Capitolo I. La società a venire
p. 21-150
Plan détaillé
Texte intégral
DAL SOGNO…
Il xix secolo ovvero la spettacolarizzazione del visibile
Un prodigio nel cuore di Londra
1Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, il Crystal Palace dell’architetto britannico Joseph Paxton sorge come una luminosa promessa di prosperità nel bel mezzo di Londra, la città di cui nessuno può stancarsi senza sentirsi stanco della vita, secondo il celebre adagio di Samuel Johnson, l’architettura in ferro e vetro rappresenta la tecnologia più avanzata e per molti versi l’apoteosi della seconda rivoluzione industriale1. Lo stupore che questo prodigio dell’ingegno umano è in grado di suscitare in chi si reca a visitarlo per la prima volta è testimoniato dalle parole di sbalordita ammirazione con cui lo descrive un cronista d’eccezione, Alexandre Dumas. In un articolo apparso sulla rivista «Le Monte-Cristo», l’autore de I tre moschettieri osserva che il Palazzo di Cristallo
merita assolutamente il suo appellativo: non ha, come il nostro [Arco di Trionfo], delle pretese architettoniche. Il suo frontone non è scolpito; il suo portico non poggia su colonne ioniche o corinzie. È un edificio in vetro e in ferro, una gigantesca gabbia di ferro e nient’altro. Ma una gabbia di ferro lunga un quarto di lega e alta centocinquanta piedi. Tutte le parti opache sono dipinte di celeste. Non c’è niente di artistico in tutto questo, ma l’industria, elevata a questi livelli, è sorella dell’arte (Dumas 1857b, pp. 161-162*).
2Al grande romanziere francese non sfugge dunque quanto dirompente sia la rottura estetica, e quindi implicitamente socio-politica, che il Crystal Palace introduce, aprendo di fatto un capitolo nuovo nella storia dell’Occidente.
3Le costruzioni che lo hanno preceduto erano ancora architettura, prodotti di quella «regola eclettica dell’Ottocento», come scrive Bruno Zevi, che risponde a un’estetica attardata e classicista, basata sui canoni di «pesantezza, massa, simmetria e assialità, retorica monumentale» (Zevi 2004, p. 14). Non è un caso, ma è anzi altamente sintomatico, che Dumas citi come una pagina paradigmatica di quel mondo ormai al tramonto l’Arc de Triomphe parigino, inaugurato appena quindici anni prima del palazzo londinese. Laddove quello appare come una pomposa rilettura neoclassica dell’eredità latina, il Crystal Palace rappresenta un’esaltazione del mondo moderno, contraddistinto dal predominio dell’ingegneria e dell’industria. La struttura in ferro smontabile che tutto il mondo ammira estasiato e che diventa immediatamente il simbolo delle smisurate ambizioni globali della Nuova Inghilterra vittoriana, per le sue caratteristiche di agilità e leggerezza, per la sua natura quasi volatile, è il simbolo perfetto di un’epoca che vive di dinamismo e costante accelerazione vitale2.
4Ma da cosa deriva questa impressione di levità e gradevole inconsistenza, come di un edificio sul punto di staccarsi da terra e spiccare il volo, che il Palazzo di Cristallo suscita nei londinesi e nei visitatori stranieri, al punto di meritare il loro plauso (quasi) unanime? Dalla più invisibile, dalla più evidente delle sue caratteristiche: la trasparenza. L’idea alla base del Crystal Palace non è, del resto, così nuova come sembra; costituisce, semmai, la geniale evoluzione e fusione di due invenzioni settecentesche che giungono a piena maturità nel secolo successivo: la vetrina commerciale da una parte e la glasshouse, ovvero la serra, dall’altra.
Benedetti dalla luce: la serra e la vetrina
Nella cattedrale gotica – ma non solo in essa – la luce non è di certo un accidente, bensì, in un certo senso, la sostanza stessa dell’opera d’arte.
Hans Sedlmayr,
La Luce nelle sue manifestazioni artistiche
5Quella sorta di Arcadia artificiale che è la serra rappresenta uno degli ambienti più amati dalla buona società nordeuropea del Settecento, vero luogo di delizie ammirato e cantato da ampie schiere di scrittori e poeti. Paradigmatico risulta il caso di Jacques Delille, «pianificatore dello spazio verde, organizzatore della dolce matematica dei campi e dei giardini», come lo definiva Piero Camporesi (Camporesi 1998, p. 151). Nel suo Les jardins, ou l’art d’embellir les paysages (I giardini ossia l’arte d’abbellire i paesaggi) del 1782, il poeta classicista francese così celebra l’estrema gradevolezza di quei luoghi: «Ma io amo vedere questi tetti, questi rifugi trasparenti / Trattenere dei vari climi i tributi differenti» (citato in Camporesi 1998, p. 152*). Sono versi che mettono perfettamente a fuoco come la caratteristica essenziale della serra sia la sua trasparenza, ovvero la sua capacità di proteggere l’interno – opportunamente isolato per consentire alle piante tropicali di crescere tra i rigori del Nord – senza però resecarlo visivamente dall’esterno, ma anzi ponendolo in totale continuità ambientale con ciò che sta fuori. E fuori c’è, prima di ogni altra cosa, la luce, fonte primaria di vita. Su questi elementi fonderà tutta la sua fortuna un geniale giardiniere e costruttore di glasshouse dell’età vittoriana, il già citato Joseph Paxton, il quale, scrive l’autorevole teorico dell’architettura Reyner Banham, «per far crescere le piante rare utilizzava strutture con pareti di vetro accoppiate a elaborati sistemi di riscaldamento e ventilazione» (Banham 1969, p. 144)3.
6Quel che qui ci preme evidenziare, applicando le due categorie di funzione e finzione da noi proposte, è il duplice, seminale valore della serra: dal punto di vista funzionale, si tratta di un ambiente dove, coltivando fiori e piante, la classe dominante ha la possibilità di coltivare se stessa, i propri svaghi e agognati loisirs; dal punto di vista finzionale, in relazione cioè al registro dell’immaginario, rappresenta un luogo straordinariamente evocativo, capace di richiamare alla mente scenari da sogno, dimensioni lontane, struggenti e fantastiche. I seducenti giochi di luce che rimbalzano tra le pareti di vetro delle serre evocano infatti sia i luoghi favolosi dell’Oriente magico, come le stanze misteriose e peccaminose de Le mille e una notte, sia degli edifici reali, vicini nello spazio ma distanti nel tempo, particolarmente cari alla sensibilità estetica ottocentesca: le cattedrali gotiche4. Esemplare risulta in tal senso un brano del romanzo La curée (La cuccagna) di Émile Zola, datato 1871, dove leggiamo:
Intorno a lei, simile ad una navata di chiesa, in cui le sottili colonne di ferro salivano d’un sol getto a sostenere la curva vetrata, la serra calda spiegava le sue grasse vegetazioni, le foglie larghe e poderose, i ciuffi di verzure lussureggianti. Al centro, in una vasca ovale, al livello del terreno, viveva, della vita misteriosa e glauca delle piante d’acqua, tutta la flora acquatica dei paesi del sole (Zola 1871, pp. 51-52)5.
7A metà strada tra il castello delle favole e la cattedrale gotica, la serra, con le sue evocative colonne slanciate, le sue vetrate iridescenti, la sua vegetazione variopinta e lussureggiante possiede un enorme valore finzionale, che Paxton conosce bene e che genialmente sfrutta nell’invenzione del Crystal Palace: non a caso il palazzo londinese ospitava al suo interno più di un albero.
8Accanto al modello della serra vi è poi una seconda, e non meno decisiva, invenzione settecentesca che precede e influenza la progettazione del Crystal Palace: la vetrina commerciale. Includendo il nome di Paxton tra quelli dei maggiori precursori del mondo attuale, ne La forma del tempo lo storico dell’arte George Kubler sottolineava come la modernità dell’architetto britannico consistesse nella sua capacità «[…] di proporre le soluzioni per un bisogno di indole generale già molto tempo prima che la maggioranza della gente si accorg[esse] del bisogno stesso» (Kubler 1972, p. 130). La necessità cui il talento anticipatore di Paxton risponde è in effetti quella di creare un enorme, scintillante, seducente, contenitore di merci. La vetrina, questo decisivo artificio del commercio moderno, era nata in Inghilterra oltre un secolo prima: è infatti nella Londra di Sterne e del reverendo Swift che le botteghe iniziano ad assumere l’aspetto di un «[…] palcoscenico rivestito di vetro, sul quale disporre a mo’ di pubblicità la merce» (Schivelbusch 1983, p. 149). Il medico-filosofo Bernard Mandeville intuisce per tempo le implicazioni psico-fisiologiche di questo fenomeno, e già nel suo A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions (Trattato sulle passioni ipocondriache e isteriche), del 1711, si dimostra consapevole del fatto che nella società moderna la seduzione dell’immaginario coincide perfettamente con l’appetizione della merce, così che un commerciante è tanto più abile quanto meglio riesce a esporre le proprie mercanzie (Donati 2011, pp. 71-72).
9Tuttavia la pratica di delimitare con pannelli di vetro la parte delle botteghe antistante la strada si diffonde solo alla metà del xix secolo, esattamente negli anni del Crystal Palace. Col tempo, l’effetto di trasparenza viene amplificato attraverso accorti giochi di illuminazione, che diventeranno via via sempre più sofisticati con l’arrivo della luce elettrica, mentre gli spazi occupati dalle merci in mostra si ampliano. Come ricorda nelle prime pagine della sua pionieristica storia dei centri commerciali britannici l’urbanista Wilfred Burns, si assiste così a una vera e propria rivoluzione nella natura dei negozi, con il passaggio dalle prime, elementari vetrine, composte assemblando minuscoli pannelli di vetro, a quelle più moderne costruite con lastre ampie ma sottili – in inglese, plate glass – che permettevano di sfruttare l’intera superficie espositiva (Burns 1959, p. 3). A metà Ottocento, in Inghilterra e altrove, la trasparenza ha dunque ormai acquisito una piena e determinante funzione economica: conservati dentro – ed esposti attraverso – le vetrine, gli oggetti sono «etichettati e denominati», «accompagnati dal discorso epidittico dei loro pregi (la réclame)» (Hamon 1989, p. 82).
10Poeti e scrittori non tardano ad accorgersi del fenomeno, osservando come la combinazione di vetro e luci contribuisca a rendere le merci sfavillanti e, di conseguenza, altamente desiderabili. È appena il 1835 e già Gogol´, ne La Prospettiva Nevskij, dipinge la più importante strada pietroburghese come una teoria di allettanti vetrine, luogo soffuso di una luce arcana e seducente che attrae i passanti come una sorta di disinibita e pericolosa sirena. «Quando l’attraverso», confessa la voce narrante, «sempre io m’avvolgo quanto più posso nel mio mantello e cerco di non guardare affatto gli oggetti che mi cadon sotto gli occhi» (Gogol´ 1835, p. 38). Gli ammalianti «ninnoli» che occhieggiano dalle vetrine della Nevskij Prospekt sono richiami irresistibili, anche se, aggiunge il protagonista del racconto in un pio sussulto di disprezzo per lo sterco del demonio, «puzzano d’una terribile quantità di biglietti di banca» (Gogol´ 1835, p. 39). Circa trent’anni dopo, nella Parigi di Napoleone III, Lautréamont ricorre a immagini simili nel suo capolavoro I Canti di Maldoror. Il grande poeta francese, scelto come maestro dai surrealisti, si sofferma sul potere seduttivo di quanto è custodito oltre un vetro lucente, ricordando che «i negozi di via Vivienne mettono in mostra le loro ricchezze agli occhi meravigliati. Illuminati da numerosi lampioni a gas, i cofanetti di mogano e gli orologi d’oro spandono attraverso le vetrine fasci di luce abbagliante» (Lautréamont 1869, p. 499).
11Il rapido vetrinizzarsi del paesaggio urbano diventa dunque un elemento peculiare del sentire (e del sentirsi) moderno: per riprendere l’articolo di Dumas sopra citato, niente più ingombranti “archi di trionfo”, enfatici residui di un potere arcaico ed elefantiaco, ma ovunque strutture leggere e volatili, inebrianti prismi, diorami, vitrines e showcases, arcate, baldacchini di vetro, muri e tetti trasparenti. Tutti elementi, si badi, atti a stimolare la fantasia e la revêrie collettive: non è del resto un caso che le città si lastrichino di superfici trasparenti e che la merce si inquadri nel perimetro chiuso della vetrina negli stessi anni in cui si afferma la straordinaria novità delle immagini inquadrate, da un apparecchio fotografico prima, da una macchina da presa poi. La modernità passa anche per questo tipo di cadrage dell’esperienza, tutto giocato sul rapporto, da parte del moderno Atteone spettatore-consumatore, tra l’invito a desiderare e il divieto di toccare:
Il vetro della vetrina – pellicola trasparente che separa la mano dall’oggetto del desiderio nello stesso istante in cui quel desiderio è generato dalla visione permessa e stimolata – educa alla percezione di una merce contemporaneamente vicina e distante, una realtà empatizzata ma separata. Il negozio metropolitano anticipa così il cinema come occhio vitreo del Novecento, il film come evidente realtà virtuale, mondo reale ma irraggiungibile e ineffettuale (Bruno 2007, pp. 36-37).
Derive di sguardi desideranti
12Il massimo prodigio del xix secolo, il Crystal Palace, può dunque essere visto come una grande serra, potremmo dire una iperserra ispirata alle precedenti esperienze costruttive di Paxton, e insieme come una sorta di ipervetrina, o iperpassage, se si vuole, con riferimento alle celebri gallerie commerciali dove i flanêur parigini amavano passeggiare e trastullarsi adocchiando merci. Da un punto di vista finzionale, i due modelli della serra e della vetrina non solo non si annullano, ma si sommano, convergendo mirabilmente: ha perfettamente ragione Vanni Codeluppi quando osserva che l’«arte della costruzione dei giardini» può «ben essere considerata ciò che si trova alla radice dei luoghi di consumo contemporanei, in virtù soprattutto della sua capacità di manipolare lo spazio per dare vita a dei mondi immaginari» (2000, p. 30). Tali mondi sono anche il prodotto, lo si è già brevemente accennato, di suggestioni provenienti dalla grande storia artistica e sociale europea (la cattedrale) ma anche di elementi che riconducono alla dimensione del fantastico, della rêverie fiabesca (il castello delle favole).
13Circa l’aureo paradigma della cattedrale, esso interviene provvidenzialmente a conferire dignità e autorevolezza all’edificio moderno, cosicché il prodigio di oggi è chiamato a rinnovare il miracolo di ieri, quella insuperata virtù collettiva che, dispiegatasi tanto sul piano operativo (la capacità di un popolo di mettere il proprio lavoro al servizio di un interesse comune) quanto su quello fideistico (il riconoscimento di un più alto ordine divino), fece grande l’Europa medievale. Che il capolavoro di Paxton ambisse a ripetere i fasti dell’architettura gotica, fondendo perfettamente trascendenza e razionalità capitalistica, esigenze spirituali-artistiche e disciplina comunitaria, ce lo conferma un decisivo dato formale: l’edificio presentava infatti una pianta basilicale. Al contempo, se il Palazzo di Cristallo, magicamente comparso nel cuore della metropoli britannica, riesce ad attirare milioni di visitatori, accalcati come falene impazzite davanti ai suoi ingressi, questo si deve anche alla sua natura di luogo fatato e un po’ irreale, tra le cui sfavillanti pareti rimbalzano e si confondono fantasie e miti antichissimi, dal tempio di Salomone alle città utopiche, dal gotico romanzato tanto caro al gusto ottocentesco fino alle novelle per l’infanzia. Le conferme in questo senso sono numerose. Pensiamo per esempio ad Alexandre Dumas che il 25 giugno 1857, pochi giorni prima dell’intervento sopra citato6, pubblica in “Le Monte-Cristo” una sua traduzione della fiaba di Hans Christian Andersen Storia di una madre. Nel testo si racconta di un «immenso palazzo interamente in vetro, della lunghezza di diverse leghe, piacevolmente riscaldato durante l’inverno da stufe invisibili, e durante l’estate dal tepore del sole» (Dumas 1857a, p. 159*): una costruzione incantata che non può non ricordare il prodigioso edificio londinese, trasfigurato favolosamente.
14Qualche anno prima – siamo nel 1851 – Lothar Bucher, un politico tedesco più tardi divenuto braccio destro di Bismarck alla Wilhelmstraße, aveva parlato del Crystal Palace come di uno «spettacolo incomparabile, e degno del paese delle fate. È un sogno di una notte di mezza estate, visto alla chiara luce del mezzogiorno» (citato in Giedion 1941, p. 244). Certe suggestioni folcloriche, magari mediate dalla letteratura rinascimentale – si pensi solo al giardino di Atlante, il «quale ha di vetro tutto intorno il muro» come scriveva Matteo Maria Boiardo – rivelano così la loro inesauribile vitalità, ripresentandosi sotto nuove spoglie nei moderni processi di fantasticazione e soprattutto conferendo una straordinaria carica evocativa all’ingegneresca struttura di Paxton.
15Questo valore finzionale del Palazzo, luogo adibito a rinnovare la fiducia dell’Occidente nella propria potenza collettiva e insieme a soddisfare il bisogno di evasione delle masse nell’arida età del positivismo, non può che andare di concerto col suo valore funzionale. Il Crystal Palace è infatti, in primo luogo, una grande impresa commerciale. Popolo di antica e gloriosa tradizione mercantile, gli inglesi intuiscono immediatamente le implicazioni economiche della loro ipervetrina, che attraverso la smaterializzazione di pareti e barriere, aperture di spazi illimitati e scherzi di luce confonde interno ed esterno, accendendo ed esaltando lo splendore delle merci (Codeluppi 2000, p. 60). Accade così che il magnate William Whiteley (1831-1907), visitando appena ventenne il Crystal Palace, come in un sogno a occhi aperti venga folgorato dall’idea di creare una catena di negozi al dettaglio nei quali esporre ogni sorta di mercanzia, offerta alla curiosità dei passanti attraverso enormi vetrine disposte lungo il marciapiede. Pochi anni dopo la visionaria intuizione diventa realtà, e Whiteley fonda gli Shopping Centre che ancora oggi portano il suo nome.
16La filiazione diretta del modello dei grandi magazzini dal Crystal Palace, già intuita da Walter Benjamin, spiega bene perché luoghi come le parigine Galeries Lafayette e soprattutto il magasin Au Bon Marché (opera, si noti, di Gustave Eiffel), con il loro fluttuante gioco di luci e ombre, fossero progettati per trasmettere ai consumatori «la sensazione di trovarsi all’aperto e allo stesso tempo al riparo, dentro un mondo di fantasia» (Sparke 2008, p. 64), favorendo quella illusione di contiguità e quel regime di fantasticazione che, si è detto, sono alla base del modello dell’architettura della trasparenza. La stessa Bibliothèque Nationale di Parigi, il luogo dove Benjamin era solito condurre le sue ricerche, rispondeva in qualche modo a queste logiche. Nell’audace edificio in ferro e vetro, capolavoro di Henri Labrouste, i libri venivano infatti vetrinizzati, ovvero sottratti al contatto diretto degli studiosi presenti nella contigua sala di lettura, ma insieme esposti, attraverso un’ampia apertura ad arco nel magasin central, ai loro sguardi desideranti.
17Riassumendo possiamo dunque affermare che il Crystal Palace nasca dal mirabile sovrapporsi di modelli costruttivi moderni (l’iperserra e l’ipervetrina) e forme del passato ancora capaci di sedurre l’occhio e la mente dei contemporanei (dalle cattedrali ai palazzi di cristallo della tradizione biblica e favolistica), in un sapiente bilanciamento di funzione e finzione. Resta però da riflettere sul significato politico e sociale di questo tipo di esperimento architettonico. La genesi del nome stesso dell’edificio risulta, da questo punto di vista, rivelatrice. L’idea avuta da un brillante collaboratore del giornale satirico “Punch”, Douglas Jerrold, di accostare l’aggettivo Crystal alla parola Palace diede vita a
uno dei migliori «slogan» di tutti i tempi. Riuscì a trasformare un’uggiosa fiera industriale in una fiaba cockney. Non si trattava più di elevare l’anima degli «industriosi poveri»: una volta tanto, era questione di intrattenerli. Avevano a malapena il permesso di scambiarsi un bacio nel parco senza incorrere in un sermone o una multa, ma ora veniva costruito un palazzo tutto per loro, pieno di roba preziosa e gioielli e accessori da signori, un vero paradiso (Hobhouse 1950, p. 38*).
18La scanzonata riflessione del saggista britannico Christopher Hobhouse, frutto di una mentalità tipicamente liberal-conservatrice, anche nella sua componente di gradevole ironia, evidenzia un punto decisivo, ovvero l’impatto che l’edificazione del Crystal Palace ebbe sulle classi sociali più sfavorite.
19La questione può essere riassunta in questi termini: che cosa significò quell’avvenimento, e tutti quelli che ne derivarono, compreso il diffondersi dei grandi magazzini su cui torneremo tra poco, per la società europea del xix secolo? Rappresentò un’occasione di superamento delle barriere sociali, o al contrario causò l’imposizione di un nuovo, e se possibile ancor più spietato, ordine classista? Fu un motore di egualitarismo, o il primo passo verso l’omologazione? Fino a che punto il modello del paese dei balocchi, diremmo noi italiani, cui allude Hobhouse annuncia l’avvento di un’era di benessere condiviso? In quale momento invece diventa uno scenario annichilente, «un inferno dell’Uguale» che cancella ogni differenza tra gli individui e li riduce tutti a un minimo comune denominatore, come Byung-Chul Han definisce la società della trasparenza (Byung-Chul 2012, p. 10)? Sono questi gli interrogativi su cui ci soffermeremo nelle pagine che seguono, sempre filtrando il tema attraverso il punto di vista di letterati, artisti, intellettuali.
20Quando, nel 1851, il prodigio si compie, tra i sudditi di sua maestà britannica e non solo sono in molti a ritenere che quell’edificio favoloso, incastonato come un diamante nel cuore della maggiore metropoli d’Occidente, rappresenti molto più che un prototipo architettonico. Potrebbe invece essere, sostengono, un luminoso annuncio delle magnifiche sorti e progressive che attendono l’umanità futura. Qualche decennio dopo spetterà a uno dei maggiori scrittori europei del secolo, Émile Zola, portare avanti questa concezione ottimistica, declinandola in relazione alle crescenti fortune del modello del grande magazzino. In Au Bonheur des dames (Al paradiso delle signore, 1883), «primo grande romanzo sulla società dei consumi», come lo definisce Pierluigi Pellini (2012, p. 476), il tema della trasparenza occupa, attraverso il fenomeno della vetrina, un ruolo di assoluto rilievo7. Zola si rende perfettamente conto, per dirla con il filosofo Christoph Türcke, che la creazione e distribuzione di merci «costituisce anche sempre un allestimento estetico. Cose che vengono al mondo direttamente come merci, già nella loro produzione, debbono essere confezionate per il mercato, debbono essere provviste di una superficie splendente. In tal modo la produzione di merci porta con sé un’intera tecnologia della configurazione delle superfici» (Türcke 2002, p. 207). Tuttavia, ed è questo un punto decisivo, lo scrittore parigino non condanna affatto il processo di vetrinizzazione in atto: al contrario, è convinto che il diffondersi dell’architettura della trasparenza possa avviare un salutare percorso di democratizzazione della società, favorendo, mediante l’irradiazione di un’ubiqua promessa di bonheur, l’avvento di un’umanità più giusta.
21Se, come nota Giancarlo Alfano, in Au Bonheur des dames «[…] il desiderio transita attraverso i vetri» (2012, p. 22), la struttura di questi spazi, esibita con onestà e chiarezza, favorisce e incoraggia al suo interno la libera circolazione di sguardi e corpi, cui finalmente è data la possibilità di muoversi senza preclusioni di sorta. Per Zola dunque, ed è questa una posizione poi accreditata da molti esponenti del progressismo più o meno utopico di fine Ottocento e inizio Novecento, quasi sempre di marca socialisteggiante, la leggerezza e l’agilità delle strutture in ferro e in vetro rappresenterebbero l’annuncio di un imminente alleggerimento delle pesanti costruzioni socio-politiche ereditate dal passato. Attraverso un salutare rimescolamento delle classi sociali, il nuovo modello di sviluppo avviato dal Crystal Palace garantirebbe alla collettività migliori condizioni di vita, innovazione e progresso. Il grande magazzino per esempio, inondato da ariose correnti di luce, aperto al fluire degli acquirenti, dei loro sogni e dei loro desideri, rovescerebbe di fatto l’irrespirabile struttura carceraria benthamiana, di cui rappresenterebbe una sorta di doppio progressista e democratizzante (Hamon 1989, pp. 88-90). Dato questo orizzonte di pensiero, perfettamente inquadrabile nel contesto del sapere positivo che in gran parte ancora domina le odierne società tecnocratiche e liberali, non stupisce scoprire che la rivoluzionaria architettura in ferro e vetro trovi, alla metà dell’Ottocento, accesi sostenitori non solo tra le fila dei più spregiudicati capitalisti come Whiteley, che ne intuiscono per tempo le potenzialità imprenditoriali – l’ipervetrina che annuncia gli scintillanti scenari dei department store, dall’aspetto insieme familiare e suggestivamente esotico – ma anche tra gli intellettuali riformatori, pronti a interpretarla come uno straordinario elemento di discontinuità rispetto al passato, promessa di una futura età dell’emancipazione e dell’eguaglianza.
22Dobbiamo tuttavia qui anticipare che, come vedremo, già a questa altezza cronologica inizia a prendere forma un’interpretazione negativa del fenomeno dell’architettura della trasparenza. L’ipotesi che il nuovo corso non annunci un futuro di maggiore democraticità, ma una omogeneizzazione dei desideri che trasformerà i cittadini, nella fattispecie i sudditi di sua maestà, in consumatori, serpeggia già nel xix secolo, anche se verrà sistematizzata solo nel Novecento da storici come Jeffrey Auerbach e filosofi come Remo Bodei. Le merci esposte nel Crystal Palace, osserva Auerbach, «dovevano non solo soddisfare il gusto della classe media, ma contribuire a formare quel gusto; non solo educare le persone a cosa consumare, ma a consumare in primo luogo. Le Grandi Mostre insegnarono agli uomini e alle donne britannici a volere le cose e a comprare le cose, cose nuove e cose migliori» (Auerbach 1999, p. 121*; i corsivi sono miei). Remo Bodei dal canto suo nota che la merce, «l’“oscuro oggetto del desiderio”», come lo chiama, «diventa, alla lettera, trasparente, mentre il suo essere visibile e – in apparenza – a portata di mano banalizza e intensifica, al tempo stesso, ogni desiderio acquisitivo, che consuma non solo merci, ma anche, più in generale, la vita stessa» (Bodei 1991, p. 15)8. Letto in quest’ottica, il Crystal Palace evidenzia insomma, sin da subito, una delle caratteristiche più strategiche delle costruzioni trasparenti: la possibilità di fare dell’architettura non solo un corrispettivo, ma un veicolo effettivo, materiale di quelle logiche del desiderio che consentono il funzionamento, la perpetuazione e l’indefinita espansione di prodotti realizzati in serie e ubiquamente imposti (che si tratti di oggetti o di idee). Si potrebbe in tal senso parlare, parafrasando Walter Benjamin e la sua famosa immagine della fantasmagoria delle merci, di una fantasmagoria della trasparenza, che al sortilegio dei beni materiali (e non) sovrappone quella del luogo che li custodisce ed espone, in parte trascendendoli, in parte rendendoli trascendentali.
23In un certo senso, tutta la partita della contemporaneità, compresa quella che stiamo ancora vivendo, si gioca sul discrimine tra queste due opposte visioni, sulla contrapposizione cioè tra i due diversi esiti che, attraverso le sue finzioni, efficacissime propagatrici di desideri, la funzione sociale e politica del Palazzo prepara e annuncia. In perfetta continuità con dibattiti e idee che affondano le loro radici nella stagione dell’illuminismo, troviamo, da un lato, l’idea ottimistico-progressista, latamente riformatrice e umanistica, di una società di uguali, pacificata e armonica perché omogeneizzata e indirizzata verso un condiviso orizzonte di progresso; dall’altro, la prospettiva drammatica, catastrofista e/o rivoluzionaria, talora anarco-nichilistica, di una società di omologhi perfettamente intercambiabili tra loro, privati di ogni libertà se non quella di contribuire alla circolazione, e al consumo, di prodotti seriali (materiali o immateriali che siano). In rapporto al tema della trasparenza architettonica, tale dicotomia torna a presentarsi di continuo nel corso della modernità, con declinazioni diverse ma senza mai trovare una risposta, o meglio, come vedremo, trovandone molte, spesso contrastanti tra loro.
Il vecchio e il nuovo
24La natura complessa, e costitutivamente ambigua, del prodigioso Palazzo realizzato da Paxton non sfugge a molti degli scrittori e intellettuali che hanno la ventura di assistere, per così dire in presa diretta, alla sua edificazione. La Great Exhibition viene inaugurata il primo maggio del 1851, e già con qualche giorno d’anticipo, il 26 aprile, una delle più lucide e argute penne satiriche dell’Ottocento inglese, William Makepeace Thackeray – autore del celebre La fiera delle vanità – pubblica sul “Punch” un componimento in versi intitolato The Crystal Palace, or Mr. Molony’s Account of the Crystal Palace (Il Crystal Palace ovvero la relazione di Mr. Molony sul Crystal Palace). A prendere la parola è la persona satirica dell’irlandese Mr. Molony, cui Thackeray volentieri ricorre quando intende pronunciarsi su argomenti di stringente attualità. Molony è un ometto buffo e rozzo, il cui inglese risulta storpiato da un pesante accento brogue (cioè irlandese): dice oiron per iron, wonthrous per wondrous e vayhycles from Bulgium per vehicles from Belgium. Le sue castronerie linguistiche non risparmiano neppure il più bel nome del Parnaso romantico, George Gordon Byron, impietosamente deformato in «Lord Boyron».
25Il dato più rilevante del componimento, rispetto al tema che ci interessa, è che il valore funzionale del Crystal Palace come ipervetrina risulta qui evidenziato in senso comico: Mr. Molony proviene da lande segnate da una miseria endemica e la visione prodigiosa del Palazzo, con i suoi oltre centomila articoli esposti, lo disorienta. Impreparato all’incontro con la modernità, incalzato senza tregua da una congerie di impressioni disparate, sperduto in un ambiente ipersaturo di stimoli, Molony non ha né i mezzi intellettuali né il tempo materiale per formulare idee compiute ed esporle in modo organico. Per questo, volendo restituire sulla pagina le meraviglie che gli cadono sotto gli occhi, il simpatico ometto deve ricorrere alla più antica ed elementare forma descrittiva, l’elenco, espediente che Thackeray deriva naturalmente da un antico tópos del genere comico-satirico (basti pensare alla lista dei cibi nel banchetto dei gastrolâtres di Rabelais). Dalle fontane ai maiali, dai giocattoli ai più assurdi memorabilia storico-eruditi, nell’arruffato ed esilarante catalogo di Mr. Molony tutto si confonde ed equivale: il che, sul piano geopolitico, se da un lato evidenzia l’ampiezza dei traffici intercontinentali dell’impero britannico, dall’altro implicitamente rivela la sofferenza di un sistema in preda a una sorta di emorragia centrifuga (il nascente capitalismo globalizzato) che si cerca di tamponare riportando al centro (Londra) il pallino del comando.
26Tuttavia, non è facile dire quale messaggio Thackeray intendesse trasmettere attraverso questo poema: si tratta forse di una blanda satira razzista contro l’ignoranza e il provincialismo degli irlandesi, branco di sempliciotti incapaci di apprezzare le conquiste della modernità, o invece di una critica assai meno innocua alla Great Exhibition che celebra i fasti dell’impero? Come sempre accade nei grandi autori satirici, il poeta coltiva nel lettore l’incertezza su quale relazione sia lecito stabilire tra le sue idee e quelle espresse dalla persona satirica da lui creata: ragione per cui il messaggio che Thackeray voleva trasmettere risulta non univoco e di difficile decifrazione. Resta il fatto che l’elogio rivolto dal rustico Mr. Molony alla Fiera e più specificamente al Crystal Palace, per il suo tono sgangherato e assai poco contegnoso, non può che instillare nel lettore un dubbio radicale: sarà poi vero che tutto questo gran traffico di oggetti trasportati a Londra dalle più remote contrade del globo sia l’annuncio di un effettivo progresso della specie umana? Inoltre, qual è l’impatto percettivo di un evento di questo genere sulla psiche dei visitatori?
27Secondo Pearson, con questo componimento Thackeray intende non tanto irridere l’ignoranza degli irlandesi quanto trasmettere il senso di smarrimento provato dai visitatori della grande Fiera, i quali, colpiti da una miriade di sollecitazioni sensoriali frammentarie, si troveranno impossibilitati a fornire un quadro sintetico di ciò che hanno visto. L’enumerazione caotica non sarebbe, dunque, soltanto un espediente satirico motivato dalle limitate capacità intellettuali di Mr. Molony, ma una manifestazione della confusione generata nell’uomo premoderno dal rutilante spettacolo della Great Exhibition (Pearson 2001, p. 196). Sulla scorta di tale interpretazione, potremmo osservare come questa impossibilità di sintesi, questa sensazione di disorientamento e frammentazione della realtà causata dall’avvento del nuovo mercato globale, costituisca la prima spia del progressivo dissolversi, nel corso della modernità, di ogni paradigma forte di percezione e interpretazione di un mondo ridotto a bazar. Più sfumata la posizione dell’autore circa il valore finzionale dell’edificio, «That wondthrous thing, | The Palace made o’ windows!» («Questa cosa meravigliosa, | Il Palazzo fatto di finestre»), come viene definito: su questo aspetto i versi di Thackeray sono abbastanza ambigui, ma sembra di poter dire che le sue riserve sulla Fiera non riguardino anche il Palazzo, cui l’autore sembra guardare con una certa commossa ammirazione (Thackeray 1851a, p. 158).
28Trascorrono pochi giorni e il poeta torna a scrivere sul prodigio di Paxton. Si tratta in questo caso di una ballata intitolata May-day ode (Ode del giorno di maggio), apparsa sul “Times” del 30 aprile 1851, dunque alla vigilia dell’inaugurazione del Crystal Palace. Assistiamo qui a un radicale cambio di prospettive: diversa la destinazione (dallo scanzonato “Punch” al rispettabilissimo “Times”), mutati lingua e tono (dal brogue all’inglese letterario, con l’abbandono della risibile persona satirica di Mr. Molony), e soprattutto opposte le intenzioni, con la scomparsa di ogni pungolo mordace. Resta la trovata della lista, ma con una funzione totalmente differente: non più le merci, ma i popoli presenti all’Exhibition; non più l’ironica dimostrazione che il cervello umano (perlomeno quello di Mr. Molony) fatica a organizzare razionalmente l’abbuffata di stimoli sensoriali che è costretto suo malgrado a ingerire, bensì una sorta di orgoglioso catalogo delle numerose etnie sottomesse alla Corona. Inoltre, quel che più conta, il valore finzionale dell’edificio è ora apertamente esaltato: il Crystal Palace si presenta come una vasta, confortevole casa dell’umanità, pronta ad accogliere individui provenienti da ogni angolo del globo, un luogo di straordinaria forza evocativa capace di garantire una effettiva ricomposizione dell’unità dei popoli dispersi dalla maledizione biblica (naturalmente, posto che accettino di inchinarsi dinanzi allo scettro di Her Majesty Queen Victoria). La smorfia satirica lascia insomma il posto a un vero e proprio inno elevato alle magnifiche sorti e progressive del glorioso impero, il quale, grazie al saggio governo della sua regina, alla vastità delle risorse a disposizione e ai progressi della tecnologia potrà presto inaugurare una nuova età per il genere umano. In quest’ottica, il capolavoro di Paxton diventa nientemeno che l’edificio chiamato a ricucire la millenaria ferita inferta alla nostra specie dall’erezione della Torre di Babele, realizzando una forma di ricongiungimento dei popoli che in certa misura prefigura quel che oggi chiamiamo globalizzazione.
29Con i versi di May-day ode, Thackeray si pone dunque idealmente alla testa degli entusiastici sostenitori del Palazzo di Cristallo e dell’età dell’oro di cui l’edificio è promessa. La nuova architettura della trasparenza, con le sue mura di vetro e i suoi ambienti scintillanti («glittering halls», Thackeray 1851a, p. 158), sembra destinata a ospitare i figli di un’umanità rinnovata, fraterna e serenamente riunita sotto la protettiva ala dell’arco diafano: «A blazing arch of lucid glass | Leaps like a fountain from the grass | To meet the sun!» («Un ardente arco di vetro luminoso | zampilla come una sorgente dall’erba | incontro al sole!», Thackeray 1851b, p. 60*). In questo senso, la trasparenza diventa il simbolo non solo del progresso – nell’accezione ottocentesca del termine, ma che già prelude all’avvento dell’utopismo tecnocratico basato sulle ferree leggi del taylorismo – ma anche di una sorta di rinnovata alleanza tra Dio e l’uomo, se proprio l’Onnipotente benedice il Palazzo inviando raggi di sole che, amplificati dalle pareti di vetro, giungono a riscaldare tutti i presenti: «Suona forte, organo, risuoni il tuo squillo di tromba, | Marciate, Regina e corteo reale, marciate | Attraverso la splendida navata e l’arco che sale | di questa fulgida costruzione: | E guardate! Sopra il vasto edificio, | il cielo sconfinato di Dio si piega azzurro, | il pacifico sole di Dio fa filtrare i suoi raggi attraverso | E risplende sopra ogni cosa» (Thackeray 1851b, p. 63*). Non sarà del resto un caso se l’immagine dell’Arca dell’Alleanza ricorre piuttosto frequentemente nei testi in prosa e in versi dell’epoca; lo stesso Mr. Molony osserva che l’edificio di Paxton «Stands in High Park | Like Noah’s Ark» (Thackeray 1851a, p. 159*)9.
30Il messaggio che Thackeray rivolge ai lettori del “Times” è dunque chiaro: il Palazzo è annuncio di una felicità materiale, psicologica e spirituale prossima a venire e chi si oppone alla nuova architettura lo fa in nome di un conservatorismo sociale ed estetico che i tempi rendono ingiustificato, se non addirittura contrario ai voleri dell’Altissimo. Gli scrittori britannici non sono del resto i soli a celebrare le favolose «bright arcades» delle nuove metropoli (Thackeray 1851b, p. 60): in toni molto più visionari e molto meno politicamente connotati dei loro, le magnificheranno anche alcuni celebri cugini d’oltremanica. Penso per esempio agli intrepidi araldi del moderno Rimbaud e Verlaine. Nelle Illuminazioni (1886), in particolare, Arthur Rimbaud, vestendo i panni di un raffinato «deambulatore di “viali di cristallo” (Métropolitain)», frequenta «palazzi costituiti da “un’artistica armatura d’acciaio di quindicimila piedi di diametro all’incirca” (Villes), visita “mostre di pittura in locali vasti venti volte più di Hampton-Court” (Villes), e attraversa “chalet di cristallo” o una “grande casa di vetri” (Après le déluge)» (Hamon 1989, p. 90). Dal canto suo Paul Verlaine, in un articolo del 1890 apparso su “L’Artiste” e intitolato La décoration et l’art industriel à l’Éxposition de 1889 (La decorazione e l’arte industriale all’Esposizione del 1889), celebra il Crystal Palace come un edificio «[…] grandioso e leggero, bianco e blu sul cielo pallido come un castello di Shakespeare, fiabesco in un’apoteosi di fresca vegetazione e di graziosissime colline […]» (citato in Hamon 1989, n. 42 p. 89). Tornando agli anni Cinquanta, sempre in Francia, il drammaturgo lionese Louis Clairville, un autore oggi piuttosto dimenticato ma tanto apprezzato dai suoi contemporanei da meritare l’appellativo di «Alexandre Dumas del vaudeville», aveva portato in scena quello che oggi chiameremmo un instant drama dedicato all’avvenimento, la pièce in cinque atti Le Palais de Cristal ou les Parisiens à Londres (Il Palazzo di Cristallo ovvero I parigini a Londra). Messa in cartellone dal teatro della Porte Saint-Martin alla fine di maggio del 1851, venticinque giorni soltanto dopo l’inaugurazione della Great Exhibition, questa spassosa commedia magnifica gli splendori del prodigieux palais, tra scambi di battute e salaci siparietti. Sempre in quei giorni della primavera 1851, e per tornare al contesto anglosassone, una scrittrice destinata a grande successo come Charlotte Brontë scrive al padre:
Ieri sono andata per la seconda volta al Crystal Palace […]. È un luogo meraviglioso – ampio, strano, nuovo e impossibile da descrivere […]. La folla che riempie i grandi corridoi sembra controllata e soggiogata da una qualche invisibile influenza. Tra le trentamila anime che lo popolavano, il giorno in cui vi sono stata non è stato possibile udire un solo forte rumore, né alcun movimento irregolare; la marea vivente si muove cheta, con un rumore profondo, un mormorio come il mare sentito da lontano (citata in Amendola 1997, p. 135).
31Questo brano risulta particolarmente interessante perché presenta un’immagine piuttosto ambigua del Palazzo. I fratelli Brontë, occorre ricordarlo, avevano scritto nel corso degli anni Venti, cioè da bambini, una serie di testi ambientati in un mondo fittizio chiamato Glass Town. Charlotte era dunque familiare col tema del vetro ben prima della costruzione del Crystal Palace, edificio che, ci dice lei stessa nelle lettere al padre, visitò ben cinque volte. Nella missiva sopra citata la scrittrice definisce il capolavoro di Paxton un «luogo meraviglioso», ma poi sposta l’attenzione sui visitatori, parlando di una folla «controllata e soggiogata da una qualche invisibile influenza». Brontë introduce così l’immagine ambigua e sinistra di una massa eterodiretta da una forza misteriosa, soprannaturale: quasi che il castello delle fiabe le apparisse improvvisamente come una sorta di bizzarra prigione, una trappola che, assoggettando gli individui, li priva appunto della loro soggettività. Interessante poi che la scrittrice parli di una «marea vivente» che avanza nell’edificio producendo un rumore di risacca, ma fortemente attutito dal fatto che il vetro è un cattivo conduttore di suoni («come il mare sentito da lontano»): il tema equoreo, lo abbiamo già accennato e lo vedremo a più riprese nei capitoli che seguono, è una costante dell’architettura della trasparenza.
