4. Scegliere di cambiare
p. 147-175
Texte intégral
All’interno del gruppo ti trovi a doverti confrontare con persone che vivono la tua stessa realtà. Poco a poco, inconsciamente, l’irrigidimento iniziale viene meno. Ognuno parla di una sua questione e racconta cose identiche alle tue, e questa cosa inizialmente ti sorprende. Si crea una sorta di solidarietà, di comunanza che permette di far passare all’inizio questo sentimento di condivisione: “Abbiamo delle donne che ci vessano, che ci perseguitano, ecc.”. Però, nel momento in cui si abbassano le barriere e c’è una distensione, passano anche quei messaggi che ti servono per lavorare su di te, magari dati dagli operatori o dagli altri uomini del gruppo. […] Se ognuno di noi ha la propria compagna, ognuna diversa dall’altra, perché le dinamiche sono identiche? Perché il problema non è della compagna. Il problema è nostro. Questo è quello che ci unisce, che condividiamo. Non condividiamo la stessa compagna scriteriata, irrazionale. Condividiamo un problema. Nel momento in cui c’è questo passaggio, allora cominci a filtrare le informazioni utili, a cogliere quei passaggi fondamentali che ti servono per risolvere il tuo problema. Questa è la forza del gruppo che nessun terapeuta riuscirà a ottenere con sedute individuali. [Q., intervista biografica]
1Nel corso dei primi incontri, i maltrattanti hanno l’impressione di trovare la solidarietà dei loro pari e sono portati a stabilire una sorta di complicità misogina con gli altri partecipanti. Tuttavia, settimana dopo settimana, attraverso il confronto tra uomini e grazie alle indicazioni e agli interventi dello staff, la maggior parte dei partecipanti comincia ad adottare nuovi punti di vista. Per definire la propria esperienza al cam spesso ricorrono a metafore che alludono a un nuovo modo di guardare: “Vedo molte più cose di quelle che vedevo prima”; “Vedo me stesso da fuori”; “Attraverso i racconti degli altri vedo me stesso in uno specchio”; “È come vedere le mie azioni su uno schermo, a una certa distanza”. A partire da tale rivelazione, le rappresentazioni rispetto alla propria compagna, alla propria violenza e alla propria maschilità si trasformano nel tempo.
4.1. Riconoscere gli effetti della violenza
2L’interruzione della violenza fisica avviene quasi immediatamente. Poco a poco e in maniera graduale, i maltrattanti cominciano a vigilare sui propri comportamenti, riuscendo progressivamente a evitare anche le forme di abuso inizialmente meno evidenti, come la violenza psicologica, economica e sessuale, i gesti di minaccia e intimidazione, la violenza verbale o la violenza contro gli oggetti.
3Quelle che prima erano percepite come “provocazioni” da parte della compagna sono quindi re-interpretate come manifestazioni della sua capacità di opporsi e di difendere apertamente le proprie opinioni. Gradualmente, gli uomini arrivano a riconoscere il punto di vista delle donne. Lo accettano, lo tengono in considerazione, li riguarda.
Ho due riflessioni da condividere con il gruppo: la prima è sulla provocazione, perché bisogna chiedersi se è provocazione quello che lei dice a te, o quello che tu rispondi a lei. La seconda riflessione è sulla paura e sulla violenza. Una volta io ho dato uno schiaffo a mia moglie e lei poi lo ha dato a me. Era la prima volta che reagiva, per me è stata una grossa lezione morale. Non mi ha fatto male dal punto di vista fisico, ma mi sono sentito male dentro. [B., incontro di gruppo]
4Anche grazie alla componente psicoeducativa dei gruppi, per cui gli uomini effettivamente “vengono informati” sulle conseguenze della violenza sulle donne che la subiscono, con il tempo i maltrattanti riconoscono nelle proprie compagne gli effetti della sofferenza e della paura.
Io ora la vedo che ha paura. Lo vedo nei suoi gesti e nel suo sguardo. Io stesso ho paura di quello che ho fatto. Pensa a lei che ha subito la violenza, che paura deve avere. Ora, quando vedo che c’è tensione, esco e vado a fare un giro come mi ha insegnato l’operatore. [A, incontro di gruppo]
Mia moglie appena fa buio ha paura, perché quell’episodio là è successo di notte. La sua paura mi mette anche in imbarazzo. [E., incontro di gruppo]
5In questa fase, gli uomini maltrattanti s’interrogano per cercare di comprendere le ragioni delle condotte femminili e riconoscono di aver reso la compagna vulnerabile. Osservando con un diverso sguardo i comportamenti della partner, arrivano in alcuni casi a interpretarli come gli effetti dal trauma della violenza subita, come nell’estratto che segue:
Devi pensare che è come se ci fosse un bicchiere di cristallo rotto, e siamo noi ad averlo rotto. Quindi, dall’altra parte c’è una grande fragilità, c’è una forte sopportazione. In passato io sono stato molto peggio di come sono ora e lei lo sa. A volte ho la sensazione di camminare tra i vetri rotti. D’altra parte lei in passato non si sentiva così libera di manifestare le sue opinioni, di opporsi, di protestare rispetto a certe situazioni. Se oggi lo fa, è perché finalmente non ha più paura di farlo. [S., incontro di gruppo]
6Gli uomini incontrati al cam sembrano comprendere che, nonostante l’interruzione della violenza, il loro maltrattamento ha segnato la compagna dal punto di vista psicologico a tal punto che, anche nel presente, continuano ad affiorarne le conseguenze.
