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Premessa. In cammino verso una civiltà immateriale

p. 7-20


Texte intégral

se pensi se sei contento lettore ecco che diventi per un attimo trasparente
il tuo cervello spugna trasparente
e in questa trasparenza ci sarà un’altra trasparenza più lontana
lontana quando un animale nuovo azzurrerà in questa trasparenza.

Tristan Tzara, Drogheria – Coscienza*

 

             La porta
che, dalla trasparenza, porta
nell’opacità…
             La porta
condannata…

Giorgio Caproni, La porta

Trasparente, aggettivo in costante ascesa

1Redigendo un divertente quanto acuto glossario dei termini correntemente impiegati dalla critica letteraria, alla voce «trasparente» Giuseppe Pontiggia scriveva:

Trasparente, aggettivo oggi in ascesa, rinvia all’idea che il fondo di noi stessi sia buono e che il fine sia di lasciarlo trasparire: come gli adolescenti che sognano una donna che li capisca, quasi avessero da guadagnarci (Pontiggia 1991, p. 71).

2Il fenomeno che lo scrittore lombardo osservava (e irrideva) sul finire del secolo scorso, ovvero la crescente fortuna del concetto di trasparenza, è andato sempre più affermandosi in questi ultimi anni fino a diventare un autentico valore trasversale, una parola d’ordine centrale, per esempio, nel corrente linguaggio del giornalismo, della politica, dell’economia.

3Pochi oggi, nell’epoca delle cosiddette amministrazioni trasparenti e della tracciabilità totale, risponderebbero negativamente alla domanda retorica che Jeremy Bentham poneva nel suo celebre Panopticon del 1791, opera in cui si immagina la creazione di un carcere circolare che, illuminato da un tetto in vetro, consente a un solo sorvegliante di controllare tutti i detenuti simultaneamente. Dal momento che «[le porte di] tutti gli edifici pubblici [dovrebbero essere], salvo ragioni speciali, spalancate alla folla dei curiosi, al grande comitato pubblico del tribunale del mondo», chi mai obietterà, si chiedeva il filosofo e giurista inglese, «una tale pubblicità se non quelli che hanno i motivi più forti perché le loro azioni non siano conosciute?» (Bentham 1791, p. 51). A livello metaforico, la trasparenza intesa come dispositivo di neutralizzazione del potere deformante dell’oscurità e della segretezza è ormai divenuta moneta corrente nelle più disparate battaglie per il buongoverno e per i diritti civili che le classi colte occidentali quotidianamente conducono, dal fronte femminista (il glass ceiling è uno dei concetti più fortunati elaborati in questi anni dalla teoria gender) a quello degli attivisti della causa animalière (è celebre lo slogan attribuito a Linda McCartney: «Se i mattatoi avessero le pareti di vetro, saremmo tutti vegetariani»). Se i valori della chiarezza, dell’efficienza e della sincerità sono i pilastri su cui si reggono, o vorrebbero reggersi, le relazioni interpersonali e istituzionali, oltre che economiche, degli attuali abitanti dei paesi occidentali, non ci si dovrà stupire delle attuali fortune dell’imperativo della trasparenza, oggetto di un consenso generalizzato in un mondo sempre più dominato da una generica istanza di transitività, da un non meglio precisato bisogno di autenticità, da un crescente sospetto verso ogni figura di mediazione. Non è in effetti difficile osservare come la richiesta di una maggiore trasparenza tanto nelle questioni pubbliche quanto in quelle private riesca a mettere d’accordo forze sociali molto lontane tra loro, comprese due categorie tradizionalmente contrapposte come i cosiddetti value-oriented intellectuals, innovatori e idealisti, e i policy-oriented intellectuals, pragmatici e tendenzialmente conservatori.

4Qualche voce controcorrente ha tentato di fornire un’interpretazione critica di questo fenomeno. In un’intervista rilasciata a Bruno Roberti, lo scrittore e regista Jean-Louis Comolli lo inquadra in un’ampia prospettiva storico-politico-culturale, sostenendo che tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta

l’estrema sinistra subisce un crollo, va in crisi, e si installa la potenza dei media. Assieme a ciò si consolida la pretesa che tutto sia accessibile. E nel tutto accessibile c’è la pretesa che tutto sia visibile. Parallelamente a ciò emerge la nozione di trasparenza. La trasparenza diventa una parola d’ordine mediatica. I media si impadroniscono della nozione di trasparenza. Il «quarto potere» dei media è connesso alla possibilità di desiderare, immaginare, fabbricare un tutto trasparente, i media assumono la funzione di svelare ciò che è nascosto. Pretesa di «dire la verità» contrapposta al gioco delle finzioni, delle menzogne. Ciò diventa fideistico, il «credo» dei media, o la loro credenza. Il motivo della trasparenza diventa un motivo ideologico. Di questo si fa carico la classe politica in generale. Per cui la necessità della trasparenza diventa un inganno. Evidentemente niente è diventato trasparente, e questa fissazione della trasparenza instaura il falso, la trasparenza è l’inganno […] (Roberti 2007, p. 10).

5La credenza cui fa riferimento Comolli sarebbe insomma un pilastro centrale di quella dumbocracy, letteralmente di quel dilagante potere della stupidità, di cui parla nei suoi libri Mario Perniola, un filosofo che non a caso si è occupato a più riprese del concetto di trasparenza, invitando costantemente a diffidarne. Quella di trasparenza è infatti per Perniola una categoria menzognera e falsificante, nella misura in cui rinvia ambiguamente sia all’idea di mediazione sia a quella di immediatezza, producendo una sostanziale confusione tra le due opposte sfere che ha per solo risultato (e obiettivo) quello di mantenere gli individui in uno stato di prolungato istupidimento e ignoranza (Perniola 2007, p. 29). Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo il pensatore d’origine coreana Byung-Chul Han, che nel recente saggio Transparenzgesellschaft (La società della trasparenza) individua nell’ossessione delle società liberali per la trasparenza una potente forza omeostatica, «una coercizione sistemica che coinvolge tutti i processi sociali e li sottopone a una profonda mutazione» (Byung-Chul 2012, p. 10)1.

6Pensatori tanto diversi tra loro come Byung-Chul Han, Perniola e Comolli – altri nomi si potrebbero aggiungere, come quello del filosofo tedesco Peter Sloterdijk – ritengono dunque che l’Occidente si trovi oggi immerso in quella che un autorevole sociologo contemporaneo, Vanni Codeluppi, ha chiamato un’«ideologia della trasparenza assoluta», collegata all’urgenza esibizionistica che contraddistingue l’uomo dei nostri giorni:

Non è più possibile lasciare sentimenti, emozioni o desideri nascosti nell’ombra. Probabilmente, ciò è in parte una conseguenza del processo di progressiva «americanizzazione» della cultura mondiale. È il risultato, cioè, della diffusione di un modello culturale dominato dal gusto protestante per la trasparenza, che valorizza la realtà empirica e tutto ciò che è chiaro ed esplicito. Ma è richiesto soprattutto dalle esigenze del sistema produttivo, il quale ha bisogno che l’individuo renda pubblico il suo consumo privato per poter sintonizzare con esso le strategie di produzione. Dunque, tra produttori e consumatori si crea un sistema unitario che tende ad abolire ogni segreto […] (Codeluppi 2007, p. 17).

7Dato tale scenario, occorre subito chiarire che questo saggio non intende fornire risposte circa lo stato presente dell’«ideologia della trasparenza» né affrontare, perlomeno non in modo diretto, le ragioni che inducono milioni di persone a riconoscersi in essa. Il nostro proposito è semmai quello di scavare nella storia della cultura occidentale degli ultimi due secoli per cercare di capire da dove tale ideologia provenga e in cosa consistano le ragioni dei suoi sostenitori, e quelle dei suoi avversari.

8Ci si accorgerà allora che prima ancora di essere un concetto – un concetto peraltro totalmente instabile e inafferrabile, data la mutevolezza ed eterogeneità delle sue manifestazioni: un concetto cioè difficile da pensare in modo rigoroso – la trasparenza è stata un mito, un mito culturale tipicamente moderno incarnatosi, per una serie di ragioni materiali oltre che ideali, in un ambito ben preciso, quello dell’architettura. Tuttavia, per affrontare la nascita e l’evoluzione di tale mito – il mito della trasparenza architettonica, appunto – si è qui scelto di adottare una prospettiva laterale, sghemba, eccentrica: non già il punto di vista della storia dell’architettura (che pure sarà ove opportuno interrogata), bensì quello di letteratura, pittura, cinema, ossia le arti che, per statuto e vocazione, sono chiamate a rielaborare, forgiare, esaltare e talvolta fare a pezzi i miti. Lo sguardo di letterati, artisti e cineasti che nel corso del tempo hanno raccontato, interrogato, sognato case di vetro, palazzi di cristallo, edifici diafani di ogni forma e dimensione, costituirà dunque il punto di riferimento principale della nostra indagine.

