Postfazione dalle parole dei maltrattanti alla decostruzione del discorso mediale
p. 189-198
Texte intégral
1Se non avete ancora letto il volume e siete incappate e incappati in questa postfazione mentre lo sfogliate all’interno di una libreria, a casa di chi ne ha una copia o dalla finestra di preview sul web, lasciate che io provi a interpretare i vostri pensieri: è vero, di analisi teoriche e indagini empiriche sulla violenza maschile contro le donne ne esistono, per fortuna, sempre più, e sempre più ampio e diversificato è l’insieme delle prospettive disciplinari e degli approcci metodologici che, caso di questo volume, testimoniano di una crescente rappresentanza della sociologia.
2E tuttavia quella compiuta da Oddone è operazione teorica (e politica) tanto urgente quanto inedita nel panorama della ricerca italiana sulla violenza di genere: l’autrice pone gli uomini e il maschile al centro della sua analisi. Non tutti gli uomini, naturalmente: solo quelli maltrattanti; non tutto il maschile, naturalmente: solo quelle maschilità che, per costruzione sociale e culturale, risultano maggiormente permeabili all’esercizio del particolare tipo di violenza qui analizzata, la violenza entro relazione intima. Superflui agli occhi di molte e molti, simili distinguo si rendono purtroppo necessari in tempi di backlash e di rinnovati tentativi da parte dei gruppi di Men’s Rights Activists – e di una mai sopita retorica patriarcale – di minimizzare il fenomeno della violenza maschile contro le donne o ancor peggio di stigmatizzare come crociate misandriche le azioni e le policies intraprese per contrastarlo.
3Sgomberare il campo da una tale malafede consentirebbe persino ai più ciechi di comprendere che spostamenti di focus come quello compiuto da Oddone permettono di “pensare” la violenza contro le donne nelle relazioni d’intimità in modo diverso, anche come una questione interna al maschile, appunto, ma non certo con la finalità di produrre un “sesso del terrore”1 o ricondurre la intimate partner violence a una matrice essenzialista. Al contrario, uno dei più importanti contributi di questo lavoro è proprio la sistematica decostruzione – grazie anche a una solida ricerca etnografica presso gli utenti dei cam – del legame tautologico tra maschilità e violenza (“è violento perché è maschio, è maschio perché è violento”) che ancora troppo spesso alberga nel discorso comune, nel discorso mediale e persino in alcuni segmenti di quello esperto. Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità si iscrive così a pieno titolo nella “sociologia pubblica”, cifra distintiva dell’esperienza accademica che condivido con l’autrice, e che è andata coagulandosi attorno alla redazione di “AG. AboutGender. Rivista internazionale di studi di genere”.
4Se invece vi trovate alle prese con questa postfazione dopo aver terminato la lettura del volume, sarà noto anche a voi come tra i suoi pregi vi sia quell’apprezzabile circolarità che sempre meno possiamo dare per scontata, persino nell’ambito della ricerca e saggistica universitaria: dalla teoria, alla ricerca empirica, e di nuovo alla teoria, confermandone alcuni segmenti e riconsiderandone altri, e in ogni caso “spostando” di un bel po’ ciò che sappiamo oggi sul legame tra maschilità e violenza nella sfera intima.
5È nell’intento di contribuire a questa circolarità se tornerò sulle suggestioni con cui si apre il volume, che riguardano quello stesso ambito nel quale è maturato, negli anni, il mio interesse per la violenza maschile contro le donne, ovvero i media. È stato infatti entusiasmante (e a volte anche avvilente) scorgere in ogni parte dell’indagine di Oddone le molte risonanze con il discorso mediale, nazionale e non. Parlo di “discorso”, al singolare, perché sono sempre più convinta dell’esistenza di molteplici “rime” tra le configurazioni retoriche, le scelte narrative e le soluzioni visive adottate da generi mediali apparentemente diversissimi – per esempio, fiction e non fiction – in contesti geografici e culturali assai distanti. Tuttavia, se un tempo il paesaggio appariva monocorde, adesso accanto a vecchi cliché e vere e proprie forme di misrappresentazione di vittima, autore, movente, coesistono sguardi più compositi e soprattutto consapevoli, che originano restituzioni cronachistiche così come storie di invenzione decisamente appropriate.
