposizione è naturalmente tra il desiderio degli abitanti di Chester’s Mill di ricevere informazioni quanto più possibile esatte e veritiere e la spietata logica militare della segretezza. Esemplare in tal senso uno scambio tra uno dei personaggi prigionieri della cupola e un ufficiale dell’esercito all’esterno, responsabile delle operazioni sul campo. Il primo chiede al secondo, tramite l’interfaccia del telefono, una total transparency, una totale trasparenza circa quel che sta avvenendo: «“Insiste sulla trasparenza totale, vero?” “Perché no? Se funzionerà, la popolazione di Chester’s Mill intonerà le sue lodi. L’unica ragione per cui vuol far tutto in segreto è la forza dell’abitudine”. “No. Sono gli ordini dei miei superiori”» (King 2009, p. 406).
48Sul piano fisico, reale, il tema della trasparenza acquista particolare rilievo nella parte finale del libro, quando in seguito a un evento catastrofico – un’esplosione che scatena una tempesta di fuoco tanto estesa da incenerire la maggior parte della cittadina – il numero dei prigionieri del dome risulta drasticamente decimato. I superstiti, mossi ormai soltanto dalla disperazione e senza alcuna alternativa concreta, lasciano il centro dell’abitato e si ammassano ai bordi, ritrovandosi col naso schiacciato contro le lisce e dure pareti della semisfera. È qui che davvero la loro sorte risulta compiutamente vetrinizzata, con le immagini dell’evento trasmesse dai media in tutto il mondo: «guardateli tutti, una città intera con le spalle a un muro invisibile», commenta uno dei militari (King 2009, p. 952). Se in Simpson: il film il tema delle comunicazioni tra la cittadinanza e l’esercito è rappresentato in modo parodico-grottesco – avendo stabilito di eliminare la popolazione e distruggere Springfield, il governo si limita a comunicare impassibilmente la propria decisione agli abitanti imprigionati, aumentando così a dismisura caos e disordini – qui abbiamo invece l’immagine eroica, esemplarmente post Undici Settembre, di un gruppo di soccorritori desiderosi di prestare aiuto, e tuttavia di fatto impossibilitati a intervenire. Nel gioco di sguardi tra chi sta dentro, in attesa di una morte quasi certa, e chi sta fuori, dolorosamente impotente, King costruisce la dimensione morale, o moraleggiante, del romanzo, centrato sulla convinzione tutta americana che l’unica possibile forza salvifica sia quella che promana dalle risorse più intime e autentiche dell’individuo. Esemplare risulta in tal senso il profondo rapporto emotivo che si instaura tra i due personaggi di un giovane soldato, fuori, e di un suo quasi coetaneo, tale Ollie, dentro. Accasciato contro la lastra trasparente, ormai quasi in agonia, Ollie preme la bocca contro la parete della cupola alla disperata ricerca d’aria; il misericordioso militare lo assiste cercando di confortarlo con la sua presenza, anche in questo caso contigua ma inattingibile. Se i loro corpi sono separati, i loro sguardi stabiliscono però una totale intesa empatica. La citazione da un celebre passo di San Paolo – «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia» (1 Corinzi 13,12) – pronunciata dal sacerdote locale, il reverendo Piper Libby, viene giustamente riadattata da un altro personaggio, Tullio Dobner, alla situazione di Chester’s Mill, traducendo l’inglese glass con vetro: «Poiché abbiamo visto in maniera confusa attraverso un vetro […], ma ora vediamo faccia a faccia» (King 2009, p. 1031), sottintendendo la possibilità per i singoli di riconoscere, dopo aver attraversato la catastrofe, la propria comune appartenenza, la propria identità collettiva di popolo – anche nel senso biblico del termine.