9Capitolo dopo capitolo vedremo come, negli ultimi centocinquanta anni circa, l’ossessione degli intellettuali per le cose trasparenti, parafrasando il titolo di uno dei capolavori di Vladimir Nabokov, incroci e rifletta, passando dalle capitali del xix secolo Londra e Parigi alla Germania weimariana, dalla Russia bolscevica all’Italia fascista, fino al Dopoguerra americano-americanizzante, molte delle utopie e distopie della società occidentale, oscillando tra i poli estremi dell’oscurità e della luminosità, della materialità e dell’immaterialità, dell’individualità (intesa come prodotto della massa) e della massa (intesa ora come aggregato di individualità, ora come Individuo trascendente i singoli esseri umani). Sarà anche, questa, un’occasione per attraversare la recente storia culturale dell’Occidente da una prospettiva liberamente ma, crediamo, rigorosamente e produttivamente, multidisciplinare.

10Prima di intraprendere il lungo cammino che ci porterà dalla Londra vittoriana all’America ultracontemporanea dei Simpson e di Stephen King, occorre brevemente delineare le coordinate critiche e concettuali entro cui ci muoveremo. Nel primo dei tre brevi paragrafi che seguono daremo conto di alcuni elementi ricorrenti negli edifici trasparenti – letterari, pittorici o filmici che siano – di cui il presente saggio si occuperà; nel secondo defineremo brevemente le due categorie concettuali che abbiamo elaborato per rendere più chiaro e rigoroso il nostro percorso; nel terzo affronteremo il centrale nodo socio-politico dell’impossibile equilibrio tra aspirazione all’uguaglianza e rischio di omologazione che determina tanta parte delle opere creative che hanno per oggetto il tema della trasparenza architettonica.

Pareti senza pareti, muri senza muri

11Il vetro, il cristallo, il polimetilmetacrilato (ossia il plexiglass) e altri più moderni materiali servono a costruire pareti senza pareti, muri senza muri, solidi e volumi che diano l’impressione di non essere tali. Essenziale per comprendere il mito della trasparenza architettonica risulta dunque il concetto di purovisibilità, su cui torneremo a più riprese, ovvero l’idea che ciò che è trasparente non offre alcuno schermo, alcuna barriera allo sguardo: l’interno non è mai resecato visivamente dall’esterno, la permeabilità ottica dei due spazi è totale. A questo tema dell’illusione di contiguità e illimitatezza, ovvero alla capacità degli edifici purovisibilisti di favorire la divisione di spazi visivamente contigui o, viceversa, l’unità visiva di spazi materialmente separati, si accompagnano due fenomeni particolarmente significativi, ossia la tendenza alla smaterializzazione e l’imperativo della levigatezza, entrambi legati alle caratteristiche fisiche del vetro e in generale della maggior parte dei materiali trasparenti. Ogni lastra, ogni parete diafana infatti, lasciando trapelare la luce, crea un’illusione di immaterialità, un effetto di incorporeità; parimenti la sua natura appunto di lastra, di parete, la rende liscia al tatto, piana e uniforme, priva di asperità e increspature.