6Il processo che ha determinato la presenza in forma blended di vecchio e nuovo interessa le industrie mediali e culturali e gli organi di stampa di molti paesi. Racconta del generale cambiamento di sensibilità intorno alla violenza maschile contro le donne e del suo collocarsi stabilmente nell’agenda pubblica: un risultato, nota Oddone, in larga parte ascrivibile all’intensa mobilitazione internazionale dei movimenti femministi, transfemministi e queer degli ultimi dieci anni, che anche in Italia hanno fortemente contribuito non solo alla visibilità del fenomeno, ma anche a fare luce sulle caratteristiche dei principali responsabili. Ne è efficace testimonianza un episodio del 2019, che ho trovato assai curioso. Ha per protagonisti degli uomini. Non uomini maltrattanti, al contrario, uomini preposti a raccogliere denunce e intervenire sulle situazioni di abuso.
7È il 22 novembre 2019, siamo nella questura di Milano, dove viene presentata l’edizione annuale del progetto “…Questo non è amore”, promosso dalla Direzione centrale anticrimine del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, con la finalità di “diffondere una nuova cultura di genere e aiutare le vittime di violenza a vincere la paura di denunciare”. La pagina del sito della polizia di Stato dedicata alla presentazione del rapporto2 avverte che l’elemento portante del progetto è una brochure3 con “i dati e le informazioni relative al fenomeno anche attraverso il racconto di storie di poliziotti quotidianamente impegnati su questo fronte”. In realtà, a ben vedere, nella brochure compaiono anche molte poliziotte. È una frase in particolare a campeggiare nelle prime pagine, tra i volti ora austeri ora sorridenti di agenti in divisa, a essere utilizzata dal capo della polizia Gabrielli durante la presentazione del progetto e poi ripresa dai giornali. È una frase di sicuro effetto, perché restituisce un’istantanea del problema: “Nell’82% dei casi, chi fa violenza su una donna non bussa: ha le chiavi di casa”.
8Immagino che in questo momento alcune e alcuni, come è capitato a me, stiano sorridendo al pensiero della polizia di Stato che con sussiego e gravità parla, senza saperlo, attraverso gli slogan dei collettivi femministi! “L’assassino non bussa: ha le chiavi di casa” era infatti lo slogan della prima, partecipatissima manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne promossa dai collettivi femministi romani. Correva l’anno 2007, e grazie all’attività dei centri antiviolenza e alle poche statistiche allora disponibili, avevamo già ben chiaro quale fosse il profilo di chi commette violenza contro una donna e la sua relazione con lei. “Chiavidicasa” dette il nome a un’intera mailing list nazionale, divenne una parola d’ordine, e soprattutto un grido di denuncia destinato a risuonare a lungo inascoltato nel clima securitario dell’Italia del 2007, che da un paio di anni – stando alle rilevazioni dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza – assisteva all’emergere della bolla “immigrazione = criminalità”, strumentalizzando anche la violenza di genere nella costruzione di un’agenda dell’insicurezza e dirigendo i riflettori su fattispecie ansiogene ma decisamente rare di aggressioni: quelle commesse nello spazio pubblico da parte di uomini sconosciuti alla vittima e/o extracomunitari4.
9Nel corso del decennio seguente, i media hanno gradualmente abbandonato la trattazione in chiave di ordine pubblico e la copertura giornalistica è andata allineandosi alla reale fisionomia del femminicidio, con il risultato che anche i vertici della polizia di Stato possono oggi puntare il dito su quel legame tra intimità e violenza meticolosamente decostruito da questo volume, esibendo con autorevolezza ciò che prima veniva derubricato a fanatismo ideologico o, nelle interpretazioni più creative, persino rigettato come attacco alla coppia eterosessuale e alla famiglia mononucleare.