Mi rendo conto che è difficile per lei, perché io in questi anni ne ho avuto davvero una pessima considerazione. Io non è che l’ho picchiata soltanto a manate, le ho dato anche dei colpi a livello di considerazione, sia sul piano personale che sentimentale, nel rapporto di coppia. Le dicevo che non valeva niente, per cui io ho contribuito alla sua fragilità… Probabilmente ce l’aveva già questa fragilità e io l’ho aumentata in una maniera incredibile. [O., intervista biografica]
In questo caso ho capito cosa intendeva dirmi e come si sentiva, mentre una volta non avrei capito. Una volta mi sarei arrabbiato per la questione in sé. Oggi ho capito che lei stava male per un altro motivo. […] Voglio capire meglio di cosa si tratta, per cui l’ho presa e l’ho portata dal medico. E il giorno dopo ancora, sono rimasto di nuovo a casa con lei. Da questo punto di vista, oggi mi sembra normale comportarmi così, senza agire violenza. Perché poi, se avessi agito violenza, che cosa sarebbe successo? Avrei sentito un enorme senso di colpa. [V. intervista biografica]
7Gli uomini cominciano inoltre a comprendere che, per la compagna, la percezione della violenza può essere diversa dalla loro. Un gesto per loro insignificante può risultare minaccioso per la partner, come vediamo nel frammento che segue, in cui uno dei partecipanti all’incontro di gruppo arriva a risignificare quelle che prima considerava delle esagerazioni da parte della moglie:
Tante volte lei diceva che io negavo… Ma non negavo! Le dicevo quella che era la mia esperienza, non la sua. Poi qua ho capito che… Mi avete fatto notare una cosa a cui non avevo pensato. […] Non avevo capito che a volte, quando lei strillava le cose, le aveva vissute veramente così: lei ingigantiva, mentre io minimizzavo. Quello che per me era una stretta di spalle, per lei era soffocare, avere una paura pazzesca. [L., incontro di gruppo]
8Gli uomini apprendono a riconoscere che in alcune occasioni si sono serviti della paura come strategia di controllo, utilizzandola a fini specifici. “Scoprono”, talvolta con rammarico, di aver spaventato reiteratamente la propria compagna e i propri figli e si rendono conto che quella paura continua ad avere delle conseguenze, causando reazioni precise.
Quando l’altro giorno per telefono le ho detto “Ti voglio dire una cosa…”, non pensavo di avere un tono particolare. Lei invece questa frase l’ha recepita come l’arrivo di un cazziatone, di una cosa brutta. Evidentemente ho una maniera di parlare che secondo il suo standard è aggressiva, tantissime volte mi sono dovuto trattenere… Ora ho capito che devo sempre rassicurarla e dare spiegazioni di ogni frase. […] Oggi mi rendo conto che la mia è una forma di non-rispetto della sua paura… visto che poi sono stato io a generarla questa paura, o comunque io l’ho alimentata. [T., intervista biografica]
9La stessa violenza contro gli oggetti acquisisce nuovi significati alla luce del percorso al cam. Se, all’inizio del programma trattamentale, il lancio di una tazza contro il muro veniva descritto da L. come un gesto banale – “Non l’ho fatto per romperla. L’ho fatto perché volevo andarmene, avevo una tazza in mano e l’ho buttata” – diversi mesi dopo, il medesimo episodio viene narrato in modo completamente diverso. Nel corso di un’intervista biografica, dopo aver parlato a lungo degli effetti della paura sulla propria compagna, l’uomo è in grado d’interpretare quella stessa azione come un gesto deliberatamente inteso a spaventarla, non più come semplice espressione della propria rabbia.
Stavamo parlando e a un certo punto lei è andata via perché ha visto che mi stavo agitando, e ha avuto paura. […] In passato, gesti come battere un pugno su un tavolo, o lanciare una cosa nel lavandino perché facesse rumore, erano uno sfogo che, ho notato, era proprio ricercato. Con quei gesti cercavo di spaventare, come a dire “Guarda come sto dentro, te lo voglio far vivere”. [La violenza] è sempre un modo per cercare di spaventare. Invece, quest’ultima volta, lei è tornata indietro, perché ha visto che comunque non ero stato violento. [L., intervista biografica]
10Come abbiamo visto, all’arrivo al cam molti uomini raccontano di non trovare altra spiegazione alla propria violenza che non sia l’attribuzione di responsabilità alla compagna attuale: è lei la “colpevole”, poiché “prima di lei” non avevano mai avuto atteggiamenti aggressivi con altre donne. Con il tempo, i maltrattanti rivedono le proprie interpretazioni e riconoscono alla moglie il merito di aver messo in campo un conflitto, reagendo in maniera attiva anziché subire passivamente il comportamento del marito. La nuova percezione li porta a sottolineare il ruolo positivo della compagna nel processo di cambiamento che stanno affrontando, per affermare frasi come “Le nostre donne ci hanno aiutato a cambiare”, oppure “Sono le donne a farci capire i nostri errori”. Quelle che prima erano considerate “provocazioni”, sono in seguito interpretate come forme di autodeterminazione da parte delle donne: gesti intesi ad affermare i propri diritti, la propria autonomia, libertà e soggettività, indipendentemente dallo sguardo, dal desiderio e dall’autorità maschile. In questo modo, gli uomini maltrattanti sembrano riuscire a dare valore alla “facoltà delle donne di definirsi da sole”1.
A me succede che mia moglie viene, mi prende e mi dice delle cose con un tono assertivo. Noi magari la percepiamo come una violenza da parte sua, perché sta nella dinamica maschile del controllo della situazione, anche per un retaggio patriarcale, in questo modello di voler mantenere tutto sotto controllo. La violenza rappresenta l’extrema ratio di questo. […] L’elemento chiave, secondo me, dev’essere riconoscere che la violenza è dentro di noi, a tutti i livelli, e che i motivi per cui si scatena possono essere molti. Nel caso nostro, può essere il fatto di aver incontrato delle donne particolarmente coraggiose, delle donne che hanno detto no, che non hanno accettato i nostri atteggiamenti. [S., focus group 1]
11Lo stesso uomo che, nel corso del primo incontro psicoeducativo, aveva accusato la compagna attuale di aver innescato la violenza – poiché in passato, con la sua ex, non aveva mai sentito “il bisogno di dover essere violento” – nel passaggio che segue è in grado di rivedere la propria versione iniziale, per riflettere criticamente sui rapporti di potere in seno alla coppia.