12Quanto alla tendenza alla smaterializzazione, occorre leggerla alla luce di una delle grandi rivoluzioni del xix secolo, un fenomeno di longue durée che corre parallelo alla storia dell’architettura della trasparenza, e che in parte la spiega: l’avvento del mondo elettrico e poi, almeno a partire dalla scoperta delle onde eteree elettrostatiche, come si chiamavano all’epoca, di quello delle telecomunicazioni. La rivoluzionaria introduzione nella vita quotidiana di milioni di persone di una forza tanto invisibile e impalpabile quanto poderosa come la corrente elettrica sancisce la fine dell’idea di realtà come continuum di corpi solidi e compatti, generando al contempo il sogno estetico e politico di una penetrabilità della materia se non di una sua vera e propria dissoluzione in pura energia2. Si pensi solo a come il mondo moderno si è adoperato per abbattere ogni parete, illuminare fino in fondo e a ogni costo la realtà, fare breccia nei corpi e nelle menti, sia affondando negli interni del cosmo e della materia (l’astrofisica; la fisica delle particelle), sia esplorando le zone più recondite dell’essere umano, investigato tanto nella sua architettura fisiologica (le interiora: l’immaginario radiologico come sforzo di scrutare attraverso le viscere) quanto in quella psichica (l’interiorità: il lavoro psichiatrico e poi psicanalitico come tentativi di rendere trasparenti le pulsioni profonde e oscure del soggetto)3. Ancor oggi, quella di smaterializzare i solidi per comprendere tutto e vedere dappertutto rappresenta una delle più urgenti esigenze del nostro modello sociale: da questo punto di vista potremmo definire la modernità come l’epoca che ha cercato caparbiamente di abolire la civiltà dello spazio chiuso – confinata entro luoghi dove ogni qualità spaziale era ridotta ai suoi ben perimetrati termini visivi – a vantaggio di una società dello spazio indefinitamente aperto. Basti pensare alla storia dei media negli ultimi centocinquant’anni. Per dirla con l’illuminante elenco di Marshall McLuhan:

Il telefono: discorso senza mura.
Il grammofono: auditorio senza mura.
La fotografia: museo senza mura.
La luce elettrica: spazio senza mura.
Il cinema, la radio, la TV: aula scolastica senza mura.
(McLuhan 1964, p. 301)

13Lista cui noi abitanti del secolo xxi potremmo senz’altro aggiungere una sesta voce: Il mondo digitale: realtà senza mura, se davvero senza mura è oggi ogni aspetto della civiltà dell’ostensione globale in cui viviamo, dall’industria del divertimento alle moderne tecniche di controllo poliziesco. Un sistema che, come sottolineato anche da Byung-Chul Han attraverso il richiamo al concetto benthamiano di panotticità, non ha affatto bisogno di essere dispotico per funzionare: «La particolarità del panottico digitale è, soprattutto, che i suoi stessi abitanti collaborano attivamente alla sua costruzione e al suo mantenimento esponendosi loro stessi alla vista e denudandosi. Espongono se stessi sul mercato panottico» (Byung-Chul 2012, p. 78). In questo senso, come vedremo, la tendenza alla smaterializzazione e il mito della trasparenza architettonica davvero corrono paralleli, come due facce di quel Giano bifronte, spesso inquietante, che è la modernità.

14Concomitante con il fenomeno della tendenza alla smaterializzazione, si è detto, è l’imperativo della levigatezza. Il bisogno di produrre superfici quanto più possibile lisce e perfette, sul modello della lastra vitrea, corrisponde alla nevrotica volontà di eliminare ogni impurità, ogni imperfezione, ogni elemento di frizione che rappresenti un ostacolo alla purovisibilità, alla chiarezza, al nitore. Questo imperativo si è andato sempre più accentuando nel corso del tempo e davvero possiamo dire che la realtà senza mura in cui viviamo aspiri come nessuna epoca precedente – a meno, forse, che non si torni indietro di millenni, fino alle civiltà arcaiche – alla linearità e all’essenzialità: ben lo dimostra la vertiginosa evoluzione del design di teleschermi e display, oggetti perfettamente levigati sui quali le nostre dita, come si suol dire, filano lisce, nutrendo in noi generose illusioni di onnipotenza. Riflessione questa da cui scaturisce uno strano quesito: come è riuscito il secolo degli stati-nazione e dell’industria pesante a generare il potere quasi impalpabile che ci governa oggi? Possiamo forse immaginare che il touch screen che abbiamo tra le mani in questo momento sia l’erede di una lunga tradizione, sorta di monolito apotropaico non piovuto dal cielo bensì nipotino delle fiabesche e insieme razionalissime pareti lisce e in via di dissolvimento di una casa di vetro ottocentesca?