10Torniamo ai media. I tredici anni che ci separano da quel 2007 hanno visto, e questo mi pare ancor più degno di nota, un processo “autoriflessivo”, di esame delle proprie prassi e codifica di buone e cattive pratiche di narrazione. Dal 2016 la Rai inserisce nel biennale “Monitoraggio sulla rappresentazione della figura femminile” una sezione dedicata alla trattazione di femminicidio e violenza di genere5. Nel 2017 è stato elaborato il cosiddetto “Manifesto di Venezia” (2017)6, sottoscritto dalla Commissione Pari Opportunità della fnsi (Federazione Nazionale Stampa Italiana), dall’usigrai (il sindacato dei giornalisti Rai), dall’associazione Giulia e dal Sindacato Veneto dei Giornalisti. Si sono inoltre moltiplicati manuali destinati a chi opera nell’informazione, come quelli realizzati dalla stessa associazione Giulia o da altre giornaliste7, mentre odg e fnsi hanno moltiplicato l’offerta dei corsi di formazione in tema. Un’importante “sterzata” si deve poi al #MeToo, che ha contribuito forse come nessun’altra campagna prima a mettere a tema le molestie sul luogo di lavoro (e non): basti pensare che negli Stati Uniti il numero di articoli sulle aggressioni sessuali, tra maggio 2017 (quando vengono pubblicate le prime inchieste di “Times” e “New Yorker”) e agosto 2018, cresce di oltre il 30 per cento8. Il nuovo clima dà impulso a ulteriori iniziative per la corretta trattazione delle molestie sessuali: per esempio, sul piano internazionale, viene pubblicato il decalogo How to Report on Sexualized Violence in the #MeToo era: 10 do’s and don’ts, dell’influente Women’s Media Center, un’organizzazione no profit impegnata ad accrescere la visibilità e il potere decisionale di donne e ragazze nei media9, mentre sul piano nazionale occorre citare la delibera n. 442/17/Cons dell’AgCom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), del 2017, “Raccomandazione sulla corretta rappresentazione dell’immagine della donna nei programmi di informazione e di intrattenimento”.
11Al moltiplicarsi di manuali, manifesti e codici di autoregolamentazione ha fatto da contraltare, negli anni, il crescente impegno dei professionisti e delle professioniste dei media a evitare forme di narrazione “tossica” come la deresponsabilizzazione dell’autore di violenza, la rivittimizzazione di chi la subisce, o la minimimizzazione dell’atto stesso10. E tuttavia, permane la sensazione che quella restituita dai news media sia una fotografia parziale, capace di cogliere alcuni aspetti e relazioni ma inevitabilmente destinata a lasciarne fuori altri. Permane la sensazione che il dettaglio fondamentale sia nascosto lì, negli angoli che rimangono in un cono d’ombra, fuori dal perimetro della visibilità, fuori dalla cornice che i media sovraimpongono sulla realtà ritagliandone solo una porzione. In questo modo si è soliti descrivere l’operazione di framing, di incorniciamento, anche nota come “tematizzazione”. Abbiamo imparato a tematizzare la violenza letale contro le donne in termini di femminicidio, abbiamo imparato persino a nominare maschilismo e patriarcato, eppure abbiamo ancora difficoltà a trovare le parole adeguate a rappresentare chi la violenza compie.
12Recentemente, e l’occasione di questa postfazione per me è preziosa quanto il libro che la origina, mi sono accorta che tutti i riferimenti a diverso titolo “prescrittivi”, che siano originati da associazioni di categoria o da authorities, quando si arriva agli autori di violenza non sono solo prescrittivi, ma divengono soprattutto proscrittivi: forniscono indicazioni su come non parlare dell’aggressore e come non veicolare il suo punto di vista.
13Per esempio, nel manifesto di Venezia, si suggerisce di evitare:
d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via. e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.
14Altrettanto avviene sul fronte di molestie e aggressioni sessuali: la citata delibera AgCom mette in guardia, da un lato, verso narrazioni che rischiano di destituire la vittima di credibilità, e dall’altro, verso i processi mediatici verso l’autore. Il citato decalogo del Women’s Media Center, analogamente, invita a “non ignorare il presunto autore”, raccogliendone la testimonianza, e a non parlarne in termini di “responsabile”, in mancanza di evidenze inconfutabili o condanne.
15Sono, naturalmente, d’accordo con ciascuna di queste raccomandazioni. Eppure, benché assai più evolute, esse sembrano ancora rispondere a ciò che Romito definì il “principio dell’evitamento linguistico”, ovvero la tecnica che consente agli autori di sparire dai discorsi sulla violenza maschile11. Raramente troviamo indicazioni su come parlarne, su come reinserire questo soggetto all’interno della narrazione, in forme che non pregiudichino il rispetto per la vittima, non vadano a detrimento di una narrazione equilibrata e sappiano al contrario contribuire a illuminare il fenomeno, le sue radici, le possibili soluzioni. A volte è molto difficile, soprattutto nei casi di femminicidio, dove veicolare il punto di vista dell’autore significa automaticamente sbilanciare il resoconto per via della mancanza della controparte, o per la sua impossibilità a parlare per sé. A volte – e vale anche per i casi di violenza fisica non letale come quelli commessi dagli uomini intervistati da Oddone – occorre maneggiare con cautela anche i dati di contesto: il dovere di cronaca e l’obbligo di completezza dell’informazione, che impongono di riportare, per esempio, eventuali condizioni di sofferenza psichica, di dipendenza da droghe, o semplicemente dello stato di alterazione dell’autore al momento in cui ha esercitato violenza, devono essere accuratamente ponderati e praticati in modo da scongiurare effetti di senso come la giustificazione dell’autore o la minimizzazione della violenza. Sono infatti ancora questi a costituire i bias più comuni a livello internazionale12.