Con la mia compagna precedente, con cui sono stato moltissimi anni, non avevo mai avuto problemi. Adesso, con il senno di poi, capisco che all’epoca non si poteva verificare nulla anche perché, sostanzialmente, quella persona viveva per me. Voglio dire, anche questa nuova compagna mi vuole bene… però lo fa in maniera un po’ più critica, anche costruttiva. L’altra era assolutamente appiattita a quelle che erano le mie esigenze, e quindi non mi ha dato modo di scoprire questo lato del mio carattere, questa mia fragilità. Invece mia moglie, fin da subito, mi spronava continuamente: è una persona che zitta non ci sta, che quando c’è qualcosa che non le va bene lo manifesta, anche in maniera forte, in maniera esasperata, in maniera anche per me inconcepibile, irrazionale, però lo fa. [O., intervista biografica]
12Grazie alla cadenza rituale degli incontri, gli stessi episodi riemergono nelle parole dei maltrattanti, raccontati ogni volta sotto una luce diversa. Come risultato dell’approccio cognitivo-comportamentale, ogni incontro permette di approfondire la conoscenza dei partecipanti in materia di intimate partner violence e di aumentare le loro competenze, per abbandonare i gesti violenti e adottare condotte alternative.
13Frequentando un centro per autori di violenza, i partecipanti apprendono quelle che loro stessi definiscono come “conoscenze”, “indicazioni di comportamento”, “metodologie”, “tecniche”, “dritte”, “trucchi” e “altre armi”. Nel corso di un’intervista un uomo ha affermato: “Io verrò al cam fino a quando tutto quello che ascolto ai gruppi sarà per me trito e ritrito”. I maltrattanti sono invitati a riconoscere i segnali fisici che indicano l’evoluzione in crescendo delle proprie emozioni, per imparare a fermarsi prima di esprimere la propria rabbia attraverso la violenza. Sono inoltre incoraggiati a comunicare le proprie opinioni in maniera graduale e attraverso linguaggi alternativi alla violenza.
Già ieri sera quando c’è stata questa discussione ho pensato subito “Attenzione!”. Appena c’è stata la prima avvisaglia del “Che palle!”, mi sono allarmato. […] Ho tenuto molto in considerazione questo segnale, per questo ho cominciato a stare zitto e a non parlare più, e ad ascoltare quello che mi diceva, magari anche ad annuire, insomma, quello che prima avrei considerato un comportamento da idioti… E invece ha funzionato. [T., intervista biografica]
14L’interruzione della violenza e le trasformazioni dei comportamenti maschili producono effetti immediatamente visibili nella relazione di coppia, sorprendendo sia il marito sia la moglie: “Ora, quando abbasso la voce, lei rimane spiazzata”. Gli uomini maltrattanti imparano a riconoscere la dimensione della scelta nell’impiego della violenza e comprendono che anche gesti apparentemente senza importanza possono produrre effetti negativi, gravi, talvolta fatali – “Basta uno spintone, la moglie batte la testa, le conseguenze possono essere molto serie”.
4.2. Scoprirsi vulnerabili
15Riconoscere la paura della compagna e gli effetti della propria violenza diventa per gli uomini motivo di sofferenza e di “crisi”, poiché – avendo ammesso la propria responsabilità come autori di violenza – non corrispondono più alla figura del “martire”. Come abbiamo visto, in un primo momento i maltrattanti esitano a nominare la violenza, la nascondono a se stessi e agli altri, utilizzano strategie discorsive per ridurne la portata. Alcuni dichiarano di non averne mai parlato con nessuno prima di arrivare al cam. Per spiegare il proprio silenzio evocano “un senso di pudore per il privato” o “la difficoltà a mettere in piazza i propri problemi”. Tuttavia, nel momento in cui acquisiscono consapevolezza dei propri atti, il “pudore” sembra lasciare spazio a un profondo senso di vergogna e di umiliazione.
Non c’è stata una volta in cui, dopo essere stato violento io non abbia provato dolore o vergogna. Ogni volta, ho sempre provato dolore, dispiacere per quello che è successo. Certo, la rabbia c’era. Ma dopo? Dopo c’era solo l’umiliazione. [S., intervista biografica]
Episodi ce ne sono sempre, non è che non ce ne siano più, però li gestisco diversamente. Cose che due anni fa sarebbero sfociate in urli, sberci, cazzotti, adesso non succedono più. […] Mia figlia è alle elementari, è ansiosa, ha paura di un maestro che urla e alza la voce in classe. Sono tornato a casa e mia moglie ha cominciato ad accusarmi, dicendo che è tutta colpa mia se la bambina si trova in questa situazione e se mio figlio maggiore ha degli attacchi di panico. Un tempo queste le chiamavamo “provocazioni”, adesso abbiamo capito che provocazioni non sono. Io ho subito riconosciuto di aver contribuito ai problemi della mia famiglia – gli attacchi di panico, le crisi, le paure – ho capito di avere la colpa. Ho provato a mettermi nei panni di mia moglie, come mi ha sempre detto l’operatore. Ho cercato di pensare a come potesse sentirsi lei, al fatto che poteva essere preoccupata per i bambini. Se non avessi saputo controllare quest’ira, sarebbe successo uno dei soliti disastri del passato. [E., incontro di gruppo]
16Se inizialmente si sentivano del tutto estranei alla violenza, una volta che riconoscono “la propria violenza”, gli uomini raccontano di scoprirsi smarriti e vulnerabili. Oltre a dover recuperare la relazione con la compagna e la stima e il rispetto dei figli, i partecipanti ai gruppi psicoeducativi individuano un’altra personale esigenza: restaurare la propria immagine di sé, la propria “faccia”, per “restare uomini” pur smettendo di essere violenti. Tale imperativo si traduce nella necessità d’interpretare nuove maschilità, coerenti con il modello di maschilità egemonica, senza tuttavia continuare ad aggredire la propria compagna. Se, in principio, la violenza appariva come una risorsa utile a “salvare la propria faccia” – come uomini, mariti e padri – e quindi riallinearsi speditamente al modello normativo di maschilità, in un secondo momento, i maltrattanti arrivano ad ammettere che, al contrario, la violenza mina la loro considerazione di sé e produce effetti dannosi anche per la propria reputazione – intesa non solo come pubblico prestigio, ma anche come considerazione di sé.