La trasparenza architettonica tra funzione e finzione

15Nel corso del presente studio ci avvarremo di due categorie da noi elaborate per cercare di dar conto in modo chiaro e strutturalmente coerente della natura delle architetture – reali o immaginarie che siano – al centro delle opere letterarie, artistiche, filmiche qui prese in esame. Tali categorie, distinte ma spesso interdipendenti, sono quelle di valore funzionale e valore finzionale dell’edificio trasparente. Con il primo termine ci riferiamo al rapporto tra forma e uso, non tanto rispetto alle intenzioni del progettista (ammesso che esista) o di una data collettività, quanto agli occhi dello scrittore o dell’artista che quella costruzione descrive, interpreta, giudica. Occorre dunque avvertire che ci serviremo del termine funzione in questo senso specifico e, per così dire, astratto, senza alcun riferimento implicito al suo impiego storico-critico (penso in particolare a un concetto estetico centrale nel Novecento come quello di funzionalismo). Con la seconda categoria, ovvero la nozione di valore finzionale, alludiamo alla capacità propria delle architetture purovisibiliste di produrre un regime di fantasticazione che attraverso risonanze, echi, suggestioni sia culturali che psichico-emotive agisce a fondo sull’immaginario della modernità (un immaginario che, si badi, spesso affonda le sue radici in miti antichissimi). Il valore finzionale che scrittori, artisti, cineasti attribuiscono, più o meno consapevolmente, a un edificio risiede insomma nel suo carattere illusionistico, in tutto ciò che in esso pertiene al registro dell’immaginario. Entrambi i valori, diversamente bilanciati nel corso del tempo e, a seconda degli autori, letti ora in senso positivo, ora in senso estremamente negativo, sono alla base del presente studio.

Egualitarismo o omologazione?

16Attratti irresistibilmente dalle promesse, o dalle minacce, insite nell’apparizione di nuovi paesaggi antropici, gli scrittori, gli artisti e più tardi i cineasti reagiscono come sismografi ipersensibili alle implicazioni dell’uso edilizio del vetro – o comunque di ogni materiale che lasci filtrare la luce – traendone continue sollecitazioni creative e fecondi spunti di riflessione socio-politica. Un tema che accompagnerà costantemente la nostra indagine critica è quello del sottile discrimine che divide la felice prospettiva di una società di uguali da quella agghiacciante di una società di omologhi. Per i più ottimisti, le condizioni create dall’adozione di materiali purovisibilisti intorno al 1850, la possibilità cioè di scrutare all’interno di un edificio, cogliendo tutto quel che vi accade e penetrandone ogni segreto, risponde a una dinamica democratizzante che non potrà non produrre effetti benefici sugli individui e sulle masse. Di più, agli occhi di costoro l’architettura in vetro, nonostante il massiccio uso del ferro, sembra in qualche modo prospettare un modello alternativo al minaccioso concretizzarsi di una modernità brutalmente industriale e meccanizzata. L’utopia egualitaria che riveste una funzione tanto importante nella cultura della metà del xix secolo, manifestandosi ora in forme regressive, ora progressive, fa dunque perno sul sogno, o profezia, dell’avvento di un tempo ideale in cui la trasparenza diventi veicolo di rimozione di ogni ingiustizia sociale. Tale utopia cerca di opporsi alla «[…] nuova realtà mercificata della metropoli con proposte tese a recuperare mitologie di origine anarchica o “comunitaria”» (Tafuri 1980, p. 24). La battaglia condotta contro l’opacità diventa così l’annuncio di un ritorno alla semplicità e schiettezza del mondo naturale che molti accolgono con entusiasmo; qualcuno giunge persino a favoleggiare la prospettiva di una riconquistata purezza primigenia, di un ritorno al mitico Eden dei progenitori. In quest’ottica, si può ben dire che il mito della trasparenza architettonica abbia rappresentato, nell’Inghilterra vittoriana come nella Russia zarista, uno dei cardini dell’utopia premodernista di un perfetto ordine sociale a venire, armonioso e privo di ogni antagonismo. È indicativo che l’espressione to live in a house of glass, nel senso di non avere lati nascosti, essere sinceri e dunque puri, affidabili, fosse già nella seconda metà del xix secolo una sorta di frase fatta: con questa accezione la impiega per esempio Sheridan Le Fanu in uno dei suoi racconti più riusciti, Mr. Justice Harbottle. Certo, anche negli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento, lo vedremo, non mancano gli scettici, o i fieri contestatori delle virtù della trasparenza, ma il loro numero è ridotto e la loro voce poco ascoltata.