32Le oscure inquietudini che animano la penna di Charlotte Brontë, la quale avverte come la mano di un torvo negromante dietro il seducente scintillio dei vetri, ci permettono di spostare il discorso verso la schiera dei detrattori del Crystal Palace. Va detto che tra costoro troviamo numerosi personaggi animati da un generico quanto velenosamente gratuito pensiero conservatore di tipo regressivo, con forti venature di oscurantismo religioso. Il Palazzo viene da molti visto come una minaccia per il mantenimento del buon ordine sociale, l’ennesimo tentativo di corrompere il genuino, semplice, sano stile di vita del popolo. Piovono anatemi e violente reprimende che non mette conto qui riportare. C’è tuttavia, tra i primi denigratori del Crystal Palace, una figura che merita di essere ricordata, sia per la levatura del personaggio sia perché la sua analisi risulta almeno indirettamente foriera di intuizioni interessanti circa i valori alla radice del mito dell’architettura della trasparenza. Mi riferisco al maggiore storico e critico d’arte del xix secolo, John Ruskin, il quale non fu solo un grande scrittore e un raffinato esteta ma anche un intellettuale capace di leggere nelle trasformazioni dell’arte i segni delle metamorfosi socio-politiche in atto.
33È da premettere che il rapporto di Ruskin col Crystal Palace risulta, sul piano emotivo e personale, per molti versi ambivalente: se da anziano, nell’incompiuto volume autobiografico Praeterita, lamenterà che l’edificazione del Palazzo aveva rovinato per sempre la semplice amenità del paesaggio di Herne Hill (Ruskin 1889, p. 54), sappiamo che al momento della sua costruzione era rimasto ammirato dalla titanica impresa di far sorgere in una zona squallida e paludosa di Londra un edificio di quella portata. Le testimonianze dell’epoca ci dicono inoltre che di tanto in tanto Ruskin amava godere degli svaghi offerti dalla Fiera, dove si recava per assistere a concerti e rappresentazioni o per giocare a scacchi con un automa (Gamble 2006, pp. 144-146; Musgarve 1995). Resta però il fatto che nei suoi scritti di maggior impegno l’autore de Le pietre di Venezia esprime giudizi particolarmente severi sulla civiltà del ferro e del vetro in generale e sul suo luminoso simbolo londinese in particolare.
34Tale avversione non deve sorprendere. Notoriamente ostile a ogni proposta culturale moderna, Ruskin, come ricordava in un articolo del 1901 l’architetto e teorico tedesco Hermann Muthesius, guarda all’architettura da una prospettiva che si identifica con il gotico, «sia in senso artistico che sociale»:
Scopo di tutta l’esistenza di Ruskin fu rimodellare le degenerate condizioni di vita contemporanee sul livello di sviluppo proprio dell’epoca gotica. La dottrina di Ruskin cozza continuamente contro questo errore e si rivela del tutto non-moderna, tanto che alla fine non consegue l’obiettivo che l’autore si era prefissato con grande entusiasmo (Muthesius 1901, p. 311).
35Stando alla lettura di Muthesius, the last of the great prophets come qualcuno definì Ruskin dopo la sua scomparsa, sarebbe insomma un pensatore attardato, che alla metà dell’Ottocento ancora indugia sulle «pretese» artistiche dell’architettura, un adoratore di rovine medievali afflitto da nostalgici torcicollo. Un giudizio ancor più feroce arriva dal padre del nostro futurismo, il quale ha parole di fuoco contro il teorico inglese: «Quando, quando vi sbarazzerete dell’ideologia linfatica di quel deplorevole Ruskin, che io vorrei coprire di ridicolo, ai vostri occhi, in modo definitivo?», domanda Marinetti nel Discorso futurista agli Inglesi del 1910, aggiungendo:
Col suo sogno morboso di vita agreste e primitiva, con la sua nostalgia di formaggi omerici e di arcolai leggendarî, col suo odio della macchina, del vapore e dell’elettricità, quel maniaco di semplicità antica somiglia a un uomo che dopo esser giunto alla sua completa maturità fisica, volesse ancora dormire nella culla e cibarsi alla mammella della propria nutrice […] (Marinetti 1968, p. 285).
36Se il non-moderno amore di Ruskin per le pietre antiche – fu per tutta la vita uno dei più accesi sostenitori del cosiddetto Victorian Gothic Revival – è un dato incontrovertibile e certo frutto di una mentalità per così dire passatista, ciò che qui preme sottolineare è che l’orizzonte concettuale entro cui si iscrive la sua idea di gotico, ciò che Muthesius depreca e Marinetti irride, presenta un’intuizione estremamente interessante circa i pericoli della modernità.
37Il fatto è che per lo storico inglese la forza del gotico risiede nella sua natura congiunta di sublime paradigma stilistico e di manifestazione fenomenica, per così dire, dell’unità spirituale di un’intera comunità. Sempre attento alle condizioni materiali di realizzazione delle opere, Ruskin ama il Medioevo perché lo considera un’epoca nella quale non solo l’artista di genio ma ogni singolo operaio ha la possibilità di lavorare in perfetta libertà e indipendenza all’interno di un progetto condiviso. Al contrario, l’industria moderna, costringendo i workmen a un lavoro ripetitivo e standardizzato, produce una società fatalmente disarmonica. Tale prospettiva – non lontana, si noti, da quella che in anni recenti ha informato le poesie di Opus florentinum di Mario Luzi, testo dedicato alla fabbrica di Santa Maria del Fiore – in un certo senso rovescia l’aureo paradigma della cattedrale così come interpretato da Paxton e dai suoi ammiratori: frutto di abilità ingegneristiche e procedure meccanizzate, il Palazzo rappresenta per Ruskin, nelle sue implicazioni collettive e nell’orizzonte teorico e pratico che delinea, l’esatto opposto di un edificio sacro medievale. Ora, è proprio questo quadro concettuale a rendere le sue osservazioni sul Crystal Palace, in parte per motivi diversi da quelli che lui stesso poteva immaginare, alquanto profetiche ed estremamente interessanti per il nostro ragionamento: la sua riflessione non investe infatti solo il piano estetico o tecnico, ma anche quello del valore funzionale/finzionale dell’edificio.
3822 luglio 1854: poco tempo dopo che il capolavoro di Paxton, debitamente smontato e trasportato, viene ricostruito tale e quale nella zona di Sydenham Hill, dove resterà fino al giorno della sua accidentale distruzione, Ruskin pubblica sul “Times” un pamphlet dal titolo eloquente: The Opening of the Crystal Palace Considered in some of its Relations to the Prospects of Art, ovvero L’inaugurazione del Crystal Palace considerata in alcune delle sue relazioni con le prospettive dell’arte. Si tratta, come gli studiosi di storia dell’arte e dell’architettura giustamente sottolineano, di un testo che deve essere inquadrato alla luce delle teorie estetiche antimoderniste dell’autore e delle sue battaglie in difesa della millenaria tradizione architettonica europea. Gli argomenti addotti sono in effetti improntati al più strenuo conservatorismo, né viene risparmiata al lettore una nostalgica tirata contro la decadenza dei tempi. La modernità, scrive Ruskin, ha accantonato la divina perfezione degli ideali greci, la purezza della scuola italiana, lasciandosi abbagliare dal seducente lucore di qualche lastra di vetro disposta ad arte («[…] dazzled by the lustre of a few rows of panes of glass […]», Ruskin 1854, p. 6*). L’autore ammette pacificamente che per costruire una fregata a elica, un ponte tubolare o un edificio in vetro occorrano un ingegno e una maestria non comuni e degni di plauso, ma si rifiuta di accettare che questi prodotti ricevano la stessa ammirazione e lo stesso consenso che si devono alle autentiche opere d’arte, come un testo poetico o un quadro (Ruskin 1854, p. 6). Strenuo ammiratore di Shakespeare e Michelangelo, Ruskin non può insomma non irritarsi al pensiero che dopo tre secoli di studi consacrati alla comprensione dei grandi modelli del passato ci si ritrovi, alla metà del secolo xix, a celebrare i fasti di una semplice serra, una comunissima greenhouse, sia pure di proporzioni straordinarie:
E dopo tutta questa raffinatissima indagine – questa nobile tensione verso l’ideale – questa sottigliezza di indagine e pratica tanto fastosa – il grande risultato, la conclusione ammirevole e a lungo attesa è che, nel bel mezzo del xix secolo, presumiamo di aver inventato un nuovo stile di architettura, quando non abbiamo fatto altro che ingrandire una serra! (Ruskin 1854, p. 5*).
39La punta di esibita stizza con cui Ruskin liquida il Crystal Palace – nient’altro che un gigantesco conservatory, non certo un capolavoro – si spiega senza dubbio con la sua assoluta fedeltà nei confronti dei materiali e dei principi edificatori delle epoche antiche, contro la rapida e travolgente ascesa delle nuove tecnologie costruttive (Leoni 1987, pp. 119-120). Ma non solo.
40Per lo studioso britannico, si tratta anche di contrastare un nuovo fenomeno, sconosciuto alla tradizione occidentale fino a quel momento: quello della cancellazione di ogni rapporto diretto tra le caratteristiche tecnico-stilistiche di un edificio e la sua funzione sociale. La questione era già stata affrontata, una ventina di anni prima, da Victor Hugo nel secondo capitolo del terzo libro di Notre-Dame de Paris (1831). Cogliendo al volo, con una panoramica d’insieme davvero precinematografica, il paesaggio urbano della capitale francese, Hugo denunciava come la nuova architettura mancasse di ogni connessione tra materiali utilizzati, forme adottate e funzione sociale degli edifici, cosicché la stessa costruzione poteva essere indifferentemente adibita a palazzo reale, camera dei comuni, municipio, collegio, accademia, deposito, tribunale, museo, caserma, sepolcro, tempio, teatro (Hugo 1831, p. 142). A questo stesso processo d’indifferenziazione e quindi di slegatura tra funzione e forma architettonica farà poi riferimento nello stesso anno di The Opening of the Crystal Palace, il 1854, Charles Dickens, descrivendo nel capitolo quinto di Tempi difficili il desolante, omogeneo paesaggio urbano dell’immaginaria cittadina di Coketown, regno dell’utilitarismo più ottuso e della burocrazia più miope.
41Edificio anonimo e infinitamente replicabile, «that mighty palace», come Ruskin lo chiama (Ruskin 1854, p. 3), con la sua natura polifunzionale di serra, castello, vetrina e molto altro può dunque diventare indifferentemente qualunque cosa10. E questo in ragione della ampia gamma di finzioni strutturali che lo investono. «Se Ruskin detesta l’architettura in ferro e vetro che comincia a invadere il reale», nota Philippe Hamon, «è perché, smontabile, ripetitiva, polivalente e continuamente rinnovabile, essa perde ogni ancoraggio storico e geografico e non può trattenere gli effetti e la patina del tempo» (Hamon 1989, p. 70)11. Il marcato pessimismo dell’autore de Le pietre di Venezia – il pamphlet si chiude prefigurando l’avvento di una «neonata popolazione che abita un mondo senza una testimonianza del passato e senza una rovina» (Ruskin 1854, p. 16*) – non è pertanto determinato solo dalla sua oltranzistica, ostinata e rigidamente conservatrice difesa della tradizione, ma è anche un’intuizione, per molti versi profetica, circa la natura stessa della modernità. Cosa ne sarà del genere umano, infatti, se la presunta «regenerated society» del futuro si troverà «a possedere lussuose città composte soltanto di luminosi saloni e gradevoli parterre con vista»? (Ruskin 1854, p. 17*).
42In questa prospettiva, quello che il Crystal Palace annuncia è un mondo non già rinnovato bensì azzerato, sia da un punto di vista estetico (con l’improvvisa obliterazione di una secolare storia di affinamento delle tecniche edilizie e del gusto) che socio-politico, in quanto la nuova scienza delle costruzioni provoca la definitiva e brutale rottura dei vincoli formali e materiali che sono alla base dell’equilibrato e armonico sviluppo di una società. Ecco allora che, sin dalle prime pagine del pamphlet The Opening of the Crystal Palace, un oscuro presagio sembra materializzarsi: e se, oltre lo sfolgorio dei vetri, al di là delle impalpabili promesse di ariosità e leggerezza che tanto incantavano poeti e romanzieri, artisti e intellettuali, questa serra ipertrofica, venduta al mondo come uno scintillante palazzo delle fate, fosse il simbolo di una nuova barbarie che minacciosamente allunga la propria ombra, relegando nell’oscurità secoli di civiltà europea? E se, dietro le sue possenti ed emozionanti nervature, la nuova cattedrale londinese cercasse di celare l’abissale inconsistenza dei tempi moderni, proprio mentre attira a sé come falene impazzite frotte di quegli stessi cittadini che accettano di lasciar sprofondare nell’indifferenza e nell’incuria i millenari tesori della laguna veneta?
43Quesiti ancora di estrema attualità nell’Italia dell’Expo e dei crolli di Pompei, problemi che Ruskin sa bene connettersi all’altrettanto scottante nodo della giustizia sociale. «What do men travel for, in this Europe of ours?», si domanda (Ruskin 1854, p. 16), ponendo un interrogativo che non smette di rimbalzare dal suo tempo al nostro, e che può forse aiutarci a comprendere meglio non tanto il Crystal Palace in sé quanto la sua natura di simbolo della modernità. La metà dell’Ottocento è il momento, occorre tenerlo presente, in cui in Inghilterra infuria il dibattito sul ruolo e sul destino del proletariato urbano: basti pensare agli studi di Friedrich Engels dedicati alla classe operaia di Manchester o alle tesi di William Morris sul lavoro felice. Letteratura e arte tengono il passo come testimoniano, per non citare che due esempi particolarmente rappresentativi, la celebre tela di Ford Madox Brown intitolata Work (1852-1865), vero compendio della società vittoriana nel passaggio dall’economia rurale a quella industriale12, e la distopica invenzione della città di Coketown nel già citato Tempi difficili di Dickens, claustrofobico inferno di miseria, degrado, inquinamento.
44In questo contesto, come si è accennato più sopra, molti sono gli intellettuali che vedono nella Great Exhibition un’occasione preziosa per uscire dal cul-de-sac della rivoluzione industriale e promuovere forme avanzate di uguaglianza sociale. Se la leggerezza del vetro riuscirà a soppiantare la pesantezza del carbone, questa una delle ipotesi in voga, si potrà infallibilmente ottenere un generale miglioramento delle condizioni di vita. Tale ottimismo non manca di solleticare anche il pensiero dei liberali, propugnatori delle teorie del laissez-faire, tra i quali si fa strada l’idea che la Fiera possa costituire un ambizioso modello di rational recreation, capace di garantire una più ampia educazione delle classi subalterne ed esercitare una benefica influenza civilizzatrice sulle masse (Gurney 2001, p. 115). Paradigmatico risulta in tal senso il caso di un romanzo oggi dimenticato di Henry Mayhew, 1851: or, the adventures of Mr. and Mrs. Sandboys and family (1851 o le avventure di Mr. e Mrs. Sandboys e famiglia), un’opera a tesi che intende dimostrare come grazie alla Great Exhibition il lavoro abbia finalmente conquistato una posizione degna e rispettata all’interno della società, con un significativo miglioramento delle condizioni della classe operaia. Per gli intellettuali come Mayhew, prodotti esemplari dell’età vittoriana, l’erezione del Crystal Palace annuncerebbe dunque un’età di progresso generalizzato, un’epoca in cui i più umili lavoratori avranno la possibilità di vivere all’aria aperta (migliorando così la loro salute), nutrire interessi culturali (arricchendosi intellettualmente e spiritualmente) e godere di più tempo libero (da dedicare magari alle attività che avranno scoperto nei vari padiglioni del Palazzo). Alla domanda di Ruskin – «What do men travel for, in this Europe of ours?» – molti artisti e scrittori sia liberali che socialisti avrebbero dunque replicato: per un domani migliore.
45La risposta che Ruskin stesso dà al suo interrogativo è però di tutt’altro tenore. Occorre qui precisare come il suo scetticismo non derivi dall’ignoranza o dal disinteresse circa le pesanti ricadute negative della rivoluzione industriale, fenomeno che, come lui per primo sottolinea, mina la dignità della persona asservendo l’operaio alla macchina. Né il futuro autore di Cominciando dagli ultimi dimentica che il Palazzo sorge «[…] nelle vicinanze di una metropoli traboccante di una popolazione stremata dal lavoro, eppure assetata di conoscenza, dove la contemplazione può accompagnarsi al riposo, e l’istruzione al piacere» (Ruskin 1854, p. 4*). Non è questo il punto: il pensatore britannico anzi riconosce apertamente come le attività che si tengono all’interno del Crystal Palace possano avere un positivo impatto educativo e ricreativo sulle classi subalterne. I suoi dubbi riguardano piuttosto il fatto che la nuova ars ædificandi a vocazione immateriale possa veramente garantire quei «nobili risultati» che molti si attendono da essa, con effetti positivi destinati a moltiplicarsi «settanta volte sette», come lui stesso scrive riprendendo, con evidente sarcasmo, una celebre iperbole evangelica (Ruskin 1854, p. 4*).
46E se invece, questa l’implicita riserva di Ruskin, accadesse il contrario? E se la nuova architettura della trasparenza, che lo studioso osserva con l’occhio scettico del tradizionalista e non con quello ottimista-progressista di uno Zola, non fosse che uno strumento di perpetuazione della società classista, l’annuncio di nuove forme di asservimento? Spingendo lo sguardo oltre le apparenze, penetrando dentro «[…] quel tetto scintillante» costruito, come scrive, «allo scopo di esporre le trascurabili arti del nostro lusso alla moda […]» (Ruskin 1854, p. 7*), Ruskin inizia a scorgere l’incubo dietro il sogno. A profilarsi è ora l’immagine spettrale di un glass bazaar costruito col sudore di operai-schiavi, la cui illusoria contiguità con il paesaggio circostante in realtà palesa la distanza siderale che separa le classi disagiate dalle vecchie e nuove élites. Il mito della fabbrica purovisibilista che, lo vedremo nel paragrafo che segue, si affaccia nella seconda metà dell’Ottocento, è insomma già messo in dubbio alla metà del secolo da un esteta che, con i suoi argomenti e il suo punto di vista passatisti, sembra aver precocemente intuito i lati oscuri della sfavillante architettura della trasparenza.
L’idillio istituzionalizzato: la fabbrica trasparente
47Dodici anni dopo l’inaugurazione del Crystal Palace, nel 1863, Nikolaj Gravilovič Černyševskij con il romanzo Che fare? proietta il modello del Palazzo di Cristallo in una dimensione di franca utopia sociale. Ci troviamo, con ogni evidenza, in un contesto lontanissimo dalla liberale realtà franco-anglosassone entro le cui coordinate ci siamo fin qui mossi. Parliamo infatti della remota Russia, un paese per molti versi isolato dal resto d’Europa, ma che proprio a partire dalla metà dell’Ottocento intensifica i propri contatti internazionali. I modelli sociali, politici e culturali provenienti dall’estero, e le immagini a essi collegate, iniziano a circolare nel paese influenzando gli orientamenti filosofici e creativi di pensatori, intellettuali, artisti. Naturalmente, tale incontro non si risolve in una passiva acquisizione di elementi esterni: gli impulsi provenienti da paesi come la Francia o l’Inghilterra entrano in dialogo serrato con i caratteri della realtà nazionale russa, dando vita a forme di pensiero e cultura nuove e originali.
48In questa fase decisiva nella storia culturale del suo paese, Černyševskij occupa un ruolo rilevante. Materialista convinto, vicino ai socialisti utopisti e ai fourieristi russi, riveste incarichi di primo piano nel movimento rivoluzionario che si oppone all’assolutismo zarista e per questo viene arrestato, trascorrendo venticinque anni in prigione13. A causa di queste vicende travagliate, quasi tutti i suoi scritti sono andati perduti. Che fare?, apparso postumo nel 190514, è un tipico prodotto dell’epoca: un testo romanzesco con esplicite finalità didattico-propagandistiche, pensato cioè per agire come strumento di persuasione emotiva diretta su un lettore identificabile, come nota Régine Robin, con i membri dell’intellighenzia illuminata (Robin 1986, p. 168). Per ottenere l’effetto desiderato, Černyševskij si ispira a una delle maggiori emozioni mediali del secolo, ovvero al Crystal Palace.
49Occorre ricordare che per gli intellettuali russi dell’epoca il capolavoro di Paxton rappresenta una vera e propria ossessione, apparendo loro come la più alta espressione della modernità, di contro alle terribili condizioni di arretratezza in cui versa la stragrande maggioranza del paese15. In particolare, quello tra Černyševskij e il Crystal Palace – visitato nel 1859 in occasione di un breve soggiorno londinese – è un vero colpo di fulmine, al punto che lo scrittore decide di dedicargli uno studio ditirambico, apparso negli “Annali della Patria” (Catteau 1973, p. 179), in cui il Palazzo viene celebrato come uno straordinario simbolo di progresso e libertà per le classi subalterne. L’ipervetrina-iperserra concepita in terra britannica per celebrare i fasti dell’impero ed espandere la vetrinizzazione degli spazi a fini commerciali diventa dunque, per questo intellettuale democratico-rivoluzionario russo di metà Ottocento, il prototipo di quella che dovrà essere la trasparente casa del proletariato, sorta di falansterio fourierista/protocomunista ispirato all’ideale di un lusso collettivo e solidale. Per molte ragioni, Che fare? rappresenta dunque una tappa fondamentale nel percorso di affermazione dell’architettura della trasparenza.
50Sul piano della sensibilità letteraria, il romanzo si muove nei territori di un patetismo già fin de siècle che cerca, per i problemi sociali, soluzioni ibride ma eminentemente sentimentali, dando per acquisito il fermo principio della innata bontà dell’uomo: molto più Rousseau volgarizzato, insomma, che Marx. Resta il fatto che questa sorta di vita nova in chiave socialista, dove al sogno dantesco di una palingenesi spirituale si sostituisce l’utopia radicale di una società rinnovata dalle fondamenta, fu intensamente amata da Lenin, che la considerava una lettura decisiva per la sua formazione, tanto da ispirarsene per il celebre saggio del 1902 che porta lo stesso titolo. Per ragioni uguali e contrarie, il romanzo sarà invece acrimoniosamente sbeffeggiato da Vladimir Nabokov, il quale ne Il dono ne stigmatizzerà l’afflato romantico-positivista e collettivista: «Oggi sembra che soltanto i marxisti riescano ancora a interessarsi al fantomatico messaggio etico racchiuso in questo piccolo, morto libro. Seguire senza difficoltà e liberamente l’imperativo categorico del bene comune – ecco l’“egoismo razionale” che gli studiosi hanno trovato in Che fare?» (Nabokov 1952, p. 632).
51Protagonista dell’opera è una donna, Vera Pavlovna, presentata al lettore come una figura prototipica dell’umanità a venire. È lei la prescelta che dovrà guidare il cambiamento e annunciare al suo paese e al mondo intero l’avvento di una società finalmente affrancata dai pregiudizi e dalle ingiustizie sociali. La rivelazione del suo prometeico destino le giunge da Eguaglianza, divinità di incomparabile bellezza che la visita in sogno e le mostra, passando in rassegna alcune figure allegoriche del passato – Astarte: l’umanità primitiva; Afrodite: la classicità; Verginità: il feudalesimo – come le donne siano state costrette a una secolare condizione di pesante subalternità. L’ultima delle età, l’età nuova, sarà quella cui Vera stessa darà avvio, abolendo in primo luogo ogni differenza tra i sessi (Černyševskij1863, p. 228), per poi procedere a superare ogni divario di classe. La società del domani, rivela la dea, seguirà il modello di organizzazione del lavoro che Vera ha già avviato da tempo, basato su una vasta rete di «officine di cucito», piccole cooperative gestite dalle operaie stesse, chiamate a condividere oneri e onori dell’amministrazione. Ogni ragazza contribuisce con una giusta quota di lavoro e il reddito è equamente redistribuito tra tutte; le famiglie delle lavoratrici abitano collettivamente in prossimità dell’officina e partecipano al buon andamento dell’impresa, ciascuna secondo i propri mezzi (Černyševskij 1863, pp. 114-118).
52La realtà operaia che Vera ha istituito e che Černyševskij propone come modello universale connette dunque direttamente il contesto lavorativo con quello domestico e comunitario, fondendo insieme compiti produttivi, legami emotivi e obblighi familiari. Occorre osservare come questa tendenza, tipicamente fourierista, a ricompattare i luoghi del lavoro e quelli del privato (con la coesistenza di attività produttive, momenti ricreativi, relazioni familiari allargate) si muova in direzione contraria rispetto al modello capitalistico dominante già a metà Ottocento, che spinge per una progressiva divaricazione delle due dimensioni, favorendo i modelli della privacy e della domesticità borghese. L’utopia di Černyševskij rappresenta dunque, da questo punto di vista, non solo una risposta alla modernità intesa come momento storico in cui si attua la separazione della sfera pubblica da quella privata, per dirla nei termini di Benjamin, ma anche una vera e propria mozione protofemminista se, come scrive Penny Sparke, «[…] l’ideologia delle sfere separate rese la casa il luogo in cui veniva negoziata la soggettività femminile moderna» (Sparke 2008, p. 19).
53Inoltre, è da sottolineare come Černyševskij inscrivesse il progetto di Vera in una dimensione transnazionale che la dice lunga sulla vivacità dell’utopismo ottocentesco. L’apertura del pensiero russo del xix secolo nei confronti di un paese chiave della modernità come gli Stati Uniti è testimoniata dalla presenza, nel romanzo, della figura di un illuminato capitalista anglo-americano, tale Charles Beaumont, il quale, spinto dal desiderio di conoscere Vera ed entrare in contatto con i «[…] nuovissimi principi della scienza economica» (Černyševskij 1863, p. 245), decide di trasferirsi in Russia. Il sogno di una evoluzione comune di Russia e America nel segno di una condivisa cultura operaistica si spiega molto bene, a questa altezza cronologica, in considerazione del fatto che oltreoceano proprio nell’Ottocento furono fatti diversi esperimenti di società di ispirazione fourieriana, alcuni dei quali piuttosto promettenti. L’ipotesi di una utopia collettivista diffusa nel cuore degli Stati Uniti non doveva dunque sembrare, soprattutto agli occhi di uno scrittore russo, così inverosimile come oggi può apparire (si veda sul tema l’ottimo studio di Guarneri 1991). Si ricordi inoltre che nel 1853, a soli due anni di distanza da quello londinese, era stato costruito un imponente Crystal Palace anche nel cuore di New York.
54Tornando al sogno premonitore che agisce da autentico fulcro del romanzo, questo si conclude con l’annuncio da parte della dea Eguaglianza – la quale naturalmente ha il volto della stessa Vera – del futuro radioso che attende l’umanità: quando questi meccanismi virtuosi di organizzazione del lavoro saranno giunti, «[…] per iniziativa e virtù degli umili e dei deboli» (Černyševskij 1863, p. 118), a diffondersi nell’intero paese, si assisterà a una totale rivoluzione architettonica. Nel paesaggio del futuro infatti le fabbriche tradizionali saranno destinate a scomparire, sostituite da abbaglianti, scintillanti architetture in vetro:
Un immenso edificio si eleva in una pianura dalla vegetazione lussureggiante. Ha lo scheletro di ferro, le pareti di cristallo, è circondato a ogni piano da spaziose gallerie, ha i soffitti e i pavimenti di alluminio. Dappertutto, piante meridionali e fiori in gran copia. Un grandioso giardino d’inverno (Černyševskij 1863, p. 229).
55Nella fantastica invenzione socio-politica di Černyševskij il palazzo-serra sorto nel cuore di Londra e adibito a vetrina di merci evolve in un altro tipo di palazzo-serra, facente funzione di officina collettivista ma anche di atelier, residence, luogo di svago destinato a ospitare musei e teatri. La prospettiva di questo felice connubio tra tempo del lavoro, del consumo e del divertimento, così da boucler la boucle del ciclo produttivo, si ritroverà poi magnificata in un libro del 1902, Garden Cities of To-morrow, scritto da un grande ammiratore di Ruskin e Morris come Ebenezer Howard. Nella città ideale progettata dall’urbanista inglese, infatti, un posto speciale è occupato da una «larga galleria di vetro, chiamata il “Palazzo di Cristallo”», che è a un tempo una vetrina per il commercio e la vendita e uno spazio destinato al tempo libero, contenente al suo interno un vasto Giardino d’Inverno (Howard 1902, p. 12).
56Il grande tempio laico del consumo diventa dunque, in Che fare? – siamo, lo ribadiamo, negli anni Sessanta dell’Ottocento – l’emblema di un grandioso progetto di emancipazione, il luogo deputato a ospitare i membri della futura società di uguali. Osserviamo qui, si è detto, il ritorno di un mito sociale fortissimo quale quello del falansterio fourieriano, come ben dimostra un confronto tra l’edificio ideato da Černyševskij e quello immaginato da Mathieu Briancourt nel suo classico Visite au phalanstère (Visita al falansterio). Tra i due modelli corre però una differenza non da poco: il perimetro esterno in muratura scompare, sostituito da uno in vetro. Si tratta, occorre sottolinearlo, di uno scarto decisivo: nella fabbrica del domani i muri, impenetrabili e respingenti, segno di segregazione ed esclusione, lasceranno il posto a pareti trasparenti che, abolendo ogni distinzione tra interno ed esterno, romperanno in modo liberatorio la divisione tra gli spazi. Non a caso la dea Eguaglianza conclude la propria profezia contrapponendo l’oscurità del presente al fulgore della società a venire, in un dualismo buio/luce che è sia metaforico che concreto:
Tale sarà la vita del luminoso domani, non certo molto remoto, se tutti lavoreremo concordi ad affrettarne l’avvento, sopportando alla meglio l’insopportabile presente, cercando di aguzzare gli occhi nell’ombra, perché si trovino preparati a ricevere l’impeto della luce abbagliante (Černyševskij 1863, pp. 230-231).
57Attraverso la fusione di due modelli progettuali tra i più forti del xix secolo, l’architettura della trasparenza e l’officina collettivistica, Černyševskij plasma dunque il sogno di una vera e propria société harmonienne, ovvero di una happy colony, parafrasando il titolo di un trattato utopistico scritto da Robert Pemberton nel 1854.
58Lo scenario prospettato è idilliaco. Riprendendo una vecchia immagine fourierista, già riscontrabile nella Visite au phalanstère di Briancourt sopra citata, lo scrittore immagina lavoratori che all’unisono «mietono e cantano», tanto agevole e persino piacevole risulta il loro lavoro nei campi (Černyševskij 1863, p. 229). I compiti più ingrati sono tutti affidati alle macchine. All’esterno, la concordia di intenti e la convergenza di interessi regna sovrana – «gruppi di gente sono nei prati: uomini e donne, vecchi, giovani, fanciulli, tutti insieme» (Černyševskij 1863, p. 229). All’interno, l’edificio offre illimitato riparo e sicuro conforto: il pasto, «[…] abbondante e gustoso, è lo stesso per tutti» (Černyševskij 1863, p. 230). Giunta la sera, uomini e donne si ritrovano per riposare e svagarsi, ciascuno a proprio talento: chi discorre, chi balla, chi studia e chi passeggia; taluni si dedicano ai figli, «[…] altri ancora, e più spesso, consente alle dolci persuasioni dell’amore» (Černyševskij 1863, p. 230). La luminosità del palazzo non viene meno neppure di notte, quando la vita della comunità si svolge in sale «[…] splendide di luce elettrica» (Černyševskij 1863, p. 230): grazie alla nuova, straordinaria fonte di energia del mondo moderno, la reversibilità interno/esterno non si interrompe, ma semplicemente si rovescia, con la luce che esce da dentro a pervadere e illuminare il fuori.
59Un modello tanto virtuoso e socialmente utile non può mancare di avere uno straordinario successo, e il profetico sogno di Vera lo conferma. In breve, l’intera Russia si trova ricoperta di meravigliose fabbriche di vetro:
Di simiglianti edifici ne sorgono in ogni dove, qua e là frammezzati da tende e padiglioni. Esistono bensì le città come un tempo; ma non sono che centri di scambio per le merci. Chi mai vorrebbe preferire di vivere in esse a questa eterna primavera, offerta dal lavoro sapiente che ha trasformato le steppe in terreni fecondi, rallegrati dal godimento comune d’ogni dolcezza, divinizzata dall’amore? (Černyševskij 1863, p. 230).
60L’ideologia antiurbana e naturalistica, vero mito fondativo del pensiero sensistico moderno, almeno dal Settecento in poi (si è già fatto il nome di Rousseau), trova dunque in Che fare? un nuovo slancio e una declinazione operaistica grazie alle meraviglie della trasparenza architettonica, la quale consentirà di creare luoghi capaci di irradiare un benessere diffuso e immune da ogni contaminazione con le scorie della civiltà industriale. L’immagine dell’«eterna primavera» qui evocata è particolarmente eloquente: che cosa di più suadente, e rivoluzionario, del prospettare un paese costellato di officine collettivistiche en plein air, perfettamente armonizzate con la natura – una natura ovviamente rigogliosa e meridionale, quale solo un jardin d’hiver consente alle rigide latitudini nordiche?
61Quello che Černyševskij sogna è dunque un mondo in cui agli ex contadini, ormai di fatto proletari russi saranno risparmiate le sofferenze toccate ai loro fratelli inglesi, quell’«inferno sociale» di sfruttamento e indigenza descritto quasi vent’anni prima da Engels ne La situazione della classe operaia (Hobsbawm 2011, p. 101). Incrociando le conquiste tecniche del sistema capitalistico con le potenzialità di un popolo ancora arretrato, ma volenteroso e animato da forti spinte solidaristiche e compartecipative, lo scrittore auspica che sia dato al suo paese di saltare le tappe intermedie della modernizzazione per giungere direttamente a forme economiche e sociali più avanzate e, diremmo oggi, sostenibili. La fabbrica, senza la fabbrica; l’industria, senza l’industria: un’idea che avrà peraltro grande fortuna negli Stati Uniti e nella Germania weimariana, e di cui il capitalismo si è poi andato progressivamente impossessando, curvandola ai propri scopi, nel corso del Novecento e ancora ai nostri giorni, solo che si pensi alla Gläserne Manufaktur, la fabbrica trasparente della Volkswagen a Dresda (2001). Resta il fatto che, immaginando un futuro in cui uguaglianza tra i sessi, fine dello sfruttamento capitalistico (cioè possesso comunitario) e diritto alla salute e al benessere delle classi lavoratrici possano saldarsi entro un unico orizzonte, il romanzo di Černyševskij rappresenta una delle più alte e compiute pagine utopiche nella storia del romanzo ottocentesco; un’utopia che non a caso affida all’architettura della trasparenza una straordinaria missione civilizzatrice, riconoscendo alla vita collettiva in edifici di vetro un enorme potenziale emancipativo.
62Com’è facile immaginare, Che fare? attirò gli strali di molti tra i contemporanei, non solo tra le fila dei reazionari filozaristi. Le generose illusioni della mistica collettivistica Černyševskij ana subiscono un attacco ferocissimo, un frontale assalto demolitorio da parte di uno dei maggiori autori russi della contemporaneità, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, il quale si sofferma sul tema prima nei suoi appunti di viaggio intitolati Note invernali su impressioni estive (1863) e poi nel romanzo Le memorie dal sottosuolo (1864). Cos’è che Dostoevskij proprio non sopporta dell’utopia trasparente di Černyševskij? In una parola, potremmo dire: la dimensione intollerabilmente costrittiva di una felicità imposta. Occorre cautela nell’affrontare questi testi perché, come notava Giuseppe Ungaretti in un lontano saggio del 1927, Dostoevskij è autore duplice, scrittore dalla doppia anima, sospeso tra folle santità e lucidità logica (Ungaretti 1927, pp. 174-177); inoltre, la voce del suo «uomo-topo» non coincide mai con quella dell’autore, di cui costituisce una sorta di «alter ego bilioso e imprevedibile», spesso paradossale, paranoico e a tratti incoerente (Garzonio 1993, p. xxiii). Si pone insomma, sia pure in altri termini, un problema simile a quello che abbiamo affrontato parlando delle satire di Thackeray: le implicazioni sociali, filosofiche e politiche delle Note invernali e delle Memorie dal sottosuolo sono troppo paradossali, troppo intrise di ambigue valenze etiche ed estetiche per consentire di trarne sicure indicazioni circa il pensiero del romanziere russo, che secondo alcuni interpreti in queste opere tenderebbe dispettosamente a fare il verso a se stesso, fino al limite dell’autoparodia (Sibaldi 1989, p. viii). Va inoltre ricordato, come sottolinea Berman, che se l’io narrante dostoevskijano attacca con violenza e a più riprese le idee di Che fare?, l’intellettuale Dostoevskij, pur mostrandosi critico verso Černyševskij da un punto di vista sia filosofico sia politico, cionondimeno ne difese a più riprese il talento e la passione civile (Berman 1982, pp. 272-273).
63Date queste necessarie premesse, quel che qui ci preme sottolineare è il punto di vista apocalittico-evangelico manifestato dall’abitatore del sottosuolo, ai cui occhi la Londra di metà Ottocento – dove Dostoevskij trascorse appena otto giorni nel giugno del 1862 – appare come un «formicaio» popolato da uomini-insetto che meccanicamente trascorrono il tempo conducendo miserabili e insensati commerci, dimostrandosene oltretutto orgogliosi perché forti della convinzione di agire per il bene dell’intera umanità (Dostoevskij 1863, pp. 50-51). In quest’ottica, il Crystal Palace non è che l’espressione plastica di una società abominevole: luogo diabolico, crudele e perverso, sorta di corrispettivo architettonico della celebre figura del Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov (Hoyles 1991, p. 16). Quanto alla Great Exhibition, essa è considerata «qualcosa di sbalorditivo», non già nel senso positivo di un prodigio della modernità ma in quello negativo di un luogo da tregenda, vero sabba celebrato in nome del più ingannevole degli idoli, il progresso:
Vi percepite una forza tremenda che ha lì riunito in un unico gregge tutto quell’incalcolabile numero di persone giunte da ogni parte del mondo […]. Tutto questo è a tal punto solenne, vittorioso e fiero, che cominciate a sentir un peso sul cuore. Guardate queste centinaia di migliaia, questi milioni di persone che docili sono affluite fin qui da tutte le parti del globo terrestre: persone giunte con un unico pensiero, che si affollano tranquillamente, con ostinazione e in silenzio in questo palazzo colossale, e percepite che lì si è realizzato qualcosa di definitivo, si è realizzato e si è concluso. È una sorta di quadro biblico, un’evocazione di Babilonia, una specie di profezia dell’Apocalisse quella che si va realizzando davanti ai vostri occhi. Voi percepite che occorre molta resistenza spirituale e un’eterna capacità di negazione per non cedere, per non soggiacere all’effetto, per non inchinarsi davanti al fatto e per non deificare Baal […] (Dostoevskij 1863, p. 52).
64La marea umana ipnotizzata e soggiogata da «una qualche invisibile influenza» di cui scriveva Charlotte Brontë dodici anni prima (cfr. supra, § Il vecchio e il nuovo), diventa qui un «gregge» succube di una «forza tremenda», irresistibile. L’«uomo-topo» interpreta dunque il tempio delle merci eretto da Paxton come l’abietta e blasfema manifestazione di un’umanità irresistibilmente avviata verso l’omologazione, la tecnocrazia forzata, l’annullamento della volontà del singolo. Da questo punto di vista, esiste una bizzarra e obliqua convergenza tra il pensiero esagitato e visionario dell’«uomo-topo» e quello lucidamente analitico di un autore come Tocqueville, il quale in un celeberrimo passo della quarta parte de La Democrazia in America immagina una società futura dominata da un dolce dispotismo democratico. In nome di un conquistato bonheur absolu, tale governo «avvilirebbe gli uomini senza tormentarli», riducendoli a un gregge passivo e sottraendo loro gli attributi stessi dell’umanità:
Vedo una folla innumerevole di uomini simili e uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria.
Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?
È così che giorno per giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso (Tocqueville 1848, p. 812).
65La folla composta da individui serializzati, mossa da un’affannosa quanto vacua ricerca di «piccoli e volgari piaceri» che Tocqueville presagisce e antivede somiglia per molti aspetti a quella che tre anni dopo gremirà le sale del Crystal Palace, mitico monumento ai mirabili progressi delle società europee contemporanee. In questo senso davvero il Palazzo rappresenta «il simbolo supremo della sterilità della società industrializzata», come già notava John Carroll nel suo interessante volume sul pensiero anarco-psicologico inteso come critica al modello dell’homo œconomicus:
Mentre quasi l’intero mondo occidentale vedeva entrare, attraverso le sue mura di vetro, la luce, la ragione e il progresso, [Dostoevskij] vi vedeva solo il profilo di una buia e orrenda prigione. Il Palazzo di Cristallo potrà fornire ogni sorta di beni, potrà soddisfare ogni desiderio dell’uomo, potrà porre riparo a ogni dolore; ma, là dentro, diventando un automa consumatore, l’uomo soffrirà sempre più di una noia tormentosa, diventerà un imbecille senza immaginazione, sarà spinto dal tedio a compiere gli atti più viziosi, più gratuitamente crudeli e sadici […]. Il Palazzo di Cristallo rappresenta la suprema manifestazione economica della filosofia dell’utilitarismo liberal-razionalista, il paradiso borghese (Carroll 1974, p. 183).