17Nel momento in cui riconoscono i propri comportamenti abusivi, gli uomini raccontano che il continuo conflitto con le proprie mogli li “angoscia”. Riferiscono di aver provato una profonda “sofferenza” ogni volta che hanno agito violenza sulla compagna. Raccontano la grande “fatica” nel cercare nuove modalità relazionali. Parlano di “crisi”, “paura”, “agitazione”, “frustrazione”.
Prima tornavo a casa la sera e pensavo “Ora mi aspetta il peggio di tutta la giornata”. […] Io ora non ho paura di tornare a casa. Non ho problemi, vivo anche serenamente il fatto che lei possa sclerare, sto bene, sono sereno. Da quando sono entrato qui dentro mi si è aperto un mondo. Per me è come essere andato a Lourdes [ride]. [O., intervista biografica]
18Riconoscere la propria vulnerabilità può rappresentare la chiave di volta per la trasformazione delle proprio condotte, poiché gli uomini si trovano obbligati a rivedere la propria vita in tutte le sue dimensioni e a cercare nuove strategie per rinegoziare la propria immagine. Come esprime un uomo nel corso di un’intervista biografica, la nuova consapevolezza, maturata grazie alla partecipazione ai gruppi psicoeducativi, può diventare il varco per indagare se stessi, per scoprire di poter scegliere comportamenti alternativi al maltrattamento.
Devo dire che questa [la violenza] è stata la porta d’accesso alla scoperta di me. Presuntuosamente forse credevo di conoscermi, ma poi non era così, perché altrimenti avrei potuto scegliere di agire in un altro modo. Ho scelto qualcosa che era dentro di me [la violenza], ma che evidentemente non ero io a scegliere. [V., intervista biografica]
19Riconoscere la vergogna e l’umiliazione – “Mi sono vergognato di aver fatto del male a mia moglie e ai bambini” – diventa il presupposto per immaginare nuove strategie di “recupero della propria faccia”. Una volta intrapreso un percorso in un centro per maltrattanti, fare luce sul proprio comportamento obbliga gli uomini a mettersi in gioco, a vedere se stessi come il vero terreno del conflitto, a riconoscere la frattura tra esteriorità e interiorità, tra razionalità ed emotività. In questa fase parlano della “fatica a essere presenti” o del “bisogno di trovare una connessione con se stessi”. La propria incapacità di scegliere comportamenti alternativi alla violenza viene dunque percepita come una debolezza. Frustrazione e sofferenza emergono come dato, associate alla difficoltà di modificare la propria condotta e di optare per altre modalità espressive.
Ho sentito di poter abbassare le difese. […] Ciò che ero non era ciò che credevo di essere. Non erano i miei principi o le mie convinzioni a parlare di me. Affrontavo la vita con la mente, e con la mente potevo costruirmi tutte le convinzioni che desideravo. Al di là dell’assunto che “la violenza è una cosa sbagliata”, dovevo osservare me stesso, mantenere alta la guardia per comprendere chi fossi veramente. Occorreva uno sforzo di analisi, senza il quale non sarei mai uscito dalla prigione di me stesso. [V., lettera pubblica]
20Si genera per gli uomini la possibilità di una riconfigurazione della propria maschilità, orientata in primo luogo alla trasformazione di sé, piuttosto che al controllo sulla propria compagna e all’azione sulla realtà esteriore.
[Nel gruppo], il fatto di confrontarsi in un ambiente dove le dinamiche degli altri hanno dei punti in comune con le tue, porta ad avere tanti punti di vista diversi, allora ci si arricchisce scoprendo altre possibilità. S’impara a non sentirsi troppo investiti d’importanza, a non dare troppo peso al tempo, alla velocità e pensare che le cose vadano risolte subito, all’istante. [L., intervista biografica]
È la nostra considerazione di noi stessi che, in alcune circostanze, ci porta a reagire. Perché magari non ci sentiamo accettati per quello che siamo convinti di essere, e allora fa male sentirsi dire qualcosa a questo proposito. E poi ti rendi conto, lo dico adesso, che quello che sei convinto di essere non è. Io ero convinto di essere una persona e ora mi ritrovo ad essere tutt’altro, soprattutto alla luce di questo percorso. Adesso che ne ho assunto la consapevolezza, mi rendo conto di quelli che erano i miei limiti. Prima la mia visione era assolutamente alterata. Io sono entrato qui che ero convinto di essere sicurissimo di me, sicurissimo di aver fatto bene… Sai mi sentivo proprio “l’uomo con le palle”, che non ha timore, che affronta qualsiasi cosa senza problemi e con capacità, tutto! E ora invece mi sono ritrovato a dire “Eh, io ero convinto di far bene determinate cose e invece mi rendo conto che ero fortemente limitato”. [Q., intervista biografica]
4.3. La fatica del controllo di sé
21L’impegno per evitare comportamenti violenti genera una continua tensione. Il “lavoro su di sé” da una parte è gratificante e fonte di soddisfazione per i maltrattanti, poiché produce cambiamenti positivi, dall’altra tuttavia li affatica, impedendo loro di “lasciarsi andare” e agire spontaneamente.