17Del resto, anche il pensiero critico primo-novecentesco, di ferma ispirazione anticapitalista, aderisce a lungo a tale mito, nella convinzione che la sostituzione dei muri tradizionali con pareti trasparenti comporti la crisi e il superamento delle obsolete società borghesi. Tali attese palingenetiche toccano il loro apice negli anni Dieci, con l’esperienza delle avanguardie. Basti pensare al caso del cubofuturista Velimir Chlebnikov, che in un saggio del 1914-1915 intitolato My i domà (Noi e le case), fortemente influenzato dalle teorie relativistiche einsteiniane e dalle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, prospetta l’avvento di una civiltà del vetro in cui sia dato a tutti di vivere in unità abitative modulari e mobili. Queste trasparenti case-cabine, poste su ruote in modo da potersi muovere e combinare tra loro liberamente, daranno vita a un paesaggio urbano in continua metamorfosi, straordinariamente dinamico (Chlebnikov 1915). Altrove, in una lirica che torna a connettere trasparenza e movimento (O città mangianuvole), Chlebnikov immagina una metropoli solcata da un’«abitabile vela di vetro», fantastica imbarcazione luminosa che navigherà agilmente tra scogliere di cristallo (Chlebnikov 1968, p. 67). Non altrimenti che così, come una cangiante, diafana distesa punteggiata da palazzi che sono «libri di vetro spalancati», il grande poeta russo può immaginare La città del futuro, per riprendere il titolo di un’altra lirica del 1920 (Chlebnikov 1968, pp. 69-71).

18Lo scenario incantato di questa vetropoli combinatoria segna però per molti versi il punto di non ritorno dell’utopia, la sua manifestazione terminale. In effetti, già queste falotiche architetture avanguardiste sembrano nascondere un aspetto tenebroso, qualcosa come un oscuro presagio rattenuto: dietro il loro abbagliante splendore, osservava Angelo Maria Ripellino, «ci sembra persino di intuire il rovescio dell’apoteosi: una segreta, inconfessata maledizione della città» (Ripellino 1968, p. 211; cfr. anche Van Baak 2009, pp. 316-322). Non a caso il rovesciamento del sogno e dell’utopia, il passaggio cioè all’incubo, alla distopia, coincide con gli anni Venti: il periodo in cui, parallelamente all’ascesa delle dittature, l’architettura della trasparenza cessa di essere utopica per farsi sempre più diffusa pratica edilizia. È soprattutto a questa altezza, quando ogni empito ecumenico si infrange contro la dura realtà del capitalismo e dei totalitarismi (due fenomeni, la storia insegna, non per forza disgiunti), che le costruzioni purovisibiliste mostrano a scrittori e artisti il loro risvolto più inquietante. Le ragioni di questa inversione di tendenza coincidono, è questo un punto che merita di essere sottolineato, con quelle che avevano portato in precedenza a glorificare le provvidenziali virtù del vetro. Caratteristiche a lungo elogiate come la completa reversibilità di ciò che sta fuori e di ciò che sta dentro, la totale penetrabilità degli spazi, la stessa ferrea morale dell’autocontrollo cambiano di segno, rivelandosi come fenomeni potenzialmente distruttivi, utilmente manipolabili da parte di regimi politici alienanti, repressivi e inumani. Particolarmente significativo in tal senso il fatto che due fattori strettamente connessi al mito della trasparenza architettonica, ovvero il suo legame con l’elemento acquatico e il suo presunto essere garanzia d’igiene, nel periodo dell’entre-deux-guerres invertano drasticamente i loro poli, così che la rassicurante presenza dell’acqua si capovolgerà nella figura costrittiva e soffocante dell’acquario, mentre la promessa di una pulizia illimitata assumerà i contorni inquietanti dell’asetticità disumanizzata se non dell’epurazione dei soggetti indesiderabili. Negli anni successivi al primo conflitto mondiale, che sono poi quelli del dilagare delle tecnologie audio-visive e delle dittature, la trasparenza architettonica inizia pertanto ad apparire come un ingranaggio decisivo di quella micidiale macchina panottica benthamiana su cui Michel Foucault scriverà pagine memorabili, vedendo in essa il simbolo di una società basata sulla sistematica repressione dell’individuo, ovvero sulla necessità di sorvegliare e punire i suoi membri più scomodi e meno integrabili. La trasparenza diventa insomma rapidamente una minaccia, non più un elemento potenzialmente liberatorio bensì un pericoloso strumento in mano a quelli che Pasolini in un verso di Poesia in forma di rosa chiama i «fanatici razionalisti / roussoiani» (Pasolini 1964, p. 1128)4.