66L’uomo con «il sottosuolo nell’anima», assuefatto all’oscurità in parte terribile in parte rassicurante della retrograda società russa, non può che aborrire le vivide luci della ribalta paxtoniana: quella vetrinizzata è per lui una società che non ha più niente di umano.
67Resta da precisare, cosa ovvia per chi conosca l’opera di Dostoevskij, che questa sardonica demolizione delle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente globalizzato, questo atto di accusa contro il «Baal del capitale» (Sloterdijk 2005, p. 222), non si traduce mai in un’entusiastica adesione ai principi del pensiero socialista. Al contrario: il luminoso futuro prospettato da Černyševskij , l’idea cioè che il Palazzo possa diventare il paradiso trasparente di una felice umanità collettivizzata, è irriso nella sua rigida, positivistica idea di palingenesi sociale. Tanto il viaggiatore filoslavo delle Note quanto il paradossalista del sottosuolo negano ogni valore a un’idea preordinata e imposta di felicità, considerando aberrante qualunque progetto di riforma che richieda una programmazione sociale basata sull’annullamento della volontà individuale:
Tutte le azioni umane, per forza di cose, verranno allora computate in base a tali leggi, matematicamente, un po’ come le tabelle dei logaritmi, fino a 108 000, e quindi riportate in un almanacco; o meglio ancora, appariranno alcune benintenzionate edizioni, del tipo degli odierni lessici enciclopedici, e in esse si troverà tutto quanto calcolato ed indicato con una tale precisione, che al mondo non vi saranno più né azioni né avventure. Allora – e siete sempre voi a dirlo – si creeranno nuovi rapporti economici, già bell’e pronti e calcolati anch’essi con precisione matematica, sicché spariranno di colpo tutte le questioni possibili, per l’evidente ragione che vi saranno per essere tutte le possibili risposte. Allora si costruirà il palazzo di cristallo (Dostoevskij 1864, p. 30).
68Formicaio, dunque, è la Londra reale della Great Exhibition, mercantile e liberal-imperialista; formicai sarebbero parimenti le città ricoperte di vetro che l’utopia collettivista auspica, nelle quali «tutto è a posto, tutto è così ordinato, tutti son sazi, felici, ognuno sa quel che deve fare» (Dostoevskij 1863, p. 74).
69Ecco presentarsi di nuovo, qui in forme particolarmente drammatiche, l’antinomia tra egualitarismo e omologazione che marca così profondamente la modernità. La costruzione in serie di palazzi di cristallo, che nel romanzo di Černyševskij annuncia l’avvento di una nuova età di felicità diffusa, si identifica invece, agli occhi dell’«uomo-topo», con la prospettiva di una società concentrazionaria e massificata, sistematicamente pronta a mortificare ogni istinto individuale, compreso il diritto al caos, al dolore, all’errore. Quel che viene a mancare, sostiene il paradossalista dostoevskijano, è l’elemento del libero volere, condizione cui mai nessun uomo, ad alcun prezzo, accetterà di rinunciare. Per questo, si legge nelle Memorie dal sottosuolo, se un giorno l’intera umanità venisse forzosamente rinchiusa nei palazzi di cristallo per trascorrervi la più razionale, vantaggiosa e utile delle vite possibili, ci sarebbe sempre qualcuno che cercherebbe di infrangere il vetro per uscirne:
Ecco, io, tanto per fare un esempio, non mi stupirei per nulla se tutto a un tratto, così di punto in bianco, nel bel mezzo di questa futura sensatezza universale saltasse fuori un qualche gentleman dalla fisionomia ignobile, o per meglio dire retrograda e beffarda, che, puntandosi i pugni sui fianchi, dicesse a tutti quanti noi: allora, signori, lo diamo o no un bel calcio, una volta per sempre, a tutta questa sensatezza che abbiamo qua, così da mandarla in briciole, unicamente perché se ne vadano al diavolo tutti questi logaritmi e noialtri si possa vivere ancora un po’ come comanda la nostra stupida volontà! Questo non sarebbe ancora nulla, ma la cosa che offende è che costui troverebbe immancabilmente dei seguaci: così è fatto l’uomo (Dostoevskij 1864, p. 31)
70Di fatto i testi di Dostoevskij rappresentano la tangibile, e terribile, dimostrazione del fatto che, per citare Daniele Giglioli, «il limite di ogni illuminismo è sempre quello di non riuscire a spiegare come mai tanti uomini non si arrendano alle evidenze della ragione» (Giglioli 2007, p. 10). Ma quel che più conta, per la nostra riflessione, è la condanna in sé della civiltà della trasparenza, di ogni civiltà della trasparenza, vista sempre come un’infernale macchina di ingiustizia. Il punto è che al di là delle finzioni che caratterizzano il Palazzo e che questo a sua volta alimenta, l’uomo del sottosuolo non è disposto a riconoscere a questa «casa sigillata della vita», a questo «edificio-recinto» (Sloterdijk 2005, p. 222), altra funzione che quella coercitiva. Che diventi un centro commerciale o una fabbrica socialista, la costruzione in vetro non ha altro scopo che quello di affermare il progresso e il benessere come necessità ineludibili e dunque da imporre a ogni costo. Ora, l’ingiunzione al summum bonum, questa la lezione dostoevskijana, per quanto benintezionata possa essere, è tanto oppressiva quanto ogni altra forma di dispotismo16.
71Se abbiamo dedicato tanto spazio a questi scritti di Dostoevskij è perché essi occupano una posizione centrale nella storia del mito della trasparenza architettonica. Per certi versi, si può dire che la prima generazione di utopisti fautori delle costruzioni in vetro, quella di matrice razional-positivistica, trovi la propria tomba qui, nel buio e fetido averno dostoevskijano. L’uomo del sottosuolo può essere considerato, in questo senso, il vero profeta della distopia della trasparenza: un profeta, si badi, regressivo e sostanzialmente immobilista, dunque di fatto conservatore.
72La polemica dostoevskijana nei confronti del Palazzo avrà poi numerosi continuatori, tra cui, nel primo Novecento, lo scrittore britannico Hugh Walpole. Nel suo romanzo The Fortress (1932), Walpole, grande ammiratore del romanziere russo, torna ad affrontare gli anni della costruzione del Crystal Palace in una chiave molto più sorridente e mondana del maestro, raccontando il giorno dell’inaugurazione della Great Exhibition come un carosello di vanità, dove una colorata folla di individui, animata da fervidi sentimenti patriottici, smania e si agita sventolando «cappelli a cilindro e cappellini variopinti». Il mondo occidentale è qui ridotto a illusione, sarabanda, sorta di teatrino animato: quei sudditi festanti sono in realtà esseri «passivi», «inconsapevoli del sorgere di una nuova era, ignari che l’età dell’uomo su questo Pianeta era ormai finita!» (Walpole 1932, p. 331). Per quanto riguarda invece gli intellettuali che, ai primi del Novecento, cercheranno di perpetuare il mito della trasparenza come forza di trasformazione sociale, ebbene costoro dovranno giocoforza imboccare strade diverse da quelle percorse da Černyševskij , spingendo semmai sul pedale di un’utopia sfrenata, più liberamente creativa che scientifica, sovente venata di istanze irrazionalistiche.
Più luce! Più luce colorata! Cattedrali di vetro
Il sole splendente porterà tutto alla luce.
Fratelli Grimm, Il sole porta tutto alla luce
I colori che vengono creati sotto vetro son ben più smaglianti di tutti gli altri colori; un amante dei colori, a voler assecondare la propria natura, dovrà diventare un fanatico del vetro.
Paul Scheerbart
73Il mito della trasparenza risorge agli albori del xx secolo nel cuore dell’Europa, in Germania, e precisamente nella Germania caotica e ribollente degli anni che vanno dagli ultimi fuochi dell’Impero guglielmino alla Novemberrevolution, fino ai primi passi della repubblica weimeriana. E risorge non più sulla scia di fermenti illuministico-fourieristi, legati per vie più o meno traverse al pensiero socialdemocratico-marxista, bensì in chiave irrazional-fantastica, attraverso le istanze utopiche di architetti-scrittori formatisi in un clima intriso di umori anarchici e psicologizzanti, fortemente segnati dal pensiero danzante di Nietzsche e dagli imperativi libertari stirneriani, oltre che da sparse suggestioni di matrice teosofico-occultistica.
74Alla base dell’opera dei due poeti-costruttori di cui parleremo, ovvero Paul Scheerbart e Bruno Taut, troviamo l’idea che le varie discipline, stabilendo tra loro un serrato e proficuo dialogo, possano giungere a una perfetta sintesi, attuando quella completa fusione di istanze costruttive, liriche, musicali e visive auspicata dal Gesamtkunstwerk wagneriano. Questo profetismo sinestetico e, per così dire, sinfonico risponde a una profonda aspirazione palingenetica di natura mistico-sociale: la volontà di rifondare il genere umano superando i secolari limiti della nostra specie e le secche dell’idolatria antropomorfa in direzione di un’ultrarealtà che consenta agli esseri umani di espandere su scala cosmica la propria infinita ricchezza spirituale e il proprio genio creativo. La bellezza, insomma, come elemento sufficiente a riformare e ispirare la società nel suo insieme, guidandola verso un orizzonte di armonia collettiva. È in vista di questo radicale progetto di rinnovamento etico, estetico e civile della specie, fondato su un vero e proprio Licht-Wollen, una illimitata volontà di luce, che la nuova declinazione dell’utopia della trasparenza si forma e prende vita, promuovendo una concezione mistico-magica, anarchica e superomistica, romantico-visionaria dello «spirito architettonico», inteso come «[…] il più puro rispecchiamento dei moti spirituali», come sosteneva Bruno Taut (citato in Tafuri 1980, p. 138).
75Primo e sommo araldo della civiltà a venire è Paul Scheerbart, personalità tra le più seducenti ed eccentriche del secolo scorso, prolifico autore di romanzi fantastici, saggi e raccolte poetiche. Considerato da molti come il fondatore dell’Espressionismo tedesco, Scheerbart è una figura sorprendentemente poliedrica, per molti aspetti riconducibile all’irridente e giocosa negatività Dada – lo scrittore Julius Bierbaum ne ricordava la passione orientaleggiante, l’irriducibile spirito di opposizione all’ordinamento sociale vigente, le bizzarrie verbali, la vitalità debordante e disordinata (Barni 1984, p. 177) – per altri a certo clima engagé e movimentista di primo Novecento. Fiero avversario del capitalismo e del militarismo, eternò la sua leggenda lasciandosi morire di fame, nel 1915, in segno di protesta contro il conflitto mondiale. Il suo testo più celebre è senz’altro Glasarchitektur, apparso nel 1914 e divenuto immediatamente la bibbia di quanti in quegli anni si fecero sostenitori delle costruzioni in vetro.
76Quella scheerbartiana è un’idea, per così dire, impura della trasparenza, dal momento che il cuore dell’utopia da lui promossa – ma l’autore preferiva non considerarla tale, dal momento che la riteneva realizzabile (Scheerbart 1914, p. 43) – non coincide con l’imperativo della purovisibilità. A suo avviso, infatti, ciò che prioritariamente deve passare attraverso la parete di vetro non è tanto lo sguardo umano, quanto le radiazioni luminose, che gli abitanti di un edificio devono poter regolare a proprio piacimento. Non già, però, le semplici radiazioni bianche e pure, ritenute anzi dannose, addirittura una delle cause del «nervosismo della nostra epoca» (Scheerbart 1914, p. 115), bensì quelle armoniosamente cangianti, in continua mutazione, che attraverso il filtro di vetri policromi determinano fantasmagorie di riflessi e producono benefici effetti fisio-psicologici. Sulla scorta delle riflessioni goethiane, e in anticipo rispetto alle Osservazioni sui colori di Ludwig Wittgenstein, si può allora dire che Scheerbart ripeta in ambito architettonico quel rimprovero che Baudelaire aveva rivolto al mauvais vitrier, il cattivo vetraio di una famosa prosa di Lo spleen di Parigi:
Come sarebbe? Vetri di colore non li avete? Vetri rosa, rossi, azzurri, vetri magici, vetri di paradiso? Impudente che siete! Avete il coraggio di passeggiare in quartieri poveri, e non avete nemmeno i vetri che fanno vedere la vita in bello! (Baudelaire 1869, p. 336).
77Gli ambienti in vetro, artificialmente climatizzati e solcati da trafitture di luce colorata «che fanno vedere la vita in bello», sono i soli che questo bizzarro architetto – partorito, si direbbe, dalla fantasia di un Thomas Mann – concepisca: di conseguenza, gli edifici che egli immagina hanno l’aspetto di cangianti corpi luminosi, diorami nelle ore diurne e lanterne in quelle notturne.
78In tale prospettiva, l’idea stessa di trasparenza come un vedere attraverso è non solo superata, ma sconfessata. «Quando mi trovo nella mia sala di vetro», si legge in Glasarchitektur, «non voglio sentire né vedere niente del mondo esterno» (Scheerbart 1914, p. 54). «Uno dei motivi principali che percorrono la Glasarchitektur», ha notato Fabrizio Desideri, «è quindi non la trasparenza dell’interno, ma l’interiorizzazione dell’esterno. Il vetro è organo dello spirito fantastico, non funzione della misurata e razionale specularità tra “esterno” e “interno” o della loro simbolica corrispondenza. Il simbolico è sostituito o “svuotato” dal caleidoscopico […]» (Desideri 1982, p. xii). Fedele al principio wagneriano dell’opera d’arte totale, Scheerbart esige poi che ogni singolo aspetto della vita venga investito dalla forza rivoluzionaria del suo progetto, sicché tutto ciò che concerne gli abitanti dell’edificio, dalle letture con cui si intrattengono alla foggia del vestiario, dovrà armonizzarsi con il nuovo paesaggio della trasparenza colorata. Così nel romanzo Das graue Tuch und zehn Prozent Weiß. Ein Damenroman (traducibile come Il vestito grigio con un dieci per cento di bianco. Un romanzo per signore), del 1914, il protagonista Edgar Krug, costruttore di palazzi dalle ciclopiche mura di vetro variopinto, obbliga la moglie Clara a vestirsi di grigio, con un dieci per cento di bianco, in modo che la sua presenza non interferisca con le ricche modulazioni cromatiche dell’edificio. La portata di queste innovazioni, che attraverso rutilanti girandole ottico-percettive trasformeranno le livide e uniformi città borghesi in cangianti paesaggi colorati, influenzando positivamente gli umori e i desideri degli individui, è per Scheerbart addirittura interplanetaria: lo scrittore tedesco giunge a immaginare interi universi le cui pulsazioni risultino regolate da armoniose, policrome variazioni astrali, echi di un pervasivo «animismo cosmico-naturalistico» (Schiavoni 1982, p. 197), come esemplarmente testimonia il dramma espressionista Kometentanz, la Danza delle comete (Scheerbart 1903).
79Sul piano finzionale, l’utopia scheerbartiana di una salute/salvezza universale garantita dall’edificazione di palazzi in vetro si riallaccia al vecchio motivo dello stretto legame esistente tra mito della trasparenza e amore romantico-decadente per l’esotismo e l’Oriente leggendario. Se i paesaggi multicolore che Scheerbart sognava diventassero reali, e l’architettura in vetro sostituisse completamente quella in mattoni, allora
sarebbe come se la terra si ricoprisse di gioie preziose in smalto e brillanti. La magnificenza di un simile spettacolo è addirittura inimmaginabile. E ovunque avremmo sulla terra splendori e delizie più grandi di quelle che si trovano nei giardini delle Mille e una notte. Avremmo un paradiso sulla terra, e non sentiremmo più il bisogno di guardare con nostalgia al paradiso del cielo (Scheerbart 1914, p. 35).
80Nei romanzi di Scheerbart la presenza di questi scenari fantastici, popolati da figure altrettanto mirabolanti – avventurieri e maghi zoroastriani adoratori del Fuoco e della Luce, abitatori di città sfolgoranti come astri e bianche come perle – non fa che rinnovare quell’unico, regressivo patrimonio immaginifico dove «le fiabe delle mille e una notte» (Scheerbart 1912, p. 152) si mescolano e confondono con i miti dell’Europa premoderna, così centrali nell’immaginario espressionista, dalla Francia medievale ai favolosi luoghi della Spagna moresca, fino ai giochi d’acqua e luce dei palazzi della Serenissima.
81In particolare, il sogno di edificare una nuova Venezia, traboccante di pareti multicolore in vetro che si riflettano nei canali, così da moltiplicare all’infinito il gioco delle rifrazioni luminose, è centrale nella fantasia scheerbartiana (al lettore italiano non possono non venire in mente gli scenari equorei e gli scherzi di luce de Il Fuoco dannunziano, 1900). «L’acqua “si addice” all’architettura in vetro che in essa si specchia: le due cose sono quasi inseparabili […]» (Scheerbart 1914, p. 78), scrive il poeta-architetto, memore forse del fatto che una delle attrazioni maggiormente apprezzate del Crystal Palace era stata la gigantesca fontana di vetro realizzata da Follett Osler. Del resto lo stesso Thackeray in May-day ode aveva paragonato l’intero edificio a una fontana, evocando i bagni di luce che lo inondavano: ma più in generale il tema acquatico, lo si è detto e lo si ripeterà, percorre tutta la storia del mito della trasparenza. Né stupirà ritrovare nelle pagine di Glasarchitektur i modelli prototipici delle vetrate multicolori delle basiliche medievali – «[…] tutta l’architettura di vetro trae origine dalle cattedrali gotiche, senza le quali essa è addirittura inconcepibile; la cattedrale gotica è il presupposto dell’architettura di vetro» (Scheerbart 1914, p. 89) – e della serra, della greenhouse paxtoniana.
82Tuttavia, se questo è il valore finzionale degli edifici immaginati da Scheerbart, qual è il loro valore funzionale? Di fatto, nessuno. Ciò che il poeta-architetto fa, connotando cosmicamente la propria utopia, è azzerare le funzioni precedentemente attribuite al Palazzo, sia nella sua incarnazione razional-socialista alla Che fare?, sia in quella commercial-imperialista promossa dall’ipervetrina vittoriana. La componente illuminista del mito, intesa come declinazione del concetto positivo di utile, risulta ora svuotata di ogni valore e dunque cancellata. Tale scarto rispetto ai modelli ottocenteschi è dovuto precisamente al fatto che il vetro si presenta, qui, in una forma impura: l’importanza della trasparenza non consiste, per Scheerbart, nel consentire all’individuo di scambiare interno ed esterno, così da moltiplicare il proprio desiderio di merci o recuperare un qualche tipo di presunta naturalezza (ciò che invece importava per il russoviano Černyševskij ), bensì nell’opportunità di trasfigurare completamente la realtà al fine di costruirne una percettivamente, e di conseguenza anche socialmente – l’autore si muove sempre sul piano di una assolutizzazione della dimensione estetica – migliore.
83Siamo in presenza, si potrebbe dire, di un’utopia sfrenata e radicale, perfettamente coerente con la forma mentis di un intellettuale lontano da ogni teoria sociale preformata, insieme anarchico e aristocratico, il cui pensiero è ben riassunto da una battuta di un suo personaggio per così dire utopico al quadrato, ossia il barone di Münchausen. In uno dei suoi romanzi, infatti, Scheerbart recupera il mitico viaggiatore interstellare creato da Raspe, incarnazione della fantasia più scatena e irriverente, e lo immagina tornare in società, all’incredibile età di centottant’anni, per istruire gli uomini del xx secolo. Questa la battuta cui alludiamo:
[…] Weller non amava l’oro. Egli considerava l’oro un metallo del tutto inutile, con un impatto esteticamente antipatico. E trovo anch’io che un metallo con cui si compra del formaggio non vada adoperato per le opere d’arte. Non fa che imbrattare tutto, ed è innegabile che il giallo di un modesto ranuncolo sia più prezioso di questo oggetto di scambio e di mercatura (Scheerbart 1912, pp. 154-155).
84La «policroma trasparenza» scheerbartiana (Bilancioni 1984, p. 48), rifiutando qualsiasi finalità pratica, respingendo ogni argomento razional-utilitaristico, non si pone altro obiettivo che quello di azzerare la civiltà corrente – schiava del denaro, utilitaristica, guerrafondaia – sostituendola con una migliore, fondata non sulla persuasione ma sulla meraviglia, non sulla riflessione ma sulla suggestione di incessanti stupori e incanti.
85È da qui che nasce, ci pare, il (brillantissimo) fraintendimento – è da credere, del tutto consapevole, o meglio ideologicamente orientato e motivato – del lavoro di Scheerbart da parte del più illustre dei suoi ammiratori: Walter Benjamin. Ciò che chiamiamo fraintendimento, occorre subito precisarlo, è la ferma, ispirata ma anche disperata volontà del filosofo tedesco – al quale sarà poi dedicato il paragrafo dal titolo Utopia fuori tempo massimo: piccola appendice benjaminiana (infra) – di rilanciare nel terribile contesto degli anni Trenta la spinta utopica di una parte delle avanguardie di primissimo Novecento. Benjamin viene introdotto all’opera scheerbartiana intorno al 1916-1917 dall’amico Gershom Scholem; da quel momento dedicherà vari scritti alla figura del poliedrico poeta-architetto, soprattutto nel periodo 1929-1940. L’avversione dell’autore di Glasarchitektur per la tetrade «capitalismo, speculazione, militarismo, erotismo» (Barni 1984, p. 125), basterà al Benjamin di Esperienza e povertà (1933, anno del drammatico epilogo della vicenda weimariana) per considerarlo un anticipatore, al pari di altri – Brecht, Loos – della nuova civiltà a venire, felicemente neo-barbara perché basata sulle potenzialità liberatorie della tecnica (Benjamin 1933, p. 540). Quella che Scheerbart prospettava, scrive Benjamin, era
[…] un’umanità che si sarebbe posta in perfetta sintonia con la propria tecnica, che se ne sarebbe servita in modo umano. Scheerbart credette di intravedere due condizioni essenziali perché ciò si realizzasse, e cioè: che gli uomini abbandonassero l’idea poco nobile secondo cui essi erano chiamati a «sfruttare» le forze della natura; che essi, invece, si convincessero che la tecnica, liberando gli uomini, potesse liberare fraternamente, per mezzo di loro, l’intera creazione (Benjamin 1940, p. 476).
86Già nel 1917, del resto, il critico d’arte Adolf Behne aveva profetizzato: «Abbiate sensibilità per l’immediatezza della vita, e l’arte sorgerà all’orizzonte» (Behne 1917, p. 228). Ma come raggiungere questo rivoluzionario obiettivo? Come riuscire cioè a sottrarre l’arte dall’abbraccio mortale con la società borghese, per elevarla a quella che ancora Behne definiva «devozione», intendendo con questo termine non già un fervore religioso, bensì, in un senso quasi panteistico prossimo al pensiero di Scheerbart, «dedizione al cuore del mondo» (Behne 1917, p. 226)?
87Quando, nel lodare Scheerbart, Benjamin nota che «[…] il vetro è un materiale così duro e liscio, a cui niente si attacca. Ma anche un materiale freddo e sobrio. Le cose di vetro non hanno “aura”» (Benjamin 1933, p. 542), il filosofo coglie un punto che ci sembra decisivo per comprendere le evoluzioni del mito della trasparenza. L’allusione al concetto fondamentale di «aura», così centrale per l’autore de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ci riporta infatti alla citata idea di Dumas – e non solo sua, naturalmente – secondo cui l’arte industriale segnerebbe un momento di rottura rispetto al passato, con la seconda metà dell’Ottocento a fare da spartiacque. Semplificando, ma non troppo: c’è un prima, corrispondente alla statica, auratica monumentalità degli «archi di trionfo», e c’è un dopo, quello annunciato dai leggeri e fantasmagorici palazzi di vetro. Dire che il vetro manca di «aura» equivale perciò a collocare quel materiale, e il suo visionario profeta Scheerbart, dalla parte della barbara modernità, dalla stessa parte della barricata, cioè, in cui si muovevano le avanguardie, il cinema, la fotografia, il teatro di ricerca.
88È questa in effetti la dimensione entro cui va correttamente collocato l’autore di Glasarchitektur, la cui visione artistica, come quella sociale, presenta non pochi punti di contatto con le idee più innovative della sua epoca. È da osservare infatti come l’estetica di Scheerbart, basata su giochi di luce e smaterializzazione dei solidi, ascriva a pieno titolo il mito della trasparenza entro l’alveo delle avanguardie, in linea con la diffusa aspirazione al superamento della tridimensionalità rinascimentale. Le idee scheerbartiane circa la necessità di una scomposizione pluridimensionale dei piani corrono parallele agli esperimenti pittorici del cubismo – basti pensare ai giochi di trasparenza che segnano opere come Il Portoghese di Georges Braque o l’Arlésienne di Picasso, entrambi del 1911-1912, per tacere del Grand Verre duchampiano, su cui torneremo (cfr. infra, § Gli esibizionisti) – e più in generale a tutte le esperienze per così dire cinestetiche di primo Novecento, fin quasi ad annunciare il bagliore degli stimoli policromi che tremolano costantemente sui nostri schermi digitali. D’altro canto, però, le conclusioni che Benjamin trae da queste osservazioni, magnificando nei suoi scritti la natura trasparente (se ci è consentito un bisticcio di parole) dell’architettura trasparente, introducono una prospettiva falsata, piegando Scheerbart verso una direzione, quella delle utopie, per così dire, razionaliste per via di pura visibilità, che non è la sua. Come abbiamo evidenziato nelle pagine precedenti, Scheerbart non intende affatto progettare case di vetro panottiche, edifici totalmente diafani che consentano un sistematico controllo degli impulsi e di conseguenza una riforma dei costumi borghese (ciò che determinerà, lo vedremo a breve, l’ultima fase delle utopie e soprattutto delle distopie legate al mito della trasparenza architettonica). Al contrario, l’architetto tedesco, ossessionato dall’idea della vertigine policroma, considera sacrificabile l’elemento della purovisibilità, come testimonia questo brano di Glasarchitektur:
Non sarà naturalmente possibile che tutte le pareti della casa lascino filtrare la luce – e ciò innanzitutto perché il padrone di casa sentirà di tanto in tanto il desiderio di ritirarsi o di stendersi in una stanza completamente chiusa e protetta, tra pareti che non lascino filtrare la luce (Scheerbart 1914, p. 57).
89Coglie dunque nel segno Fabrizio Desideri quando osserva che «chi abita nel vetro scheerbartiano non abita nelle trasparenza come credeva Benjamin; non ha l’altenberghiano “coraggio delle proprie nudità”; non possiede quella “virtù rivoluzionaria” che consiste nello “smontare” pubblicamente il proprio “privato”» (Desideri 1982, p. xix). Detto in altri termini, il vetro rappresenta per il poeta-architetto un’esperienza soprattutto sensoriale, e sensuale, laddove per il filosofo si tratta eminentemente di un’esperienza concettuale, de-fisicizzata. Ma l’intento di Benjamin è chiaro: recuperare Scheerbart al suo discorso significa tentare avventurosamente di rimettere in circolo una figura a lui cara, sottraendola al mondo di fine Otto-inizio Novecento cui di fatto apparteneva per averla al suo fianco nelle drammatiche sfide dell’Europa anni Trenta.
90Su Benjamin, si è detto, torneremo nel paragrafo che segue. Quanto a Scheerbart, alla luce dei suoi scritti creativi e teorici, l’autore di Glasarchitektur appare semmai, paradossalmente, dalla parte di Dostoevskij – o, per essere più esatti, di Nietzsche – nel senso che il suo attacco al Capitale non è strutturato ideologicamente, ma risulta viscerale e disordinato, fondato su una concezione anarco-psicologista della società che esclude e anzi avversa ogni progetto di disciplinamento e pianificazione ordinata. Lo smascheramento della falsità borghese, che pure è dato centrale nell’opera di Scheerbart come dimostra la demolente vis sarcastica di molti dei suoi scritti, nasce in lui dalla persuasione che la società vada sì rifondata, ma non su basi logico-razionali, collettiviste, utilitariste e ideologicamente orientate, bensì sul principio dell’Anschauung, della contemplazione che ha il suo motore nella Phantasie, nell’immaginazione:
È nostra speranza che l’architettura di vetro migliori l’uomo anche da un punto di vista etico. Questo anzi mi sembra un vantaggio essenziale delle pareti di vetro, fulgide e variopinte, mistiche e grandiose. E non mi sembra un vantaggio illusorio, ma, al contrario, assolutamente autentico: un uomo che vede continuamente queste magnificenze in vetro non sarà più capace di gesti scellerati (Scheerbart 1914, p. 96).
91Ciò che il poeta-architetto ama del vetro non sono la sua freddezza e la sua sobrietà, ma al contrario il suo calore e la sua variopinta esuberanza, sfolgorante e sublime. Nessuna esortazione alla rivolta sociale, nessun orizzonte socio-politico definito e pianificato, insomma, nel progetto della Glasarchitektur: semmai, una sorta di utopia irenico-regressiva en artiste, auspicando l’avvento di una comunità organica opposta alla trionfante società industriale, secondo una linea di pensiero che molto deve all’influente opera di Ferdinand Tönnies Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e società, 1887; devo questo rilievo ad Alloa 2008).
92Se sarà il vetro a salvarci, questo l’assunto alla base della multiforme opera scheerbartiana, non si tratterà di quello totalmente trasparente della fabbrica collettivista sognata da Černyševskij , bensì di quello mistico, e mitico, delle cattedrali, che se nell’età premoderna si abbarbicavano alla terra e alla realtà, nel mondo del futuro se ne eradicheranno per librarsi verso il cielo, confermando con questa ascesa la loro natura di luoghi deputati all’innalzamento spirituale delle genti. Per questo l’associazione del nome di Scheerbart a quello dei grandi architetti degli anni Venti e Trenta risulta a nostro avviso indebita: ciò che la sua opera testimonia è un’idea dell’uso edilizio del vetro sognante e ancora fortemente romantico-patetica, lontanissima da quella del movimento funzional-razionalista, il quale invece, lo vedremo – ed è una delle tesi di questo libro – nel realizzare e diffondere utilitaristicamente l’architettura della trasparenza di fatto ne uccide il mito. Lo si vede bene, crediamo, confrontando il pensiero e l’opera di Scheerbart con la parabola creativa di colui che ne è stato per lungo tempo il continuatore: Bruno Taut17.
93I due, che si conobbero nel 1913 per il tramite di Gottfried Heinersdorff, direttore di un atelier vetrario berlinese (ricavo la notizia da Whyte 2001, p. 69), furono legati da un’amicizia quasi fraterna e da una profonda reciproca ammirazione, in parte riconducibile a un rapporto di tipo allievo/maestro. In un testo del 1921, Taut scherza definendo l’amico scomparso «[…] il mio patrono personale, S. Paulus Scheerbart […]» (Taut 1921, p. 98); altrove, nell’articolo Der Architekt Paul Scheerbart (L’architetto Paul Scheerbart), sempre dello stesso anno, più seriamente osserva: «Paul Scheerbart è il vero architetto. Non ci dà forme visibili, né schemi, ma costruisce dentro di noi. Grazie a lui saremo tutti un giorno dei veri costruttori» (citato in Beretta 2003, n. 7, p. 12). Chiamato a realizzare, nel 1914, un Padiglione industriale del vetro per l’esposizione del Deutscher Werkbund a Colonia, Taut non solo lo fa adornare con motti tratti dalle opere di Scheerbart, ma ne concepisce gli spazi come una sorta di traduzione plastica delle idee del maestro, fra misticismo medievaleggiante e suggestioni orientali. Nello stesso anno, Scheerbart dedica all’allievo prediletto il suo capolavoro Glasarchitektur, certificando così lo stretto legame esistente tra il suo libro-manifesto e lo sbalorditivo Glaspavillon eretto da Taut: come se, ha osservato Ramírez, «l’opera letteraria fosse una mera giustificazione iperbolica di quella architettonica» (Ramírez 1998, p. 100).
94Questa simbiosi tra due delle figure creativamente più prolifiche del secolo si interrompe nel più drammatico dei modi nel 1915, quando Scheerbart muore sacrificando la propria vita in un estremo gesto di rivolta antibellica. Negli anni successivi, Taut si trova ad agire in un contesto completamente mutato: la disfatta della Grande Guerra, i sommovimenti della Novemberrevolution e poi i primi passi della Repubblica di Weimar hanno trasformato in profondità lo scenario. La scintilla provocatoriamente avanguardista e ambiguamente ludica che illumina le opere di Scheerbart, la sua vocazione satirica caratterizzata da spiazzanti oscillazioni di tono e incursioni nell’assurdo, lasciano il posto, nei testi di Taut, a una scrittura più lirico-patetica, a immagini cariche di un messianesimo accorato. Questo vale non solo per le opere di taglio teorico, dove l’architetto espone la propria visione dell’umanità a venire, auspicando che architettura e urbanistica riescano presto a trascendere le divisioni esistenti tra le nazioni e le classi sociali18, ma ancor più per le opere creative, su cui in particolare ci soffermeremo. Meno letterato e più tecnico di Scheerbart, Taut – lui pure appassionato di culture esoteriche e ottimo conoscitore di Nietzsche19 – non abbandona la vena anarco-psicologista del maestro, ma le attribuisce una diversa coloritura, progressivamente spostando l’asse del suo pensiero verso posizioni filosocialiste che – lo vedremo – nel corso degli anni lo condurranno, di fatto, a un tradimento della trasparenza scheerbartiana. La scelta di muoversi in direzione di una maggiore concretezza operativa, aderendo al pensiero sociale di matrice razionalista, indurrà infatti Taut a convogliare nel grande alveo di quell’esperienza funzionalista che a nostro avviso, lo si è accennato e lo si ripeterà, segna il tramonto delle utopie legate al mito della trasparenza architettonica.
95Per misurare l’esemplare parabola di allontanamento che Taut percorre rispetto alle idee del suo Glaspapa Scheerbart in merito al tema qui indagato è utile partire da due opere, entrambe risalenti al biennio 1919-1920: lo spettacolo teatrale Der Weltbaumeister (Il maestro-architetto del mondo) e soprattutto il soggetto cinematografico Die Galoschen des Glücks (Le galosce della felicità). Due lavori drammaturgici che, come sottolinea Manfredo A. Manfredini, hanno al proprio centro temi architettonici:
Gli obiettivi emancipativo-terapeutici, che in quegli anni andavano consolidandosi e che sostanzieranno il fondamentale fine vitalistico-creativo dell’intera opera architettonica di Bruno Taut, trovano nella composizione scenica uno straordinario strumento operativo in grado di produrre, nell’immediatezza irriflessiva dello spettacolo, dirompenti effetti di meravigliamento […] (Manfredini 1998, pp. 14-15).
96Tali processi di attivazione delle facoltà immaginative dello spettatore sono da Taut giudicati essenziali nella progettazione della nuova vita associata. A quest’altezza, dunque, il ruolo che l’architetto-drammaturgo assegna al vetro rientra nel progetto ancora compiutamente scheerbartiano di raggiungere una «grandiosa comunione catartica collettiva» capace di offrire all’umanità tutta un nuovo inizio (Manfredini 1998, p. 17). La riflessione di Taut naturalmente non investe solo la scrittura scenica, ma la progettazione stessa delle architetture teatrali, come si legge nel saggio Zum neuen Theaterbau (Per una nuova architettura teatrale), testo in cui si auspica l’edificazione di spazi per lo spettacolo completamente trasparenti:
I muri non dovrebbero esistere, ma dissolversi in forme e colori, affinché gli individui non si sentano più solo presenze insignificanti. Le misure dell’uomo devono infatti definire i rapporti dimensionali dell’architettura, mentre le pareti saranno una risplendente stratificazione di colori intensi, cubiste, non in senso stilistico bensì quali articolazioni dell’architettura che si dissolvono in un incantevole gioco di forme (Taut 1919b, p. 82).
97Si tratta evidentemente di un modo di concepire l’architettura ancora totalmente legato a quel registro immaginifico-fantastico che, lo abbiamo detto a più riprese, si colloca all’incrocio di più modelli letterari (l’Oriente favoloso, il Medioevo eroicizzato-romantizzato, l’Arcadia artificiale della serra) e che tanto deve all’amore per le fiabe caratteristico della cultura nordica ottocentesca. Basti a confermarlo il fatto che il soggetto cinematografico Die Galoschen des Glücks – il cui sottotitolo è Grosses Märchenspielfilm ovvero Grande film fiabesco20 – prende spunto, e non ci risulta che qualcuno lo abbia ancora segnalato, da una fiaba di Hans Christian Andersen, Lykkens Galocher (Lykken in danese significa felicità)21. Ancora una volta, come nel caso di Storia di una madre (sempre di Andersen, peraltro) tradotta da Dumas (cfr. supra, § Derive di sguardi desideranti), come nei mondi retti da negromanti immaginati da Scheerbart, il racconto fa da sostrato al mito della trasparenza, costituendo un elemento trasognato ed elusivo, quindi di fatto regressivo, rispetto agli sviluppi del moderno.
98Protagonista di questo curiosissimo soggetto cinematografico è una coppia di giovani proletari senza futuro, un lui e una lei che per molti versi sembrano usciti da un dramma brechtiano, figure esemplari della desolata realtà del popolo tedesco dopo le devastazioni dalla Grande Guerra. Grazie a delle galosce prodigiose, il ragazzo si trova magicamente catapultato nell’anno 2000, al centro di una splendida radura dove sorge un misterioso edificio trasparente – un vero e proprio Märchenburg, un castello da fiaba – dal quale promana una luce radiosa. Improvvisamente l’edificio si apre e ne esce un uomo «di bell’aspetto, con una fluente barba» che invita il giovane a entrare nella propria abitazione. Tra verdi paradisi che consentono agli adulti di tornare fanciulli, la vita del futuro si rivela al giovane in tutto il suo incantato splendore e nella sua abbacinante purezza:
Rigogliose concrescenze di pietra e vetro anche negli spazi interni. Bambini, donne. Sono offerte vivande. Purezza; tutto, tutto è diverso. Ovunque fantasia e felicità. Entrambi, salendo, giungono in uno spazio di vetro. L’ospite indica l’esterno. Boschi; ovunque, vicino e in lontananza, un fulgore luminoso proveniente dalle chiome degli alberi e dai campi, simile a quello presentato dall’edificio quando il giovane lo vide per la prima volta (Taut 1920d, p. 91).
99Se l’esterno è tanto affascinante, varcata la soglia, il ragazzo trova ad attenderlo un mondo di sogno: l’enorme «spazio di vetro» ospita «grandi foglie galleggianti» da cui «[…] scaturiscono costruzioni splendenti e fantastiche […], simili a cupole di opale e ad ali di farfalla – indescrivibili – una città fiabesca, che si rispecchia nell’acqua, di bellezza inebriante» (Taut 1920d, pp. 91-92).
100Tocca poi alla ragazza indossare le magiche galosce e viaggiare nel tempo, visitando prima l’anno 3000 (nel quale gli edifici saranno fatti di acqua e fuoco, esito ultimo del cammino dell’uomo verso una civiltà immateriale), per poi ricongiungersi all’amato nell’anno 2000. Qui i due giovani hanno la possibilità di godere insieme, accompagnati dalla coppia di persone mature che vivono nel futuro, dello spettacolo che la civiltà del vetro offre:
Aprirsi della costruzione: la donna e la ragazza si avvicinano. Serena operosità. Sopraggiungono anche l’uomo e il ragazzo. Entusiasmante incontro, pura e profonda beatitudine. Assieme si soffermano ad ammirare la stupefacente costruzione, si incamminano, vagano sereni, raccogliendo e assaporando le bacche selvatiche. Altopiano. In lontananza un brillare di edifici. Li possiamo riconoscere: il giovane trae dalla borsa un binocolo e con esso guardano incantati le meravigliose cose disseminate nel paesaggio, scintillanti e cristalline, ma contemporaneamente eteree. I due desidererebbero raggiungerle; rivolgono i loro sguardi verso l’altopiano, dove, vicino a loro, atterra uno scintillante veicolo aereo lieve e dalle forme inconsuete. Salgono a bordo, si librano in volo e, ai loro piedi, si distende il mondo meraviglioso; prima da lontano – al di sotto delle nubi – quindi da vicino – con gli edifici costruiti. In lontananza, ma ben presto in prossimità, appare un duomo risplendente (Taut 1920d, pp. 92-93).
101Se la visione di un paesaggio non troppo dissimile ispirava a Černyševskij un’utopia progressista di tipo utilitarista-egualitarista (cfr. supra, § L’idillio istituzionalizzato: la fabbrica trasparente), a prevalere in questo sogno urbanistico ricamato su motivi di altissima complessità spazio-visiva, ma soprattutto complicato da una notevole densità psicologica, è un’ispirazione di tipo cosmico-panica, dove il sogno architettonico basta, per così dire, a se stesso, si appaga del suo stesso sognare.
102Il mondo che verrà, e che i due giovani viaggiatori transtemporali di Die Galoschen des Glücks hanno l’opportunità di visitare, apparirà come un diamante tempestato di fulgidi edifici fiabeschi dotati di straordinarie capacità psicotrope, in grado di distendere i nervi e cancellare ogni smania militaresca, assicurando pace e fratellanza universali: «[…] questi uomini», scrive Taut, «trasformano la terra, costruiscono persino sulle Alpi, anziché condurre guerre» (Taut 1920d, p. 93). L’orrore della storia, la folle rincorsa dell’Occidente a un progresso che si è rivelato portatore di distruzione e morte – «[…] 1800, la vettura di posta; 1870, la guerra; 1890, esplosioni nelle miniere di carbone; 1916, trincee difensive, quindi caserme d’affitto, miseria, miseria, in fine l’interno della loro povera casa» (Taut 1920d, p. 93) – si stempera così nella dolce promessa di un avvenire paradisiaco: nel che, ancora una volta, l’elemento scheerbartiano trova la propria conferma e la propria esaltazione. Addirittura, nella parte conclusiva del testo, ci è dato scoprire che grazie all’azione delle magiche galosce il futuro ha retroattivamente modificato il passato, così che al loro ritorno nel presente i due ragazzi, non più proletari ma «giovani di campagna», si ritrovano in un 1920 alternativo contraddistinto da una dimensione di irreale armonia:
Una nuova casa colonica, non propriamente contadinesca, gioiosa come le persone, che appaiono più scaltre dei contadini di una volta. I genitori e i bambini li salutano, il sole della sera si riflette nelle finestre. Il suo risplendere assomiglia a quello delle cose straordinarie viste in sogno nel futuro, e quelle immagini si dipartono danzando dalla luce delle finestre. Sereno desinare nel giardino, sotto le foglie di un albero (Taut 1920d, p. 94).