E. prende la parola. Sembra molto sereno. “Le cose vanno bene, sono cambiate molto. Spero che prima o poi mi venga naturale” […] Racconta alcuni conflitti con la moglie avvenuti nel corso del fine settimana. Mentre parla si rivolge agli altri uomini “E uno non si deve forse incazzare in questa situazione? E invece non mi sono incazzato!” E conclude: “Però è faticoso! È come se ci fossero due me, uno che si incazza e uno che mantiene la calma”. [Dal diario di campo, incontro di gruppo]
È stato proprio un lavoro certosino, faticoso, quotidiano. Quello di metterci sempre la testa, soprattutto quando si tratta di mia moglie. Per cui, anche quegli automatismi che prima in qualche modo avevo – la battuta detta in un certo modo, la cosa detta in un certo altro – ho cercato di contenerli e non ti nego che ancora ogni tanto vacillo. […] Non si cambia così facilmente, perché per spostarmi di un millimetro, mi sembra di aver fatto uno sforzo disumano. Agli occhi di mia moglie o di qualcun altro magari mi sono mosso molto poco. Ma dal mio punto di vista, anche solo spostare quell’asse di mezzo grado è stata una fatica immane. […] Ecco perché mi sento solo all’inizio, non ho la certezza di esserne fuori, di avere il controllo di me al 100%. Oggi sento di avere qualche strumento in più. [S., intervista biografica]
22Nonostante i miglioramenti, gli uomini descrivono l’interruzione della violenza come molto impegnativa. Il loro modo di (re)agire sembra essersi incarnato nei loro automatismi, fin nelle loro reazioni fisiche, forse anche per questo motivo continuano a riferirvisi chiamandolo “istinto”. Tale processo sembra rispondere a pratiche d’incorporamento, o embodiement, cioè l’introiezione (o esternazione) attraverso il corpo dell’identità2. La traduzione corporea delle emozioni sembra ripetersi secondo modelli prestabiliti – significativi per la costruzione, riproduzione e affermazione del genere3, in questo caso della maschilità – attivando reazioni precise in termini di rigidità muscolare, tensione, respiro affannoso.
L’istinto [di fare violenza] c’è, ma non viene più tenuto in considerazione, non è alimentato. È alimentato più un desiderio di continuare a sperimentare metodi nuovi, di alimentare e fortificare quelli e vedo che è proprio la carta vincente, per quel che mi riguarda. [O., intervista biografica]
23Come gli svenimenti ottocenteschi e il rossore rappresentavano reazioni fisiche prodotte dell’educazione femminile alla remissività e al pudore, allo stesso modo si può considerare la manifestazione della rabbia – dall’accelerazione del battito cardiaco fino all’“esplosione” violenta – come uno dei tratti di un comportamento appreso e sedimentato nel corpo4. Il corpo diventa il luogo dell’elaborazione implicita del sapere costituito dai codici della cultura, che si declina in maniera diversa secondo il genere e secondo le prescrizioni della norma eterosessuale5.
24Attraverso il percorso al cam, gli uomini imparano ad avere consapevolezza delle proprie emozioni negative: in alcuni casi riescono a “controllare l’istinto”, in altri vanno incontro a ricadute. Stimolato dalla visione di una scena del film Ti do i miei occhi 6 – in cui il protagonista aggredisce verbalmente la moglie e il figlio all’interno dell’angusto abitacolo della sua automobile, per poi uscire e prendere violentemente a calci l’auto – un uomo racconta di aver avuto una nuova recente esplosione di rabbia, in circostanze del tutto simili a quelle del film, dopo oltre due anni di frequentazione del cam.
Dopo anni è successo di nuovo. Ho già fatto un paio d’anni di percorso e credevo di essere proprio una persona totalmente diversa, invece è accaduto di nuovo. È successo una settimana fa… Eravamo in autostrada e abbiamo avuto una discussione. Mi sono fermato e sono uscito dalla macchina come un selvaggio, per fortuna poi mi sono calmato. Ho fatto qualche chilometro a piedi sotto l’acqua. Per fortuna eravamo solo io e la mia compagna, il bambino non c’era. Ma erano mesi, mesi, mesi, che non succedeva un episodio del genere. Vedendo questa scena del film… Mi ha proprio scosso, perché anch’io sono uscito dalla macchina, anche se non l’ho presa a calci come avrei fatto prima… La mia compagna era di nuovo spaventata, un’altra volta. Sono riuscito a calmarmi senza colpirla, a gestire questa cosa grazie al percorso che ho fatto qui dentro, per il fatto di averne parlato. Dopo questo episodio ho lasciato che le cose si risolvessero: non ho infierito, mi sono calmato, e dopo due giorni si è rimesso tutto a posto. Pensavo di esserne fuori, e invece, la bollicina è ripartita. [I., incontro di gruppo]
25Il processo di traduzione corporea di alcuni comportamenti continuamente ripetuti è talmente profondo che, nonostante la consapevolezza raggiunta, gli uomini dichiarano di dover costantemente vigilare su di sé, per evitare nuovi atti di violenza. In alcuni casi descrivono quest’allerta permanente come una condanna, qualcosa che li accompagnerà per tutta la vita, per cui non potranno mai veramente tornare a comportarsi in maniera naturale.
Si è svuotato il contenitore della rabbia. Però io non ho la certezza che se esce uno, magari mi sputa in faccia, non succede qualcos’altro. Bisogna che tenga alta la guardia, inevitabilmente. Forse la dovrò tenere tutta la vita, la guardia alta. Un punto di attenzione lo dovrò avere, non posso pensare di dormire tranquillo. [V., intervista biografica]
26La crescente consapevolezza rispetto alla propria responsabilità è certamente accompagnata da molti elementi di resistenza, tra cui il persistere di una concezione secondo cui le donne hanno un modo di agire irrazionale, viscerale, con cui la razionalità maschile fatica a misurarsi. Nelle rappresentazioni maschili persistono forme di sessismo benevolo, per esempio nella celebrazione del ruolo tradizionale materno oppure nell’esaltazione del dovere maschile di proteggere le donne. Se da una parte è possibile per gli uomini riconoscere le forme più evidenti di violenza maschile, d’altra parte è più difficile identificare le pratiche e i discorsi di ordinaria umiliazione, e i loro molteplici legami con forme più brutali di potere e controllo. In un processo circolare e continuo, numerose sfumature di sessismo sembrano derivare da – e allo stesso tempo nutrire – una cultura che perpetua le disuguaglianze di genere e riproduce incessantemente le gerarchie di valore tra maschile e femminile, contribuendo a limitare le possibilità femminili sul piano personale, professionale, politico e sociale.