16È così che, quando si arriva all’autore, complici anche i tempi contingentati e i meccanismi inerziali tipici delle routine produttive dei media, si registra ancora una generalizzata afasia. Intendiamoci: la costruzione sociale e culturale del maschile, il ruolo dei modelli di genere, il sussistere di una concezione di compagna/moglie e figli come soggetti posti sotto il proprio arbitrato, così come il vacillare di consolidati grimaldelli identitari e posizioni di potere davanti al ridisegnarsi dei ruoli privati e sociali femminili sono tutte dimensioni che nella cornice, oggi, entrano. Ma entrano nella formula di parole chiave, di lasciapassare, “formule magiche” – mi verrebbe da dire: riferimenti tanto corretti quanto astratti, piuttosto che zoom sullo specifico uomo che la violenza ha commesso; pennellate di sfondo, lasciate da un pennello molo ampio, importantissime per dare profondità, evitando alla scena ritratta di schiacciarsi sull’evenemenziale, ma incapaci di tracciare la geografia minuta dell’ordinario. Incapaci, in altri termini, di accogliere l’invito che l’autrice di questo volume, con la dichiarata intenzione e il costante impegno a “mettere in evidenza […] la rilevanza sociologica a lungo trascurata” (p. 13) e facendo proprie le parole di Simmel, pone al centro della sua indagine: “osservare e identificare tutte quelle forme di violenza che avvengono in forma ‘diffusa, impercettibile o latente’ anche in tempi di pace, come è il caso della violenza maschile nelle relazioni d’intimità” (p. 22).
17Cosa manca, ancora, al discorso mediale, e in particolare a quello giornalistico? Ipotizzo una spiegazione, che, ancora una volta, mi è suggerita da questo volume.
18La tematizzazione in chiave di “femminicidio”, l’insistenza, recepita in ampie porzioni del discorso mediale, sull’importanza del mettere “la vittima al centro” hanno finito per configurare uno schema preciso: quelli che ascoltiamo oggi sono sempre più raramente racconti che ascrivono la violenza a fattori individuali (era geloso o depresso), dinamiche interpersonali (era una coppia litigiosa) o contingenze particolari (era ubriaco). Il cosiddetto “frame episodico” è sempre più sostituito da quello tematico, che mette in trasparenza i legami e interconnessioni tra temi o eventi affini: “ancora una storia di violenza contro le donne”, recitano spesso i lanci delle notizie dei telegiornali o i titoli del giornali. Ottimo. Ma, per quanto sembri paradossale, inizio a pensare che di questa costruzione la parte da salvare sia “ancora una storia” – perché appunto, istituendo legami e interconnessioni, illumina comuni denominatori, fa emergere la dimensione strutturale del problema – mentre sono sempre meno convinta che il segmento successivo, “di violenza contro le donne”, vada nella direzione di affinare quella capacità di tratteggio minuto di cui abbiamo urgentemente bisogno.
19“The debunking of patriarchy is not accomplished by focusing exclusively on the lives and experiences of women”: non ricordavo più dove e quando avessi letto questa frase, che tuttavia ho portato sempre con me. L’ho ripassata tante volte, mentalmente, come un mantra, dinanzi alle narrazioni, le dichiarazioni, le prese di posizione e i post più diversi. Ritrovare lei e la sua autrice – quella Scully del pionieristico Understanding Sexual Violence in questo libro – e proprio nel paragrafo in cui si prepara lo spostamento del focus sugli uomini maltrattanti (p. 73), mentre cercavo le parole per dare forma ai miei pensieri, mi ha riannodato delle fila interiori, e rinnovato una convinzione: “allargare il campo per includere, oltre le vittime, anche gli autori di violenza, permette di superare la concezione secondo cui la violenza è principalmente un problema delle donne”. Così Oddone completa lo snodo concettuale che ospita, un po’ più su, la frase di Scully. E così concludevo anche io – torno di nuovo alle rappresentazioni mediali – alle prese con i risultati dell’analisi di quasi ottocento programmi di produzione Rai, mentre mi giravo e rigiravo i dati quantitativi tra le mani, sgranandoli come un rosario, alla ricerca di un’intuizione capace di suturare un’aporia davvero emblematica delle contraddizioni del discorso pubblico italiano su questi temi: l’aumentata visibilità, dal 2016 al 2017, della violenza di genere, in tutte le sue forme – psicologica, economica, fisica, sessuale, letale – e la diminuita presenza di trasmissioni che presentavano riferimenti alla condizione femminile e ai suoi diversi aspetti13.