19Tutte queste sfaccettature del mito della trasparenza, e i loro esiti secondo-novecenteschi, spesso decisamente drammatici se non addirittura apocalittici come è dato sovente riscontrare nelle opere della più stretta contemporaneità, costituiranno oggetto d’indagine del presente saggio, il quale si propone di mostrare come le incorporee, levigate, purovisibiliste pareti di vetro sognate o aborrite dagli intellettuali di tutto il mondo lascino trasparire quelle polarità – spinta distruttiva e spinta costruttiva, oscuri impulsi nichilistici e luminose aspettative di uno sviluppo perpetuo, aspirazione all’ascesi e attrazione per l’eccesso, orrore depressivo ed esaltazione vitale – che secondo Marx ed Engels contraddistinguono la cultura moderna (Berman 1982, p. 134). Ci si accorge così, ed è un dato che tornerà a più riprese, che gli ultimi centocinquanta anni dell’Occidente sono stati segnati da profonde, persistenti e spesso interdipendenti contraddizioni, ovvero che la nostra è un’epoca bipolare, in cui arditi propositi di innovazione tecnologica e gusto arcaico-medievaleggiante, pragmatismo utilitaristico e ansia di evasione, individualismo e massificazione sono riusciti non solo a convivere ma ad armonizzarsi con estrema naturalezza. Ora santificando ora bestemmiando l’ineluttabilità del visibile molti giganti della modernità, da Dumas a Dostoevskij, da Joyce a Calvino, da Ejzenštejn a Bacon, per arrivare ad autori recenti come George A. Romero e Stephen King, si sono resi conto che su questo tema si giocava una partita essenziale. Il nostro lavoro consiste nel seguire le loro tracce.

Avvertenza

20Data la complessità del tema affrontato, una breve avvertenza si impone. Il presente studio non nasce dalla volontà di delineare una storia o un panorama completo del tema dell’architettura della trasparenza: presentando caratteri di voluta incompletezza e parzialità, salti nel tempo e nello spazio oltre che inevitabili omissioni, non si presta a essere letto come un atlante del fenomeno ma come un percorso di attraversamento per campioni e testi esemplari. Le costruzioni architettoniche, reali o immaginarie, cui qui si farà riferimento sono dette genericamente trasparenti, e non di vetro, per una duplice ragione: la prima è che il vetro è stato ed è solo uno dei vari materiali impiegati per la progettazione (e talora edificazione) di edifici e spazi trasparenti, la seconda è che il vetro non sempre si presenta in forme trasparenti. Come ricordava uno dei maggiori architetti italiani del Novecento, Vittorio Gregotti, il vetro «[…] non è un’assenza, è comunque materia. Non è di per sé trasparente, lo si può programmare […]» (citato in Rinaldi 2004, p. 74). In effetti, l’uso del vetro è spesso legato alla creazione di superfici opache, o riflettenti, il che rinvia a un altro tema maggiore della modernità, quello dello specchio, cui si legano problemi in gran parte opposti a quelli qui affrontati: laddove infatti lo specchio, tramite la rifrazione della luce e delle immagini, produce rimandi visuali reduplicati, genera cioè realtà percettive seconde, ciò che la trasparenza fa è al contrario assimilare interno ed esterno entro un continuum spaziale apparentemente unico5. Per ragioni di coerenza e organicità argomentativa saranno inoltre esclusi dalla presente indagine alcuni temi che ricorrono con grande frequenza nelle opere della modernità letteraria e artistica, e che pure in modo più o meno tangenziale si legano a quello qui indagato: mi riferisco per esempio alle figure della finestra e della porta, intese come ritagli discreti della visività, su cui esiste un’amplissima bibliografia6, o agli oggetti in vetro, sovente ricordati nei testi letterari a cavallo tra Otto e Novecento (basti pensare alla loro cospicua presenza nell’opera di Marcel Proust).

21Infine qualche indicazione circa le scelte redazionali operate: i testi sono citati sempre in traduzione, con riferimento alle edizioni italiane correnti. In qualche caso, indicato con un asterisco dopo il numero di pagina, la traduzione è mia.