103Come ha scritto Manfredo Tafuri a commento di questo testo per molti versi straordinario, «l’utopia allo stato puro di Taut è priva di futuro, proprio perché quest’ultimo è il suo soggetto» (Tafuri 1980, p. 125). Il mito architettonico della trasparenza si configura così, in questo annuncio del «mondo meraviglioso» a venire, come una sorta di magia o incantesimo che interviene a mutare il corso della storia in modo improvviso e inverosimile, esattamente come accade nelle favole. A quest’altezza, insomma, Glas-Taut si muove ancora nei territori di un’utopia del tutto psicologizzante e irrazionale, senza alcuna esatta forma di progettualità sociale: quella che promuove è un’idea del Palazzo totalmente finzionale e svuotata di ogni valore funzionale (non è mai specificato come questi edifici del futuro vengano impiegati, quale sia la loro utilità).
104L’immagine del «duomo risplendente» che abbiamo visto più sopra baluginare in lontananza, sull’altopiano, con la sicura promessa di giungere ben presto «in prossimità», prefigura il testo in cui il mito architettonico tocca, in Taut e con Taut, il vertice della propria parabola, in una sorta di estasi finzionale totale. Mi riferisco al dramma per musica e architettura Der Weltbaumeister, dedicato come dice il titolo al «maestro-architetto del mondo». Nell’opera, composta da 28 tavole a carboncino, gli esseri umani non compaiono neppure; la scena è interamente occupata da un’allegorica serie di disegni che rappresentano il cammino della civiltà dal passato – esemplare in tal senso l’immagine che raffigura il crollo di una cattedrale gotica, considerata come il massimo esempio dell’architettura pre-moderna – verso un futuro luminoso dominato dalle irradiazioni permanenti di una splendente Casa di Cristallo, «das leuchtende Kristallhaus», riflesso dell’armonia celeste (Taut 1920b, p. 62).
105Questo prodigioso duomo trasparente «si schiude – mostra le proprie interne meraviglie – rilucenti cascate e fontane» dinnanzi allo sguardo stupefatto dello spettatore, mentre «überall blit’rendes Glas», ovunque scintilla del vetro sfavillante (Taut 1920b, p. 63). La vita nova dell’uomo del futuro, dell’uomo rigenerato, si annuncia in un rutilare di luce-vento, luce-acqua da cui sorgono forme impalpabili eppure visibili, che con il loro movimento segnano «[…] il passaggio dall’idealizzata comunanza spirituale e operativa individuata nell’universo medievale al nuovo giorno della società riappacificata, armonica e felice, generata nel solco della tradizione nordico-germanica» (Manfredini 1998, p. 30). La Casa di Cristallo è infatti un edificio sacro, ma non nel senso tradizionale, cioè riferito alle religioni secolari, bensì entro una dimensione universale e ultratemporale che ne fa al contempo una «casa del popolo» e una «Casa del cielo», un Grossen Stern Tempel («grande tempio stellare») all’interno del quale, come ben chiarisce un’altra importante opera di Taut, La dissoluzione delle città, tutti i popoli possono confluire e trovare uno spazio di condivisione e incontro (Taut 1920a, p. 38). Inutile aggiungere che, anche in questo caso, ogni singolo elemento, dalla musica al vestiario, deve concorrere alla realizzazione di un’opera d’arte totale:
I fedeli ricevono prima di entrare vesti colorate, diverse a seconda il grado del loro entusiasmo religioso. Secondo queste si dispongono. I colori più splendenti brillano verso il centro. Da loro si separano gli oratori, sette – poi cinque attorno all’oratore principale nel centro – celebrazione orale-drammatica – spettacolo in cui la folla costituisce un’unità – non ci sono «spettatori» e attori. L’arte come realtà a sé è finita – Tutti ne sono pervasi. Musica distribuita nelle parti superiori. Le pareti dell’organo inserite nelle pareti e fanno risuonare tutto l’edificio all’esterno e all’interno come una campana – I colori del vetro acquistano intensità verso l’alto illuminazione tra le doppie pareti. Per chi giunge con l’aereo la casa splende nella notte come una stella (Taut 1920a, p. 39).
106Il rito qui evocato prevede chiaramente un allestimento di tipo teatrale, e non è un caso che nelle sue opere Glas-Taut si soffermi a più riprese sulla rivoluzione che il vetro comporterà sia nell’architettura teatrale che nella pratica della messinscena, la quale, profetizza, diventerà una vera e propria cerimonia sacra, implicando la caduta della cosiddetta quarta parete e una profonda comunione emotiva e spirituale tra attori e pubblico (esemplari in tal senso Taut 1921, p. 98 e Taut 1919a, p. 48).
107Con la Casa di Cristallo di Taut, vera e propria trasposizione moderna del biblico tempio di Salomone, siamo dunque giunti all’apoteosi dei modelli del palazzo di favola e del duomo pancosmico. Ma, anche, al punto di non ritorno dell’idea che l’architettura della trasparenza possa azzerare il valore funzionale dell’edificio a totale vantaggio del suo valore finzionale. Si toccano qui, evidentemente, due estremi, due concezioni radicali sul piano sia estetico che socio-politico. È da considerare intanto la forza che ancora conservava in quegli anni il mito irrazionale-romantico della pura bellezza, dell’art for art’s sake. «Il Padiglione di Vetro», aveva sostenuto Taut a proposito del Glaspavillon da lui costruito per il Werkbund di Colonia nel 1914, «non ha altro scopo che quello di essere bello» (citato in Hartmann 2001, p. 65). Parimenti la «moderna cattedrale» di Der Weltbaumeister, «massima sintesi fra natura e artificio», non ha altra funzione, nota Manfredini, «se non quella di essere una “cristallina” espressione della più alta Baulust, di una bellezza in grado di produrre una stimolazione sensoria culminante nell’estasi» (Manfredini 1998, p. 33).
108Quanto al piano socio-politico, dobbiamo immaginare queste fantasticherie di Taut in rapporto al diffuso clima di tensione antiborghese e anticapitalista, confuso mix di socialismo e aristocraticità à l’ancienne, disperazione ultima e suo rovesciamento in slancio utopico illimitato, che caratterizza gli anni precedenti all’imporsi dei totalitarismi. In questo senso è interessante rilevare come, nel contesto totalmente instabile dell’Europa dopo la pace di Versailles, almeno per un brevissimo periodo di tempo perfino immagini così romanticamente sognanti e impregnate di fantasticherie letterarie quali quelle evocate da Scheerbart e Taut riuscissero a sollevare qualche inquietudine: quasi che una poetica della bellezza redentrice potesse davvero intralciare gli affari della classe dominante, distraendo gli individui dai loro nuovi obblighi di consumatori. Come se, insomma, gli splendori dei padiglioni di vetro e delle cattedrali di cristallo a venire avessero potuto fare veramente ombra, è il caso di dirlo, a ciò che doveva attirare su di sé tutte le luci, ovvero la merce esposta in vetrina. Il dubbio, seriamente sollevato, per esempio, da un critico socialista come Felix Linke (ne scrive Hartmann 2001, p. 64), rivelò molto rapidamente la sua inconsistenza: ed è allora che il mito si sfalda, dissolvendosi con la rapidità della neve al sole.
109D’un tratto, sul crinale di quel decennio veramente decisivo che furono gli anni Venti, risulta chiaro a tutti che l’oltranzismo visionario di questi avanguardisti misticheggianti, smaniosi di liberare l’umanità dalle sue miserie, porta inscritto in sé il proprio implicito fallimento. Il risveglio dal sogno è repentino e rovinoso. «L’utopismo della Catena di vetro, dell’ideale “Cattedrale del socialismo”, della Stadtkrone, appare di colpo anacronistico», osserva Tafuri (Tafuri 1980, p. 163). Dalle pagine della rivista “Frülicht” una delle voci più autorevoli dell’epoca, Adolf Behne, per lungo tempo attivo fiancheggiatore del lavoro di Taut, senza troppi scrupoli inizia a «[…] mettere un po’ in ridicolo la Glasarchitektur, intesa come una creazione smodatamente ottimistica e piuttosto disancorata dalle chances reali di redenzione per la comunità del tempo» (Schiavoni 1982, p. 191). Glas-Taut decide di non attardarsi su posizioni ormai superate e cambia prontamente direzione, abbandonando la stagione dei furori palingenetici per accettare, commenta Marcello Fagiolo, «[…] la dimensione dei piccoli uomini che operano nel concreto e nel compromesso del riformismo socialdemocratico, mirando a un semplice “risanamento”» (Fagiolo 1974, p. 231). Già a metà dell’aprile del 1920, mentre i Freikorps imperversano in Germania, l’allievo di Scheerbart scrive ai suoi compagni della Gläserne Kette: «Ho terminato con le opere contemplative, vorrei quasi sperare per sempre. È ora che mi colpiscano le cose concrete e dure» (citato in Whyte 2001, p. 88). La storia di quanto seguirà è nota: l’architettura di vetro, come ricorda Benjamin, dopo la morte di Scheerbart verrà di fatto bandita dalla Germania, in quanto sovversiva (Benjamin 1940, p. 478). Taut confluirà nel grande alveo razionalista e sarà costretto ad abbandonare il paese, esule come tanti (Freud, Schönberg, Einstein, tra gli altri) in quel fatidico 1933 in cui il regime hitleriano sale al potere e Benjamin stende le sofferte pagine del suo Esperienza e povertà.
110È quindi in questi due fatidici decenni, gli anni Venti e Trenta, che parallelamente al progressivo industrializzarsi del mercato edilizio si consuma la fine di quella «mistica dell’edificio», per dirla con Giacomo Debenedetti, che aveva caratterizzato tutta la cultura ottocentesca, tanto architettonica quanto letteraria (Pellini 2004, p. 171). È in questi anni che si spengono gli ultimi fuochi rivoluzionari degli agitatori internazionalisti e decade la centralità di un pensiero umanistico-antropocentrico; è in questa fase che, mano a mano che il credo efficientista e funzionalista si impone, stemperando le istanze più radicali in blandi ma più realistici progetti di riforma, le strade della letteratura e del mito architettonico della trasparenza divergono, o meglio il loro reciproco rapporto cessa di marciare sotto le insegne dell’utopia. «Nessuno stupore», dunque, «che gli architetti degli anni Venti della Repubblica di Weimar non insensibili all’utopia scheerbartiana siano giunti gradualmente, col crollo delle illusioni politiche, a riconoscere come un vuoto e fragile “mitologema” l’urgere pedagogico-figurale del vetro stesso» (Schiavoni 1982, pp. 206-207).
111Negli anni che segnano l’affermazione del lavoro e della riflessione teorica dei grandi maestri del cosiddetto Movimento Moderno, i Le Corbusier, i Mies, i Gropius, si assiste a una sempre più spiccata tecnicizzazione dell’architettura della trasparenza, che imboccata la via della concretezza accetta il processo di industrializzazione come storicamente inevitabile e abbandona ogni dimensione fantastico-spiritualistica, così da diventare elemento costruttivo ordinario, sogno concretato, oltre che congruo dal punto di vista economico. Frank Lloyd Wright lo scrive a chiare lettere, quando liquida l’esperienza del gotico, così decisiva per gli architetti e i letterati tardoromantici, definendola una «fosca astrazione della foresta» (Wright 1953, p. 56). Questa programmatica razionalizzazione dell’architettura della trasparenza, che si traduce in un rifiuto di ogni mitizzazione e in una tensione alla chiarezza strutturale e sistematica, è evidente nelle opere e negli scritti delle grandi figure dell’epoca: si pensi soltanto alla Maison Clarté (o Maison de verre) costruita da Le Corbusier a Ginevra nel 1930-1932, o a quel che Mies scrive nel 1924, in un testo intitolato Architettura e volontà dell’epoca:
L’aspirazione complessiva del nostro tempo si indirizza al profano. Gli sforzi dei mistici resteranno episodi isolati. Nonostante l’approfondirsi della nostra concezione della vita, noi non costruiremo alcuna cattedrale. Anche il grande gesto dei romantici non significa nulla per noi […]. Il nostro tempo è privo di pathos: non apprezziamo i grandi slanci, bensì la ragione e il reale. L’esigenza di questo tempo di oggettività, di Sachlichkeit, e l’aderenza allo scopo deve essere soddisfatta. Se questo impegno così significativo verrà mantenuto, allora gli edifici dei nostri giorni esprimeranno la grandezza di cui il nostro tempo è capace, e solo un pazzo potrebbe sostenere che esso ne sia privo (Mies Van der Rohe 2000, p. 26).
112Queste parole suonano non solo come una risposta al mondo illusorio degli Scheerbart e dei Taut, ma come una vera e propria pietra tombale posta sulle utopie e mitologie ottocentesche e primo-novecentesche. Quel «pazzo» cui Mies fa riferimento può essere indifferentemente l’uomo che sfida l’oggi in nome del domani, l’individuo solare e cosmico sognato dagli architetti-poeti tedeschi, o il retrivo e sordido abitatore del sottosuolo dostoevskijano, manifestazione di tutto ciò che la nuova epoca rigetta (l’imprevisto, la disfunzione, l’elemento di disordine). In entrambi i casi si tratta di un folle divenuto tale per mancata adesione alla «ragione» e al «reale», nel momento in cui tramite le più innovative teorie di pianificazione urbana l’architettura della trasparenza assurge alla condizione di maturo prodotto della modernità modernista, imponendosi come una realtà sempre più diffusa e trionfante (si pensi solo al diffondersi dei grattacieli nei primi decenni del Novecento, o alla moda degli interni anni Venti, con l’uso estensivo di ampie superfici vetrate).
113Non è questa la sede per dar conto del complesso e articolato dibattito circa natura, ruolo e conseguenze dell’esperienza funzionalista22. Quel che qui ci preme sottolineare è che, come vedremo nel secondo capitolo, dopo il trionfo della razionalità costruttivista, dopo cioè che la finzione (le finzioni) sono state totalmente riassorbite nella funzione, al punto che la funzionalità è divenuta in toto ragion poetica, sociale, politica, nella letteratura europea dell’entre-deux-guerres il mito architettonico della trasparenza cambia radicalmente di segno.
Utopia fuori tempo massimo: piccola appendice benjaminiana
114Per circa settant’anni dopo l’erezione del Crystal Palace, la pratica delle costruzioni in vetro di ampie dimensioni e su larga scala rimane un sogno di carta: solo nei primi decenni del Novecento, infatti, come Walter Benjamin rileva nel suo exposé del 1935 Parigi, la capitale del xix secolo, si daranno le condizioni sociali di un’ampia e diffusa utilizzazione del vetro come materiale edilizio (Benjamin 1935, p. 6). Ma quando questo avviene, a partire dagli anni Venti, l’utopia è ormai concretata e dunque non esiste più come utopia: semmai, lo vedremo tra breve, si è rovesciata nel suo opposto. Dal sogno… all’incubo. Con una sola, grande eccezione di cui è impossibile non tener conto: Benjamin stesso. Concludiamo dunque questo capitolo riflettendo brevemente sul suo lavoro, e in particolare sul capitale saggio Esperienza e povertà del 1933. In quel testo, lo si è visto, il filosofo tedesco offre una lettura deformata della figura di Scheerbart, considerandolo come un campione della purovisibilità, laddove quella scheerbartiana, si è detto, è un’idea impura di trasparenza, fondata non tanto sulla compenetrazione ottica di interno ed esterno quanto sulla possibilità di creare giochi di luce dai propizi effetti spirituali. Ma quali sono le ragioni alla base di tale fraintendimento? È questo un punto decisivo per comprendere il pensiero di quello che è stato forse l’ultimo grande fautore della portata palingenetica dell’architettura della trasparenza23.
115Ciò che Benjamin nella sua prospettiva rivoluzionaria auspica è il salto dal mondo borghese ottocentesco al mondo nuovo, «barbaro», a venire. In questo passaggio, la civiltà del vetro rivestirebbe a suo giudizio un ruolo essenziale, in ragione di una virtù che è appunto specifica di quel materiale: la permeabilità ottica. Laddove infatti il muro di pietra e mattoni blocca lo sguardo, favorendo l’annidarsi di torbidezza e oscurità, la visibilità integrale garantita da una parete trasparente obbliga alla limpidezza, mette cioè in crisi quel meccanismo della segretezza che è alla base del sistema di vita della classe dominante, avida e tendenzialmente asociale. Si tratta di argomenti che in parte, abbiamo visto, erano già stati avanzati, ma che con Benjamin acquistano solidità teorica e credibilità ideologica. Come si legge in Esperienza e povertà, «il vetro è soprattutto il nemico del segreto. È anche il nemico del possesso» (Benjamin 1933, p. 542). Ora, se come scriveva Georg Simmel aprendo il capitolo Il segreto e la società segreta della sua monumentale Sociologia, «tutte le relazioni tra uomini poggiano evidentemente sul fatto che essi sanno qualcosa l’uno dell’altro» (Simmel 1908, p. 291), risulta evidente che per modificare in profondità i rapporti sociali occorrerà costruire edifici che mettano a nudo tutti gli innominabili segreti dello sfruttamento capitalistico.
116L’opposizione che Benjamin ha in mente è dunque quella tra la natura profondamente negativa dell’Ottocento, secolo del segreto, e quella radicalmente positiva del mondo che verrà, sincero e trasparente. Donne e uomini del siècle de la bourgeoisie, scrive, hanno trascorso la loro vita trincerati dietro le rassicuranti pareti di casa, protetti da mille cianfrusaglie – le gozzaniane buone cose di pessimo gusto – e da un pugno di abitudini sclerotizzate:
Se qualcuno entra in una stanza borghese degli anni Ottanta, allora, in tutta la comoda e tranquilla agiatezza che essa irradia, l’impressione: «qui tu non hai niente da cercare» è la più forte. Qui non hai niente da cercare – perché qui non c’è alcun luogo nel quale il suo abitante non abbia già lasciato la sua traccia: sulle mensole mediante ninnoli, sulla poltrona mediante una copertura, sulle finestre mediante qualcosa di trasparente, di fronte al camino mediante il parafuoco […] l’intérieur obbliga il suo abitante a prendere il maggior numero di abitudini, che sono più commisurate all’intérieur in cui questi vive, che a lui stesso. Questo lo capisce chiunque ancora conosce l’assurdo stato d’animo in cui cadevano gli abitanti di questi ambienti felpati, quando nella loro dimora qualcosa andava in pezzi. Lo stesso loro modo di irritarsi – e questa passione, che a poco a poco comincia a estinguersi, la sapevano accentuare virtuosamente – era soprattutto la reazione di un uomo, cui è stata cancellata «la traccia dei suoi giorni terreni» (Benjamin 1933, p. 542).
117«Die Spur von meinen Erdentagen»: la citazione che chiude il brano benjaminiano è, non a caso, un verso del Faust di Goethe. La parola die Spur, traccia, è qui decisiva, tanto che diventerà una sorta di mot-clé nell’itinerario del capitolo che segue.
118L’interno borghese che Benjamin descrive, berlinese nella fattispecie ma che potrebbe appartenere a qualsiasi città europea prima di quell’esperienza di azzeramento delle esperienze che è stata la Grande Guerra – capace in pochi mesi di ridurre un’umanità esperta di mille secoli di storia a un «minuto fragile corpo umano», a un neonato raccolto in posizione fetale – è un luogo di certezze materiali che si traducono subito in schiavitù mentale, conformismo, egolatria. Uno spazio di oppressione, dunque, non di liberazione; di morte, non di vita. Ciò che invece caratterizzerà l’uomo del domani sarà l’impegno a «cancellare le tracce» del passato, per riprendere un verso di Bertolt Brecht – Verwisch die Spuren!, ingiunzione ossessivamente ripetuta nel componimento che apre Dal libro di lettura per abitanti della città del 1926 – ossia a far piazza pulita dei propri dannosi feticci. Se la casa, come Benjamin ripete spesso, anche nei Passagenwerk, è un astuccio che preserva, custodisce le tracce, quasi un sacrario o un’urna per i falsi valori dell’intimità e della sicurezza, l’architettura della trasparenza, in quanto fondata sulla costruzione di «spazi in cui è difficile lasciare tracce» (Benjamin 1933, p. 542), rappresenterà un mezzo per sottrarsi alla soggettività borghese e fondare una nuova civiltà liberata dalla schiavitù dei muri e delle ombre. Quel futuro che il filosofo tedesco vede «sotto il segno della trasparenza» (Benjamin 1929b, p. 382) sarà perciò una volta per tutte affrancato dal fardello delle convenzioni e delle abitudini di classe. Una volta bandito il segreto, il poco fatato castello della società classista crollerà rapidamente. I rapporti di produzione si trasformeranno in modo radicale e i ceti subalterni non dovranno più soccombere ai processi di industrializzazione e mercificazione dell’esistenza, che finalmente si dissolveranno scivolando lungo le pareti dure e lisce degli edifici a venire, su cui niente ha presa, dove nessuna cosa può attaccarsi o sperare di persistere.
119È dunque nelle pagine di Esperienza e povertà che andrà cercata l’ultima, estrema propaggine del sogno, colto nella sua più disperata (perché concepita già sotto il tallone di ferro del nazionalsocialismo) e tardiva (perché sostanzialmente legata a suggestioni provenienti ancora dalle avanguardie di inizio secolo) manifestazione. Se questo è l’ultimo, terminale bagliore del mito, occorre rilevare come già intorno al 1920 tra le fila di scrittori, artisti, intellettuali sembra serpeggiare un dubbio totalmente inconciliabile con le generose speranze benjaminiane, forse riconducibile ad antichi quesiti ruskiniani («What do men travel for, in this Europe of ours?»: cfr. supra, § Il vecchio e il nuovo), spesso abitato da oscuri demoni dostoevskjiani: e se il vivere in città che si vogliono ideali, asceticamente ispirate ai valori della compostezza, dell’igiene sociale, della sobrietà, se il vivere insomma in agglomerati trasparenti, comportasse conseguenze tutt’altro che idilliache? E se le costruzioni in vetro non annunciassero più un radioso domani di armonia poststorica, bensì l’avvento di un’umanità letteralmente vetrificata, costretta entro loculi irrespirabili, intrappolata in rapporti interpersonali cristallizzati? Mentre piccoli e grandi dittatori si fanno largo e una società sempre più repressiva e inibita si appresta a conoscere il tocco di quella che Marshall Berman chiama, con splendida immagine, la «mano morta del futuro» (Berman 1982, p. 37), il pluridecennale mito utopico della trasparenza si rovescia repentinamente nel suo contrario. Dal sogno…
… ALL’INCUBO
Città congestionate di sguardi
Lascio scorrere il mio sguardo su questa innumerevole folla composta di esseri simili, in cui nulla sporge e nulla affonda: lo spettacolo di questa universale uniformità mi rattrista e mi agghiaccia, e sono tentato di rimpiangere la società scomparsa.
Alexis de Tocqueville, La democrazia in America
Vetri senza segreti sostituiscono il profondo blu,
pareti fatte in proprio fissano l’orizzonte,
come se l’universo dovesse finire
dove l’opera degli uomini pone i suoi confini.
Reiner Maria Rilke, da una lettera del 1922
120Quelli che alimentano l’incubo, si badi, sono gli stessi identici elementi auspicati da Benjamin: fine dei segreti, eliminazione delle tracce, azzeramento dei significati e realizzazione di uno spazio incontaminato, di una tabula rasa vergine di semantica. Come dimostrano gli importanti testi di autori europei che ci accingiamo ad analizzare, peraltro diversissimi tra loro, subito dopo il macello nient’affatto palingenetico della Grande Guerra non solo torna ad affiorare, ma si diffonde viralmente, quell’insidioso dubbio di Dostoevskij «che entro il palazzo di cristallo la pace perpetua avrebbe inevitabilmente condotto alla compromissione psichica degli abitanti» (Sloterdijk 2005, p. 223). Già Tristan Tzara, in uno dei Sette Manifesti Dada, precisamente quello pubblicamente letto nel luglio del 1918, aveva visionariamente predetto che il purissimo vetro avrebbe potuto molto facilmente sporcarsi se calpestato dalle pesanti suole di stivali militari e polizieschi:
Il controllo della morale e della logica ci hanno inflitto l’impassibilità davanti ai poliziotti – causa della nostra schiavitù – sordidi topi che riempiono la pancia dei borghesi e che hanno infettato le sole gallerie di vetro chiare e pulite rimaste aperte agli artisti (Tzara 1918, p. 13).
121L’esortazione brechtiana e poi benjaminiana a «cancellare ogni traccia» inizia così molto presto a rovesciarsi nel suo oscuro contrario, qualcosa che ha a che vedere con l’affermazione un poco sinistra di Frank Lloyd Wright secondo cui «le ombre sono diventate inutili» (Wright 1953, p. 111). Negli anni in cui il seme del totalitarismo germoglia un po’ ovunque, tra empiti rivoluzionari e borghese acquiescenza, l’uomo del sottosuolo torna insomma a strisciare fuori dalla sua tana e ad affacciarsi alla luce per rivendicare il valore delle sue fosche predizioni (o maledizioni).
122Nei paragrafi che seguono cercheremo di pedinarlo attraverso quattro città europee dell’epoca, Dublino, Pietrogrado, Varsavia e Como, seguendone le tracce lungo quei corridors de verre clairs et propres di cui parla il fondatore del dadaismo. Ci porremo così all’ascolto di quattro voci tanto diverse tra loro quanto straordinariamente rappresentative: un irlandese alcolizzato, malato di letteratura e drogato dalle sirene dei nuovi media (James Joyce); un russo fin troppo consapevole di dove andrà a parare il secondo tempo di quella Rivoluzione che non sarà mai permanente come auspicava Trockij (Evgenij Ivanovič Zamjatin); un polacco senza più illusioni, che ha imparato la lezione della storia e sa che la sua giovane nazione è un vaso di coccio tra molti vasi di ferro (Stefan Żeromski); un italiano troppo intelligente e acuto per credere fino in fondo alle parole d’ordine della retorica fasulla che pure contribuisce a spacciare (Massimo Bontempelli). Non sarà un caso se tutte e quattro queste figure maggiori del modernismo entre-deux-guerres si ritroveranno, tra 1920 e 1936, a guardare la realtà col naso schiacciato contro una liscia, dura, fredda parete trasparente.
Dublino
123L’Irlanda vive nei primi anni Venti un periodo denso di avvenimenti e sconvolgimenti, segnato dalla guerra di indipendenza, la cosiddetta Anglo-Irish War, e poi da un sanguinoso conflitto civile. Proprio in quel frangente tanto drammatico per il paese, a Parigi viene dato alle stampe, dietro interessamento di Sylvia Beach, uno dei massimi capolavori del secolo, opera di un eccentrico intellettuale dublinese: l’Ulysses di James Joyce (1922). Difficile che un autore come Joyce, impegnato con l’Ulysses a realizzare un’opera-mondo mirante a descrivere e raccontare la realtà in tutti i suoi aspetti, si lasciasse sfuggire un tema centrale della modernità come quello della trasparenza architettonica: e infatti l’argomento è toccato, sia pur fuggevolmente, in uno dei più complessi capitoli del libro, Circe. L’interpretazione che Joyce fornisce del mito è, da par suo, spietatamente sarcastica nei confronti delle istanze utopiche di matrice ottocentesca, che l’autore provvede a corrodere con l’acido caustico di un’ironia dissacrante.
124Ci troviamo nel bordello di Bella Cohen, è mezzanotte, e il protagonista del romanzo Leopold Bloom si sta intrattenendo sulla soglia con la prostuita Zoe Higgins. Durante la conversazione, vittima della sua stessa megalomania – o, che è lo stesso, del suo smisurato senso di inferiorità – Bloom passa quasi inavvertitamente da una riflessione sul vizio del fumo a una lunghissima fantasia nella quale assurge al rango di eminente leader politico. Leopold, non certo un cittadino engagé, da tutti biasimato per la sua scarsa adesione alla causa nazionalista, immagina prima di ottenere cariche pubbliche in città, acquisendo il titolo di Lord Mayor of Dublin, poi di essere acclamato come «il più grande riformatore del mondo» (Joyce 1922, p. 654), infine di diventare, in uno spassoso crescendo, l’«autentico imperatore dei presidenti e re dei dirigenti, il serenissimo e potentissimo e illuminatissimo reggitore di questo regno» (Joyce 1922, p. 655). Al culmine del suo vaneggiamento, l’ormai onnipotente Leopoldo Primo, praticamente un semidio, prospetta una rinascita socio-politica del suo paese, una palingenesi che prenderà le mosse da una radicale trasformazione del profilo urbanistico della capitale. In ossequio alla sua volontà, gli abitanti delle sponde del fiume Liffey erigeranno perciò una città dorata, la nuova Gerusalemme o meglio la «[…] nuova Bloomusalemme nella Nova Hibernia del futuro».
125Occorre ricordare, per comprendere appieno questo passo, che uno dei più radicati miti della storia dell’architettura è quello del biblico tempio di Gerusalemme di cui si legge nell’Apocalisse di Giovanni (21, 10-23), interpretato come architettura originaria rivelata. L’erezione di una nuova Gerusalemme implicherebbe dunque una doppia rivelazione: mistica e, insieme, architettonica, passaggio non irrilevante in un libro come Circe, intessuto di rimandi a temi, immagini e luoghi comuni legati alla cultura ebraica. La fulgida Bloomusalem sarà, ovviamente, un magnifico palazzo coronato da un ampio velario di cristallo:
Trentadue operai decorati di rosette, da tutte le contee d’Irlanda, sotto la guida di Derwan il costruttore, erigono la nuova Bloomusalemme. È un edificio colossale, col tetto in cristallo, della forma di un immenso rognone di maiale, contenente quarantamila stanze. Man mano che si estende si demoliscono parecchi edifici e monumenti. Si trasferiscono temporaneamente gli uffici governativi nei depositi delle ferrovie. Si radono al suolo numerose case. Gli abitanti sono alloggiati in botti e casse, tutte segnate in rosso con le lettere: L.B. Diversi indigenti precipitano da una scala a pioli. Parte delle mura di Dublino, affollate da fedeli spettatori, crolla (Joyce 1922, pp. 658-659; per il testo originale cfr. Ulysses, 15, r. 1546-1554).
126Con perfetta tecnica joyciana, un torpido sogno da narcosi si trasforma in poche righe in un autentico incubo della storia: la fantastica edificazione di una cattedrale splendente, immancabilmente completata da un crystal roof, un’apertura sommitale degna di un Pantheon, si rovescia in una sorta di gioiosa apocalissi, risultato forse dell’ira di Jahve, o più probabilmente della inettitudine di un velleitario everyman dublinese incapace di gestire il proprio ego represso24.
127Per quel che qui più ci preme osservare, la pericolosa foolishness di Leopold è esemplare di come, nella modernità postutopica, il sogno architettonico-urbanistico si rovesci in incubo. Se pochi anni prima Scheerbart si era a più riprese raccomandato di conservare, a fianco dei nuovi edifici, le tracce dei precedenti, e se qualche anno dopo Walter Benjamin, raccontando a Ernst Bloch la parabola sul regno messianico, gli aveva ricordato che «per istaurare il regno della pace, non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo» (citato in Agamben 2001, p. 45), Leopold ha altri piani per la sua Bloomusalem. L’intento, è chiaro, è quello di radere al suolo Dublino e ricostruirla dalle fondamenta. «Questo passaggio», ha rilevato Jean-Louis Giovannangeli, implica il «livellamento dello spazio che simbolizza il passato», con la «costruzione della città ideale sul luogo dove sorgevano gli edifici antichi, per la cui edificazione le caratteristiche del contesto locale o storico non sono tenute in alcuna considerazione» (Giovannangeli 1990, p. 131*). In questo caso dunque la cancellazione delle tracce equivale a un’ablazione del passato che non è affatto liberatoria e salvifica, ma frutto soltanto di un delirio di onnipotenza tirannica. Inoltre, il fatto che il Palazzo abbia la forma del cibo che Bloom ha consumato per pranzo (un pork kidney), conferisce alle sue velleitarie istanze rivoluzionarie un carattere francamente grottesco (Flood 1980, p. 118). Col procedere del sogno, lo strampalato scenario di rinnovamento vagheggiato da Leopold fallisce miseramente; i suoi scombinati e improbabili progetti di rigenerazione sociale, che in un primo momento trovano tutti concordi (Joyce 1922, p. 665), ben presto scatenano una feroce opposizione, finché una parte dei sudditi si ribella e, sempre nella allucinata fantasia del personaggio, scoppiano disordini, tumulti, infine una devastante guerra civile.
128L’intero brano, estremamente complesso, si regge sulla strepitosa tecnica narrativa adottata da Joyce, che presenta con ritmi e immagini comicamente accelerati, quasi da slapstick comedy, la classica parabola rivoluzionaria, dai sogni di rinnovamento radicale all’inevitabile fase del Terrore sanguinario. Ma quel che più conta, in riferimento al tema qui indagato, è la sarcastica denuncia della natura inattuale, e per certi versi patetica, di ogni mito della purezza, di ogni sogno di affrettare la venuta sulla terra della Città paradisiaca. Non solo la Caelestis urbs Jerusalem non verrà, sottintende Joyce, ma non ci sarà mai posto neppure per una Kristallhaus come quella sognata da Taut; nessuno spazio per l’utopia nel sistema radicalmente e coerentemente scettico dell’autore dublinese. Dalla storia non si esce, non si può uscire, e ogni guscio protettivo che si voglia promessa di una pace perpetua non è che una menzogna e un’illusione. E poi, si sa, i sogni che nascono dalle indigestioni di pork kidney raramente non si rovesciano in incubi…
Pietrogrado
129Mentre Joyce stende, fra il 1914 e il 1921, il suo libro più famoso, un avvenimento di portata epocale muta per sempre il corso della storia mondiale: la Russia assiste alla caduta dello zar e alla presa del potere da parte dei soviet. Sono trascorsi circa cinquant’anni dal Che fare? di Černyševskij e il momento sembra propizio perché l’architettura della trasparenza trionfi. Ma in quali forme? Passata la prima ondata rivoluzionaria, la Russia sovietica si presenta agli occhi dei marxisti europei come la nazione chiamata a scardinare secolari meccanismi di ingiustizia sociale attraverso una modernizzazione a tappe forzate. Walter Benjamin, in un passo del suo diario moscovita, scrive dell’urgenza di trasformare il lavoro rivoluzionario in lavoro tecnico, rinnovando il volto della Madre Russia attraverso opere di elettrificazione, costruzione di canali, creazione di fabbriche (Benjamin 1927, p. 573): un’impresa titanica che ha curiosi punti di contatto con quella immaginata da Scheerbart nel suo «romanzo astrale» Lesabéndio, amatissimo da Benjamin. «Tutta l’attività dei pallasiani», scriveva il visionario poeta-architetto, «si concentrava nel rendere più splendido e grandioso l’astro Pallas: costruendo e ristrutturando, soprattutto modificando il paesaggio» (Scheerbart 1913, p. 22).
130L’autore del Passagenwerk non ignora che lo sforzo richiesto dalla Nep (Nuova Politica Economica) alle masse lavoratrici comporterà un lavoro durissimo, in larga parte disumanizzante, ma ritiene che tale sacrificio rappresenti un compromesso tutto sommato accettabile in vista di uno scopo superiore, ovvero la creazione di una società di eguali. Con qualche anno di ritardo su Golubye Goroda (Le città azzurre) di Aleksej Nikolaevič Tolstoj – racconto lungo del 1925 che ha per protagonista un giovane studente di architettura impegnato a progettare la Mosca del xxi secolo, città ideale di benessere e armonia ricoperta di abitazioni in vetro – e con due anni di anticipo rispetto allo staliniano piano urbanistico di Mosca (1935), improntato al celebre slogan «nella nostra epoca si plasmano i sogni di tutti i tempi» (Blanchaert 2012, p. 72), Benjamin sostiene incondizionatamente la macchina socialista del progresso, ritenendo che «talvolta il singolo può pure cedere un po’ d’umanità a quella massa, che un giorno gliela renderà con interessi raddoppiati» (Benjamin 1933, p. 544).
131Ci troviamo qui, insomma, nella prima decisiva fase della Russia postrivoluzionaria, un paese già ampiamente orientato verso l’idea di applicare il taylorismo al contesto bolscevico, estendendo l’organizzazione scientifica del lavoro, razionalizzato e automatizzato, a tutti gli ambiti della vita associata, dal governo della casa fino alla pubblica amministrazione. Lenin per primo del resto aveva incoraggiato una deriva tecnocratica del marxismo, esortando i lavoratori sovietici a far propri i vantaggi dello scientific management dell’industria. Per comprendere fino in fondo questo peculiare orizzonte politico e intellettuale c’è una figura in particolare che merita di essere ricordata, quella dell’ingegnere e poeta Aleksej Gastev, il quale sognando un futuro in cui i lavoratori potessero agire come macchine, vagheggiava
un’utopia in cui le persone sarebbero state rimpiazzate da «unità proletarie» identificate da sigle come «A, B, C, o 325, 075, 0, e così via». Questi automi sarebbero stati come macchine, «incapaci di pensiero individuale» e avrebbero semplicemente obbedito al loro dispositivo di controllo. Un «collettivismo meccanizzato» avrebbe «preso il posto della personalità individuale nella psicologia del proletariato». Non ci sarebbe più stato bisogno di emozioni, e l’anima umana non sarebbe più stata valutata «da un grido o da un sorriso, ma da un manometro o da un tachimetro» (Figes 2002, p. 396).
132Questo auspicio di Gastev, nel quale non è difficile scorgere il labile crinale che separa i sogni d’avanguardia dagli incubi totalitari, ci riconduce al biennio cruciale 1920-1921. Mentre la costruzione pianificata del socialismo muove i suoi primi ma già risoluti passi, annunciando l’automatizzazione generalizzata del lavoro, mentre nell’ex capitale Pietroburgo – nel frattempo divenuta Pietrogrado – infuria la guerra civile, un brillante e promettente intellettuale lavora a uno dei romanzi più sconvolgenti, e per certi versi seminali, del xx secolo: Noi.
133Evgenij Ivanovič Zamjatin, figura ben nota nell’ambiente letterario, può vantare un notevole pedigree rivoluzionario, avendo preso parte ai moti bolscevichi del 1905 – fatto per cui era stato arrestato, imprigionato e poi esiliato nel suo paese natale – e successivamente alla Rivoluzione d’Ottobre. Questi meriti politici non valgono però a proteggere Noi dallo scandalo che immediatamente suscita, cadendo sotto i colpi della censura e venendo aspramente attaccato da uno dei più influenti critici dell’epoca, Aleksandr Konstantinovič Voronskij. Accusato di attività antisovietiche e di praticare una letteratura di ispirazione controrivoluzionaria, Zamjatin è vittima degli arresti di massa dell’agosto-settembre del 1922 e conosce il suo terzo esilio. Solo dopo un lungo decennio di tribolazioni otterrà da Stalin in persona, per intercessione di Maksim Gor´kij, l’autorizzazione a lasciare il paese e trasferirsi a Parigi (ricavo queste notizie da Vaagan 1997, p. 43). Quanto al romanzo, il suo destino risulta altrettanto tribolato di quello del suo autore. Con il titolo We, l’opera giunge in Occidente già nel 1924, pubblicata a New York nella traduzione di Gregory Zilboorg, non un letterato ma, fatto molto interessante, uno psicanalista e storico della psichiatria russo fuggito negli Stati Uniti nel 1919. La prima stampa in lingua originale non apparirà che nel 1929 a Praga, peraltro senza l’autorizzazione dell’autore, scatenando una violenta campagna denigratoria nei suoi confronti. Tuttavia per la prima edizione ufficiale in russo occorrerà attendere addirittura il 1988, anno-simbolo della politica della glasnost’ (ovvero, ironie crudeli della storia, della trasparenza). Il libro fu dunque di fatto ignorato, come ricorda Robert Vaagan, da ben tre generazioni di sovietici (Vaagan 1997, p. 39).
134Scritto negli stessi mesi in cui il sociologo e urbanista statunitense Lewis Mumford pubblica la sua Storia dell’utopia – uscita per i tipi di Viking Press nel 1922 – Noi dipinge un mondo molto simile a quello sognato dal poeta-ingegnere Gastev, rivelandone però la natura di incubo. Il culto della meccanizzazione modernista sotto la direzione inflessibile di un potere tecnocratico totalitario non produce infatti, nel romanzo di Zamjatin, un felice alveare rivoluzionario, bensì un agghiacciante formicaio di schiavi intrappolati in un cosmo asfittico e aritmetizzato, intollerabilmente concentrazionario, materializzazione di quello tetramente preconizzato dalla disperata voce narrante delle Memorie del sottosuolo. Durante la lettura di Noi sembra infatti di sentire echeggiare l’oscura profezia dell’«uomo-topo» dostoevskijano:
Voi mi griderete (se pur mi degnerete ancora d’un vostro grido) che nessuno ha intenzione di togliermi la mia libertà; che qui ci si sta soltanto adoperando per far sì che le cose si organizzino in modo che la mia libera volontà, di per sé, del tutto spontaneamente, venga a coincidere con i miei normali interessi, con le leggi della natura e con l’aritmetica. – Eh, signori, ma quale libera volontà mi resterà più, quando si arriverà a quella tabellina e all’aritmetica, quando ci sarà in voga solamente il due per due quattro? Due per due farà quattro anche senza la mia volontà. E sarebbe dunque questa, la mia libera volontà? (Dostoevskij 1864, pp. 38-39).