20Non è possibile, naturalmente, affermare con certezza che esista una correlazione positiva tra i due fenomeni, e tuttavia è legittimo ipotizzare che, da un anno all’altro, dei temi relativi alla condizione femminile si parlasse meno perche la casella “rosa” del palinsesto veniva saturata dal tema della violenza. La quale, allora, subirebbe una sorta di segregazione tematica, di etichettatura come pink issue, magari non necessariamente perseguita in modo deliberato e consapevole dal broadcaster, ma nondimeno passibile di metterne in ombra il portato e la rilevanza universali, derubricandolo a tema di interesse esclusivamente o prevalentemente femminile. In altri termini, una concettualizzazione, un framing della violenza di genere, nelle politiche editoriali del servizio pubblico, che legge “genere” come “donne”, ovvero che mette l’accento sul genere di chi subisce il problema, anziché di chi lo agisce.
21Un “problema di donne”, dicevamo. Che nelle donne trova anche – questa l’ulteriore, possibile implicazione – gli attori deputati alla sua risoluzione.
22Guardare alla violenza maschile contro le donne come a un’espressione della condizione femminile non è sbagliato: essa è una componente, per così dire, anzi, un “descrittore” fondamentale della qualità dell’esistenza femminile (e di tutte quelle soggettività che scardinano la costruzione binaria dei generi) nella società contemporanea. Ma se concepiamo la violenza di genere per quello che è, cioè un problema radicato nei modelli di ruolo di genere e nelle relazioni – anche di potere – fra i generi, dovremo convenire che è soprattutto un indicatore fondamentale dello stato di salute di tali rapporti, e che, a essere più precisi, dice soprattutto della condizione maschile nell’Italia contemporanea.
23Viene da chiedersi cosa accadrebbe se anche i racconti mediali spostassero i termini del discorso come fa questo libro, se producessero un rovesciamento di prospettiva e iniziassero a trattare, concettualizzare la violenza di genere non più solo come un problema delle donne ma anche come un problema degli uomini. Quale sarebbe, insomma, lo sviluppo narrativo, lo sguardo gettato sul reale, e il contributo dei media al contrasto del fenomeno, se i titoli di apertura dei telegiornali o i trailer delle fiction invece di dire “un’altra storia di violenza sulle donne” dicessero “un altro caso di violenza da parte di un uomo”?
24Con ogni probabilità, una tematizzazione del genere consentirebbe a cronache, editoriali, persino prodotti di fiction, di trovarsi faccia a faccia con la stessa evidenza da cui questo volume prende impulso:
l’oggetto sociologico “problematico” non è quindi “il femminicidio”, ma l’insieme degli elementi culturali e sociali che garantiscono la continuità simbolica tra questi crimini efferati – oggi sotto i riflettori – e quelle pratiche silenziose e “invisibili” che, invece, fanno parte del normale stato delle cose e risultano opache proprio perché radicate nel senso comune della vita quotidiana. (p. 9)
25Una volta adottato un paradigma, una volta riconosciuto il legame tra “la violenza ordinaria del sessismo quotidiano […] e la violenza considerata invece ‘patologica’ o ‘eccezionale’ dei femminicidi”, decostruire le “armature di genere” che quel legame nutrono diverrebbe passaggio obbligato.
26Anni fa, una giornalista attenta, consapevole di ciò che chiamiamo “continuum della violenza”14, desiderando uscire dalla “bolla del femminicidio”, che stava montando all’epoca, per riportare dentro la cornice le forme meno eclatanti di violenza maschile contro le donne, con parole diverse mi chiese: ma come è possibile scandagliare il maschile, rimettere dentro la cornice tanto la costruzione sociale e culturale della maschilità quanto la relazione tra quell’insieme di prescrizioni e i vissuti e “agiti” degli uomini maltrattanti, se degli uomini maltrattanti sappiamo ancora così poco?