Ringraziamenti

22Frutto di ricerche durate quasi cinque anni, questo libro incrocia due campi di studio con cui mi misuro da tempo, ovvero la cultura letteraria europea dal Settecento a oggi, tra prosa e poesia, e lo stretto rapporto che intercorre tra l’espressione verbale a quella figurativa. È stato scritto quasi interamente a Firenze, la città dove vivo, nelle accoglienti sale della Biblioteca Nazionale Centrale, con qualche saltuaria incursione nelle biblioteche francesi e del Regno Unito. Per una fortuita coincidenza la stesura finale è avvenuta nello Stato di New York, dove ho avuto occasione di soggiornare per alcuni mesi: circostanza che credo abbia influenzato non poco la natura di alcune pagine dedicate a quello che ancora si chiama il Nuovo Mondo. Non potendo ringraziare qui singolarmente le molte persone che, direttamente o indirettamente, hanno contribuito alle mie ricerche, mi limito a esprimere la mia gratitudine nei confronti di Rino Genovese, che ha generosamente voluto farsi promotore della pubblicazione di questo lavoro, e di Caterina, che come sempre ha seguito con amorosa sollecitudine il suo sviluppo con consigli, indicazioni, preziosi suggerimenti.

23A lei dedico le pagine che seguono.

Notes de bas de page

1 Non è questa la sede per ricostruire la vasta fortuna del concetto di trasparenza presso linguisti, psicologi, scienziati e filosofi negli ultimi trent’anni; ricordiamo qui soltanto un paio di testi particolarmente significativi come il fortunatissimo La società trasparente di Gianni Vattimo (1989) e soprattutto The Transparent Society di David Brin (1998), saggio dai toni decisamente ottimistici circa la natura e le sorti delle società contemporanee. Ancora molto stimolante lo studio di Daniele Goldoni intitolato Il mito dela trasparenza. Saggi su Marx (1982).

2 Un documento letterario esemplare in tal senso è rappresentato dal libro di novelle Verso il mistero (1905) della scrittrice italiana otto-novecentesca Virginia Tedéschi-Trèves, in arte Cordelia. Penso in particolare a testi come Una tragedia in un cervello e Vibrazioni ignote, dove le ultime novità scientifiche, dalla corrente elettrica alle scoperte di Hertz e Marconi, sono lette come elementi scatenanti di una nuova epoca della sensibilità collettiva oltre che della psicologia individuale.

3 Procedeva già in questa direzione l’utopia igienico-medica dell’alienista Ulysse Trélat, che nel suo trattato La folie lucide del 1861 immaginava un asile costruito come una maison de verre. Secondo l’acuta lettura di Pierluigi Pellini, nella protopsichiatria ottocentesca il mito della trasparenza si legava all’esigenza di penetrare l’«opacità» della follia (Pellini 2004, pp. 166-175). Sul tema medico si veda anche il suggestivo saggio di Klein (2011).

4 In un dialogo con Jean-Pierre Barou, Foucault spiega: «Direi che Bentham è complementare a Rousseau. Qual è, in effetti, il sogno roussoiano che ha animato parecchi rivoluzionari? Quello di una società trasparente, al tempo stesso visibile e leggibile in ciascuna delle sue parti; che non ci siano più zone oscure, zone regolate da privilegi del potere reale o dalle prerogative di questo o di quel corpo, o ancora dal disordine; che ciascuno, dal punto che occupa, possa vedere l’insieme della società; che i cuori comunichino gli uni con gli altri, che gli sguardi non incontrino più ostacoli, che regni l’opinione, l’opinione di tutti su tutti […]. Bentham è questo, e al tempo stesso tutto il contrario. Egli pone il problema della visibilità, ma pensa a una visibilità organizzata interamente attorno ad uno sguardo che domina e sorveglia. Fa funzionare il progetto di una visibilità universale, che giocherebbe a profitto di un potere rigoroso e meticoloso. Così, sul grande tema roussoiano […] si dirama l’idea tecnica dell’esercizio di un potere “onnivedente”» (Foucault 1977, p. 14). Sui temi della trasparenza e dell’ostacolo in relazione a Rousseau si veda il classico studio di Starobinski (1957).

5 Il discorso potrebbe ulteriormente complicarsi se prendessimo in considerazione il tema della traslucenza e di tutti gli stadi intermedi di opacizzazione delle superfici trasparenti/riflettenti. Si confrontino, su questi temi, oltre al classico saggio di Rowe e Slutzky 1976, Vidler 1992, p. 242 e il capitolo Reflections, Translucency, Aura, and Trace nel bel libro di Armstrong 2008, pp. 95-132. La letteratura offre pagine interessanti in tal senso, penso per esempio al racconto Quasi d’amore di Massimo Bontempelli (1926, pp. 688-689).

6 Preziosi risultano in tal senso lo studio di Wajcman (2004) e la raccolta di saggi curata da Bellocchio (2006).

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