135La storia è ambientata in un paese, lo Stato Unico, abitato da individui privi di identità, il cui nome è stato sostituito da un codice alfanumerico: non diversamente, vent’anni dopo, nella città-inferno del campo di sterminio i prigionieri saranno identificati soltanto dagli Häftlingsnummern che recano tatuati sul braccio sinistro.
136Non uguaglianza, dunque, ma annullamento dell’individualità, totalità chiusa: se tutti gli uomini sono uguali, come già Maurice Blanchot notava a proposito di Sade, questo significa che sono tra di loro perfettamente intercambiabili, ovvero che ogni unità scompare in un conteggio all’infinito, contando di fatto per zero: Tous les êtres sont égaux en nullité (Blanchot 1949, p. 88). Se l’Uno sussume il molteplice, gli uni, diciamo così, soccombono all’Unico: nel caso specifico, colui che nel romanzo viene chiamato il Numero dei Numeri, il Benefattore «[…] che ci tiene saggiamente intrappolati mani e piedi nelle ragnatele della felicità» (Zamjatin 1921, p. 115). Costui organizza la vita del popolo sulla base di una Tavola delle Ore minuziosamente dettagliata; tutto è regolato al millesimo di secondo, sia il tempo del lavoro che quello dedicato agli svaghi, così da garantire la perfetta omeostasi della società ossia il Bene Comune, universalmente imposto per Legge. Uno specifico corpo di solerti funzionari statali, i Guardiani, verifica che ogni momento dell’esistenza si svolga secondo la Tavola delle Leggi e in accordo con la Tavola delle Ore, determinando a priori anche il tempo da dedicare alle attività sessuali. Solo nel momento stabilito per l’accoppiamento, infatti, i cittadini dello Stato Unico, unità meccanizzate in un sistema meccanizzato, hanno la possibilità di concedersi il piacere, disumano e spersonalizzante, di una «felicità ritmica» (Zamjatin 1921, p. 39).
137Parafrasando Paul Virilio, potremmo dunque dire che il mondo di Noi presenta «immagini di una società vigile che segna per tutti ore uguali» (Virilio 1989, p. 19): in tal senso la divisione razionalizzata del tempo nel romanzo non è che il rovesciamento in negativo dell’utopia fourieriano/fourierista, il cui fascino risiede, scrive Italo Calvino, nella formulazione «[…] d’una morale antirepressiva fondata sull’esattezza, sul rigore metodico, sulla classificazione» (Calvino 1980, p. 314). Per citare l’Horkheimer di Eclisse della ragione, se il passaggio dalle dottrine dell’illuminismo riformatore all’età della macchina totalitaria ha degradato e annichilito ogni istanza desiderante, ne consegue che il pensiero soggettivo abbia perduto «ogni spontaneità e produttività, ogni capacità di scoprire e affermare contenuti nuovi» (Horkheimer 1947, p. 52). Tale passaggio si è consumato, nel mondo immaginato da Zamjatin come in quello reale, sotto il segno del taylorismo, e non è un caso che l’autore de L’organizzazione scientifica del lavoro (1911) venga considerato il padre spirituale dello Stato Unico e sia venerato dai suoi cittadini-numeri come «[…] il più geniale degli antichi» (Zamjatin 1921, p. 31). Superando e sconfessando le «mediocri» riflessioni kantiane – «[…] come poterono», si chiede la voce narrante, riferendosi ai suoi antenati, «scrivere intere biblioteche su un Kant qualsiasi e accorgersi appena di Taylor, questo profeta che seppe vederci dieci secoli avanti?» (Zamjatin 1921, p. 31) – l’ingegnere statunitense ha aperto la strada all’avvento di una società dove al massimo di rigore efficientista corrisponde un minimo di elasticità e di tolleranza per l’iniziativa del singolo. Pochi anni dopo, nel 1927, Siegfried Kracauer, le cui riflessioni si collocano a metà strada tra le intuizioni folgoranti di un Benjamin e le rigorose analisi sociologiche di un Simmel, scriverà parole illuminanti su questo aspetto della modernità, che trova perfettamente sintoniche le grandi democrazie liberali e gli stati totalitari:
Poiché il principio del processo produttivo capitalistico non ha un’origine prettamente naturale, deve spezzare gli organismi naturali che considera semplici mezzi oppure ostacoli. Quando si richiede la calcolabilità, svaniscono collettività nazionale e personalità; solo come particella della massa l’uomo può agevolmente scalare tabelle e manovrare macchine. Il sistema in sé, indifferente alla diversità delle forme, porta alla cancellazione delle caratteristiche nazionali e fabbrica masse operaie che si possono insidiare uniformemente in tutti i punti della terra (Kracauer 1927, pp. 99-100).
138Analogamente lo Stato Unico si basa su un perverso mix di meccanizzazione, omologazione e fantasiectomia, ovvero su un regime che, parafrasando Tocqueville, non intende tanto condurre gli uomini alla disperazione quanto, contrariandoli continuamente, farli desistere dal ricorrere alla loro volontà (Tocqueville 1848, p. 814).
139È all’interno di questo fosco e irrespirabile quadro socio-politico che si colloca, in Noi, il tema della trasparenza architettonica. Al suo universo concentrazionario Zamjatin aggiunge infatti un ultimo, decisivo tocco: la dimensione della totale permeabilità visiva. Sotto il profilo urbanistico, lo Stato Unico è costruito secondo un rigido modello geometrico di degradante uniformità, presentandosi come un reticolo di strade «irrimediabilmente dritte», con ai lati i «divini parallelepipedi delle abitazioni trasparenti» (Zamjatin 1921, p. 10). Appare subito evidente come la trasparenza si imponga qui come conseguenza di una generale volontà di standardizzazione e subordinazione: la contrapposizione è infatti totale tra le «pareti opache dell’antichità» (Zamjatin 1921, p. 109), espressione di un modo di vivere «contorto» e «arruffato» (Zamjatin 1921, p. 84), e le superfici «dure e lisce» di un mondo dove non solo le pareti ma anche i pavimenti, il mobilio, perfino il vaso da notte, sono totalmente diafani (Zamjatin 1921, p. 84). Il materiale con cui sono costruiti edifici e oggetti d’uso comune è un nuovo vetro, «cristallino-indistruttibile, eterno» (Zamjatin 1921, p. 40), che sostituisce l’imperfetto «vetro antico» (Zamjatin 1921, p. 45). Lo Stato Unico è, dunque, un mondo totalmente cristallino:
A destra e a sinistra, attraverso le pareti di cristallo mi sembra di vedere me stesso, la mia camera, il mio vestito, i miei movimenti, ripetuti migliaia di volte. Ciò dà coraggio: ti vedi come la parte di un Unico enorme, imponente. Di una tale bellezza, perfetta: nessun gesto superfluo, nessuna sfumatura, nessuna rottura (Zamjatin 1921, p. 31)
140Bellezza e perfezione nascono dall’eliminazione di ogni menda, di ogni tara, grazie al potere uniformante di un fulgore che si spalma ubiquamente su tutto il paesaggio. Queste convinzioni che caratterizzano in positivo tutte le utopie palingenetiche – lo notava già Lewis Mumford: «l’ultima parola è un invito alla perfezione. Quando si realizza ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scompare» (Mumford 1922, p. 222) – diventano qui spie, giusta la lezione di Dostoevskij, di un disagio abissale. L’azzeramento dei significati che uno spazio della visibilità totale, spianato e livellato, impone attraverso l’annullamento di ogni semantica, non getta le basi per un mondo ideale, ma genera un incubo di annichilimento. Niente di più lontano, dunque, dal vivace, variopinto gioiello in cui luci e colori scherzano liberamente immaginato dalla fantasia palingenetica di Scheerbart: quella che Zamjatin prefigura è semmai una città-sepolcro, un’irreale città di corpi vuoti che premono le loro livide labbra contro il gelo di lucide pareti-stele.
141Questa natura, per così dire, biorepellente della città di Noi è confermata dal confronto con un tema che è spesso connesso a quello della trasparenza, ovvero la questione della pulizia. La convinzione che la civiltà del vetro possa rappresentare una soluzione definitiva per i problemi dell’igiene pubblica si presenta a più riprese fra Otto e Novecento. Penso per esempio all’opera di Herbert George Wells, il celebre autore de L’uomo invisibile (1897), popolarissimo in Russia e i cui libri Zamjatin stava traducendo proprio nel periodo in cui scriveva Noi. «La condizione di perfetta pulizia desiderata da Wells», ha osservato Collins con riferimento al saggio Anticipazioni della reazione del progresso scientifico e meccanico sulla vita umana e del pensiero del 1901, «è suggerita dalle case e dai pavimenti in vetro» (Collins 1973, p. 46*)25. Questo tema torna nelle pagine degli architetti a più riprese, da Scheerbart – l’architettura trasparente, scrive in Glasarchitektur, rende impossibile la presenza di insetti nocivi (Scheerbart 1914, p. 64) – fino a Frank Lloyd Wright:
Gli edifici nei quali da qui a poco saremo chiamati a vivere saranno nuovi, puliti, bellissimi, simili a quei prismi che da sempre hanno affascinato l’uomo, caratterizzati da una prova «materiale» dei vantaggi offerti dalla moderna tecnologia, perché il vetro è, senza compromessi, moderno (Wright 1953, pp. 111-112).
142In Noi, Zamjatin riprende il tema del sogno/ossessione della pulizia, che significa poi aspirazione a un’esistenza libera da ogni componente impura di matrice organica e biologica, rovesciandolo in un incubo di perfezione raggelata.
143Vi è però un ulteriore, decisivo aspetto che accresce il terribile potere violento dell’architettura della trasparenza nello Stato Unico, ossia il fatto che il controllo dei cittadini-numeri dipende non solo da forze esterne, ossia dalle procedure coercitive e castranti degli scrupolosi Guardiani, ma anche dall’azione di sorveglianza che loro stessi esercitano gli uni sugli altri, spiandosi e sorvegliandosi a vicenda attraverso le pareti di vetro. In questa trasparente città-carcere, che Régine Robin legge come un’evoluzione diretta del modello del Panopticon (Robin 1986, p. 254), il progetto benthamiano si afferma, insomma, sotto forma di profezia totalitaria: «ogni compagno diventa un sorvegliante», per dirla con Foucault, ovvero, ogni sorvegliante non è che un compagno (Foucault 1977, p. 15). Ne consegue che «questa libertà sorvegliata è la molla principale del sistema sociale elaborato, dal momento che tutti sono coinvolti in prima persona e diventano gli ardenti difensori di una moralità al di sopra di ogni sospetto, imposta dal Benefattore che decide cosa sia proibito e quali siano le regole» (Sagnes e Viala 2006, p. 104*).
144Si vede qui bene come il sogno benjaminiano di annullare l’eccedenza borghese di tracce – Ich sage dir: | Verwisch die Spuren! secondo l’ingiunzione di Brecht – fosse già stato rovesciato dieci anni prima da Zamjatin nel suo contrario: ben oltre l’immagine offerta da Tzara dei poliziotti che percorrono, imbrattandoli, i corridors de verre clairs et propres della creatività, il romanziere russo tratteggia un mondo nel quale la trasparenza si offre come mezzo di (auto)repressione e (auto)controllo perfetto, nella misura in cui ogni membro della comunità funge allo stesso tempo da sorvegliato e da sorvegliante:
Di solito nei nostri muri trasparenti, che sembrano tessuti di aria scintillante noi viviamo sempre in bella vista, eternamente lavati dalla luce. Non abbiamo da nasconderci nulla l’un l’altro. Ciò facilita il pesante ed elevato compito dei Guardiani. Altrimenti, chissà cosa potrebbe succedere! Forse sono state proprio le strane, opache abitazioni degli antichi a generare in loro la miserabile psicologia cellulare (Zamjatin 1921, pp. 20-21)
145Per dirla nei termini di Simmel, se il diritto alla riservatezza è un presupposto psicologico fondamentale delle relazioni interpersonali, basate sulla semplice regola che «ciò che non viene nascosto si può sapere» mentre «ciò che non viene rivelato non si può nemmeno sapere», una volta abolito questo decisivo diaframma cade anche quella «sfera ideale» che circonda ogni uomo e nella quale «non si può penetrare senza distruggere il valore di personalità dell’individuo» (Simmel 1903, p. 301). Nella lettura di Zamjatin l’architettura della trasparenza, a causa della totale compenetrazione degli spazi e degli sguardi, cancella completamente ogni istanza affettivo-soggettiva e diremmo la matrice psichica stessa della persona (con tutti i suoi connessi, a partire dal senso di responsabilità individuale):
Nella stanza a sinistra le tendine sono abbassate. A destra vedo il vicino: la sua calvizie piena di bernoccoli e la fronte che sembra un’enorme parabola gialla sono piegati su di un libro […]. [Sento] gli occhi del vicino posati sfacciatamente su di me, distinguo con chiarezza le rughe sulla sua fronte – una fila di righe gialle indecifrabili; e non so perché sembra che queste righe siano causate da me (Zamjatin 1921, p. 65).
146Appare chiaro come il più potente collante sociale dello Stato Unico sia rappresentato, ancor più che da un’incombente minaccia di repressione, da un costante e irredimibile senso di colpa che grava su tutti gli uomini-numero, dovuto alla loro continua, reciproca esposizione e del tutto indipendente dalle reali responsabilità dei singoli («e non so perché sembra che queste righe siano causate da me»). Una demistificazione più totale, più coerentemente dostoevskjiana del mito del Palazzo di cristallo non poteva darsi: se la comunità organizzata da Vera Pavlovna (cfr. supra, § L’idillio istituzionalizzato: la fabbrica trasparente), ma anche quella dell’anno 2000 descritta da Bruno Taut in Le galosce della felicità (cfr. supra, § Più luce! Più luce colorata! Cattedrali di vetro), appaiono sodali e coese perché fondate sulla consapevolezza che solo la forza della collettività garantisce benefici al singolo, lo Stato Unico non è al contrario che un terribile incubo biopolitico dove la collettività schiaccia e annichilisce l’individuo con il peso della sua supposta, fantasmatica colpa.
147Per concludere, ci pare che in Noi l’architettura della trasparenza, se da un lato azzera la dimensione finzionale (gli edifici di Zamjatin sono la negazione stessa del sogno, dell’evasione e della fantasticheria), dall’altro massimizza la funzione che in questo caso la determina, ovvero rendere tutti aprioristicamente colpevoli agli occhi del Benefattore, secondo un meccanismo di incorporazione nell’ordine giuridico attraverso un debito irremissibile. Da questo punto di vista, nel preannunciare un mondo dove la colpa è condivisa ma inevitabile e ignorata dai singoli, il romanzo è davvero una compiuta prefigurazione della società stalinista, la stessa di cui il poeta-architetto Bruno Taut farà esperienza, subendone un duro shock, durante il suo soggiorno moscovita tra il marzo del 1932 e il febbraio del 1933.
Varsavia
148Primi anni Venti del Novecento: un padre e un figlio stanno affrontando un lunghissimo viaggio attraverso la Russia e l’Ucraina alla volta di Varsavia. Provengono da Baku, prospera città petrolifera dell’Azerbaijan, anche se l’origine della famiglia è polacca. Pur essendo individui di estrazione medio-borghese, la loro presente condizione appare disperata. Il padre, Seweryn Baryka, è reduce dalle trincee della Prima guerra mondiale, esperienza da cui si è salvato a stento e con terribili traumi; il figlio, Cezary Baryka, è scampato per miracolo ai drammatici anni 1918-1920 in cui Baku è stata terreno di scontro per opposte fazioni etniche, schiacciata tra l’arroganza marziale e colonialista degli occidentali e le prime avvisaglie del totalitarismo sovietico. Gli indicibili orrori che i Baryka, padre e figlio, hanno dovuto conoscere, li hanno trasformati profondamente, imponendo loro scelte radicali: Seweryn è diventato un convinto pacifista, mentre Cezary ha aderito, sia pure in modo confuso e irriflesso, al messaggio della Rivoluzione. Si spostano in Polonia perché il paese ha appena ottenuto l’indipendenza e lì, sostiene Seweryn, una nuova civiltà ha appena avuto inizio: una civiltà più giusta, più equa, fondata interamente sul vetro.
149Pochi anni dopo la stesura di Noi, uno dei maggiori autori polacchi a cavallo tra Otto e Novecento, Stefan Żeromski (1864-1925), pubblica la sua ultima prova, il romanzo Przedwios´ie, ossia Preannuncio di primavera26. Il 1924 è un anno duro per la neonata nazione polacca, stretta tra la morsa dell’inflazione e della disoccupazione, oltre che tormentata, come capita un po’ in tutta Europa, dai feroci scontri che vedono opporsi forze filofasciste e attivisti comunisti, con episodi anche gravi come l’assassinio (1922) del primo presidente della Polonia indipendente, Gabriel Narutowicz, per mano di un simpatizzante della destra nazionalista. In questo clima, come nota Francesca Fornari, i maggiori esponenti della letteratura polacca iniziano a riflettere con un certo scetticismo sulle speranze palingenetiche legate all’indipendenza nazionale faticosamente conquistata negli anni a cavallo tra il 1918 e il 1920. Il confronto è dunque severo «[…] tra l’immagine ideale della Polonia sognata dalle generazioni passate e la sua realizzazione concreta, tutt’altro che corrispondente all’utopia» (Fornari 2004, p. 363). È in questo contesto che nasce Przedwiśnie, testo nel quale Żeromski «[…] si interroga sul futuro dello stato e sulla legittimità o meno di una rivoluzione sociale» (Fornari 2004, p. 384).
150Confrontando gli ideali di ottimismo solidarista e organicista tipici del socialismo romantico su cui si era formato con la montante ondata del massimalismo bolscevico, lo scrittore si domanda se ci sia ancora spazio, in Polonia, per una radicale trasformazione sociale. In un suo romanzo del 1900, Ludzie bezdomni (I senzatetto), Żeromski si era mostrato ancora fortemente speranzoso, attaccando il mito individualista del focolare, del nido, della dimensione domestica chiusa ed egoista, in una parola l’asfittica condizione borghese ottocentesca, per esaltare invece l’altruismo di chi, rinunciando al proprio particulare, sceglie di agire in nome della fratellanza universale. Ma all’altezza degli anni Venti, a causa del disinganno seguito all’unità della Polonia, questo orizzonte utopico appare ormai superato; non sarà inoltre da sottovalutare l’influenza esercitata sullo scrittore dalla lettura dell’Ulysses, che in quegli anni andava iniettando in tutta la scena del romanzo europeo dosi massicce di scetticismo modernista.
151Il viaggio di Seweryn e Cezary, padre e figlio, alla volta della Polonia è raccontato nella prima parte del romanzo, significativamente intitolata Szklane Domy, ovvero Case di vetro. Giunti, dopo una stremante traversata dei territori russi, nella città di Kharkov, o Kharkiv, in Ucraina, i Baryka vi rimangono a lungo bloccati per difficoltà burocratiche. Il giovane, sempre più scoraggiato, è allora ripetutamente tentato di interrompere il viaggio e cedere alla seduzione della Rivoluzione che avanza, attratto dalle sue luminose promesse e dal fascino della violenza collettiva, che si presenta ai suoi occhi in forme minacciose ma finalmente risolutive:
Quanto desiderava in quei momenti distaccarsi da suo padre, mandarlo via verso quel mondo sconosciuto, la mitica terra di Polonia, e rimanere qui tra il saggio e il forte! Quanto desiderava giocare la sua parte nel compito di radere al suolo il mondo della passata scelleratezza! (Żeromski 1924, p. 107*).
152Il padre tuttavia cerca in ogni modo di convincerlo a proseguire, argomentando che, mentre la Rivoluzione rappresenta un fenomeno destinato a recare ulteriore distruzione e ingiustizia, è in Polonia che si prepara una nuova civiltà, più giusta e umana. Lo scontro dialettico tra i due si prolunga nel tempo:
Era un avversario attivo. Era un cavaliere. Dalle ferite che coprivano il suo corpo non filtrava solo sangue, ma una specie di luce abbagliante. Non era solo il fatto che avesse osato dare al mondo una forma diversa. Ciò che diceva era vago, un sogno fuoriuscito dalla sua testa rotta, perfino divertente; ma era qualcosa con cui comunque Cezary doveva misurarsi (Żeromski 1924, p. 108*).
153Per avere la meglio nel confronto e convincere il figlio a seguirlo, Seweryn inizia allora a descrivergli le meraviglie della nuova Polonia, dove pare che stia prendendo piede una nuova, paradisiaca civiltà del vetro.
154Stando al racconto di Seweryn, un loro geniale parente, tale cugino Baryka – che Cezary non hai mai sentito nominare in precedenza – avrebbe ideato un sistema per plasmare uno speciale tipo di vetro, sfruttando abilmente gli elementi della natura. Con questo materiale di nuovissima concezione, Baryka avrebbe poi edificato una città composta da case trasparenti, perfettamente pulite e salutari, immateriali e artificialmente climatizzate, a disposizione di tutte le classi sociali. Così Seweryn descrive le meraviglie della nuova unità abitativa:
Una casa a un solo piano, interamente di vetro, con pareti perfettamente abbinate a travi che si uniscono in una corona e possono essere saldate in una sola ora, e con pavimento, soffitto e tetto fatti di pannelli – tutto questo può essere consegnato al compratore pronto per l’uso. Nelle case di campagna, non ci sono stufe. In inverno l’acqua calda circola intorno alle pareti, all’interno delle travi, raggiungendo ogni stanza. Bocchette di vetro nel soffitto regolano la temperatura desiderata e fanno costantemente entrare aria fresca […]. In estate, l’acqua fredda circola attraverso le stesse condutture intorno a ogni stanza […]. La stessa acqua lava costantemente i pavimenti in vetro, le pareti e i soffitti, portando freddo e pulizia (Żeromski 1924, pp. 85-86*).
155Seweryn precisa poi che tali rivoluzionarie costruzioni non trascurano neppure l’aspetto estetico, essendo «disegnate da artisti. Grandi artisti» (Żeromski 1924, p. 86*). Ciascuno di questi brillanti artefici ha provveduto a colorare gli edifici secondo il proprio gusto e talento, tenendo però anche conto delle richieste e delle esigenze degli abitanti:
Tutto ciò che l’immaginazione illimitata del colorista può concepire e vedere attraverso il divino mistero dell’occhio umano, i doni del cielo, lo sguardo umano; qualsiasi tonalità che appaia nello splendore dei fiori di un prato di fine giugno – tutto questo, tutto ciò, è catturato dall’ispirazione dell’artista, formata da una coscienza creativa, da una sapienza artistica e da un diligente atto di volontà – e tutti possono essere visti negli interni e negli esterni dei coloratissimi cottages moderni dei contadini polacchi. Questi sono i veri sogni futuristici trasformati in realtà attraverso il docile, malleabile vetro (Żeromski 1924, p. 87*).
156Il racconto del vecchio Seweryn ha dello sbalorditivo: il progetto scheerbartiano della Glasarchitektur sembra essersi realizzato in terra polacca, con in più dei risvolti sociali che ricordano il sogno della Vera Pavlovna di Černyševskij . Messianesimo cosmico di matrice tardoromantica e progettualità razional-socialisteggiante parrebbero finalmente aver trovato il loro punto di perfetto equilibrio; valore finzionale e valore funzionale dei singoli edifici una sorta di mistica unione. Si viene peraltro a sapere che la fabbrica incaricata di produrre il miracoloso materiale impiegato per la costruzione delle case – «una gigantesca vetreria» (Żeromski 1924, p. 84*) – è retta da un sistema cooperativo e dunque appartiene direttamente agli operai, ai tecnici, agli artisti che vi lavorano, secondo il sempre paradigmatico modello dell’Arts and Crafts morrisiano.
157Sorti non sulle macerie del passato ma su una terra completamente vergine, nella descrizione che ne fa Seweryn gli agglomerati urbani composti da case di vetro costituirebbero un paesaggio ormai comune nella nuova, rinata Polonia. I contadini starebbero abbandonando in massa i loro antiquati e malsani alloggi per trasferirvisi, data anche la loro estrema economicità, dovuta al fatto che per essere edificate le prodigiose abitazioni trasparenti richiedono poco tempo e quasi nessuna manodopera. Per giunta, le case di vetro sarebbero immuni dai pericoli che comunemente affliggono le città: inattaccabili da incendi e fulmini, consentirebbero lo sviluppo di nuove forme di agricoltura e allevamento (Żeromski 1924, p. 92). Secondo alcuni, spiega Seweryn, la nuova architettura prefigurerebbe addirittura l’avvento di una futura civiltà vegetariana, nella quale diventerebbe superfluo uccidere e macellare bestie e dove il benessere fisico avrebbe il primato sugli imperativi della finanza, al punto che in quel paradisiaco sistema di vita «il simbolo della ricchezza non sono né i soldi né l’accumulo di oggetti costosi e ninnoli preziosi, bensì la salute» (Żeromski 1924, p. 93*). Quello che l’anziano Seweryn Baryka profila è dunque davvero un preannuncio di primavera, un mondo perfetto nel quale la negatività della storia che tanto ha afflitto lui e suo figlio non può penetrare, un guscio protettivo di pace e prosperità immune da ogni pericolo esterno.
158Cezary non sa cosa pensare di questi racconti favolosi, ma non ha il cuore di abbandonare l’anziano padre. Così, quando si offre loro l’opportunità di lasciare l’Ucraina e riprendere il viaggio, decide di accompagnarlo fino all’agognata meta: Varsavia. Sennonché, durante il lungo e drammatico tragitto da Kharkov verso il confine polacco, affrontato in condizioni assolutamente disumane, Seweryn muore. La scomparsa del genitore getta Cezary in uno stato di profonda prostrazione; tuttavia, prossimo alla meta e deciso a non tradire la volontà paterna, il ragazzo ne seppellisce il corpo in un cimitero di campagna e prosegue il viaggio fino alla frontiera. Giunge così il momento tanto atteso:
L’ufficiale polacco prese i documenti di Baryka, gettò loro un’occhiata e li timbrò proprio lì su un tavolino. Cezary passò attraverso il cancello. Era entrato in Polonia, la terra dei suoi genitori. La massa di gente passò oltre gli edifici della stazione e si diresse verso la cittadina, le cui case in pietra e legno apparivano vicine […]. «Dove diavolo sono le vostre case di vetro?» si chiedeva mentre avanzata arrancando. «Dove diavolo sono le vostre case di vetro…?» (Żeromski 1924, pp. 125-126*).
159L’impatto con la realtà è brutale, e il resto del viaggio non fa che accelerare il crollo delle illusioni:
Arrivando nel cuore della Polonia – in altre parole a Varsavia, la capitale – Cezary Baryka non aveva trovato nessuna casa di vetro né in città né sulla strada. Non aveva neppure il coraggio di chiedere notizie a qualcuno. Si rese conto che prima di morire il suo defunto padre gli aveva giocato un brutto scherzo (Żeromski 1924, p. 127*).
160Come osserva Francesca Fornari, giunto nella terra promessa Cezary vede infrangersi il mito della nuova Polonia punteggiata da abitazioni diafane; la vagheggiata società di eguali non regge il confronto con la realtà di un paese povero e arretrato, in preda a feroci lotte partitiche (Fornari 2004, p. 384). La ferocia con cui Żeromski demolisce speranze e attese del suo personaggio, operando un vero e proprio détournement modernista delle utopie palingenetiche a cavallo tra Otto e Novecento – non dimentichiamolo: tra Černyševskij e Żeromski c’è stato Dostoevskij, e, soprattutto, c’è stato Joyce… – è estremamente indicativa per comprendere il totale naufragio del mito architettonico della trasparenza all’altezza dei primi anni Venti.
161Si tratta di un dato tanto più interessante se si riflette sulla tecnica diremmo joyciana cui lo scrittore ricorre per operare questa demolizione. Żeromski non ci dice, di fatto, da dove nasca il racconto del vecchio Seweryn, non chiarisce cioè se si tratti del delirio di un uomo anziano o di un crudele scherzo che il padre gioca al figlio nella (peraltro fallace) speranza di poter morire in patria. Durante i mesi trascorsi in attesa di poter attraversare il confine tra Ucraina e Polonia, Seweryn conferma a più riprese di aver effettivamente visitato il primo nucleo della nuova civiltà, con affermazioni che però non convincono del tutto il figlio, né tantomeno il lettore: «“ho dimenticato come accidenti si chiami il posto…”»; «“Sei stato là, papà?”. Dopo una breve pausa riflessiva Seweryn Baryka rispose: “Certo che ci sono stato! Ti racconterei una fandonia, secondo te?”»; «“Hai visto tutto ciò laggiù? Villaggi fatti così? Papà!” “Sì, davvero! Interi quartieri, distretti, province!”»; «“Figlio! I palazzi degli operai che Baryka sta progettando a Varsavia – te lo dico perché ho avuto la fortuna di vedere i piani di costruzione – sono più confortevoli, più sani, più puliti e più belli dei più strabilianti palazzi dell’aristocrazia” […]» (Żeromski 1924, rispettivamente p. 82, 84, 97 e 93*). A questo si aggiunga il fatto che Cezary sostiene di non aver mai sentito parlare del loro fantomatico parente-inventore Baryka, presunto creatore del nuovo vetro.
162Nasce allora un sospetto: e se il padre, per delirio o per disonesto calcolo poco importa, avesse più o meno consapevolmente inteso vanificare gli ardori rivoluzionari del figlio inibendone l’azione politica – Cezary simpatizza, lo ricordiamo, per i bolscevichi, e mentre si trova a Kharkov è tentato di unirsi a loro – attraverso un vecchio arnese ideologico, ossia l’ormai inservibile e del tutto inconsistente utopia mistico-architettonica? Se insomma l’ingegnere Baryka, il geniale inventore del nuovo vetro, non fosse che una sorta di proiezione psicotico-egolatrica di Seweryn stesso, il prodotto di una dissociazione schizoide, non diversamente da quel Leopoldo Primo che Leopold Bloom immagina di dover diventare per poter così purificare e salvare l’Irlanda, edificando la nuova Bloomusalemme con la sua splendente cattedrale di cristallo? L’ipotesi che il mito abbia qui addirittura una funzione repressiva, assecondando l’azione castrante del padre nei confronti del figlio, ci pare sorretta da alcuni elementi interni al testo.
163In primis, il fatto che, a più riprese, Żeromski descriva Seweryn come un vero Dio-Padre-Padrone sul modello joyciano-veterotestamentario, con conseguenti fantasie di liberazione da parte del figlio tramite parricidio. «Aveva dovuto cedere migliaia di volte solo perché era il figlio», si legge in un passo particolarmente eloquente, «mentre il suo vecchio padre poteva dare ordini, prescrivere, e anche essere semplicemente capriccioso per il solo motivo che egli era il padre» (Żeromski 1924, p. 110*). Si consideri poi il fatto che nel presentare a Cezary questo fantomatico cugino Baryka, Seweryn lo descrive come un autentico demiurgo, una sorta di Dio della Genesi il cui supremo gesto creativo supera e sconfessa ogni vuoto gesto rivoluzionario:
Nostro cugino Baryka prese una manciata di sabbia che tutti gli altri disprezzavano, vi soffiò dentro la propria intenzione e alla maniera di Dio disse: «Con questa manciata di sabbia creo un mondo di nuovi fenomeni. L’invenzione è l’unica vera rivoluzione. La confisca violenta delle cose fatte da altri è una falsa rivoluzione» (Żeromski 1924, p. 95*).
164Questa, dunque, la nostra ipotesi di lettura: se in Circe Joyce si prende gioco dei sogni palingenetici stravolgendoli in un folle incubo carnascialesco-orgiastico, con non minore humour Żeromski demolisce il mito della società della trasparenza a colpi di dura realtà, e insieme presenta il conto alle utopie riformiste affidandone il consunto messaggio a un vecchio folle.
165Occorre peraltro ricordare che se Černyševskij fu violentemente attaccato dai suoi compatrioti Dostoevskij e Nabokov, così Żeromski fu oggetto di irrisione da parte del connazionale Witold Gombrowicz, che nel suo capolavoro Ferdydurke si fa beffe dei facili entusiasmi degli intellettuali per le case di vetro (Gombrowicz 1937, p. 125), tornando sul tema in una pagina diaristica del 1955 dove quest’ultime sono definite una «[…] ripugnante mescolanza tra un arcobaleno e una casa d’abitazione, micidiale metafora senza alcun nesso con il panorama» (Gombrowicz 1986, p. 215). Il caso, tuttavia, ci appare diverso. Risulta infatti difficile, alla luce di quanto sin qui rilevato, immaginare che Żeromski prendesse davvero sul serio il mito della trasparenza, come invece il vecchio utopista Černyševskij fa; al contrario, giunto con Przedwis´nie alla fine della sua carriera, il romanziere polacco appare piuttosto come un convertito alla lezione del modernismo e dei suoi feroci disincanti. Ci sembra andare in questa direzione anche l’obiezione che un giorno Cezary rivolge al padre, osservando: «Mi sembra ci sia un pochino troppa pulizia in tutto questo. Avrebbe bisogno di essere tirato su con un minimo di sporcizia» (Żeromski 1924, p. 93*). Se, come rilevato a proposito di Noi (cfr. supra, § Pietrogrado), la combinazione vetro/pulizia/bellezza/perfezione accompagna la storia del sogno della trasparenza inteso come motore di sconfinato progresso, la battuta di Cezary ci fa pensare piuttosto all’incubo di un’incombente minaccia di disumanizzazione. Il ragazzo infatti ha assistito a troppe ingiustizie e troppe violenze, e troppe ancora ne vedrà – subito dopo il suo arrivo a Varsavia si ritrova a combattere nella guerra russo-polacca del 1920 – per immaginare non solo che una società come quella descritta dall’amato-odiato padre possa un giorno vedere la luce su questa terra, ma che un’ipotesi di questo tipo risulti davvero desiderabile: «Cezary Baryka camminò infinite miglia in quella guerra polacca […]. Le casa di vetro di suo padre non erano visibili da nessunissima parte. A poco a poco smise di pensarci» (Żeromski 1924, pp. 138-139*).
Como
166Spostiamoci in avanti di una decina di anni, cambiando ancora una volta completamente scenario, luogo, temperie letteraria. Raggiungiamo l’Italia, il paese che ha il triste primato di aver inaugurato la stagione dei fascismi europei, dopo che la balorda impresa della Marcia su Roma spiana a Mussolini e ai suoi la strada verso un’incredibile escalation politica. Sin da subito, il partito dei rivoluzionari si adopera per farsi stato, mettendo mano a un vasto e articolato programma di propaganda ideologica e iconografica che investe tutte le arti, ivi compresa l’architettura. L’edificio-simbolo del regime è la Casa del Fascio, modello archeologico-architettonico replicato con successo in varie città italiane. La Casa più celebre è senz’altro quella che si trova a Como, progettata dall’architetto Giuseppe Terragni nel 1932 e terminata nel 193627. A quest’opera è dedicato un breve, ma per noi molto significativo, intervento di un illustre comasco, nonché di uno degli scrittori italiani più importanti del xx secolo: Massimo Bontempelli.
167Nel maggio 1933, Bontempelli aveva fondato insieme con Pier Maria Bardi l’eclettica rivista “Quadrante”, una pubblicazione di aperta ispirazione fascista ma non strettamente ortodossa, dal carattere «utopico, modernista e corporativo da un lato, nostalgico di un rivoluzionarismo antiborghese dall’altro» (Storchi 2008, p. 164). Pochi mesi dopo, nell’agosto del 1933, l’autore de La vita intensa e La vita operosa pubblica un saggio intitolato L’architettura come morale e politica, in cui domanda alle arti, nel loro insieme, di cambiare rotta: il loro compito non sarà più quello di creare «sottili sensazioni per i raffinati», bensì di edificare «[…] ariose costruzioni per la vita collettiva degli animi semplici». Il motto ideato dallo scrittore fonde istanze architettoniche e suggestioni poetiche: «edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce» (Bontempelli 1933, p. 799)28. Architettura e letteratura sono dunque le due discipline chiamate da Bontempelli a fungere da apripista per questa epocale trasformazione: spetta a loro dare l’esempio, scuotendo dalle fondamenta le arti figurative e la musica, ancora attardate su posizioni di retroguardia. Si tratta di considerazioni ispirate, come appare chiaro, da una concezione antintellettualistica e populista, cioè perfettamente fascista, della cultura. Eppure Bontempelli è tutt’altro che un giornalista di regime, una mera grancassa delle posizioni del Pnf o un estensore di veline ministeriali. Si tratta al contrario di uno scrittore di straordinario acume, la cui sensibilità intellettuale va ben oltre i limiti imposti dall’ortodossia delle idee in voga. Il dissidio di fondo che motiva e sorregge il suo pensiero sul ruolo dell’architettura a questa altezza storica ha molto a che vedere – ne sono spia quei due sintagmi «ariose costruzioni» e «pareti lisce» che rinviano direttamente ai problemi dell’architettura della trasparenza – con il tema di fondo del presente volume.
168Le idee programmatiche enunciate nel saggio L’architettura come morale e politica trovano applicazione, negli anni successivi, in una serie di interventi che Bontempelli dedica a specifici episodi dell’architettura contemporanea. Penso per esempio ai testi, davvero mirabili, consacrati tra il 1932 e il 1934 alla stazione di Santa Maria Novella progettata da Giovanni Michelucci. Nel settembre del 1936 lo scrittore viene chiamato, in qualità di inviato speciale de “La Gazzetta del Popolo”, a occuparsi della Casa del Fascio che un architetto sodale, Giuseppe Terragni, ha appena realizzato nella sua terra d’origine. «Dai misteriosi Maestri Comancini a Sant’Elia, da Sant’Elia a Terragni, Como, mia città natale, è sempre stata alla testa dell’architettura rivoluzionaria», scrive non senza una punta di malcelato orgoglio campanilistico (Bontempelli 1936, p. 800). La rivoluzione evocata coincide naturalmente con il credo funzionalista in auge in quegli anni, se la Casa del Fascio rappresenta, nella definizione di molti storici dell’architettura, una sorta di manifesto del razionalismo italiano, di contro, per citare un esempio ben noto, alla vacua monumentalità della Roma piacentiniana, sempre condannata dallo scrittore.
169Nel suo contributo critico sull’edificio, Bontempelli polemizza duramente contro chi intenda «abbassare l’architettura alla zona del costume, cioè sottrarla al mondo dell’arte per farla vivere solamente nella moda, nella sfera inferiore del gusto». Lo spirito che ha generato la Casa del Fascio di Como, scrive, «è il sentimento e la necessità di una vita collettiva» (Bontempelli 1936, p. 800). La massa è dunque chiamata a interiorizzare il paesaggio psichico evocato da Terragni con questo prisma compatto ed equilibrato che smentisce ogni eclettismo stilistico, ogni manifestazione di soggettivismo lirico – ancora così presente nel tardo futurismo – e incoraggia l’anonimato e la perdita dell’individualità, ovvero la fusione col più alto ordine della volontà generale. Come nota Simona Storchi, nella concezione bontempelliana,
il collettivismo fascista è il prodotto di una modernità che annulla l’individuo in quanto tale, ma che allo stesso tempo lo riscatta attraverso la creazione di identità collettive da cui esso è assorbito e attraverso cui si esprime. Il grande edificio pubblico, monumento della nuova collettività, contiene in sé il suo monitum: è negazione del soggetto, tanto artistico quanto sociale (Storchi 2008, p. 173).
170In altre parole, mentre ogni spinta individualista lacera il corpo sociale, ogni azione di massa lo rafforza. Ma in che modo la Casa del Fascio di Terragni, rigorosamente modernista, riesce a esprimere «il sentimento e la necessità di una vita collettiva», ossia il bisogno/dovere di diventare anonimi, così come li intende Bontempelli? Ecco qui entrare di nuovo in gioco il tema della trasparenza. In quel luogo, osserva l’autore,
ogni senso di raccoglimento scompare, lo vediamo davanti ai nostri occhi dissolversi nell’aria. Qui l’uomo non può e non deve esistere che in funzione del suo vicino, e di quell’altro appresso, e dell’altro ancora, all’unisono, prima dentro, poi fuori (ma a stento intendi dove finisce il dentro e comincia il fuori) e così in tutte le direzioni, lungo tutti i raggi del cerchio, altri uomini ancora tutti come te tu come loro, la falange, la massa. L’individuo – concentrazione, meditazione, questa architettura lo abolisce con una fuga di vetri. Uno non può vivere che in funzione degli altri. Qui dentro non si può che ubbidire e comandare, che sono i due momenti dell’azione diretta; e l’azione ha una forza espansiva, che tende agli orizzonti del mondo (Bontempelli 1936, p. 800).
171Siamo ancora una volta, lo si vede bene, alle prese con i problemi decisivi dell’architettura purovisibilista. Le pareti in vetro consentono di guardare dall’esterno verso l’interno, e viceversa, ponendo l’edificio a diretto contatto con la città, o meglio con il popolo: la prospiciente piazza del Duomo è infatti il luogo adibito alle adunate marziali. Il valore del Palazzo coincide pertanto con la funzione che il regime gli assegna, ovvero il supremo compito di coinvolgere tutti senza distinzione alcuna, di annettere ognuno al grande progetto ideologico novecentista, ancor prima che fascista. Quanto alle finzioni, alle suggestioni dell’immaginario, ai fantasmi della tradizione, sembrerebbero una volta e per sempre banditi.