4.4. La violenza immaginata
Una cosa che ho sempre detto è che nella mia vita “passata”, prima di approdare al cam, prima di questo problema della violenza fisica, non avrei mai pensato di essere violento, Non avrei mai pensato di esercitare violenza, anche se, immaginata, l’ho immaginata tante volte.
Quando magari ero piccolo e stavo con mio fratello, e magari ci davamo le botte, giocando, un gioco era prendersi a calci e pugni, come fanno anche i miei figli adesso. Era veramente un gioco, una cosa che faceva ridere, perché quando ti arrivano i colpi addosso è un’emozione forte, che impatta, e allora noi bambini, io o mio fratello, reagivamo ridendo. Difficilmente piangi. Se per sbaglio proprio cadi, allora piangi, ma non è un pianto per il colpo ricevuto, se stai giocando. […] Con il passare del tempo mi sono reso conto di non aver mai rielaborato seriamente questa cosa del “cosa vuol dire la violenza”, a scuola o con i genitori… Io poi non ero manesco, però quando sei piccolo ti dicono “non spingere”, “non fare lo sgambetto”, che ne so, queste cose qua… Quando hai una reazione violenta ti riprendono sempre, però magari non c’è un discorso approfondito su “cosa fa male della violenza”. Magari non è il colpo in sé ma l’umiliazione, il sentirsi sottomessi da un’altra persona, da un altro coetaneo, o fare brutta figura davanti agli altri, l’intrusione degli adulti.
[…] Crescendo, per quanto mi ritenessi appunto una persona che non voleva ricorrere alle mani, questa immagine mentale della violenza come risposta ce l’avevo in testa. Anche nei momenti in cui provavo delle delusioni: il pensiero tante volte era quello di reagire, di vendicarsi. Oppure mi tornavano in mente anche tanti discorsi che senti e approvi, di persone che hanno reagito in maniera violenta. Se tu non sei violento, magari anche perché non hai le palle di essere violento in una certa maniera, pensi che magari ti gratificherebbe, magari ammiri tante persone che sono capaci di esserlo.
[…] Quindi un pochino io la divido così, il prima e il dopo il problema violenza. Perché quando poi è sfociata questa violenza, mi ha creato dei problemi e non l’ho riconosciuta più come una risorsa o una cosa di cui andare tanto fieri. Penso che sarebbe successo comunque, anche se non fosse stato nei confronti di una donna o addirittura della mia donna. Perché poi, quando sono diventato violento con lei, mi è capitato di essere violento anche con altre persone. Già che ormai ero entrato nel calderone…
[…] Ricordo un paio di episodi in cui mi è capitato di essere violento, dove ho risposto a delle persone che mi avevano trattato male: sconosciuti, per strada, ma in maniera veramente aggressiva, in un modo per cui loro avrebbero potuto mettere le mani addosso a me, se fossero stati violenti al mio stesso livello. Ho avuto delle reazioni esagerate.
[…] Un’espressione che avevo usato all’inizio era che ormai il confine era superato e quindi quella cosa lì era divenuta possibile. Come se avessi passato un limite che era possibile superare, un limite che era abbastanza consentito oltrepassare. Sai, se uno si fa le pere non è che va a dirlo in giro, se non nella sua piccola cerchia. Se invece uno è violento, ci sono mille sfaccettature della violenza che sono accettate in società. Basta accendere la televisione, basta vedere quello che trasmettono, è una cosa talmente diffusa… Tutti i giorni ci sono notizie tragiche. Poi la gente è abituata, la violenza in famiglia è abbastanza tollerata.
[…] Anche dove abitavo io da ragazzo, non è che fosse veramente additata… Poche volte mi sono sentito dire in maniera chiara “Non si fa”, “Non bisogna farlo”. Nessuno dice “Questa cosa qua è sbagliata”. Perché poi, invece, quando me l’hanno detto in maniera esplicita, l’ho accusata la cosa, l’ho recepito… L’ho capita solo quando mi hanno detto in faccia, con il dito puntato “Non si fa! Non devi farlo”.
[…] Una volta mi è successo proprio così. C’era stato un forte litigio con la mia compagna […] E io le ho dato un bello spintone, per togliermela da davanti, perché lei era tra me e la porta. E quella volta si è fatta male, perché io l’ho spinta di lato, lei non se l’aspettava ed è caduta a terra e si è fatta un taglio. Una delle sue amiche è andata a soccorrerla, e l’altra amica, che tra l’altro fa la maestra e in questo caso è stato determinante, mi è proprio venuta davanti e mi ha fatto come si fa con un bambino che fa una brutta cosa, e il messaggio è stato preciso. Mi ha detto “Questa cosa non si fa!”. E io le ho detto “Ma l’hai vista?” e lei ha risposto “Non centra! Non si fa!”. Su di me quella volta ha agito molto, perché poi lei non ha aggiunto altro.