27Conoscevo già Cristina Oddone, per essere stata correlatrice della sua tesi di dottorato, cui andò immediatamente il mio pensiero, e a cui in quell’occasione abbondantemente attinsi. Pensai che tutta la sua ricerca, e in particolare le evidenze empiriche, avrebbero dovuto divenire patrimonio comune. Non potrei essere più felice, oggi, di firmare questa postfazione.
Notes de bas de page
1 Il riferimento è al testo di S. Faludi, Il sesso del terrore. Il nuovo maschilismo americano, Milano, Isbn Edizioni, 2008.
2 https://www.poliziadistato.it/articolo/225dd7bf45b4dc5487252775 [ultima consultazione 10.06.2020].
3 Visibile a questo link: https://www.poliziadistato.it/statics/12/brochure_questononeamore_2019.pdf [ultima consultazione 10.06.2020].
4 L’analisi dell’Osservatorio si concentra sulle edizioni del prime time di sei reti, tre pubbliche (Rai1, Rai2 e Rai3) e tre private (Canale 5, Italia 1 e Rete 4), a cui si è aggiunta a partire da settembre 2010 La7. Bisogna precisare che nel periodo 2005-11 si registra la tendenza ad ascrivere anche le altre tipologie di crimine, non solo la violenza di genere, al carattere crescentemente “insicuro” dei contesti urbani contemporanei, che sarebbero resi tali anche dall’aumentata presenza di extracomunitari. Cfr. Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (2012), L’insicurezza sociale ed economica in Italia e in Europa, http://www.demos.it/2012/pdf/2161sicurezza_in_italia_e_in_europa_rapporto_8_marzo_2012_def.pdf.
5 Per iniziativa della società vincitrice del relativo bando pubblico, costituita da Isimm Ricerche Srl e Roma Tre, co-coordinato da chi scrive.
6 Si tratta del “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini”.
7 Per esempio Stop violenza: le parole per dirlo, dell’associazione Giulia (2017) e Le parole giuste. Come la comunicazione può contrastare la violenza maschile contro le donne, di Nadia Somma e Luca Martini (Castiglione delle Stiviere, presentARTsì, 2018).
8 Lo studio ha preso in esame il contenuto di 15.228 articoli e relativi titoli e sottotitoli. Se si aggiungono anche i pezzi incentrati solo sul #MeToo, la copertura totale registra il vertiginoso incremento del 52%: cfr. https://variety.com/2018/biz/news/media-coverage-sexual-assault-metoo-1202970077/ [ultima consultazione 10.06.2020].
10 Si veda E. Giomi, Tag femminicidio. La violenza letale contro le donne nella stampa italiana del 2013, “Problemi dell’informazione”, 3, dicembre 2015, pp. 551-576; A. Pramstrahler, C. Karadole, Rappresentazione della violenza contro le donne in ambito mediatico e politico, in M. Bettaglio, N. Mandolini, S. Ross (a cura di), Rappresentare la violenza di genere. Sguardi femministi tra critica, attivismo e scrittura, Milano, Mimesis, 2018, pp. 275-290.
11 P. Romito, Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori, Milano, FrancoAngeli, 2005, pp. 58-59.
12 Una panoramic in P. Easteal, K. Holland, K. Judd, Enduring themes and silences in media portrayals of violence against women, “Women’s Studies International Forum”, 48, 2015, pp. 103-113.
13 Dal 2016 al 2017, l’incremento delle trasmissioni che presentano una o più forme di violenza è del 3,1% (passano da 83 a 98). Diminuiscono del 4,1% (da 138 a 109) le trasmissioni che presentano riferimenti alla condizione femminile (per esempio conciliazione, rappresentanza femminile nella sfera pubblica, accesso all’istruzione, accesso al mercato del lavoro, autodeterminazione sessuale e riproduttiva, diritti).
14 L. Kelly, Surviving Sexual Violence, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1988.
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Uomini normali
Ce livre est cité par
- Ciccone, Stefano. (2023) Categorie interpretative, rappresentazioni implicite e resistenze di fronte alla violenza nelle relazioni. Una lettura di genere situata al maschile. Ricerca Psicoanalitica, 34. DOI: 10.4081/rp.2023.756
- Cannito, Maddalena. Mercuri, Eugenia. (2022) Fatherhood and gender relations in the manosphere: Exploring an Italian non-resident fathers’ online forum. European Journal of Cultural Studies, 25. DOI: 10.1177/13675494211036967
Uomini normali
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