172Quel che per Bontempelli più importa è dunque giungere alla spersonalizzazione del singolo, cioè alla negazione dell’individuo inteso come essere chiuso in sé, isolato, borghesemente rannicchiato nel guscio della propria intimità. Si ha insomma, in una parola, un’idea di arte come strumento mirante alla cancellazione del segreto – certo con intenti diametralmente opposti rispetto a quelli del marxista Benjamin. Ciò che deve prevalere, per lo scrittore comasco, è uno spirito collettivista incapace di concepire luoghi chiusi, «[…] il limite proibito agli estranei. Non ci sono estranei» (Bontempelli 1936, p. 800). Eccoci dunque nuovamente a calpestare i corridors de verre clairs et propres di Tzara, stavolta imbrattati da calzature autarchiche. La lunga teoria di vetri che caratterizza la Casa del Fascio serve a fondere l’edificio con la moderna città fascista all’esterno, esattamente come il popolo è chiamato ad associarsi in un’unica massa indistinta:
In questa casa tutto nasce dall’esterno, dalla piazza, dall’aria; e tutto sùbito muove e ridiventa esterno: mediante una serie ricca di episodi; a cominciare dalla sostituzione del vecchio mezzo d’ingresso (il portone, che è la prima affermazione di un chiuso difficilmente penetrabile) con una serie di sporti di vetro che si aprono e chiudono tutti in una volta (anche dei vetri, come degli uomini, un lungo unisono); e mediante l’uso amplissimo e soprendente di esso vetro dappertutto, per esempio in certi tagli nelle pareti e nel tetto […] (Bontempelli 1936, pp. 800-801).
173Vetri ovunque, perfetta reversibilità di interno ed esterno, fine dell’intérieur borghese. Siamo dunque in presenza di una completa, e perfetta, fascistizzazione del Palazzo di Cristallo? Solo parzialmente. Accade infatti, a un certo punto di questo testo, che il Bontempelli scrittore scarti di lato rispetto al Bontempelli saggista e cantore delle magnifiche sorti e progressive del regime, con un colpo di reni davvero degno della miglior letteratura modernista.
174Nella seconda e conclusiva parte dell’intervento, il lettore è invitato a visitare nuovamente la Casa per osservarne l’effetto al tramonto. E qui il tono muta in maniera tanto repentina quanto significativa: l’entusiasmo celebrativo cede il passo a una scrittura decisamente più personale. Mentre la funzione ideologicamente orientata assegnata al capolavoro di Terragni sembra passare in secondo piano, l’edificio si popola di misteriose ombre e inquietudini sospese tra il metafisico e il fantastico, in linea con quella poetica del realismo magico di cui Bontempelli fu maestro. Leggiamo uno stralcio di questa visita compiuta al calar delle tenebre:
Tutto si fa aereo; saliti i tre piani e compiuto il giro, il luogo più concentrato e chiuso appare la terrazza. Forse da un momento all’altro un soffio porterà via tutto il resto e noi di là saliremo a diventare costellazione. È meglio dunque ridiscendere. Pieno e vuoto, bianco di solidi e oscuro di aperture, sono le due voci che ora dall’alto verso il basso riprendono a rincorrersi come in una imitazione musicale, secondo rapporti numerici certo estremamente semplici, che non modulano, e vivono della velocità con la quale si ripetono. Poi c’è tutto questo protagonista ossessivo vetro, che immerge ogni peso in una atmosfera di trasparenze. Ora sento sfuggirmi anche quel senso di vita collettiva, mi aspetto di vedere una danzata favola venirci incontro su per la scala, girarmi rapidamente attorno, e affacciandosi ai primi vani che trova, calare largamente, come un’acqua sparsa, giù per il vasto lastrone immacolato che fa da margine alla facciata. A questo proposito del vetro, ne ho sentito dire (in tante discussioni che a Como continuano intorno alla faccenda della Casa del Fascio) una divertente. Dicevano che il valore di questo vetro è simbolico: esso rappresenta, dopo tanto chiusa opacità della vecchia architettura, la sincerità, la lealtà del tempo nuovo, ecc. Non scherziamo con le allegorie; può esserci tanta lealtà e tanta contenuta passione anche dietro una porta serrata. Il mondo e la storia sono fatti anche, pena la morte, di solitudine e meditazione (Bontempelli 1936, pp. 802-803).
175Il vetro, poco prima energicamente invocato a liberare l’umanità dalle catene dell’individualità in virtù delle sue «pareti lisce», a un secondo, rinnovato e più posato sguardo appare come il «protagonista ossessivo» della Casa del Fascio di Como, con l’aggettivo «ossessivo» a fungere da spia di un disagio che l’autore avverte, in certa misura, malgré soi.
176Quando scende la sera e «ogni peso» si annulla in un’«atmosfera di trasparenze» – si ripete qui quella dialettica pesantezza/leggerezza che segna tutta la storia del mito, sin dalle riflessioni di Dumas sul Crystal Palace (cfr. supra, § Un prodigio nel cuore di Londra) – ecco che la civiltà del vetro palesa il suo volto sinistro e spettrale. La fantasmagoria della trasparenza torna ora ad affacciarsi con tutto il suo pregresso sostrato letterario, finzionale, come suggerisce l’immagine della «danzata favola» che rinvia allusivamente alla dimensione del meraviglioso, sia pure in chiave dark. In questa nuova prospettiva la purovisibilità appare agli occhi dello scrittore come un nemico dichiarato di quelle che, per Bontempelli, dovrebbero essere – pena, addirittura, la morte – due componenti fondamentali del nostro stare al mondo: «solitudine» e «meditazione». Niente di più probabile che al calar di questa notte lombarda sia provvidenzialmente giunto a visitare il nostro autore il venerato fantasma di Giacomo Leopardi: è infatti la voce del maestro a lui più caro, definito in un importante saggio l’«uomo solo» (Bontempelli 1938), che sentiamo risuonare in questa vibrante pagina dove, dismessa la vis ideologica del polemista di regime, lo scrittore ritrova toni e idee davvero ispirati e partecipi. Ecco allora che in questa notte rivelatrice il segreto non sembra più un nemico da abbattere, ma una componente essenziale della vita psichica di ognuno, e la rinuncia all’individualità non solo cessa di manifestarsi come la virtù suprema ma appare quasi un crimine contro il nucleo più intimo e prezioso dell’esistenza umana. Il sogno della sbandierata conquista della «sincerità», l’esaltata affermazione di una presunta «lealtà del tempo nuovo» chiamato a spazzar via l’opaca pesantezza dell’arte, della morale, della politica del passato, appare ora, alla luce della leopardiana «notturna lampa», una visione inquietante. Non scherziamo con le allegorie, ammonisce Bontempelli: forse oscuramente intuendo che di trasparenza si può anche morire.
Fantasm-agonie di corpi galleggianti
E questa fu la lodevole risposta di Giulio Druso agli operai che gli offrivano, per tremila scudi, di collocare la sua casa in una posizione tale che i vicini non potessero più avere su di essa la vista che avevano: «Ve ne darò – disse – seimila, ma fate in modo che tutti possano vedere all’interno da tutte le parti».
Montaigne, Saggi
177Cosa accade se spostiamo l’attenzione dall’aspetto dell’utopia/distopia di massa allo sguardo del singolo, alla percezione dell’individuo? Cosa ci appare davanti agli occhi se dai luoghi condivisi traslochiamo verso quelli privati, provando a immaginare come possa essere la vita di ogni giorno in una casa di vetro? Ci troveremo forse di fronte a degli individui come il Giulio Druso di cui parlano Plutarco, Montaigne e Jean-Jacques Rousseau (nella sesta lettera della quarta parte di Julie ou la Nouvelle Héloïse), ossia qualcuno che desidera case fatte in modo que chacun y voye de toutes parts? Un individuo insomma animato dall’intenzione che la sua dimora sia «anzitutto uno spazio di transito attraversato da tutte le pensabili forme e onde di luce e aria» (Benjamin 1929b, p. 382)? Le risposte che arte e letteratura forniscono in tal senso sono molteplici e quasi sempre sorprendenti.
178L’ipotesi di una civiltà della trasparenza, lo si è già colto per accenni nelle esperienze fin qui passate in rassegna, chiama in causa non soltanto la dimensione macrosociale ma anche quella individuale, proprio perché gli edifici in vetro tendono ad annullare l’introspezione, esternalizzando completamente la vita di coloro che li abitano fino al punto di abolire quei concetti di interno e intimità che l’Ottocento aveva reso così coessenziali al pensiero e alle pratiche di vita borghesi. Nell’immaginare le trasformazioni indotte dall’avvento di un’edilizia trasparente sulla vita psichica e sui comportamenti delle persone – che si tratti di singoli edifici o di intere città diafane – gli scrittori e gli artisti della modernità hanno quasi sempre immaginato scenari di cambiamento radicale, con il manifestarsi di nuovi atteggiamenti e inediti codici di condotta pubblica. Certamente, abitare in una casa di vetro non è come abitare in una casa di mattoni: resta però da vedere se questo vivere «sempre in bella vista, eternamente lavati dalla luce», come scrive Zamjatin, rappresenti un vantaggio per la collettività, favorendo con l’abolizione del segreto un miglioramento dei costumi individuali – secondo appunto il paradigma di Giulio Druso, il cui trasparente contegno privato è garanzia di pubblica irreprensibilità – o invece uno svantaggio.
179Le (immaginarie) reazioni al nuovo stato di cose, alla effettiva possibilità cioè di abitare case di vetro, possono essere inquadrate in due filoni principali. Da un lato, il comportamento sfacciato di chi assume attivamente la propria condizione e attraverso il vetro finisce per esporsi, per mettersi volontariamente a nudo dinanzi al prossimo (chiameremo questi gli esibizionisti); dall’altro, la non meno innaturale imperturbabilità di quanti, passivamente, si sono assuefatti alla continua esposizione, alla prolungata vetrinizzazione del proprio corpo e dei propri gesti quotidiani. Chiameremo questi ultimi gli indifferenti, badando però a sottolineare come si tratti di un tipo di indifferenza schizoide, più simile a un’apatia sociopatica che trova una sorta di naturale evoluzione nell’aggressività e nell’intolleranza, ovvero nel rifiuto del prossimo divenuto molesto e insopportabile. Ora, sia detto per inciso, non sono forse queste – e qui risiede uno dei crudeli paradossi delle società moderne, divenuto cifra distintiva dei nostri tempi – due delle condizioni psichiche che più frequentemente ritroviamo nell’attuale mondo digitale e liberal-consensuale, dove la pratica del social networking sembra incoraggiare un bizzarro miscuglio di esibizionismo, indifferenza, ferocia gratuita?
180Se il tema delle esperienze dell’abitare occuperà i primi due paragrafi del presente capitolo, il terzo e il quarto saranno dedicati ad altre due diverse modalità di permanenza del corpo al di là di una parete di vetro. Continuando a focalizzare l’attenzione sul rapporto tra individuo e purovisibilità, prenderemo in esame il modo in cui, nei testi letterari e nelle opere d’arte, taluni corpi soggiornino nella trasparenza in due condizioni estreme: da prigionieri o da defunti. I reclusi, coloro cioè che si trovano fisicamente imprigionati in gabbie o celle di vetro, e i trapassati, ossia i cadaveri custoditi dentro spazi visibili dall’esterno, saranno pertanto protagonisti dei due paragrafi conclusivi.
Gli esibizionisti
181La dimensione esibizionistica legata all’architettura della trasparenza, declinata nella fantasia privata di vivere in un’abitazione in vetro, conosce una certa fortuna già negli anni a cavallo tra xix e xx secolo e merita qualche breve considerazione. Le opere dei naturalisti francesi non mancano di presentare personaggi decisi a far continua mostra di sé, persino nella sfera intima, come esemplarmente testimonia la figura del parvenu Sauvaire che compare in un romanzo di Zola del 1867, I Misteri di Marsiglia:
La sua vanità era deliziosamente solleticata quando poteva distendersi sui cuscini d’una vettura accanto a un vestito di seta. La donna non era nulla, il vestito tutto. Si portava dietro il vestito di seta negli stanzini riservati delle trattorie, e apriva le finestre perché ognuno che passava lo potesse vedere a pranzo con una donna vestita bene, mangiando delle vivande molto care. Altri avrebbe chiuso le persiane, e messo il segreto all’uscio; egli sognava invece di baciare le amanti in un palazzo di vetro perché la folla potesse persuadersi ch’egli era tanto ricco da farsi amare da delle belle donnine (Zola 1867, pp. 176-177; il testo originale parla di «une maison de verre»).
182Nel primo Novecento, poi, la contrapposizione tra la pesantezza e l’opacità dell’architettura tradizionale rispetto agli aperti giochi di trasparenze del Crystal Palace viene ripresa e trasportata in ambito privato come espressione di dedizione allo stile di vita moderno. L’avversione nei confronti delle tradizionali forme di domesticità borghese, fondate sulla convinzione che i segreti debbano restare ben custoditi dietro imposte chiuse, si manifesta apertamente, sia pure in chiave ludico-provocatoria, in uno dei capolavori indiscussi dell’arte del xx secolo, La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli, anche), meglio noto come Le Grand Verre (Il Grande Vetro)29.
183Negli stessi anni in cui in Germania tramonta la fase per così dire eroica dell’utopia architettonica della trasparenza (cfr. supra, § Più luce! Più luce colorata! Cattedrali di vetro), a Parigi uno degli artisti più geniali del secolo, Marcel Duchamp, mette letteralmente sotto vetro, rendendola trasportabile, un’epitome del paesaggio reale e mentale della sua epoca. Realizzato tra il 1915 e il 1923, Le Grand Verre può essere interpretato anche così: come un paesaggio urbano in miniatura, che da una certa angolatura rilegge l’utopia, e la distopia, dell’architettura della trasparenza. Il paesaggio in questione è l’evoluzione di quella città dei Grands Magasins e dei paradisi delle signore che Zola aveva raccontato cinquant’anni prima e che Eugène Atget andava in quei giorni immortalando nei suoi celebri scatti30, la stessa che Louis Aragon canterà nei versi de Il paesano di Parigi ricordando la «luminosità glauca, quasi abissale» dei passages parigini (Aragon 1926, p. 22). Ancora una volta, l’ispirazione nasce dalla presenza delle vetrine, luogo-simbolo degli intrecci che l’architettura della trasparenza è in grado di stabilire, all’insegna del desiderio, tra figure femminili e fantasmagoria della merce. In un passo di Duchamp du signe, il volume che contiene tutte le note d’autore relative a La Mariée, datato 1913, dunque due anni prima dell’inizio del lavoro sul Grande Vetro, Duchamp si pone il cosiddetto problema delle vetrine:
Si possono fare opere che non siano «arte»?
Il problema delle vetrine
L’esigenza della vetrina
La vetrina prova l’esistenza del mondo esterno
Quando si subisce l’interrogatorio delle vetrine, si pronuncia anche la propria Condanna. Infatti la scelta è andata e ritorno. Dalla domanda delle vetrine, dall’inevitabile risposta alle vetrine, si deduce l’arresto della scelta. Nessuna testardaggine, per assurdo, nel nascondere il coito attraverso un vetro con uno o più oggetti della vetrina (Duchamp 1913, p. 89).
184Ora, cosa accade alla Sposa in questa condizione di vita vetrinizzata? Che si accetti il termine modernismo o che si parli, con Marcello Walter Bruno, di «[…] un’improvvisa surrealizzazione dell’ambiente fruitivo» (Bruno 2007, p. 39), è evidente come Duchamp pervenga qui a inscenare la realtà ossessivo-clinica di una figura femminile chiamata a recitare un dramma ludico-avanguardistico sul desiderio e la sessualità frustrata. Alle benvestite signore di Zola che davano in ismanie per l’ariosità e il senso di libertà assicurati dal grande magazzino si sostituisce ora una Sposa denudata e ridotta a delirante antimeccanismo psicotico, marionetta compressa dietro una lastra di vetro ossia dentro uno spazio in cui, letteralmente, manca l’ossigeno. Da questo punto di vista è preziosa, per noi, l’osservazione di Rosalind Krauss secondo cui la trasparenza del vetro nella Mariée non rinvia a un qualche «luogo astratto» (il che equivarrebbe all’annullamento di ogni relazione diretta tra gli oggetti che compongono l’opera e la realtà), bensì apre «[…] la superficie al contatto ininterrotto con il reale», accentuando «[…] la nostra percezione degli oggetti come componenti prigionieri e irrigiditi di questo mondo» (Krauss 1990, p. 70). Ma è altrettanto importante rilevare, con Franco Speroni, come il meccanismo duchampiano – presente anche in altre opere posteriori, si pensi solo a quella sorta di peeping show che è étant donnés (1946-1966) – sfrutti argutamente, e insieme parodizzi, i meccanismi ingenerati dalla fantasmagoria delle merci, all’insegna di quel binomio erotismo/consumismo di cui si è detto.
185Il Grand Verre, con quella Sposa mise à nu, cioè messa a nudo, pronta a esibirsi ma insieme raggelata, soffocata, rappresenta pertanto un crocevia di motivi fondamentali di erotizzazione della visione; un intreccio, come ha dimostrato Octavio Paz nei saggi de L’apparenza nuda, di voyeurismo e contemplazione, l’idea in atto della circolarità del desiderio che la reversibilità totale del vetro rende concretamente esprimibile, in quanto materiale che «ci separa dall’oggetto desiderato» nel momento stesso in cui «lo rende visibile» (Paz 1973, p. 123). Se il flusso dei desideri è invisibile, solo la trasparenza può rivelarcelo: per questo il Grand Verre è davvero il capolavoro del desiderio modernista, la trasposizione in miniatura, e soprattutto esposta in vetrina, di un corpo preso entro il paesaggio erotico e mercificato della contemporaneità. Il che fa della Sposa, insieme, una vittima e una dominatrice, figura al contempo drammatica e giocosamente sfrontata.
186A un diverso livello rispetto al capolavoro duchampiano, ma con analogo spirito ludico-provocatorio, si collocano alcuni lavori delle avanguardie letterarie primonovecentesche. In particolare, l’idea scheerbartiana e tautiana che «case di pietra fanno cuori di pietra» (proverbio russo citato in Taut 1920a, p. 5 e 80), trova una folgorante anticipazione ironico-canzonatoria nell’opera di Aldo Palazzeschi. Con lo straordinario fiuto dello Zeitgeist che lo contraddistingue, l’inventore, non dimentichiamolo, della più aerea creatura della letteratura italiana, l’omino di fumo Perelà (1911), affronta il tema della maison de verre in una poesia apparsa su “Lacerba” nel marzo del 1913 e poi confluita nella seconda edizione della raccolta L’incendiario. Con un anno d’anticipo sulla Glashaus tautiana, in Una casina di cristallo (congedo) il poeta fiorentino già presenta il vetro come un antidoto contro ogni ricaduta negli interni borghesemente chiusi su se stessi (Alloa 2008), magnificando le potenzialità voyeuristiche della trasparenza. Questo il testo del componimento, che riproduciamo nella sua quasi integralità:
Non sogno più castelli rovinati,
decrepite ville abbandonate,
dalle mura tutte crepate
dove ci passa il sole.
Non palazzi provinciali
disabitati,
dalle porte polverose,
dalle vetrate colorate,
dalle finestre ferrate,
non più.
[…]
Sogno tutt’altre cose
che con queste non àn nulla che fare.
Non me ne dovete volere
se oggi ò cambiato parere.
Io sogno una casina di cristallo
proprio nel mezzo della città,
nel folto dell’abitato.
Una casina semplice, modesta,
piccolina piccolina,
tre stanzette e la cucina.
Una casina
come un qualunque mortale
può possedere,
che di straordinario non abbia niente,
ma che sia tutta trasparente,
di cristallo.
Che si veda bene dai quattro lati la via,
e di sopra bene il cielo,
e che sia tutta mia.
L’antico solitario nascosto
non nasconderà più niente
alla gente.
Mi vedrete mangiare,
mi potrete vedere
quando sono a dormire,
sorprendere i miei sogni;
mi vedrete quando sono a fare i miei bisogni,
mi vedrete quando cambio la camicia.
Se in un giorno di malumore
mi parrà di litigare colla serva,
prenderete la sua parte,
e farete benone,
non c’è niente di male,
vi accorgerete dalla mia cera
come va la mia arte.
Mi vedrete chino sulle carte
dalla mattina alla sera.
E passando mi potrete salutare,
augurare il buon giorno
e la buonanotte,
e vi risponderò.
E se poi mi vedrete pisciare,
non vi dovete scandalizzare,
se no, peggio per voi!
Non vi dovete voltare
quando passate.
– All’erta dormiglione!
È alto il sole!
La mattina vi sentirò gridare.
– Pigrizia e poesia vanno a braccetto!
Vi sentirò borbottare.
E farò finta di non sentire
per restare un altro poco a cucciare
dentro il letto.
E quando non ne potrò proprio più
mi butterò giù.
– Riso e cavolo per desinare!
– Dev’essere in bolletta!
– Mangia la minestra colla forchetta!
– Che razza d’animale!
– Beve acqua per risparmiare.
– Beve acqua perché gli piace.
– Che ci sia qualche cosa con quella cameriera?
– Mamma mia che indecenza!
– Brutta a quella maniera?
– Ma la notte cosa fanno?
– Bella, vanno a dormire.
– Quella è la stanza di lui,
quella è la stanza di lei,
accanto alla cucina…
– Ti piacerebbe di stare in quella casina?
– No davvero! No davvero!
– Vivere a quel modo in berlina!
– Due camere un salotto e la cucina.
– Guarda il cesso com’è bello!
– È di vetro anche il cariello!
– Ma cosa è andato a inventare!
– Guarda guarda va al cassettone…
– Ah no, o che cosa anderà a fare?
– Mamma mia!
– Che si butti un po’ sul letto?
– Bambine venite via!
– Sarà stanco poveretto!
– Non vedi che viso bianco?
– Qui bisogna riparare!
– Ma il comune che gli à dato il permesso
di fabbricare una casa di quel genere!
– Vi sbagliate!
– À ragione per Dio!
– Me ne sto facendo una anch’io!
Quando gli uomini vivranno
tutti in case di cristallo,
faranno meno porcherie,
o almeno si vedranno!
– Sostenete delle tesi sbagliate.
– È un pazzo come lui!
– Ma come se ne sta tranquillo quel salame!
– Guarda guarda, ci saluta!
– Ah! c’à detto buona passeggiata.
– Buon lavoro, poeta!
– È una gran puttanata!
– È una bella trovata! (Palazzeschi 2002, pp. 316-319)31.
187Alla luce di quanto sin qui rilevato, risulta evidente come l’edificio immaginato da Palazzeschi non risponda ai tradizionali principi di razionalità architettonica ma neppure presenti qualche connessione con i più o meno fantasiosi tentativi di rivolgimento palingenetico della vita sociale e politica della collettività. Ha, invece, molto a che vedere con il sarcasmo antiborghese e anarco-individualista, con la sfrenata giocosità delle avanguardie cosiddette storiche: la psicologia del singolo, cinico, dispettoso e sfrontatamente libertino, cerca nell’immaginario della modernità uno strumento di irridente evasione rispetto ai valori della società tradizionale, sbeffeggiata nei suoi miti e nei suoi riti soffocanti. Come nota Adele Dei, «si scardinano le convenzioni del bon ton domestico, a tavola e nell’intimità, come se, nel processo di affrancamento, fosse importante denunciare l’insofferenza per le norme della buona educazione borghese […]» (Dei 2002, p. xxxix).
188Facendo ricorso al felice impasto di grazia e crudeltà che contraddistingue la sua scrittura, con Una casina di cristallo Palazzeschi consolida dunque quella tensione alla singolarità, all’anticonformismo che i suoi lettori avevano già visto all’opera nella sequenza di testi intitolata Al mio bel castello ne L’incendiario (1910). Vi è, tuttavia, tra quei componimenti e questo, una differenza fondamentale: se in una lirica come Quando cambiai castello il poeta sognava di ritirarsi in un «decrepito castello / mezzo rovinato» (Palazzeschi 2002, p. 243) per garantirsi l’isolamento, la fuga dall’accerchiamento sociale («il bello d’un poeta / è, l’essere sconosciuto»; Palazzeschi 2002, p. 241), con il ben più oltraggioso trasloco in un edificio trasparente l’obiettivo diventa quello di mettersi in mostra, di esibirsi senza pudore, di esporre il proprio privato coram populo («Vivere a quel modo in berlina!»). Pierluigi Pellini ha ben evidenziato come, nel corso del testo, «[…] l’ideale moralista di una vita allo scoperto, “in berlina”» si rovesci in «esibizionismo strafottente» (Pellini 2004, n. 127, p. 173), così liquidando – come dimostra il sottotitolo Congedo, tutt’altro che casuale (Dei 2002, p. xl) – le vecchie convenzioni architettoniche e sociali.
189Il poeta del domani, questa la provocazione palazzeschiana, sarà un uomo felicemente, sfacciatamente vetrinizzato. Attraverso l’esposizione continua della propria quotidianità, persino degli atteggiamenti basso-corporali più corrivi – il cibo, il sesso, la defecazione – l’artista è ora libero di fare del ribellismo non già un singolo episodio di anticonformismo ma una postura esistenziale, elevando programmaticamente l’impertinenza a sistema di vita. A tal proposito vale la pena osservare come la casina palazzeschiana trovi una sorta di corrispettivo grafico nella deliziosa abitazione disegnata sette anni dopo da Carl Krayl, uno dei più brillanti esponenti della Gläserne Kette, il collettivo di architetti riunitosi attorno alla carismatica figura di Bruno Taut. Pubblicata sulla rivista “Frülicht” il 3 febbraio 1920, la trasparentissima Haus eines Dada (Casa di un dadaista) è il prodotto esemplare del giocoso infantilismo che caratterizza le avanguardie visive, un esercizio ironico che sottolinea l’incompatibilità della cultura dell’intérieur con i precetti esibizionistici dell’arte nuova32.
190Un discorso in parte diverso, perché prodotto di un clima già notevolmente mutato, va fatto per la maison de verre di cui parla André Breton in uno dei suoi capolavori, Nadja. Si tratta anche in questo caso di un piccolo inno al voyeurismo oltre che di un atto di sfida contro ogni «letteratura psicologica ad affabulazione romanzesca» (Breton 1928, p. 11). Pour moi, quanto a me, scrive il poeta francese,
continuerò ad abitare la mia casa di vetro, dove si può vedere a qualsiasi ora chi mi viene a trovare, dove tutto ciò che sta appeso ai soffitti e alle pareti regge come per incanto, dove di notte riposo su un letto di vetro che ha lenzuola di vetro, dove chi sono mi apparirà presto o tardi inciso a punta di diamante (Breton 1928, p. 11).
191La trasparenza bretoniana si vuole più scopertamente politica e decisamente meno ludica di quella palazzeschiana e dada, con una più diretta volontà di abbattere il mito borghese della segretezza. È nota la lettura che ne offre Benjamin nel celebre saggio del 1929 dedicato al surrealismo: «Vivere tra pareti di vetro è una virtù rivoluzionaria per eccellenza. Anche questa è una forma di ebbrezza, è un esibizionismo morale di cui abbiamo grande bisogno. Il senso della privacy non è più una virtù aristocratica, è diventata sempre più una caratteristica di piccoli borghesi arrivati» (Benjamin 1929a, p. 204). Tuttavia, se in Palazzeschi, figura dalla soggettività aerea e frammentata, oltre che scanzonata – ricordiamo Chi sono?: «Son forse un poeta? | No certo» – l’immagine della casina di cristallo mantiene una salda e in un certo senso pura valenza eversiva, è difficile sostenere che la stessa tensione all’oltraggio sia ancora presente in Breton, autore già proteso verso un solido ricompattamento identitario, che non a caso cerca nella maison de verre un luogo «où qui je suis m’apparaîtra tôt ou tard gravé au diamant». Il dato centrale dell’esibizionismo, della necessità cioè di vetrinizzare la propria quotidianità, rimane, ma l’insolenza, la carica scioccante del gesto ne risultano tutto sommato depotenziate. Forse perché, smorzatosi l’uragano creativo d’inizio secolo, le acque si sono placate, e insieme intorbidite, per cui sempre più difficile risulta épater la bourgeoisie. Del resto, quando il poeta francese, «in cerca di nuove immagini da abitare», come scrive Francesca Rinaldi, «approda alla dimensione magica di una casa interamente vetrata» (Rinaldi 2004, p. 73), la costruzione di edifici privati in vetro è ormai realtà: proprio negli anni tra il 1928 e il 1931 viene infatti edificata nel cuore di Parigi, tra Boulevard Saint-Germain e il Café de Flore, la maison de verre di Pierre Chareau e Bernard Bijvoet.
192Gli esibizionisti a venire saranno poi di tutt’altra pasta, non più sfacciati provocatori avanguardisti ma uomini qualunque, smaniosi di poter erigere piccoli monumenti alla loro individualità ostentata. Dall’esibizionismo ironico-destabilizzante si approda insomma a quello puramente narcisistico-edonistico. Pensiamo per esempio a un romanzo del Dopoguerra come Lolita di Nabokov. Qui alle case si sostituiscono i motor hotel, il solo tipo di abitazione che il professor Humbert Humbert possa frequentare durante la sua folle fuga con la giovane Lo. Ora è da rilevare come quei motel trasparenti che il perverso protagonista del libro immagina punteggiare lo sterminato paesaggio americano non abbiano di fatto altra funzione che quella di un pruriginoso allettamento erotico: «Ah, miti automobilisti che scivolate attraverso le nere notti d’estate, quali sollazzi, quali lussuriose convulsioni potreste vedere dalle vostre impeccabili autostrade, se dai confortevoli bungalow dei motel defluissero all’improvviso tutti i pigmenti, rendendoli trasparenti come scatole di vetro!» (Nabokov 1955, p. 149). Ancor più significativo, in tal senso, questo brano tratto da uno dei primi paragrafi della parte seconda del romanzo, nel quale Humbert sostiene, con un malcelato brivido di piacere, di avvertire su di sé lo sguardo inquisitore di chi potrebbe scoprire la sua illecita relazione con la ragazzina:
Avevo spesso la sensazione di vivere in una casa di vetro dalle luci sempre accese, e che da un momento all’altro una faccia incartapecorita si sarebbe affacciata, le labbra strette, a una finestra lasciata incautamente senza cortine, per sbirciare gratuitamente cose per le quali il voyeur più incallito avrebbe pagato una piccola fortuna (Nabokov 1955, pp. 226-227).
193È evidente come l’evocazione della «casa di vetro» da parte del maturo professore non risponda ad altra ragione che a quella di fungere da moltiplicatore dell’eccitazione sessuale, senza che la fantasia voyeuristica comporti alcuna ricaduta di più ampio respiro: terminata la stagione degli sberleffi e dei pungoli polemici primonovecenteschi, siamo insomma per molti versi tornati ai sogni lubrichi del parvenu Sauvaire di Zola, con le sue «belle donnine» in vetrina.
194D’altro canto, se qualcuno fosse così folle da cercare di fare dell’esibizionismo morale la molla di un’intransigente etica del quotidiano, il suo tentativo non potrebbe che essere destinato a un rovinoso scacco. È quanto capita al signor Kaufmann, protagonista di un racconto-apologo, La città di vetro, pubblicato nel 1960 da uno scrittore tedesco postsurrealista, Kurt Kusenberg. Il signor Kaufmann è un buon borghese che vive nell’immaginaria cittadina di Bautzenberg, dove, a quanto pare, tutti o quasi gli abitanti portano il suo stesso cognome, in una sorta di calviniano moltiplicarsi di destini incrociati. Un giorno Kaufmann decide di farsi costruire una casa di vetro per trasferirvisi con tutta la famiglia. Il suo scopo è quello di rendere trasparente la propria condotta di vita: non già, come nel caso degli avanguardisti, per sfidare le convenzioni, né per nutrire fantasie licenziose, bensì al contrario per esaltare e diffondere quanto più possibile quel retto stile di vita di cui lui stesso, «onorato commerciante», si considera un difensore e un campione:
Dichiarò, dunque, che lui non aveva nulla da nascondere e perciò intendeva esibire ai suoi concittadini una vita esemplare: un’esistenza onesta, laboriosa, regolata come un orologio. Non solo di giorno, ma anche durante la notte l’occhio poteva spaziare liberamente dall’esterno per tutti i settori della casa di vetro; non appena fuori cominciava a fare buio, le stanze venivano illuminate. In tal modo si poteva vedere la famiglia Kaufmann alzarsi alle sei del mattino, lavarsi, fare colazione, la signora Kaufmann passare la mattinata tra pulizie e fornelli, quindi la famiglia sedere intorno alla tavola all’ora di pranzo, e così via, fino al momento in cui essa si coricava (Kusenberg 1960, pp. 161-162).
195Novello Giulio Druso, Kaufmann è indubbiamente un uomo probo. In breve tempo la sua Glashaus attira una gran numero di curiosi e produce notevoli effetti benefici sulla cittadinanza: «Il potere pedagogico della casa di vetro si dimostrò veramente enorme» (Kusenberg 1960, p. 162). A differenza di Palazzeschi, che nella sua irriverente casina di cristallo esibiva sfacciatamente le proprie funzioni organiche, qui tutto è concepito per mostrare solo ciò che è commendevole, nascondendo invece quanto potrebbe suscitare scandalo:
Una volta che, alle dieci di sera, il signor Kaufmann e la sua consorte si erano scambiati il bacio della buona notte, si mettevano a letto e piombavano nel sonno dei giusti. Certo, il locale più piccolo della casa non era trasparente, ma il signor Kaufmann aveva disposto rigorosamente che nessuno vi si trattenesse più di due minuti. Non c’era vasca da bagno; lavandosi, ognuno doveva badare a non denudarsi in maniera sconveniente. No, non esiste qui appiglio alcuno per il malizioso cavillatore. Anche le cose intime e più discrete avevano trovato una loro adeguata sistemazione nell’ambito di questo ordine esemplare (Kusenberg 1960, p. 163).
196Il buon esempio dei Kaufmann fa scuola, lo spirito di emulazione prende il sopravvento e rapidamente il villaggio si riempie di case di vetro. A eccezione di una sparuta minoranza di reprobi, che trova ricetto in cunicoli sotterranei o cantine abbandonate e conduce una vita dissoluta, la maggior parte della popolazione di Bautzenberg diventa in breve esibizionista, ma in un senso moralmente più che commendevole: tutti i cittadini fanno adesso a gara nell’ostentare il proprio stile di vita irreprensibile ed esemplare. «Le case di pietra rimasero vuote, sempre che non si fosse provveduto a demolirle; chi ci abitava, passava per individuo sospetto» (Kusenberg 1960, p. 163). Come conseguenza diretta di questo nuovo regime di onestà e rettitudine diffuse, il paese conosce una fase di prosperità economica mai vista: «quando il sole splendeva sulla città», scrive Kusenberg, «essa baluginava come un immenso diamante; allora pareva quasi magnificare se stessa» (Kusenberg 1960, p. 164).
197Sennonché un elemento imprevisto interviene a turbare l’equilibrio della mirabile gläserne Stadt: la proposta del sovrintendente municipale di abbellire le case con siepi e piante rampicanti. Non tutti sono d’accordo: «al borgomastro il progetto parve rischioso. Temeva che le piante ornamentali potessero crescere con eccessivo rigoglio, pregiudicando in tal modo gravemente la stessa peculiare ragione d’essere delle case di vetro, ossia: la loro trasparenza» (Kusenberg 1960, p. 165). Alla fine però il sovrintendente, con l’appoggio del consiglio municipale, riesce a imporre le sue ragioni, convincendo i concittadini della necessità di aggiungere una nota di colore al paesaggio urbano. In breve, macchie gaie e variopinte di fiori iniziano ad adornare le pareti degli edifici. È l’inizio della fine: ricoperte da una sempre più lussureggiante vegetazione, le case cessano di essere trasparenti, perdendo così del tutto la loro funzione moralizzatrice. Solo Kaufmann resiste e si oppone al nuovo regime floreale, mentre la maggior parte della popolazione accetta la novità con un misto di rassegnazione e sollievo:
Forse quell’assalto di verde aveva letteralmente paralizzato la gente; ma può anche darsi che gli inquilini vi si fossero acconciati quasi volentieri, come coloro che erano stufi di essere costantemente esposti all’indiscrezione degli sguardi altrui (Kusenberg 1960, p. 167).
198Il regime virtuoso-esibizionista ha ormai i giorni contati. Mentre il fitto viluppo di rami e fogliame impedisce all’occhio di penetrare dentro le abitazioni, l’architettura in vetro diventa rapidamente obsoleta e la popolazione di Bautzenberg precipita sempre di più nel vizio. I reprobi che vivono nel sottosuolo sono progressivamente riabilitati e gli stessi figli di Kaufmann si abbandonano alla dissolutezza. L’esibizionista Kaufmann diventa il bersaglio di scherzi e ingiurie, e il suo ultimo tentativo di ripristinare il decoro a Bautzenberg fallisce miseramente:
Fianco a fianco con il giardiniere Kaufmann […] egli si trovò contro il borgomastro Kaufmann, il sovrintendente all’edilizia civica, Kaufmann, l’altro giardiniere Kaufmann, l’industriale Kaufmann e ancora otto consiglieri, di cui cinque si chiamavano essi pure Kaufmann. Persino l’architetto Kaufmann, che aveva costruito le prime case di vetro, era passato nel campo avversario (Kusenberg 1960, p. 168).
199Il fatto che tutti o quasi gli abitanti del villaggio portino il nome del protagonista sembra suggerire l’ipotesi che l’intera storia sia il prodotto di un delirio psicotico, di una dissociazione schizoide in parte simile al caso di Seweryn Baryka, inventore del fantomatico cugino-architetto Baryka e delle sue prodigiose case di vetro (cfr. supra, il paragrafo Varsavia). Se così fosse potremmo parlare di una rivolta della psiche di Kaufmann contro se stessa: creare una moltitudine di altri Kaufmann apertamente ostili le servirebbe per demolire una sovrastruttura moralizzatrice divenuta insostenibile, sorta di giogo etico radicale totalmente inconciliabile con le più profonde esigenze della nostra specie, a partire dall’insopprimibile bisogno di riservatezza e privacy.
200Che si accetti o meno questa lettura, il succo della vicenda risiede comunque nella sorte grama toccata al grande moralizzatore del villaggio. Il suo tentativo di imporre un austero regime puritano ha totalmente fallito di fronte agli elementari impulsi della natura umana, sempre pronta – Dostoevskij insegna – a mandare in frantumi, fosse anche solo per spirito di contraddizione o insofferenza alle regole, la sensatezza del cristallo33. L’apologo morale di Kusenberg ci dice in fondo molto più sul potere dell’emulazione, e sui meccanismi irrazionali che governano le decisioni dei singoli, che su quello della trasparenza, di fatto rivelatasi una forza insufficiente a trasformare l’essere umano. Quanto agli esibizionisti, potranno certamente continuare a proliferare, purché il loro stile di vita non metta troppo in discussione l’ordine vigente. Finché rappresenteranno soltanto un pretesto per attivare le tutto sommato innocue energie narcisistiche del singolo, ben vengano le casine di cristallo.
Gli indifferenti (gli spietati)
L’uomo è prodotto di istinti ereditari e di educazione. L’attività collettiva e la stretta comunione di vita dà luogo a un forte senso di solidarietà fra minatori e marinai, e i pericoli cui sono soggetti accrescono il loro coraggio. Nelle città, invece, la mancanza di interessi comuni dà origine all’indifferenza.
Bruno Taut, La dissoluzione delle città
201La fantasia individualista della casina di vetro così cara ai personaggi esibizionisti conosce un contraltare, forse solo apparente, nella realtà massificata delle celle d’alveare che caratterizzano il nascente modello del grattacielo. Nel corso degli anni Trenta il baricentro mondiale delle innovazioni tecnologiche e artistiche si è ormai spostato oltreoceano, e anche se molte idee continuano a venire dall’Europa – basti pensare all’influenza di Mies Van der Rohe sull’architettura americana – il paradigma di interazione sociale del futuro è quello che si sta costruendo nelle nuove giungle d’asfalto di New York e Chicago. In quella Atlantide di cemento – Concrete Atlantis la definisce in un suo bellissimo saggio sull’architettura industriale americana Reyner Banham (Banham 1986) – che sono gli Stati Uniti, le città iniziano a rimpiersi di skyscrapers, gli «scheletri d’acciaio che si stagliano contro il cielo» con effetto «travolgente», come scrive Mies nel 1922 (Mies Van der Rohe 2000, pp. 3-4). Se già nel 1921 Bertolt Brecht qualifica la «fredda Chicago» come una «città vetrina» (Brecht 1922, p. 171), nel 1927 Fritz Lang offre con Metropolis, il film architettonico-futuristico per eccellenza, una rilettura folgorante dei nuovi paesaggi urbani in vetro.
202Trascorrono altri due anni e nel 1929 un architetto newyorkese, o meglio un delineator (autore di rendering, di disegni prospettici degli edifici), Hugh Ferriss, pubblica una raccolta di immagini, scorci, panorami di quella che sarà appunto la città del futuro. Il libro, di cui è stata fatta una bella ristampa nel 2005, si intitola appunto The Metropolis of Tomorrow e le illustrazioni di Ferriss presentano un paesaggio urbano gremito di colossali forme inanimate, imponenti masse di vetro e acciaio ai cui piedi corrono minuscole, frenetiche figure di lillipuziani: non stupisce che molti lo considerino l’ispiratore della Gotham City di Batman, creata da Bob Kane e Bill Finger nel 1939. Ancora una volta la città moderna – New York nella fattispecie – è paragonata a un formicaio, e i suoi abitanti a formiche (l’autore impiega proprio la parola ants: cfr. Ferriss 1929, p. 15). Tutte le illustrazioni sono accompagnate da un paragrafo in prosa, eccezion fatta per la terza sezione del libro, intitolata An Imaginary Metropolis (Una metropoli immaginaria), dove si legge un poema, Night in the Science Zone (Notte nella Zona della Scienza), i cui versi parlano di «edifici come cristalli», di «muri di vetro trasparente» e di «blocchi di puro vetro in griglie d’acciaio» (Ferriss 1929, p. 124*)34.