[…] Non è che mi abbia mai allettato la dimensione della violenza. Anche se esisteva in forma di possibilità, non l’avevo mai esercitata prima. […] Non l’avevo esercitata perché era solo una cosa dormiente, che poi si è accesa. Allora ho deciso di stare molto attento alle immagini che avevo in testa. Ai pensieri che mi frullavano per la testa. [L., intervista biografica]
27In questo lungo estratto riecheggiano alcuni elementi già sottolineati in precedenza, come per esempio la distinzione tra un “prima” e un “dopo” la violenza e il progressivo riconoscimento del fenomeno della violenza nella sua dimensione strutturale, sociale e culturale. Tuttavia, la lunga riflessione ex post sulla propria esperienza di “violento” illumina un altro aspetto rilevante. L. parla di “violenza immaginata” e “dormiente”, come altri uomini in diverse occasioni hanno affermato “la violenza era già nella mia indole” oppure “la violenza era qualcosa dentro di me, che non ero io a scegliere”. Tali formulazioni sembrano descrivere la violenza come una forma espressiva culturalmente tollerata e disponibile fin dall’infanzia, quando era soltanto un gioco che premiava con emozioni forti, oppure era ridotta a “lo sgambetto”, “lo spintone”, a quei pochi gesti indicati dagli adulti come scorretti e sleali.
28“Menarsi da bambini”, con gli amici o tra fratelli, è una pratica rievocata spesso dagli uomini che ho incontrato, raccontata come una condotta normale e socialmente accettata, come a confermare che la violenza tra maschi rappresenta una delle attività fondanti della socializzazione maschile, partecipa alla costruzione di legami omosociali ed è funzionale a definire le gerarchie tra pari. Eppure, secondo questa testimonianza, fin dall’infanzia è difficile capire, in maniera chiara e profonda, cosa significhi “veramente” la violenza – le sue conseguenze e gli effetti che produce – e quale sia il suo legame intimo con forme di aggressione altrettanto severe, ma tuttavia meno evidenti, come l’umiliazione, la sottomissione, il bullismo.
29Secondo la testimonianza di L., nel corso della vita si realizza un’esposizione continua alle “mille sfaccettature della violenza accettate in società”. Nell’esperienza dei maltrattanti, prima di arrivare al cam, la violenza non era mai stata veramente “additata” o condannata. Al contrario, la validazione sociale di certi comportamenti assimilabili alla violenza, pur con un grado diverso d’intensità, contribuiva a rendere sfuocato il confine tra condotte legittime e illegittime. La linea di demarcazione tra ciò che è permesso e ciò che è proibito diventa identificabile solo se il divieto è espresso con un messaggio chiaro e senza equivoci – “non si fa!” – come si dice ai bambini e come viene ripetuto a più riprese nel corso delle sedute degli incontri di gruppo al cam.
30Al di là delle possibili strategie di auto-giustificazione messe in atto dai maltrattanti, ai fini della comprensione del fenomeno è interessante tenere in considerazione il loro punto di vista, secondo cui i messaggi sociali intorno alla legittimità della violenza sembrano essere contradditori. Sebbene determinati comportamenti costituiscano reato – e tuttavia molti non ne sono consapevoli – quelle stesse condotte sembrano continuamente incoraggiate, in maniera diretta o indiretta, attraverso un ampio ventaglio di pratiche e discorsi socialmente accettati e condivisi, tanto da indurre uno dei partecipanti ai gruppi ad affermare con disinvoltura: “Tutti gli uomini lo fanno”.
31La violenza sembra socialmente e legittimamente riconosciuta come la capacità di affermare, confermare o ristabilire un ordine, che si realizza nella gerarchia oppositiva tra uomini e donne, ma anche tra diversi tipi di maschilità: uomini “con le palle” vs “idioti che sanno solo annuire”, uomini che sanno farsi rispettare vs uomini senza carattere, uomini forti vs uomini fragili. Anche nelle relazioni d’intimità, la violenza maschile si presenta come “un mezzo di espressione che mira ad appagare desideri”7 – il desiderio di affermazione di sé attraverso modelli normativi di maschilità – e come un dispositivo egemonico dal potere seduttivo, come ben illustrato nella testimonianza precedente: “Anche se non hai le palle di agire violenza, pensi che ti gratificherebbe, e ammiri chi è in grado di farlo”.
32Oltre le negazioni, minimizzazioni e giustificazioni, alcuni maltrattanti si dicono sinceramente sorpresi di essere stati capaci di commettere atti violenti di una certa gravità. Nel corso di un’intervista, uno di loro ha detto “Non mi sembra di parlarti di me, mi sembra di raccontarti un film”. Nel corso dei focus group, uno degli slogan scelti dagli uomini per una possibile campagna di comunicazione rivolta a maltrattanti è stato: “Il seme della violenza è dentro di te. Impara a riconoscerlo”. Nelle parole dei partecipanti agli incontri del cam ritorna spesso l’immagine evocativa di idee che sono state seminate dentro di loro in un passato non definito, che tuttavia solo oggi danno i loro frutti, materializzandosi in atti di allarmante brutalità, anche per chi li commette.
33Dopotutto il modello egemonico di famiglia eterosessuale riproduce lo schema della complementarietà tra ruoli maschili e femminili, la scuola educa diversamente i “bambini” dalle “bambine”, i media e la pubblicità celebrano la maschilità violenta presentandola come un atteggiamento audace, virile, gratificante. Le stesse identità che tentano di definirsi prendendo le distanze dal modello di maschilità eterosessuale egemonica si troveranno inevitabilmente riferite a esso e influenzate dalla sua onnipresenza, come ha osservato Cirus Rinaldi nel corso di una riflessione sul rapporto tra omosessualità e maschilità normativa:
Se pur ti dichiari gay, rimani maschio. Puoi dire “Io sono diverso dai maschi che stuprano, che uccidono le donne, che per costruirsi assumono una reputazione maschile”. Ma alla fine, è così vero che possiamo estraniarci? Lo facciamo perché è veramente così – sì, siamo strani – o lo facciamo per neutralizzare questa parte di maschilità che è anche dentro di noi? Possiamo continuare a opporci alla maschilità patriarcale, in un modo che non sia affine a questo processo che continua a costituirci, anche se in termini dispregiativi e oppositivi? […] Siamo poi così sicuri che i maschi omosessuali siano delle forme di maschilità critiche e impregnate di diserzione dalla maschilità normativa? Io dico di no.8
34Siamo di fronte agli effetti materiali della violenza simbolica9, depositata in credenze, atteggiamenti e giudizi morali, incarnata in precise pratiche corporee10. La “violenza immaginata” rivela la sua forza, poiché rappresenta una risorsa, anche solo in termini ideali, utile ad allinearsi senza fatica ai modelli egemonici di maschilità: “L’ho immaginata tante volte”, “Esisteva in forma di possibilità”, “L’idea c’era nella mia testa”, “Era una cosa dormiente, che poi si è accesa”. Nelle parole degli uomini, la violenza contro la propria compagna, ovvero nelle relazioni più intime e prossime, emerge quasi come una “scorciatoia”: una strategia sbrigativa per restituire, prima di tutto a se stessi, un’immagine della propria maschilità conforme alla norma.