49Nonostante il poco convincente finale – gli alieni hanno infine pietà dei sopravvissuti, e la cupola svanisce – e pur nel suo blando e tutto sommato consolatorio messaggio socio-politico (la ritrovata alleanza tra il popolo e le forze politiche e militari che governano la nazione), nel complesso il romanzo catastrofista di King, con la sua efficacia cruda e iperrealistica, con il suo respiro epico e corale, affronta il tema della trasparenza nella prospettiva escatologica assolutamente attuale di un’apocalisse insensata e incombente. Il dome che si vorrebbe rievocasse il tempio di Salomone, i fiabeschi castelli della tradizione favolistica, gli splendori spirituali delle cattedrali gotiche, i fasti del Crystal Palace e persino la Gerusalemme Celeste descritta nell’Apocalisse di Giovanni appare qui come un incubo angoscioso, arrivato non si sa da dove e non si sa perché – o, meglio, lo si saprà solo nel finale – a spazzar via una piccola, anonima comunità del Maine rurale, riducendone gli abitanti a insignificanti formiche che vagano impazzite sotto una gigantesca lente ustoria. Se l’Armageddon verrà, a quanto pare, avrà probabilmente l’aspetto di una semisfera trasparente calata su di noi per ragioni che ignoriamo, forse per proteggerci, forse per ucciderci: il che in fin dei conti potrebbe essere lo stesso.
Notes de bas de page
1 Nel suo ricco volume dedicato all’argomento la storica dell’architettura Annette Fierro ha parlato di uno «Stato di Vetro»: cfr. Fierro 2006.
2 Occorre ricordare che anche tra gli architetti fautori della trasparenza si annoverano molti avversari del modello del grattacielo: basti pensare ai casi paradigmatici di Frank Lloyd Wright, fiero detrattore dello sviluppo verticale delle città americane, e di Philip Johnson, secondo il quale, come ricorda Francesco Dragosei nel suo suggestivo saggio Lo squalo e il grattacielo, gli americani avrebbero costruito i grattacieli, sostanzialmente, «per divertimento» (Dragosei 2002, n. 4, p. 121). Non a caso proprio Philip Johnson risponderà al modello del grattacielo edificando una sua Glass House (1949), un’abitazione dalle ampie pareti di vetro, immersa nella natura, in cui risiedette fino alla morte.
3 Tra i molti studi su questi argomenti, segnaliamo in particolare l’utile saggio di Lipovetsky (2006).
4 Alcuni fotogrammi del film di Romero (1978) sono visibili nel sito dell’archivio di Internet Movies Data Base, http://www.imdb.com/title/tt0077402/.
5 Una buona lettura in chiave sociologica del film è quella fornita da Rousseau (2006). Si rinvia anche in questo caso al sito Imdb: http://www.imdb.com/title/tt0418819/.
6 Vale qui la pena ricordare che il concetto di «sfera» ha in questi anni conosciuto una vasta fortuna, specialmente in ambito filosofico, grazie all’opera di Peter Sloterdijk, uno dei più significativi pensatori contemporanei. Raccolta sotto il titolo complessivo di Sfere, la sua articolata e composita ricerca sul tema comprende tre volumi: Bolle, Globi, Schiume.
7 Se ne veda la riproduzione sul sito spagnolo ArteHistoria: http://www.artehistoria.com/v2/obras/1113.htm.
8 Biosfera II ispirerà qualche anno dopo una screwball comedy statunitense intitolata appunto Bio-Dome (1996), dove il tema della trasparenza offre spunti per gag comiche demenziali. Di tutt’altro tono l’interessante documentario Bouddha et la Biosphère (1993), realizzato dalla giornalista francese Michèle Decoust facendo dialogare tra loro una delle scienziate impegnate nel progetto e una monaca tibetana.
9 Non era forse, ancora una volta, il modello della serra quello che Mark Tigan, amministratore della cittadina di Winooski nel Vermont (7000 abitanti circa), aveva in mente quando nel 1979 propose di racchiudere l’intero territorio urbano in una cupola alta 250 piedi (76 metri circa), così da abbassare il costo degli impianti di riscaldamento?
10 Similmente nel film Elysium di Neil Blomkamp (2013) troviamo lo scenario distopico di una società futura divisa tra pochi fortunati abitanti di una confortevole e persino lussuosa stazione spaziale e la grande maggioranza di reietti che vivono ancora sulla Terra, ormai sovrappopolata e totalmente degradata. Questi ultimi cercano con ogni mezzo di raggiungere il paradiso orbitante dal quale sono esclusi, venendone violentemente respinti. Il tema della trasparenza gioca però qui un ruolo molto limitato.
11 Cfr. la scheda dedicata alla pellicola dal popolare sito Rotten Tomatoes: http://www.rottentomatoes.com/m/simpsons_movie/.
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