203Quanto basta, ci sembra, per capire quale enorme valore finzionale questi edifici ebbero sin da subito, affermandosi immediatamente come un potentissimo mito moderno. In tal senso ha ragione Marshall Berman nell’osservare che «l’autentica reincarnazione del Palazzo di Cristallo del xx secolo» avviene negli Stati Uniti, dove
l’edificio lirico e delicatamente armonioso di Paxton sarebbe riemerso, in forma mimetizzata ma pur sempre riconoscibile, e sarebbe stato meccanicamente riprodotto all’infinito in una schiera di sedi centrali di società e di centri commerciali periferici in ferro-vetro, che si moltiplicarono nel paese (Berman 1982, p. 302).
204L’America è, in questo senso – e ci torneremo nel capitolo conclusivo – il luogo per eccellenza dove la società avviene, dove cioè utopie e distopie otto-novecentesche come il mito della trasparenza si fondono e insieme si cancellano dando vita al nostro presente.
205Tutte queste trasformazioni in atto non solo nel paesaggio statunitense, ma anche nell’immaginario globale, non potevano non destare la curiosità di una delle menti più geniali del xx secolo: Sergej Michajlovič Ejzenštejn. Intenzionato a mettere alla berlina il capitalismo, il regista russo decide di concentrare l’attenzione sugli Stati Uniti e in particolare sul nuovo tipo di abitazione che lì si va sviluppando: il grattacielo dalle lisce, durissime pareti di vetro. Nel corso del 1930 – l’anno, si ricordi, in cui Frank Lloyd Wright tiene a Princeton la sua celebre lecture intitolata The Tyranny of the Skyscraper (La tirannia del grattacielo) – Ejzenštejn propone alla Paramount una serie di riduzioni da opere letterarie che per varie ragioni non entrano in produzione: La guerra dei mondi di H.G. Wells (autore, lo si è detto, molto popolare in Russia e tradotto da Zamjatin), la commedia antimilitarista di George Bernard Shaw Le armi e l’uomo, L’oro di Blaise Cendrars e Una tragedia americana di Theodor Dreiser (Persichini 1979, p. 441). Tra queste pellicole hollywoodiane rimaste incompiute si trova anche un’idea originale, in vista della quale il regista stende, a partire dal 1926 e poi per tutta la vita (fin quasi alla morte), una serie di appunti. Il titolo è lapidario: Glass House35.
206Giustamente gli studiosi hanno sottolineato in più occasioni la natura estremamente complessa del progetto. Nato come abbozzo di film, Glass House è poi divenuto nel corso del tempo un pretesto per una riflessione sulla natura del cinema, fino a trasformarsi in una sorta di oggetto teorico da interrogare per meglio comprendere le strutture estetiche che fondano i linguaggi artistici (Albera 2009, p. 83). In particolare, l’ipotesi di girare un film ambientato in un set di vetro infiammò non poco la fantasia di Ejzenštejn, solleticandone la fertile immaginazione formale: molti passi dei suoi appunti insistono su questo aspetto, ed è decisamente affascinante vedere come la mente del regista sovietico esplori incessantemente le varie possibilità illuminotecniche offerte dalle riprese in ambienti trasparenti, immaginando inquadrature che consentano soluzioni innovative e arditi effetti di inganno ottico. Questi aspetti stilistico-espressivi del progetto sono stati oggetto di particolare attenzione da parte degli storici del cinema, sia perché pongono Ejzenštejn in dialogo con altri registi, come Alfred Hitchcock e René Clair, che in quegli anni ricorrono alla trasparenza come espediente filmico, sia per le interessanti connessioni con il complessivo edificio teorico eretto dal regista nel corso degli anni Trenta. Tuttavia, Glass House presenta anche delle implicazioni simboliche, politiche, sociali che qui più direttamente ci interessano, perché legate all’ipotesi di un’abitabilità del vetro. Da questo punto di vista, le evoluzioni della trama del film, così come gli appunti ce la presentano – in modo, sia detto per inciso, tutt’altro che lineare e consequenziale – ci dicono molto su come il grande teorico e regista sovietico interpretasse il mito della purovisibilità architettonica.
207Occorre premettere che il progetto di Glass House nasce in Germania in occasione della prima de La corrazzata Potëmkin, come Ejzenštejn stesso annota nel suo diario: «Concepito a Berlino. Hotel Hessler. Kantstrasse. Sotto l’influsso dei tentativi di architettura in vetro» (Ejzenštejn 1979b, p. 444). Quest’ultima frase ha fatto a lungo discutere gli studiosi su quali siano esattamente questi «tentativi» di cui parla il regista. Come convincentemente ha spiegato François Albera, difficilmente i punti di riferimento di Ejzenštejn saranno da ricercare nell’ormai tramontata lezione cosmico-messianica degli Scheerbart e dei Taut; troppo lontano è il loro irrazionalismo utopico dalla sua mentalità positiva e materialisticamente orientata. Si dovrà semmai rivolgere l’attenzione alle nuove proposte dell’architettura razionalista (Albera 2009, p. 85), viste però non già come esperienze apportatrici di istanze positive, bensì come manifestazioni paradigmatiche di quella civiltà efficientista e brutalmente utilitarista che si appresta a governare il mondo. La società della trasparenza cui Ejzenštejn pensa non ha dunque niente a che vedere né con una prospettiva utopica di benessere collettivo alla Che fare? né con un distopico orizzonte totalitario, come nel caso dello Stato Unico immaginato da Zamjatin. Si ricollega invece a una realtà del suo tempo: l’America capitalista degli anni Trenta, affrontata naturalmente in chiave polemica. Il ritaglio di una foto che riproduce un progetto di grattacielo in vetro di Frank Lloyd Wright, incollato su una pagina di diario datata 29 giugno 1930 (Ejzenštejn 2009b, p. 79), parla chiaro in tal senso.
208In un primo momento, il perno attorno cui ruotano gli appunti del regista è dunque la netta contrapposizione tra l’american way of life e lo stile di vita sovietico. Se in Che fare? di Černyševskij il capitalista illuminato Beaumont, americano, e l’imprenditrice socialista Vera Pavlovna, russa, potevano ancora condividere gli stessi ideali e i medesimi progetti (cfr. supra, § L’idillio istituzionalizzato: la fabbrica trasparente), ormai ogni ipotesi di creare una comunione d’intenti tra i due paesi appare tramontata: troppo profonde e strutturali sono le divisioni intervenute dopo la Rivoluzione. L’attacco frontale di Ejzenštejn contro il Nuovo Mondo è dunque diretto e senza appello. Ma come vivono la loro quotidianità gli abitanti della glass house d’Oltreoceano? Si ricorderà quale sia la condizione dei cittadini dello Stato Unico di Zamjatin, i quali, sorvegliandosi e spiandosi a vicenda, instaurano un repressivo regime di controllo reciproco, tale per cui ciascuno di loro non è che l’ingranaggio di un’infernale macchina totalitaria (cfr. supra, § Pietrogrado). I condòmini del grattacielo americano immaginato da Ejzenštejn si trovano invece in una situazione molto diversa, per certi versi opposta: la totale penetrabilità di interno ed esterno, la trasparenza assoluta dei loro gesti li precipita in una condizione di totale, agghiacciante indifferenza36.
209Sta qui la straordinaria invenzione – o intuizione? – del regista sovietico: nell’immaginare un ingegnoso paradosso comportamentale tale per cui i cittadini della megalopoli americana, proprio perché vivono «sempre in bella vista, eternamente lavati dalla luce», non saranno affatto dei guardiani benthamiani, bensì finiranno inevitabilmente per sciogliere i legami ottico-percettivi che li legano l’un l’altro fino a non vedersi più. Ognuno di loro, si potrebbe dire, perde letteralmente di vista il proprio prossimo. Mentre la massa rivoluzionaria, questa la tesi di fondo de La corrazzata Potëmkin, è gioiosamente compartecipativa, l’individuo alienato dall’imperativo del consumo, egoista e sfrenatamente individualista, ha smarrito ogni consapevolezza di vivere entro una condizione di socialità diffusa. Scrive Ejzenštejn in un appunto del settembre 1927:
Dare l’indifferenza reciproca attraverso il fatto che i personaggi non si vedono l’un l’altro dalle pareti e dai pavimenti, oppure non si guardano; una «non-osservazione» ammaestrata.
[…]
Vivono tutti come ci fossero le pareti, ognuno per sé.
I vicini vengono visti solo nei momenti tragici.
In una sala illuminata si svolge un pranzo da ricchi e accanto ci sono scure «celle» affamate, dove le persone anch’esse affamate, sembrano quasi stare dietro quel tavolo. I sazi non guardano.
Questo è già farsesco. Fino ad arrivare alla copertura della parete. E, al contrario, una totale intimità che ignora i «vicini» (Ejzenštejn 1979b, p. 445).
210Scorrendo i primi appunti del progetto, troviamo numerose scene, o diremmo meglio abbozzi di scene, in cui il regista sbizzarrisce la propria fantasia per sottolineare la condizione di estremo ottundimento psicologico che caratterizza l’esistenza di queste donne e di questi uomini, incapaci di percepire la presenza degli altri esseri umani di là dal vetro e di provare empatia per i loro drammi. Vediamone una per tutte: «La disperazione di un uomo (da sopra), che si è gettato sul pavimento. Un passeggiare sul pavimento sei-otto piani sopra di lui e una continua accensione di luci dal piano di sopra alla sua stanza» (Ejzenštejn 1979b, p. 444).
211È questo un punto che merita di essere sottolineato: nella realtà immaginaria di Glass House il tema della trasparenza è genialmente giocato da Ejzenštejn in termini rovesciati e paradossali rispetto ai suoi predecessori. L’assunto scheerbartiano e tautiano secondo cui «case di pietra fanno cuori di pietra» viene qui sconfessato: sono semmai le case di vetro che fanno i cuori duri, sordi e impenetrabili. A un di più della vista non corrisponde insomma un incremento delle capacità di comprendere la realtà e partecipare alla vita della comunità, bensì esattamente il contrario: una everyday life improntata a un continuo contatto ottico finisce evidentemente per impedire agli individui di vedersi davvero tra loro, fino al punto di cancellare l’altrui presenza dal proprio campo di esperienze. In questo senso, si potrebbe dire che nel contesto moderno lo sguardo sia considerato da Ejzenštejn come uno strumento percettivo che tende a limitare, anziché accrescere, le facoltà interiori dell’uomo. È impressionante notare come due secoli prima Giacomo Leopardi fosse giunto a conclusioni non dissimili, immaginando che l’inevitabile proliferare della metropoli a venire – Leopardi parla di una grande «sfera» – avrebbe inevitabilmente comportato un incontrollato predominio del senso della vista a tutto discapito delle «facoltà sensitive» dell’uomo. In una lettera del 6 dicembre 1822 al fratello Carlo, il poeta recanatese nota:
In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si riflette in verun modo nell’interno (Leopardi 1998, p. 579).
212Come ci insegna questo straordinario – per lucidità e lungimiranza – passaggio leopardiano, la metropoli occidentale è il centro e il luogo dell’alienazione assoluta, un mondo della visibilità totale in cui l’individuo può ritrovarsi paradossalmente del tutto solo, «senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda». Venticinque anni dopo, in un brano già ricordato de La Democrazia in America, Tocqueville userà parole non troppo diverse per descrivere una folla di uomini del futuro «simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi», ciascuno dei quali «è come estraneo al destino di tutti gli altri», per cui «vive al loro fianco ma non li vede» (Tocqueville 1848, p. 812). La glaciale «spassione» che caratterizza gli abitanti del grattacielo di Ejzenštejn, il loro vivere l’uno di fianco all’altro senza mai vedersi, non è che la traduzione in immagini di quella condizione oppressiva e concentrazionaria profetizzata da Leopardi e Tocqueville: l’esatto opposto, dunque, dell’idea di città come «insediamento umano in cui degli estranei tendono a incontrarsi», per dirla con le parole del sociologo Richard Sennett (Sennett 1977, p. 46).
213Si può pertanto osservare come la metropoli sterile e asettica immaginata da Ejzenštejn – vi sono insistiti riferimenti, negli appunti di Glass House, alla qualità assolutamente non-naturale del vetro, materiale liscio, duro, totalmente refrattario alla vita – sia un luogo dove non c’è posto per gli insetti nocivi o per altre presenze indesiderate, uno spazio igienizzato dove regna l’imperativo della purezza assoluta. Parimenti gli edifici in vetro dissolvono del tutto le forme, le quali vengono sistematicamente obliterate dalla supremazia annichilente della non-forma («sparizione di tutte le forme», Ejzenštejn 1979b, p. 445), che tutto distrugge, fino a nullificare lo stesso sembiante umano e la sua espressività: suggestiva l’immagine dei volti «appiattiti sul vetro» (Ejzenštejn 1979b, p. 447). Quel che per Scheerbart costituisce la garanzia del valore eccezionale e persino salvifico del vetro – la sua consistenza glaciale, il suo profilo perfettamente smussato, entrambi celebrati nelle prime pagine del romanzo Münchausen e Clarissa (Scheerbart 1906, p. 34) – e che pure Benjamin magnifica in un disperato tentativo di rivitalizzare la lezione delle avanguardie, diventa agli occhi di Ejzenštejn un simbolo dell’impermeabile ottusità che caratterizza lo stile di vita borghese: «Il gelo delle cose, il gelo del vetro “par excellence”» (Ejzenštejn 1979b, p. 444). Ecco allora che, visti attraverso l’«orrore di un vetro levigato» (Ejzenštejn 1979b, p. 444), smarriti in un ambiente privo di coordinate e punti di riferimento, gli individui diventano algide ombre fluttuanti in un vuoto pneumatico, come ben mostrano i disegni preparatori che accompagnano gli appunti. Guardando a quei corpi sinistramente galleggianti, difficilmente si penserà a una condizione di aerea libertà, alla grazia di una levità svincolata da ogni condizionamento. Al contrario, i disegni e le parole di Ejzenštejn ci suggeriscono l’immagine grottesca e allucinata di donne e uomini ignavi e istupiditi che, come pesci, fluttuano in un enorme acquario. La fantasia del regista sovietico potrebbe essere qui stata sollecitata da una delle fiabe de Le mille e una notte, Il pescatore e il Jinn, dove si racconta di una città i cui abitanti sono stati trasformati in pesci dalla fattura di una maga, o dalla definizione che Aragon dà del Passage de l’Opéra come di un acquarium humain, se tutti i passages parigini sono per il poeta degli «acquari già morti alla loro vita primitiva e tuttavia meritevoli d’esser considerati ricettacoli di parecchi miti moderni» (Aragon 1926, p. 22). Così pure si potrebbe pensare a un passo di Noi dove gli abitanti dello Stato Unico sono descritti come dei microrganismi in sospensione: «Guardando dal marciapiede, scure figure di persone nelle case – come particelle vaganti in una soluzione lattiginosa delirante – sembrano appese in basso, e in alto, sempre più in alto fino al decimo piano» (Zamjatin 1921, p. 60). O, ancora, è lecito evocare un brano de La dissoluzione delle città di Bruno Taut dove si legge: «Possiamo paragonare gli abitanti di Londra ai pesci di un acquario al quale il proprietario si è dimenticato di rinnovare l’acqua» (Taut 1920a, p. 73).
214L’immagine equoreo-ittica del grattacielo trasparente che Ejzenštejn potrebbe aver mutuato da qualcuno dei suoi illustri predecessori, attribuendole un segno decisamente negativo, trova un’ulteriore conferma in una terza caratteristica del vetro, oltre alla freddezza e alla levigatezza, ovvero il suo essere, al pari dell’acqua, un pessimo conduttore di suoni. Così si legge in un altro appunto: «sottolineare con il suono: attraverso il vetro non si sente niente… (sviluppare!…)» (Ejzenštejn 1979b, p. 454). Se il vetro impedisce come nessun altro materiale divisorio il propagarsi delle onde sonore, quel che più conta, qui, è che anche il dato dell’isolamento acustico determina e aggrava la reciproca indifferenza degli abitanti dell’edificio. Se la parola persona viene da per-sonare, risuonare attraverso – con riferimento all’antica maschera teatrale che presentava una cavità orale particolarmente ampia così da rafforzare il suono della voce – si può dire che nell’acquario della trasparenza ejzenštejniano il suono non si propaghi e, di conseguenza, la persona, l’individuo ne risulti ammutolito e, allo stesso tempo, assordato.
215Sigillati entro un ambiente raggelato e mortuario, visivamente contigui ma fisicamente e uditivamente sconnessi, gli abitanti-pesci levigati, piatti, incorporei del grattacielo americano sono dunque il simbolo stesso di una modernità che trasforma l’animale sociale uomo in una creatura totalmente insensibile alla sorte dei propri simili. Con il sorgere delle foreste-giungle di acciaio, cemento e vetro, la teoria di Simmel secondo cui una società tanto più tende all’indifferenza e alla superficialità quanto più la vita soggettiva si sente assalita dalla natura aggressiva e caotica della modernità sembra essere pienamente confermata. Quel che per Zamjatin era l’incubo di uno stato totalitario a venire, per Ejzenštejn sta già di fatto avvenendo: è il sogno realizzato delle società occidentali capitalistiche, di questi aggregati umani terminali e decomposti, in via di disfacimento. Ciò che tuttavia contraddistingue questa prima parte del progetto di Glass House è l’esemplare saldarsi delle convinzioni marxiste del regista con il magistero modernista dell’Ulysses di Joyce, cosicché l’istupidimento delle menti causato dal regime capitalista non viene presentato in toni tragici ma comico-clowneschi, al limite della slapstick comedy o del cartone animato, esattamente come accade per i deliri di Leopold Bloom. In tal senso non ci pare improprio osservare che il volteggiare nel grattacielo vitreo di fantasm-agonici corpi senza peso, quasi spettri o parvenze presi in un trapassare e trascorrere continuo di forme colorate e fiotti luminosi, presenti non pochi punti di contatto con quell’estetica del cartoon che Ejzenštejn tanto ammirava nell’opera di Walt Disney. Inoltre, non so se sia già stato notato ma il registro parodico-sarcastico nei confronti degli Stati Uniti – «l’America delle banalità hollywoodiane», come si legge in un appunto (Ejzenštejn 1979b, p. 443) – richiama da vicino uno dei capolavori del cinema sovietico di quegli anni, Le avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulešov (1924), opera farsesca il cui tono oscilla tra blanda ironia e pungente satira sui costumi degli americani.
216Col procedere degli appunti, tuttavia, il progetto di Glass House muta, evolvendo nella direzione di «[…] una tragedia di ambientazione fantastica dai forti rimandi mitici e simbolici» (Dottorini 2007, n. 12, p. 50). Questo non comporta un’inversione di rotta: nelle intenzioni di Ejzenštejn, coerentemente con le sue idee teoriche sulla natura del cinema, entrambi i poli, il registro basso e quello alto, avrebbero dovuto coesistere in una ben scandita alternanza, così da offrire un perfetto equilibrio drammaturgico. «Dare l’idea della farsa e della buffonata, poi il grottesco e la tragicità del dramma», si legge in un frammento (Ejzenštejn 1979b, p. 444). Ora è per noi significativo che lo scarto da una tonalità all’altra intervenga nel momento in cui il regime della reciproca indifferenza si allenta e i cittadini iniziano a vedersi tra loro. Questo graduale recupero della capacità di percepirsi vicendevolmente non comporta tuttavia l’instaurarsi di pacifici rapporti umani; semmai, a una grottesca situazione di generale freddezza e noncuranza subentra una tragica realtà di violenza e sopraffazione. L’altra faccia della società di indifferenti che il vetro capitalista ha generato è una società di delinquenti: la perfetta trasparenza del grattacielo attiva forze psicologiche distruttive, inducendo gli abitanti della metropoli a un’impressionante escalation criminale, in un parossistico climax di litigi familiari, tradimenti, suicidi, omicidi.
217Più si stabiliscono relazioni interpersonali prima inesistenti, più i cittadini riescono a vedersi l’un l’altro – questo l’assunto alla base del secondo tempo del progetto ejzenštejniano – meno si comprendono, meno si tollerano. In questo senso, l’intera operazione Glass House può essere letta come una sorta di esperimento, letteralmente in vitro, di un fenomeno incombente, «[…] l’inevitabilità dello sbranarsi reciproco in ambiente capitalista» (Ejzenštejn 1979b, p. 445). E qui, ancora, torniamo a Simmel, il quale a proposito del «riserbo», della «legittima diffidenza» del singolo verso gli «elementi della vita metropolitana», osserva:
In effetti, se non erro, il versante interiore di questo riserbo esteriore non è soltanto indifferenza ma, più spesso di quanto non siamo disposti ad ammettere, una tacita avversione, una reciproca estraneità, una repulsione che al momento di un contatto ravvicinato, e a prescindere dall’occasione, può capovolgersi immediatamente in odio e aggressione (Simmel 1903, p. 45).
218Confrontiamo questo brano tratto da Le metropoli e la vita dello spirito con il seguente appunto ejzenštejniano:
Si può definire una linea comune nella gradualità di aumento di «capacità visiva» degli abitanti. Cioè, cominciano a vedersi reciprocamente, a guardare e a prestare attenzione l’uno all’altro. E tutto questo, in ambiente capitalista, porta all’odio caotico, ai delitti dell’uno contro l’altro, ai soprusi, alle catastrofi. Ribollire delle passioni, fino al crollo della casa in mille pezzi (Ejzenštejn 1979b, p. 445).
219Gli indifferenti si sono insomma trasformati in spietati, passando dall’inazione alla violenza senza alcuna fase di transizione. Tanto insostenibile diventa la loro brutalità che a un certo punto il grattacielo esplode: una catastrofe finale attraverso cui il regista intende «portare tutta la tragedia a un monumentalismo biblico» (Ejzenštejn 1979b, p. 446).
220Ma cosa accade dopo questo crollo? Nella suite Der Weltbaumeister, Bruno Taut aveva immaginato che la rovina di una cattedrale gotica avrebbe preparato il terreno per l’erezione della splendente Kristallhaus, tempio dell’umanità liberata per il quale ovviamente non è prevista nessuna fine (cfr. supra, § Più luce! Più luce colorata! Cattedrali di vetro). Joyce, vecchia volpe, non si attende un dopo per il Palazzo del suo Leopold, cuore di quella Bloomusalemme che è parodia individualista e narcisista della Gerusalemme Celeste (cfr. supra, § Dublino). Dal canto suo Ejzenštejn immagina che la distruzione del grattacielo di vetro, simbolo del capitalismo, segni la fine dell’ordine borghese, il suo smantellamento dall’interno, preparando la strada alla nuova, pianificata architettura del domani: «Alla casa di vetro distrutta contrapporre un quartiere collettivo ideale, messo al suo posto. (Un peu orthodoxe, mais que faire, l’idée est belle). Come modello di costruzione del comunismo» (Ejzenštejn 1979b, p. 445). Non può non esserci un certo imbarazzo nel constatare come la carica demolitrice del progetto cinematografico di Ejzenštejn si riduca qui a un dualismo molto schematico (il corrotto e autodistruttivo modello americano opposto a quello russo, progressista e costruttivo), esaurendosi in una lode «un po’ ortodossa», come ammette l’autore stesso, della pianificazione urbanistica sovietica. Evidentemente, lo slancio visionario e la passione demistificante che avevano informato le prime pagine del progetto si sono ormai esauriti37.
221Se un elemento, possiamo sottolineare in conclusione, è che, indipendentemente dalle varie direzioni prese, il geniale progetto di Glass House costituisce nel suo eclettico e lacunoso insieme quello che è forse il più violento atto di irrisione rivolto contro il mito della trasparenza. In particolare penso alla prima e seconda parte degli appunti del regista, dove il tema della socialità nel piccolo mondo moderno del grattacielo in vetro offre spunti estremamente interessanti sull’alienazione dell’uomo capitalista, oscillante tra uno stadio di ottusa indifferenza e uno di pericolosa aggressività. Ne consegue che per Ejzenštejn il palazzo di cristallo non solo non mantiene le sue promesse di instaurare un fulgido avvenire, ma è un mostro, un Moloch che impedisce la pace e il benessere tra gli individui. L’uomo nuovo che abita nel vetro è egli stesso divenuto come una scheggia di quel materiale: altrettanto gelido, altrettanto distaccato, non meno aguzzo e pericoloso.
I reclusi
Arrivo ancora vicino al parallelepipedo. È una scatola diafana, il parallelepipedo, con l’uomo chiuso dentro, con gli occhiali, chiuso come in una gelatina, collocato come in una vetrina, che fa il gesto di uno che sale le scale. Fa il gesto di uno che pensa, anche, l’uomo con gli occhiali. C’è il parallelepipedo diafano, sopra, che è vuoto. È diviso in due scomparti, sopra, da una lastra di vetro.
Edoardo Sanguineti, Il giuoco dell’oca
222L’ipotesi di una prigione perfettamente trasparente è un’ossessione tutta moderna, legata alle esigenze di sorveglianza e controllo che caratterizzano le società occidentali moderne, da Bentham in poi. Si è già visto in precedenza come l’immagine del palazzo diafano sia presente nelle narrazioni fiabesche di tutto il mondo, compresa l’Italia, solo che si pensi a I tre castelli, un racconto popolare tradizionale del Monferrato che Italo Calvino ha antologizzato nella sua celebre raccolta Fiabe italiane (1956), dove si parla di un «castello tutto di cristallo». Pochi anni dopo, il maggiore e più popolare favolista italiano del xx secolo, Gianni Rodari, riprende il tema della trasparenza incrociandolo con quello della condizione carceraria in un testo intitolato Giacomo di cristallo, contenuto nella celebre raccolta del 1962 Favole al telefono.
223Se un altro Giacomo, Jean-Jacques Rousseau, in più luoghi della sua opera parla metaforicamente di un cuore transparent comme le cristal, si può dire che quello di Rodari sia un personaggio russoviano al quadrato: la particolarità di questo angelico bambino consiste infatti nell’avere membra che lo sguardo penetra «[…] come attraverso l’aria e l’acqua» e un cervello parimenti trasparente cosicché «ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte, quando gli facevano una domanda, prima che aprisse bocca» (Rodari 1962, p. 85). L’incapacità, da parte del bambino, di nascondere un segreto o mentire è una virtù universalmente ammirata, che gli procura l’amicizia e la simpatia di tutti. Sennonché, un giorno, il paese dove Giacomo vive cade in balia di un «feroce dittatore», il quale impone un regime di terrore e violenza, fucilando i ribelli e facendo sparire – «senza lasciar traccia», scrive Rodari: e abbiamo visto quanto il concetto di traccia sia importante, via Benjamin, quando si parla di trasparenza – coloro che osano protestare.
224Adottando i toni e le forme della favola, il tema del dispotismo torna dunque qui a manifestarsi in stretta connessione con quello della trasparenza. Gli strumenti attraverso cui le dittature mantengono la presa sulla società richiedono infatti, come poi ricorderà anche George Orwell nel suo celebre 1984, un controllo assoluto e una totale assenza di segreti, in modo che niente possa sfuggire alla macchina poliziesca: «La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze. Ma Giacomo non poteva tacere. Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui: egli era trasparente e tutti leggevano dietro la sua fronte pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno» (Rodari 1962, pp. 85-86). Così il despota deve trovare il modo di neutralizzare la pericolosa presenza parlante del bambino, potenzialmente sovversiva perché «di nascosto, poi, la gente si ripeteva i pensieri di Giacomo e prendeva speranza» (Rodari 1962, p. 86). Lo fa dunque arrestare e gettare in una prigione buia. Ed è qui che si introduce, nella storia, il tema della cella di vetro. Una volta che il ragazzino viene incarcerato, infatti, accade una cosa straordinaria:
I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri (Rodari 1962, p. 86).
225Che Rodari conoscesse o meno l’opera di autori come Černyševskij e Zamjatin – è molto probabile che avesse familiarità con la casina di cristallo di Palazzeschi – è tutto sommato secondario; ciò che conta è che qui la sua favola rovescia completamente l’immagine benthamiana di una galera panottica concepita per spiare il prigioniero. Quel che lo scrittore lombardo immagina, infatti, è l’esistenza di un prigioniero di vetro la cui trasparenza sia in grado di modificare e trasformare il paesaggio circostante.
226In questo modo, gli apparati di regime non solo non hanno modo di esercitare il proprio controllo sul detenuto, ma finiscono per soccombere al loro stesso meccanismo repressivo: «Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire» (Rodari 1962, p. 86). La morale contenuta nell’apologo rodariano – non si può imprigionare la verità, che risplende sempre: «Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano» (Rodari 1962, p. 86) – celebra la gloriosa tradizione italiana degli scrittori dal carcere (da Pellico a Gramsci, ai condannati a morte della resistenza), offrendo al contempo una visione decisamente ottimista del mito della trasparenza. Nella favola dello scrittore lombardo, infatti, persino una prigione si trasforma in un palazzo radioso grazie alle straordinarie qualità di chi vi è recluso. Tuttavia, la filosofia, l’arte, la letteratura di quegli anni insegnano che se invece del puro Giacomo nella gabbia si trova una figura lordata di immonde colpe, gravata del peso della storia, o anche solo un uomo privo della luce spirituale che il bambino è in grado di irradiare, ogni traccia della sua umanità può facilmente risultare opacizzata e cancellata dalle lisce e gelide pareti che lo rinchiudono.
227Un anno prima della pubblicazione di Favole al telefono, nell’aprile del 1961, uno dei più famigerati criminali della storia moderna rimane a lungo esposto allo sguardo giudicante dell’intero pianeta mentre si trova all’interno di una cella di cristallo: mi riferisco naturalmente ad Adolf Eichmann. Come noto Eichmann fu rapito nel 1960 a Buenos Aires dagli agenti del Mossad e poi segretamente trasferito in Israele per essere processato. Citando le parole della più illustre cronista di quell’evento, Hannah Arendt, durante tutto il dibattimento l’imputato si trovò «[…] rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo […]» (Arendt 1963, p. 13). Per tutelarlo soltanto, viene da chiedersi, o anche per mostrarlo, cioè per rivelarlo? Alla protezione fisica dell’imputato non corrisponde infatti una sua invisibilità: al contrario, la Glaszelle trapezoidale in cui si trova rinchiuso magnifica come una lente di ingrandimento la sua natura ripugnante. L’aspetto dimesso, il fastidioso nervosismo, il pallore cadaverico, le labbra sottili, le idee ordinarie e banali di Eichmann sono elementi su cui Arendt ha scritto pagine celeberrime. Recluso nella trasparenza, l’ex gerarca nazista sembra ormai un «fantasma nella gabbia di vetro», per riprendere il titolo di un capitolo del bel volume di Alois Prinz sulla filosofa tedesca (Prinz 1998, pp. 147-156; per il passo originale cfr. Arendt 1963, p. 17).
228Ciò che maggiormente infastidisce di questo triste, esangue ectoplasma è il suo tono di voce: una vocetta che i documenti audio d’epoca ci restituiscono come irreale, distorta, «[…] perché il corpo che l’aveva emessa», nota sempre Hannah Arendt, «era presente ma sembrava esso stesso spersonalizzato dalle spesse pareti della gabbia di vetro in cui era rinchiuso […]» (Arendt 1963, p. 98). Come un «Giacomo di cristallo» alla rovescia, quello che fu un potente SS-Obersturmbannführer è ormai ridotto a blaterare una verità – la sua pietosa verità – talmente mostruosa da non poter trovare ascolto presso nessuno. Rileggendo in quest’ottica un evento centrale del Dopoguerra quale fu l’Eichmann-Prozess è quantomeno curioso osservare come la trasparenza abbia sul prigioniero un duplice effetto: lo smaschera, certo, mettendone a giorno gli aspetti più infimi, ma anche lo de-realizza, lo smaterializza, o, come scrive Arendt, lo «spersonalizza». La Glaszelle che avrebbe dovuto garantire l’incolumità dell’imputato diventa dunque il dispositivo ideale per portare alla luce le ragioni della sua condanna. È insomma, per lui, un’autentica trappola di cristallo. Non più umano, Eichmann è ormai una larva schiacciata sotto l’incommensurabile peso del giudizio universale (nel doppio senso della parola), uomo-pesce galleggiante in un acquario che deforma e stravolge i lineamenti e i suoni, isolandolo fisicamente, intellettualmente, empaticamente non solo dai suoi giudici ma anche dal resto della specie.
229Per capire quanto questa immagine del gerarca nella gabbia di vetro abbia potentemente influenzato l’immaginario di quegli anni, basti ricordare il bisticcio temporale che la lega alle celebri glass boxes di Francis Bacon. Poco importa che le gabbie trasparenti dei quadri di Bacon precedano cronologicamente, e quindi in qualche modo annuncino, il processo Eichmann (Sylvester 2003, p. 23); quel che conta è appunto il nodo, l’entanglement dell’immaginario che sovrappone l’uomo-fantasma nazista a molte delle figure straziate e urlanti presenti nell’opera del pittore dublinese. Il caso più celebre è naturalmente rappresentato dalle tele che ritraggono, in vario modo ma con delle costanti stilistiche ricorrenti, la figura di Innocenzo X, il papa barocco per eccellenza38. Bacon riprende l’immagine del pontefice dipinta da Velázquez, una sua vecchia ossessione iconografica, ma la costringe entro un cubo diafano, una prigione di geometriche trasparenze che a un tempo isola il soggetto e ne stravolge ogni tratto, sfigurandolo completamente, ossia nullificando lo stesso sembiante umano e le sue possibilità espressive. Quel voluminoso corpo senza occhi – «i personaggi baconiani», nota Franco Speroni, «hanno orbite vuote o cancellate dalla deformazione delle teste disossate, dalla loro traduzione da forma in materia» (Speroni 1995, p. 46) – è uno spettro il cui urlo bestiale non può attraversare la parete di cristallo, e che quindi lo consuma dall’interno fino a disgregarne la forma: «sparizione di tutte le forme», per citare ancora Ejzenštejn (cfr. supra, § Gli indifferenti (gli spietati)). Tra le spesse, lisce e dure pareti della gabbia che lo contiene, l’essere umano Giovanni Battista Pamphilj perde di consistenza, come dileguandosi sottovuoto: ciò che resta è solo l’ectoplasma «spersonalizzato» (Arendt) di una creatura dissolta, volatilizzata in una prison de verre.
230Innocenzo X del resto non è il solo recluso nella trasparenza irrespirabile della pittura di Bacon. Lo sono anche i cosiddetti testimoni indifferenti che figurano in molte delle sue tele, amici, conoscenti del pittore o personaggi anonimi colti in una condizione di isolamento disperata e disturbante. Intrappolate nell’«orrore di un vetro levigato» (sempre Ejzenštejn), queste figure ridotte ad ammassi di carne martoriata distolgono lo sguardo dalle sofferenze del loro prossimo, oppure vi assistono senza mostrare alcun interesse per la sua sorte. Penso per esempio a un’opera terribilmente angosciante come After Muybridge – Study of the Human Figure in Motion – Woman Emptying a Bowl of Water and Paralytic Child on all Fours (Da Muybridge – Studio di figura umana in movimento – Donna che rovescia una ciotola d’acqua e bambino paralitico carponi), tela del 1965 conservata presso lo Stedelijk Museum di Amsterdam39. Qui Bacon assembla due diverse immagini di uno dei padri della fotografia, Eadweard Muybridge, accostando la figura di un bambino paralitico che gattona su una specie di struttura circolare a quella di un essere dalle sembianze vagamente femminili alle sue spalle – forse la madre? – anch’essa appollaiata sullo stesso anello metallico. Chiusa in una glass box, assorta nel compito di versare liquido da una ciotola – gesto che, sia detto per inciso, secondo gli interpreti rimanda a riti della mitologia irlandese, ma che per noi rinnova anche il più volte citato tema dell’acqua e dell’acquario – la donna non sembra neppure notare la presenza del piccolo: nessuna relazione è possibile tra loro.
231Su questi aspetti del lavoro di Bacon è ancora molto interessante leggere un contributo del grande iconologo John Berger, un testo del 1972 provocatoriamente intitolato Francis Bacon e Walt Disney:
È opinione diffusa che l’opera di Bacon esprima la solitudine angosciosa dell’uomo occidentale. Le sue figure sono isolate in teche di vetro, in arene di puro colore, in stanze anonime, o addirittura semplicemente in se stesse. Il loro isolamento però non impedisce che siano esposte agli sguardi. (La forma del trittico, in cui ogni figura è isolata nella sua tela, pur essendo visibile alle altre, è sintomatica). Le figure sono sole, ma non hanno alcuna privacy. I segni che portano addosso, le loro ferite, sembrano autoinflitti. Ma autoinflitti in un senso molto particolare. Non da un individuo, ma dalla specie, l’Uomo – perché, in quelle condizioni di solitudine universale, distinguere fra individuo e specie diventa privo di senso […]. Le teche di vetro, in cui sono rinchiusi gli amici o il Papa, fanno pensare alle gabbie utilizzate per studiare i comportamenti degli animali (Berger 1980, pp. 127-128).
232L’immagine dell’uomo esposto, vetrinizzato e in ultima istanza disumanizzato dalle pareti di vetro che lo ingabbiano rivela non solo le profonde connessioni esistenti tra il processo Eichmann e le tele di Bacon, ma più in generale la condizione di chi, prigioniero nella trasparenza, si trova a essere respinto fuori dal perimetro della propria specie, perduto al mondo e a se stesso.
233È interessante osservare come numerosi scrittori del Novecento abbiano letto in questo senso il lavoro di Bacon, cogliendo proprio nel tema della gabbia trasparente, in particolar modo in riferimento alla figura di Innocenzo X, un elemento decisivo. Per limitarci al caso dei poeti italiani, pensiamo all’opera di Giovanni Testori, il quale già negli anni Sessanta interpreta il papa baconiano come una sorta di bestia luciferina, intrappolata in un parallelepipedo di cristallo:
Urla,
Innocenzo;
graffia
l’insulsa paternità dei secoli;
batti le nocche,
gli zoccoli di capra
contro la lastra immobile,
il cristallo che t’approssima
e allontana […] (Testori 1965, p. 369).
234Ritroviamo qui, ancora una volta, l’idea che la lastra di vetro insieme avvicini e separi, fingendo di stabilire un contatto quando invece isola, crea una barriera (in questo caso tra il soggetto e la propria natura umana). Di minore impatto lirico-drammatico, ma comunque altrettanto significativo, un componimento di Nelo Risi risalente ai primi anni Ottanta. Il titolo è Tutto distorto con cura, e il riferimento alla pittura di Bacon è esplicito:
[…] larve in poltrona trafitte sulla tela
nel chiuso di una stanza (cubo sontuoso
sala anatomica o carlinga franta di un aereo)
bocche spalancate grumi nodi
di mandibole allo scatto o l’urlo muto
di olocausti stupefatti, e come effetto
un’istantanea mossa da scosse epilettoidi
(l’invenzione di Cerletti)
è la carne esibita
un campionario di forme corrose
con l’uomo in gabbia
fragile
mutevole […] (Risi 1983, p. 75)
235«Fragile» e «mutevole», questo «uomo in gabbia», contiguo ma inattingibile, ridotto a un cumulo di «carne esibita» e terremotata da «scosse epilettoidi», orribilmente sfigurato dalla pressione dello spazio che lo imprigiona («forme corrose»), si dissolve finalmente nel proprio «urlo muto», perché il suono, lo sappiamo, non passa attraverso il cristallo. Dileguando nel terribile perimetro-acquario che insieme lo ingabbia e lo espone ai nostri occhi, il soggetto si ritrova così «bloccato dal terrore contro il vetro», come scrive un altro poeta, Corrado Costa, nella sua Lode a Francis Bacon, e inutilmente preme le proprie mani «impotenti-evanescenti» contro le pareti della gabbia (Costa 2007, p. 20).
236Ciò che questi autori, peraltro estremamente diversi l’uno dall’altro per poetica e ideologia, ben colgono è che non c’è niente di titanico nelle figure baconiane, niente di michelangiolesco nei suoi spettri-prigionieri. La straordinaria malvagità non rifulge attraverso le pareti di cristallo, nessuno spazio per il faustismo romantico e più in generale per il tradizionale alone retorico-emotivo che circonda l’idea di potere. Persino nel caso di un gerarca nazista, quel che il vetro rivela non è l’eccezionalità – come nel caso del virtuoso Giacomo di cristallo – bensì una desolante ordinarietà. Che si tratti di papi o di uomini comuni, la condizione di questi reclusi è la medesima: balbettanti o affatto mute, impossibilitate all’azione perché le loro membra sono ormai «impotenti-evanescenti», si può dire che queste macchie umane dissolte nella trasparenza quasi non esistano più. La loro specie non le riconosce, le ha rifiutate.
I trapassati
Nella chiesa del porto, la più antica dell’isola, vi sono delle sante di cera, alte meno di tre palmi, chiuse in teche di vetro. Hanno sottane di vero merletto, ingiallite, mantiglie stinte di broccatello, capelli veri, e dai loro polsi pendono minuscoli rosari di vere perle.
Elsa Morante, L’isola di Arturo
237Se c’è una categoria di uomini che nella tradizione occidentale ha sempre vissuto nella trasparenza, ben prima della creazione del Crystal Palace, questi sono i morti. Non tutti i morti, naturalmente: quelli illustri, quelli degni di culto. Le urne in cui si trovano racchiusi corpi – o frammenti di corpi – offerti alla venerazione del popolo ossessionano la nostra civiltà da secoli, dal reliquaire monstrance medievale alla teca in vetro che da un paio di anni consente, a San Giovanni Rotondo, l’ostensione permanente del corpo di Padre Pio. Ma più in generale l’esposizione del cadavere è un fenomeno che determina in profondità il nostro rapporto con i defunti, i quali ancora oggi compiono il loro ultimo viaggio su quello che Giorgio Caproni in una famosa poesia chiama il carro di vetro. Neppure questo elemento era sfuggito al genio di Ejzenštejn, il quale, in uno dei suoi appunti per il progetto Glass House (settembre 1927), parlava di «funerali con una bara di vetro. / Un peu traditionel, ma non importa, il trasporto di questa bara fatto da figure scure, sopra il ballo in bianco» (Ejzenštejn 1979b, p. 446; cfr. anche p. 451).
238Occorre qui ricordare l’antichissimo rapporto che lega il cristallo alla dimensione mortuaria. Sia per la sua lucentezza, e talora trasparenza, che per la sua perfezione geometrica, il cristallo rappresenta da millenni un simbolo di compiutezza, ordine, regolarità. Hegel nell’Estetica, riflettendo sull’ossessione degli egizi per la morte, e in particolare sulla loro determinazione a ottenere un’eternità senza tempo, sottolinea come la forma cristallina risponda a precise esigenze cultuali oltre che culturali. L’intuizione hegeliana viene poi ripresa e approfondita da illustri studiosi dell’arte austriaci e tedeschi tra Otto e Novecento: ricordo per esempio le riflessioni di Alois Riegl e Erwin Panofsky, il quale in particolare insiste sul concetto di dimensione stereometrico-cristallina nell’arte egizia (Panofsky 1925, p. 186). Il tema del cristallo come simbolo di un ordine eterno e perfetto diventa poi un elemento fondante dell’Espressionismo tedesco, tra i cui precursori, si è detto, rientra Paul Scheerbart40. Ma ancora un protagonista della filosofia del Novecento come Ernst Bloch, nel suo capolavoro Il principio speranza, sosterrà che «nella geometrizzazione fanatica dell’intera arte egizia si esprime la sua utopia architettonica: il cristallo della morte come presentita perfezione, riprodotto cosmomorficamente» (Bloch 1959, p. 835). Questo aspetto dell’aspirazione alla perfezione, alla compiutezza è dunque centrale per comprendere anche il moderno permanere del corpo dei defunti in spazi cristallini, purché lo si legga in relazione con un altro mito, non meno importante e non meno antico: quello dell’onniveggenza divina.
239La dimensione panottica non è infatti una prerogativa soltanto della modernità. Ben prima e con ben altra efficacia dei carcerieri immaginati da Bentham, il Dio biblico ha sempre avuto il potere di vedere ogni cosa e scrutare dappertutto, persino sottoterra, come scrive in conclusione di uno dei suoi poemi più famosi – La coscienza ne La Leggenda dei secoli (1859) – Victor Hugo. Nei versi dello scrittore francese Caino, deciso a sottrarsi allo sguardo giudicante di Jahvè, tenta una lunga quanto inutile fuga dal Creatore, prima riparando in una tenda, poi facendo costruire una città fortificata, infine convincendo i propri familiari a scavare una profonda tomba nel terreno dove trovare, questa la sua speranza, rifugio. Seduto nel sepolcro, il cui ingresso viene sbarrato da un pesante masso, il ramingo e fuggiasco Caino si illude di essere finalmente in salvo, ma nell’oscurità l’implacabile occhio di Dio torna a visitarlo. «L’œil était dans la tombe, et regardait Caïn», l’occhio era nella tomba e guardava Caino, scrive Victor Hugo nel verso che conclude il poema. Per lo sguardo onniveggente dell’Altissimo, insomma, non c’è tomba che non sia totalmente trasparente. Con l’avvento della civiltà del vetro, questo ruolo di guardiano si è trasferito da Dio agli uomini, acquisendo di fatto uno straordinario rilievo socio-politico. Le personalità più in vista devono essere tenute sott’occhio, persino e anzi soprattutto quando giacciono in un rigido avello, per dirla con un’immagine di Tommaso Campanella.
240Infine, un terzo aspetto, connesso alle finzioni che la trasparenza è in grado di generare, rinvia alla più volte evocata dimensione della fiaba. La figura della Bella Addormentata gioca in questo senso un ruolo importante, ma il riferimento principale è quello al personaggio di Biancaneve. Ricordiamo che nella versione dei fratelli Grimm la fanciulla, creduta morta per aver ingerito il frutto avvelenato datole dalla strega, viene adagiata in una bara di cristallo realizzata dagli inconsolabili sette nani. Si tratta di a coffin of glass and gold, una bara di vetro e oro, come recita la didascalia del film disneyano del 1937. Disney non è del resto il primo a portare al cinema questa scena, presente già in una versione con attori della storia, datata 1916 e realizzata dal regista americano James Searle Dawley, e poi ripetuta in tutte le successive trasposizioni della vicenda, con qualche variante (nell’hollywoodiano La vera storia di Biancaneve del 2001, per esempio, la bara trasparente è di ghiaccio). Così si legge nel racconto dei fratelli Grimm:
Biancaneve sembrava dormire, non aveva perduto i suoi colori, ed era tanto bella che i buoni nanetti non vollero seppellirla nella terra umida. La vegliarono per sette giorni, poi un nano ebbe un’idea.
– Costruiamo una bara di cristallo, per la nostra Biancaneve, così potremo vederla sempre!
La bara di cristallo venne costruita e portata in cima alla montagna; sul coperchio, a lettere d’oro, c’era il nome: biacaneve figlia di re.
[…] Biancaneve sembrava dormire, nella bara di cristallo, il viso bianco come la neve e rosso come il sangue incorniciato dai capelli color ebano. Bella come quando era viva (Grimm 1812, p. 16).
241Il dolce sembiante della fanciulla distesa nella bara di cristallo, «bianco come la neve e rosso come il sangue» secondo un’iconografia dell’innocenza attestata in tutte le tradizioni popolari europee, comprese quelle regionali italiane, attirerà, come noto, l’attenzione del bel principe, che puntuale giunge a salvare la casta fanciulla (maiden, nella didascalia del film). Ma a salvarla da cosa, esattamente? Da un sonno che altrimenti sarebbe eterno, certo. Ma non solo: anche da quel particolare tipo di morte rappresentato da una sventurata condizione di perenne illibatezza. Se, per riprendere la tradizione hegeliana attraverso le parole di Bloch, «il cristallo della morte» rappresenta un elemento di «perfezione presentita» (Bloch 1959, p. 837), nel caso specifico di Biancaneve la perfetta purezza coincide con la condizione virginale della ragazza. Il glass coffin, il coperchio trasparente rappresenta dunque il diaframma che sancisce, ancor più che la morte di Biancaneve, la sua separazione dalla vita. Una volta rimosso, la maiden potrà diventare bride, sposa, scoprendo l’amore e il sesso con il bel principe. Ma al contempo questa salvezza, questo reimmettersi nel fluire incessante dell’esistenza prelude al suo invecchiamento, ossia a quel decadimento fisico da cui la bara di cristallo la preserverebbe.
242I tre elementi sin qui individuati, ossia il senso di perfezione connesso alla permanenza del corpo del defunto nel cristallo, la necessità di esporre e, insieme, sorvegliare il cadavere, le finzioni favolose connesse all’idea del ritorno alla vita fanno da lungo tempo parte delle strategie di governo dei popoli. Basti pensare a come si sono andate moltiplicando, nel corso del Novecento e ancora oggi, le tombe trasparenti attraverso le quali stabilire un contatto visivo diretto con il trapassato, specialmente se questi è un leader politico, degno di venerazione da parte del popolo – il tema del culto della personalità è oggi di estrema attualità, come e più di tremila anni fa – ma potenzialmente ancora pericoloso, e dunque da custodire e vigilare adeguatamente. Il caso più esemplare in tal senso è costituito dalla salma mummificata di Lenin e dalla controversa vicenda del progetto di un sarcofago trasparente in cui conservarla.
243Siamo in pieno periodo di passaggio dalle utopie alle distopie della trasparenza architettonica quando Lenin muore, nel gennaio 1924. La vedova, la pedagogista Nadežda Konstantinovna Krupskaja, desidererebbe che in onore del marito venissero costruite strutture pubbliche, asili, scuole e ospedali, ma Stalin ordina di imbalsamare il corpo (sono questi, lo ricordiamo, gli anni della scoperta della tomba di Tutankhamon)41. Viene allora indetta una gara per realizzare il sarcofago che ospiterà la preziosa reliquia. Ne esce vincitore l’architetto avanguardista russo Konstantin Stepanovič Melnikov, con un progetto degno di un faraone: una piramide di cristallo a quattro facce, in perfetta continuità con l’ossessione egizia per la perfezione delle compatte forme cristalline42. Vale la pena ricordare inoltre che Melnikov, architetto celebre per la sua visionarietà, possedeva una traduzione manoscritta della Stadtkrone di Taut e della Glasarchitektur di Scheerbart, e che con ogni probabilità partì proprio da suggestioni scheerbartiane per progettare il sarcofago (Schiavoni 1982, n. 42, p. 210). Lui stesso poi evidenzia una stretta relazione tra il suo lavoro e il mondo delle fiabe, dichiarando di immaginare la teca come «un cristallo con un radioso gioco di luce interna, allusione al racconto della Tsarevna addormentata» (citato in Starr 1978, p. 81*). Il riferimento è qui a Spyashaya Tsarevna (Tsarevna addormentata, 1832), una riscrittura in versi de La bella addormentata di Perrault e di Rosaspina dei fratelli Grimm, opera del poeta romantico russo Vasilij Žukovskij, peraltro fraterno amico di Puškin. Per diretta ammissione dell’architetto stesso, dunque, la storia della bella addormentata è servita da ispirazione per la creazione della bara trasparente di Lenin; ancora a distanza di quarant’anni, nel 1967, Melnikov ribadirà che quanto dichiarato circa l’influenza sulla sua opera dei versi di Žukovskij era tutt’altro che una boutade, e doveva anzi venir preso alla lettera (Starr 1978, p. 249).
244Esiste dunque una stretta connessione tra dimensione del fantastico e attese messianiche della rivoluzione che merita di essere analizzata. Per ben capire questo passaggio è molto utile leggere il capitolo conclusivo della ricca monografia che S. Frederick Starr ha dedicato all’opera di Melnikov, intitolato Architecture against Death, architettura contro la morte. Come Starr argomenta con chiarezza, la Rivoluzione d’Ottobre fu percepita da alcuni protagonisti di quella stagione come un evento talmente dirompente da poter addirittura cambiare, attraverso il progresso e la tecnologia, le regole del mondo biologico. Tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti c’era insomma chi si chiedeva se tra gli obiettivi del comunismo non dovesse esserci anche quello di infrangere le barriere della morte, causando così il collasso di tutte le credenze religiose. Ammaliato da queste attese soteriche, Melnikov immagina che Lenin non sia definitivamente morto, ma che giaccia incorrotto in attesa che il bacio del suo principe, ovvero il proletariato rivoluzionario, intervenga a richiamarlo alla vita, donandogli l’immortalità. Le implicazioni politiche sottese (e per ovvi motivi taciute) a questa lettura sono evidenti: se, come sostenuto da molti, ubi Lenin, ibi Jerusalem, da quando il leader bolscevico si è addormentato la spinta vitale della rivoluzione, la sua purezza ideologica è a rischio, ma non per questo è veramente, definitivamente morta. Melnikov intende insomma, col suo sarcofago, «dimostrare che Lenin, la luce che illuminava l’ordine rivoluzionario, sarebbe per sempre apparso al popolo attraverso la perfezione intramontabile di un cristallo» (Starr 1978, p. 249*).
245Tuttavia, ancora una volta, il sogno si rovescerà rapidamente in incubo. La perfetta, pura e fatata struttura che Melnikov ha in mente viene bocciata dalla commissione incaricata di giudicare il progetto. Dopo cinque diverse versioni del sarcofago, ne viene approvata una molto meno visionaria e innovativa; si sceglie una forma semplice e regolare, rettilinea, assai più conservativa da un punto di vista del design e che di fatto smorza la natura cristallina della teca. Ad aggravare le cose c’è poi il fatto che il catafalco funerario viene inserito in un monumentale mausoleo di granito rosso e nero, contro il quale Bruno Taut si scaglierà con veemenza, paragonandone polemicamente l’interno agli «atri snob dei cinema delle grandi città capitalistiche» (affermazione riportata da Kreis 2001, p. 171). L’allusione alla civiltà mediale che proprio in quegli anni andava affermandosi risulta assai pertinente: il mausoleo è infatti non solo il luogo dove si conserva il cadavere della rivoluzione stessa, opportunamente mummificato e museificato, ma anche una perfetta tribuna per le parate e le sfilate militari, ovvero per il tipo di propaganda spettacolare che gli apparati di governo intendono alimentare. La torsione violenta imposta al progetto di una civiltà della trasparenza sfrenatamente utopica, vitale e fiabesca può qui essere facilmente misurata: il cristallo chiamato ad annunciare la sconfitta della morte si rovescia nella ben più sordida realtà di un vetro funzionale alle strategie purovisibiliste del nascente totalitarismo. Lenin – ossia la Rivoluzione – non solo non deve tornare, ma attraverso la bara trasparente il suo corpo eternato potrà d’ora innanzi essere esibito e insieme controllato, sorvegliato, perché, da morto, non si renda troppo pericoloso.
246Dopo Lenin, numerosi altri leader sono stati imbalsamati ed esposti in teche trasparenti all’interno di mausolei ispirati a quello moscovita, secondo una logica del tutto simile. Pensiamo ai casi di Mao Zedong, le cui spoglie giacciono in una bara di cristallo custodita nel mausoleo a lui dedicato in piazza Tienanmen, o a Hugo Chávez, il cui corpo è conservato in uno scrigno di vetro presso il Museo de la Revolución «para que quede abierto eternamente», perché sia eternamente visibile al popolo, come dichiarato da Nicolás Maduro, nuovo Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Tutto questo risponde a scopi molto pratici, di tipo politico-propagandistico, e insieme rientra in una sfera di realtà magica che ha qualcosa di arcaico, superstizioso. Se il leader coreano Kim Jong-il, morto nel 2011, si trova ora in un sarcofago di vetro sapientemente solcato da luci filtrate in modo da conferire al suo volto un gradevole colorito roseo, è bizzarro il caso di Evita Perón, in parte principessa delle favole e in parte figura circonfusa di un alone mistico – Santa Evita è il titolo di un fortunato romanzo di Tomás Eloy Martínez – il cui corpo, a quanto pare immune all’acido e persino a prova di fuoco, è ora conservato in una bara trasparente e tuttavia invisibile, in quanto collocata all’interno di una sorta di tomba-bunker posta sei metri sottoterra.
247Spesso poi la disposizione coreografica del cadavere – la sua vetrinizzazione, potremmo dire – rappresenta un elemento decisivo, amplificando la funzione della trasparenza, chiamata ad attribuire un surplus di valore al corpo del defunto. È il caso di Mao, ricoperto da una bandiera del Partito comunista cinese, o del rivoluzionario vietnamita Ho Chi Minh, morto nel 1969. Sul corpo imbalsamato di Uncle Ho, come gli americani lo chiamavano durante la guerra del Vietnam – il quale peraltro aveva esplicitamente richiesto di essere cremato – ha scritto un brano interessante il poeta Corrado Costa nel suo testo Entorse: Guerra e morte:
“France-Soir”: La spoglia di Ho Chi-minh è esposta in una bara di vetro. Il presidente è disteso sopra un velluto porpora, la testa riposa su un cuscino bianco. Egli ha il suo leggendario vestito; ai piedi del catafalco, i sandali del presidente, fatti con un pezzo di copertone e quattro strisce di camera d’aria, sono stati messi, come una reliquia, in una scatola di vetro (Costa 1973, p. 39).
248Descrivendo accuratamente la fotografia, tratta da un noto rotocalco transalpino, Costa sottolinea l’allestimento di tipo teatrale che caratterizza questa immagine. Il corpo tassidermizzato di Ho Chi Minh viene separato dai suoi sandali, a loro volta racchiusi in una scatola di vetro, così da rappresentare una sorta di reliquia a sé stante. In realtà essi sono qualcosa di più, sono una specie di sineddoche dell’intero corpo del leader, il cui carisma risulta, in un certo senso, esponenzialmente moltiplicato dalla presenza di quelle povere calzature, chiamate a simboleggiare la sua straordinaria forza d’animo derivante da una grande semplicità e vicinanza al popolo. Siamo qui, davvero, tornati a una rappresentazione sacralizzante del defunto secondo il modello narrativo-devozionale più classico, quello dell’attributo iconografico del santo.
249I leader politici non sono del resto i soli a godere di questi postremi soggiorni nella trasparenza, che da tempo ospita anche figure altrettanto autorevoli sul piano sociale, come i protagonisti del mondo dello spettacolo – tra i primi ci fu Enrico Caruso, il cui corpo imbalsamato venne esposto per anni in una bara di vetro – e noti criminali. Molti degli elementi sin qui incontrati si ritrovano in una pagina del romanzo pulp All that glitters, tutto quello che scintilla, dello scrittore e attore americano Thomas Tryon. Il libro, di modesta qualità letteraria, si inserisce nel fortunato filone della narrativa che scava nei miti di Hollywood per svelarne i lati più reconditi e impresentabili; ne sono protagoniste cinque attrici cinematografiche, la prima delle quali, Babe Austrian, è un incrocio tra Jean Harlow e Mae West, ossia un sex symbol provocante e trasgressivo. La sua stagione d’oro coincide con gli anni Trenta, quando diventa famosa per le sue battute esplicite, l’ondeggiare sinuoso dei fianchi e la folta capigliatura biondo platino. Quarant’anni dopo, le frequentazioni poco raccomandabili della procace Babe le procurano una fine violenta. Dimenticata dai più, viene tumulata nel cimitero delle star, l’Hollywood Memorial, oggi noto come Hollywood Forever Cemetery, naturalmente in una bara di cristallo. Nel libro la voce narrante, l’ex attore fallito Charlie Caine, così descrive la sepoltura della donna:
All’interno della bara di cristallo giace la nostra Eroina, imbalsamata e composta come una regina. Indossa una gonna di raso color avorio […], le sue trecce bionde sono arricciate in modo lussureggiante, porta un diadema di strass e – «solo per l’effetto» – un décolleté a tacco alto ai piedi. Forse le sue dieci dita si arricceranno, mi chiedo, come quelle della Malvagia Strega dell’Est quando la casa di Dorothy le precipita addosso? La bara scricchiolerà quando la caleranno nella fossa? Ma, naturalmente, qui non c’è nessuna fossa. All’Hollywood Memorial Park non ti danno una fossa – non certo a quelle come Babe Austrian. La bara troverà eterno riposo nel Mausoleo […]. E poi perché, potreste giustamente chiedere, una bara di cristallo? Si tratta forse della Bella Addormentata, di Biancaneve, di Evita Perón? Dissimulo un sorriso, pensando a Biancaneve imprigionata sotto vetro, in attesa del bacio d’amore che la riconduca alla vita. Ma nessun bacio potrà mai portare indietro questa bellezza; non c’è rimasto nemmeno un po’ di fiato nella vecchia imbrogliona. Tutta questa faccenda è stata una favola, una sciarada nel buon vecchio stile di Hollywood (Tryon 1986, p. 7*).
250Se abbiamo scelto di citare questo brano è perché troviamo qui esemplarmente condensati tutti i temi visti sinora: l’aspirazione a una suprema compostezza mortuaria, la dimensione della fiaba (Il mago di Oz, Biancaneve, La bella addormentata), quella politico-religiosa (la Santa Evita di Martínez). Il tutto condito da una buona dose di cinismo e, ovviamente, di ironia: il mito del glamour hollywoodiano vi risulta dissacrato e il bacio del principe che riscatta Biancaneve alla vita è sarcasticamente deriso, così come parodico appare l’implicito riferimento alla dimensione virginale, essendo qui la giovane maiden sostituita da una spregiudicata donna di mondo, deceduta in modo violento. Sulla perfezione, la purezza, la sognante poeticità del cristallo possiamo insomma mettere, è proprio il caso di dirlo, una pietra sopra.
251Resta tuttavia un importante quesito: perché mai ogni relazione visiva con il cadavere al di là del vetro risulta tanto coinvolgente, al punto di trasformarsi talora, come nel caso di Charlie Caine rispetto a Babe Austrian, in una vera e propria ossessione? C’è qualcosa di paradossale nel rapporto fra chi resta e chi è andato, ma viene preservato nella trasparenza. Il punto è che se nelle relazioni tra vivi le lisce e gelide pareti di vetro sono spesso causa di esibizionismo, indifferenza, distacco, violenza, nell’interazione con i cadaveri le cose cambiano. Le bare e le teche di cristallo sembrano infatti ingenerare dei meccanismi di identificazione che spesso inducono i vivi a provare ammirazione, empatia e talora persino invidia per il defunto vetrinizzato. Nella sua raccolta Il catalogo della gioia (2003) la poetessa Antonella Anedda ha dedicato un testo, intitolato Teche, alle spoglie del più venerabile artista della nostra tradizione nazionale, Giotto. In questi versi l’asettica teca di plexiglass contenente le ossa del pittore è vista come un luogo di memoria, emotivamente coinvolgente in quanto consente di riattivare una presenza che il trascorrere del tempo ha cancellato. Anedda scrive pertanto di «respiri che ruotando nel vetro / riempiono di ardore quello spazio / dicendo ciecamente: / amore nostra nebbia che dirada / resisti offusca col tuo fiato questa teca» (Anedda 2003, p. 52).
252Su questo tema dell’empatia ha costruito una parte consistente della sua provocatoria opera uno dei più celebrati artisti contemporanei, il britannico Damien Hirst, che dal 1991 lavora con la formaldeide per creare una sorta di zoo di animali imbalsamati conservati dentro vetrine minimaliste. Le creature di Hirst, come esemplarmente nel caso delle mucche nell’opera Mother and Child (Divided) (1993)43, fluttuano nella teca a qualche centimetro dalla base, così da apparire senza peso, «like ballet dancers», come ballerine, secondo quanto l’artista stesso scrive sul suo sito personale. Ancora una volta la trasparenza richiama l’immagine dell’acquario – come particolarmente evidente nell’opera intitolata The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, che espone uno squalo tigre tassidermizzato44 – e quello della bacheca/prigione: non a caso Hirst ha dichiarato più volte di aver preso spunto, oltre che dalle scatole di Kurt Schwitters e Joseph Cornell, dagli ambienti perimetrati e asfittici dipinti da Francis Bacon. Il lavoro dell’artista con le strutture in vetro e acciaio, solide e trasparenti a un tempo, si prefigge un punto fondamentale: la creazione di uno spazio in grado di inglobare, quasi risucchiare, oltre agli oggetti (ma diremmo meglio: i cadaveri) che contiene, anche lo spettatore. La ragion d’essere di tali teche è dunque quella di istituire un ambiente capace di creare un forte contatto emotivo-percettivo con chi guarda, costringendolo, se non proprio all’identificazione, almeno alla riflessione sulla natura dei propri pensieri di fronte a queste scioccanti, eppure asettiche, immagini di morte. Inutile sottolineare come, anche in questo caso, il combinarsi della prossimità e insieme dell’inattingibilità di ciò che sta oltre il vetro giochi un ruolo fondamentale.
253A tal proposito risulta interessante confrontare questi lavori di Hirst basati sull’esposizione di animali tassidermizzati con un passo di un importante romanzo italiano del Novecento come L’airone di Giorgio Bassani. In un momento particolarmente tormentato della sua vita Edgardo Limentani, protagonista del libro, rimane scioccato e insieme stregato dalla vista di animali impagliati dietro una «grande lastra di cristallo» nella bottega di un imbalsamatore ferrarese. Non può pertanto impedirsi di accostare il volto al vetro del negozio per ammirare da vicino quel che esso insieme custodisce ed espone:
Fucili da caccia, cartuccere gravide di munizioni, canne da pesca, reti, specchietti per le allodole, richiami da valle, stivaloni di gomma, roba di lana, di fustagno, di velluto, nonché, si capisce, animali imbalsamati, uccelli, i più, ma c’erano anche una volpe, una faina, qualche scoiattolo, alcune tartarughe: stracolma di oggetti disposti in un disordine soltanto apparente, la vetrina gli splendeva dinanzi come un piccolo, assolato universo a sé stante, contiguo ma inattingibile. Lo sapeva bene: c’era la lastra, in mezzo, a renderlo tale. E allora siccome la lastra, quantunque così tersa da risultare pressoché invisibile, gli rimandava qualcosa della sua immagine (appena un’ombra, è vero, però fastidiosa), allo scopo di cancellarla completamente, questa lieve ombra residua, e di illudersi che la lastra medesima non esistesse, si avvicinò ancora di più, fin quasi a toccare il vetro con la fronte, a sentirsi sfiorare il volto da un freddo più freddo di quello dell’aria della sera.
Di là dal vetro il silenzio, l’immobilità assoluta, la pace.
Guardava ad una ad una le bestie imbalsamate, magnifiche tutte nella loro morte, più vive che se fossero vive (Bassani 1968, p. 650).
254Si tratta di una scena chiave del libro, in cui, facendo leva su tutte le caratteristiche peculiari del vetro – la trasparenza, l’algore, lo splendore seducente, il senso di pulizia e infrangibilità – Bassani evoca la vetrina come elemento detonatore dei pensieri repressi del suo personaggio. Vedendo (e non vedendo) la sua immagine riflessa dentro e oltre «il grosso cristallo di divisione» (Bassani 1968, p. 651), Edgardo medita sulla propria prossimità esistenziale con le creature esposte. Non solo le ammira ma, in un certo senso, le invidia. Quegli animali tassidermizzati, «contigui» ma «inattingibili» – non è forse questa, lo si è detto, una caratteristica fondamentale della vetrina? – «vivi di una vita che non correva più nessun rischio di deteriorarsi», eternati nella «perfezione» di una «bellezza finale e non deperibile» (Bassani 1968, p. 651), diventano per lui presenze empaticamente prossime, persino fraterne, e insieme esseri ideali, puri e perfetti perché definitivamente sottratti al teatrino dell’esistenza, alle ingiurie del tempo e del ciclo biologico della vita. Sarà proprio questa illuminazione a suscitare in lui il profondo, e per molti versi non drammatico, desiderio di una «pace» definitiva, avviando così il romanzo verso il suo tragico epilogo.
255Tanto i pensieri suicidi di Edgardo quanto le opere di Hirst ci riportano dunque per molti versi alla concezione egizia, via Hegel, della compiutezza mortuaria garantita dall’elemento cristallino, il quale consente di eternare, insieme con la forma, anche la funzione dell’individuo. Ma non si tratta, evidentemente, di una visione liberatoria, bensì profondamente necrofila nel senso proprio del termine. Per questo la volpe, lo scoiattolo, gli uccelli esposti nella vetrina dell’impagliatore ferrarese, quelle bestie sottratte «per incanto a qualsiasi possibile offesa di oggi e di domani» (Bassani 1968, p. 651), appaiono migliori dei loro simili non ancora deceduti. Più aggraziate, più sane, più radiose, in una parola più vitali. C’è insomma, negli animali come negli uomini tassidermizzati, in questi corpi eternati dai processi di imbalsamazione e resi disponibili allo sguardo altrui dalla trasparenza che li contiene, un’apparenza di surplus di vita che sembra renderli migliori, più degni e più puri: persino invidiabili. Pare dunque che la perfezione non coincida più con il ritorno alla vita, ma con l’abolizione della stessa.
256Su questo aspetto ha scritto una pagina visivamente memorabile il regista Edgar Ulmer in una scena del suo The Black Cat (1934). Protagonista della pellicola, che per molti aspetti richiama l’esperienza del Bauhaus, è non a caso un architetto, Hjalmar Poelzig (interpretato da Boris Karloff). Personaggio inquietante e perverso, Poelzig ama conservare corpi femminili – non sappiamo se sue amanti, o vittime casuali della sua follia – in trasparenti parallelepipedi di vetro. Vestite di una leggera tunica e come addormentate, le sensuali vittime dell’architetto sembrano fluttuare in una sorta di sinistro acquario, come tante splendide sirene sottratte per sempre al disfacimento dei loro corpi mortali. Davvero Biancaneve non sarà mai altrettanto bella, prodigiosamente incorrotta e sana quanto lo fu nel cristallo, prima del fatale bacio del principe. Un mondo vuotato di respiri e riempito di bare di vetro: questo sì che sarebbe un sogno degno della nostra favolosa modernità.
Notes de bas de page
1 Sulla storia del Crystal Palace e degli edifici costruiti a partire da quel modello, dal New Crystal Palace di New York al Glaspavillon realizzato da Bruno Taut per il Werkbund di Colonia, la bibliografia è sterminata. Si rinvia per un sintetico panorama alle pagine di Piggot (2004). Per visualizzare alcune immagini di questi edifici cfr. rispettivamente i siti http://www.greatbuildings.com/buildings/Crystal_Palace.html e http://www.pinterest.com/Flowrale/pavillon-de-verre-bruno-taut/.
2 Con riferimento alle futuribili creature alate immaginate da Edward Bulwer-Lytton in The Coming Race; Or, the New Utopia (La razza ventura, 1871), nel suo fondamentale Storia dell’utopia Lewis Mumford osservava: «Non è forse senza significato che questa nuova gerarchia di angeli industriali sia stata concepita da Lytton nello stesso decennio che vide la costruzione del Palazzo di Cristallo» (Mumford 1922, p. 224).
3 Per questa ragione Banham considera Paxton un «grande pioniere dell’ambiente», e ne loda, più che il Crystal Palace, la Victoria Regia water-lily house, una casa per ninfee acquatiche costruita nel 1850 a Chatsworth.
4 Questa connessione, comunemente accettata, tra Ottocento ed età del gotico è fortemente contestata da Hans Sedlmayr nei suoi studi sulla luce: «Vedere una cattedrale gotica “alla luce” di una costruzione moderna in ferro e vetro, vuol dire mutilarla: sarebbe come spogliare della loro spirituale trasparenza luminosa la Madonna nella chiesa di Jan Van Eyck o l’Arte della pittura di Vermeer» (Sedlmayr 1960, p. 48).
5 Sul tema della serra nella letteratura ottocentesca la bibliografia è vasta; ci limitiamo a ricordare l’eccellente volume di Kohlmaier e Von Sartory (1981, del quale esiste anche una traduzione inglese) e quello di Hamon (1989), di cui segnaliamo in particolare la ricca n. 41, pp. 88-89.
6 Cfr. supra, § Il prodigio nel cuore di Londra.
7 Vale la pena ricordare che la figura della trasparenza ha per gli scrittori naturalisti anche una valenza programmatico-metaforica. Pierluigi Pellini ha scritto pagine molto convincenti sulla metafora zoliana della maison de verre, concludendo che il miglior naturalismo, con Zola in testa, si basa su una vera e propria «poetica della trasparenza che postula una realtà interamente e quasi immediatamente leggibile». Per questo lo studioso avanza l’ipotesi che tutto il romanzo sperimentale ottocentesco, «[…] votato alla generalizzata trasparenza, altro non [sia] che trasposizione simbolica del famigerato panopticon [di Bentham]» (Pellini 2004, p. 2).
8 Sulla stessa lunghezza d’onda Emanuel Alloa: «Sotto la cupola di cristallo, né produzione né consumo ma uno stato omeostatico di reciprocità tra il proletario, paria e intoccabile, e i beni esposti, a loro volta intoccabili» (2008*).
9 Sul parallelo tra il Crystal Palace e l’Arca di Noè Friemert costruisce il suo ricchissimo volume intitolato appunto Die gläserne Arche (1984).
10 Il rischio inverso, probabilmente altrettanto preoccupante agli occhi di Ruskin, era quello di creare una relazione rigida e oziosa tra stile e funzione, trasformando il paesaggio urbano in un confuso bazar edilizio. Giandomenico Amendola ricorda come Vienna fosse nell’Ottocento un esemplare caso di metropoli caoticamente eclettica: sul Ring lo stile degli edifici corrispondeva meccanicamente alla funzione svolta, col risultato che «l’università era classica, il municipio gotico, il teatro barocco per comunicare immediatamente, tramite la citazione, l’intenzione dell’edificio e la sua destinazione» (Amendola 1997, p. 29). Un caso analogo, in letteratura, è l’accozzaglia di stili che caratterizza il parco della residenza del principe Alessandro ne Gli elisir del diavolo di E.T.A. Hoffmann (1815).
11 Analogamente Corinne Fournier Kiss notava come «[…] la proliferazione di monumenti che, come i palazzi di cristallo, s’impongono all’attenzione generale per i loro valori estetici e tecnici a discapito di ogni valore memoriale, potrebbe facilmente condurre alla nascita di una civiltà […] senza storia, senza memoria, senza tradizioni e senza punti di riferimento identitario, dunque senza difesa di fronte alle procedure di manipolazione e controllo esercitate dal potere» (Fournier Kiss 2007, p. 167*).
12 Si veda la scheda dedicata all’opera dalla Manchester Art Gallery che la possiede: http://manchesterartgallery.org/collections/search/collection/?id=1885.1. Un’altra versione del dipinto si trova a Birmingham.
13 È curioso notare come l’arresto da parte della polizia zarista, che fu l’evento cardine della vita di Černyševskij , avvenga – lo ricorda Nabokov ne Il dono – in concomitanza con l’Esposizione Universale di Londra del 1862 (Nabokov 1952, p. 616).
14 Sulle surreali e rocambolesche vicende che hanno evitato lo smarrimento del manoscritto, si veda l’appassionata ricostruzione di Berman (1982, p. 268).
15 Per un panorama delle reazioni dei visitatori russi alla vista del Crystal Palace rinviamo al bel saggio di Fischer (2008).
16 L’immagine dostoevskijana del vetro in frantumi non può non richiamare alla mente uno dei più bei racconti del secondo Ottocento europeo, Attalea Princeps di Vesevolod Garšin. Ne è protagonista una palma – Attalea Princeps il suo nome scientifico – che, non sopportando più di trovarsi imprigionata in una serra, decide di rompere il «disgustoso tetto in vetro» che la separa dal cielo. Riuscirà nel suo intento ma, esposta ai rigori dell’inverno, troverà anche la morte (Garšin 1887). In chiave molto più esistenziale che socio-politica, il testo di Garšin riprende dunque il tema dell’intollerabilità della prigione, persino quando questa rappresenti una trasparente promessa di benessere e protezione.
17 Della sterminata bibliografia su Taut ci limitiamo a segnalare, perché particolarmente interessante rispetto ai problemi qui implicati, il ricchissimo volume di Prange (1991).
18 Va in questa direzione la battaglia per un “espressionismo cristallino” che Taut conduce dalle pagine della rivista “Frühlicht” (1920-1922), attorno alla quale nasce il celebre gruppo di artisti e architetti noto come Gläserne Kette (Catena di cristallo) (Taut 1974).
19 Tra i vari contributi dedicati all’influenza esercitata dal pensiero di Nietzsche su Taut segnaliamo, perché sorretto da puntuali rimandi testuali, quello di Whyte (2001); per un panorama più esaustivo si consulti anche Whyte 1982.
20 Così correttamente traduceva Manfredo Tafuri (Tafuri 1980, p. 137); nella traduzione del 1998 da noi adottata si legge invece il fuorviante sottotitolo Grande racconto cinematografico.
21 Una versione in versi di questa fiaba è al centro di The Shoes of Happiness, componimento di un autore particolarmente attento ai temi sociali quale fu il poeta statunitense Edwin Markham. Non sarà privo di interesse ricordare che la prima edizione di questo poema appare nel 1913.
22 Sul tema non mancano, come noto, autorevoli pareri fortemente negativi, come quelli di Reyner Banham (il quale paragona gli edifici dell’International Style agli uffici della Gestapo) e Anthony Vidler (che scorge uno stretto nesso tra trionfo del cosiddetto spazio igienico modernista e politica della sorveglianza in senso foucaultiano: cfr. Vidler 1992, p. 188). Più equilibrato ci pare il giudizio di un altro attento studioso come David Harvey: «È facile, retrospettivamente, sostenere che l’architettura [del modernismo maturo] produsse soltanto impeccabili immagini di potenza e prestigio per le grandi aziende consapevoli dell’importanza della pubblicità e per i governi, mentre nei confronti della classe operaia quella medesima architettura produceva progetti abitativi modernisti che divennero “simboli di alienazione e disumanizzazione”. Ma si può anche sostenere che un qualche tipo di pianificazione e di industrializzazione edilizia su larga scala e l’esplorazione di tecniche per il trasporto ad alta velocità e per lo sviluppo ad alta intensità fossero necessari per la ricerca di soluzioni capitalistiche ai dilemmi dello sviluppo postbellico e della stabilizzazione politico-economica» (Harvey 1990, pp. 52-53).
23 Si vedano, a proposito, i densi contributi di Mertins (2006) e Miller (2006).
24 Sulla figura di Bloom all’incrocio tra innovazioni mediali e psicanalisi si veda il suggestivo lavoro di Frasca (2013).
25 Circa l’influenza esercitata dall’opera di Wells su quella di Zamjatin si veda Collins 1973, pp. 43-52.
26 Del testo non esistono molte traduzioni (non è per esempio rintracciabile né in italiano né in francese); abbiamo scelto di avvalerci della recente edizione inglese (2007), da cui si traduce.
27 Immagini dell’edificio sono visibili sul sito http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/3m080-00039/.
28 Proprio questa immagine delle pareti lisce è stata scelta da Ugo Piscopo come sottotitolo per la sua ricca monografia dedicata all’opera di Bontempelli (Piscopo 2001).
29 L’opera è visibile online su numerosi siti; rinviamo alla pagina dedicatale dal Philadelphia Museum of Art che la possiede: http://www.philamuseum.org/collections/permanent/54149.html?mulR=559724360|3.
30 «C’è voluta Rosalind Krauss», ricorda Marcello Walter Bruno, «per stabilire che “il Grande Vetro appartiene al campo del fotografico”» (Bruno 2007, p. 38). Lo studioso propone un’interessante triangolazione tra la tecnica del dagherrotipo, l’architettura in vetro di Scheerbart e il Grand Verre: la lastra di Daguerre è infatti «[…] un originale positivo, quindi un pezzo unico non riproducibile» che si deteriora rapidamente se non viene conservato incorniciato e dentro un astuccio: «L’immagine fotografica nasce socialmente come icona di vetro e metallo, proprio come la casa di vetro immaginata da Scheerbart: immagine-vetrina, si potrebbe dire, benché vetrina portatile» (Bruno 2007, pp. 37-38).
31 La lezione definitiva del testo, poi convogliata nel volume delle Poesie (1905-1915), si legge qui alle pp. 577-580, con l’aggiunta di alcuni versi: «Se ogni tanto mi vedrete / che faccio la pipì, / non vi scandalizzate, / o ditemi: “piscione!” / se no peggio per voi, / non vi dovete voltare / quando passate di lì» (Palazzeschi 2002, p. 579).
32 Il disegno è riprodotto in vari volume dedicati al dadaismo e all’esperienza di “Frülicht”; citiamo tra i più recenti Whyte 2001, p. 81. Non siamo purtroppo riusciti a individuarne una riproduzione online.
33 Kaufmann avrà però una sua paradossale vendetta una ventina di anni dopo, quando un violento terremoto spazzerà via, come una vera e propria punizione biblica, l’intera città di Bautzenberg, novella Gomorra (Kusenberg 1960, p. 168).
34 In che misura Ferriss sia stato influenzato dal modernismo europeo, e in particolare dal pensiero di Mies, e quanto invece le sue illustrazioni siano prodotto di una visione schiettamente americana della nuova realtà urbana, è oggetto di un dibattito che qui tralasciamo (si vedano sul tema le opposte posizioni di Gold 1997, p. 26 e Kentgens-Craig 2001, pp. 44-46).
35 Letture fondamentali sull’argomento sono il saggio di Somaini (2011b) e, per una più ampia panoramica, lo splendido volume monografico che lo studioso ha dedicato al regista sovietico (Somaini 2011a).
36 Cfr anche il sito http://laboratoireurbanismeinsurrectionnel.blogspot.it/2012/03/eisenstein-glass-house.html.
37 Il prosieguo degli appunti di Glass House imbocca una strada per noi decisamente meno interessante: mentre la storia inclina verso una sorta di apologo massimalista sulla condizione umana, con feroci spunti di polemica antireligiosa, il dato della trasparenza architettonica diventa sempre più secondario.
38 Una delle versioni più celebri è quella conservata presso il Des Moines Art Center, in Iowa. Si veda la scheda del museo: http://emuseum.desmoinesartcenter.org/view/objects/asitem/601/5/primaryMakerAlpha-asc/title-asc;jsessionid=9CD1E3C750A0FFA1AA124A4E6C194AA1?t:state:flow=684c0f69-7ae3-443d-8001-6f785b4e9293.
39 Si rinvia alla scheda nel sito del museo: http://www.stedelijk.nl/en/artwork/1885-from-muybridge-the-human-figure-in-motion-woman-emptying-a-bowl-of-water-paralytic-child-walking-on.
40 Si vedano a proposito gli ancora utilissimi saggi di Haag Bletter (1975 e 1981).
41 Su tutta la vicenda dell’imbalsamazione di Lenin si rinvia all’appassionante lettura del libro di Zbarski e Hutchinson (1997), avvertendo però che presenta alcune imprecisioni storiche. Ricordiamo poi che in quegli anni avviene anche in Italia uno straordinario caso di imbalsamazione, quello del corpo di Rosalia Lombardo, bambina di due anni deceduta a causa di una polmonite nel 1920. Il suo corpo, quasi perfettamente intatto, si trova ancora oggi custodito in una bara chiusa da un vetro trasparente presso la Catacomba dei Cappuccini di Palermo.
42 Cfr. il sito http://thecharnelhouse.org/tag/melnikov/.
43 Alcune immagini dell’opera sono visibili alla pagina http://www.damienhirst.com/mother-and-child-divided-1.
44 Immagini dell’opera sono visibili alla pagina http://www.damienhirst.com/the-physical-impossibility-of.
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