4.5. Eroi. Dal controllo alla prestazione. Maschilità non-violente in scena
35Alla luce di questo percorso, che cosa avviene alla propria immagine di sé, come uomini, mariti e padri? Dall’immagine di “martiri”, attraverso la scoperta della propria vulnerabilità, gli uomini rinunciano a commettere atti di violenza e trovano nuove strategie per “salvare la propria faccia”. Poiché scelgono di disertare la violenza, i partecipanti agli incontri del cam sperimentano nuove pratiche per ricostituire la propria immagine, inventando nuove figure che siano coerenti con il modello di maschilità (eterosessuale) egemonica.
Tante volte mi sono immaginato che cosa avranno pensato i miei figli di me. Oppure temevo che per colpa della loro madre potessero avere un’immagine negativa. […] A un certo punto, una cosa che mi ha aiutato tanto è stato realizzare che comunque i miei figli cresceranno avendo davanti i loro genitori. Sapranno chi sono la loro mamma e il loro papà. Uno può essere infamato, svilito quanto si vuole, però comunque, se rimane ligio un pochino a quelli che sono i suoi principi, i figli poi si faranno una loro forte opinione. Gliela puoi raccontare, gli puoi raccontare delle balle, ma a un certo punto realizzeranno, diventeranno uomini come noi e sapranno vedere le cose… Questa paura, la paura che venga data un’immagine sbagliata di sé, va un pochino debellata, tanto poi la gente se la fa una propria opinione e se se l’è fatta sbagliata c’è poco da andargli contro. L’importante è essere se stessi. [T., intervista biografica]
36Dopo diversi mesi al cam, nella fase in cui non vi sono più esplosioni di rabbia e la violenza fisica sembra scomparire, gli uomini cominciano a ostentare la propria indifferenza rispetto al bisogno di difendere la propria reputazione. Nella testimonianza di T., l’eccessiva preoccupazione per la propria immagine viene vista come una fragilità, come un’insicurezza oggi superata. Scegliere di disertare la violenza diventa un modo per dimostrare la propria forza – non più fisica ma morale – davanti a se stessi, di fronte ai figli, nel rapporto con la compagna.
Ora io non ho più questo timore [della mia immagine]. Non è che mi sento più forte, lo sono. Tanto più forte da non dover reagire, da non sentire il bisogno di conquistare una posizione. E penso che i miei figli percepiscano questo. Anche perché prima, quando mia moglie attaccava la sua solita musica, io mi sentivo in difficoltà e avevo bisogno di reagire. Mio figlio prendeva le mie difese, diceva alla madre “Stai zitta”. La picchiava, le dava anche dei calci… Perché secondo me anche i figli vedevano che l’elemento debole da difendere ero io. Adesso non è più così. Quando acquisisci la forza, quando acquisisci il potere, sai di avere la situazione sotto controllo, sai di essere l’anello forte… Non hai l’esigenza di ricorrere alla violenza. […] La mia debolezza mi faceva essere violento. Mi sentivo minacciato. Quando ti senti minacciato? Quando ti senti in pericolo, quando senti che c’è qualcosa che c’è bisogno di arginare. Ma quando riesci a osservare la situazione, non la leggi più come un potenziale pericolo per te […] Non vedi più un pericolo, vedi qualcosa di assolutamente innocuo o addirittura qualcosa di positivo. Quindi, non c’è bisogno di ricorrere alla violenza […]. Devi imparare a sostenere una discussione accesa, a reggerla, a non farla degenerare. È importante riuscire a parlare, a dire le cose […]. Puoi anche essere assertivo. Se ti danno del rincoglionito e tu pensi già di esserlo, ti fa più male sentirtelo dire. Probabilmente era un’insicurezza mia, non era tanto per me quanto per i miei figli. […] All’epoca mi preoccupavo soprattutto dell’immagine che potevo offrire ai miei figli, mentre ora, se dovessimo discutere, se lei alza la voce, ai figli non gliene frega niente perché sanno che non si innesca niente, quindi stanno tranquilli. Dicono “Va be’, si sfogherà”. Loro prima sentivano quando io mi agitavo, iniziavano a sentirlo. Invece adesso non c’è il pericolo di conseguenze. Io non sclero più… Un tempo m’iniziavo a incazzare e avrei spaccato tutto. [Q., intervista biografica]
37Alla maturazione del loro percorso trattamentale, alcuni maltrattanti descrivono la violenza come un elemento della loro vita passata, in cui erano “inconsapevoli”, “deboli”, “insicuri”. Nel presente, affermano di aver imparato ad ascoltare, a controllare le proprie emozioni, a gestire le situazioni di conflitto mantenendo la giusta distanza. La propria immagine di sé, come uomini, mariti e padri, sembra (ri)costruirsi su altri presupposti, pur continuando a tendere verso il modello di maschilità (eterosessuale) egemonica. In questa fase, alcune frasi ricorrenti degli uomini sono: “Episodi ce ne sono sempre, però li gestisco diversamente”; “Bisogna imparare a saper gestire la situazione”; “La stessa cosa sono riuscito a gestirla in questa maniera, mentre in passato per lo stesso motivo si arrivava a discorsi, liti, scenate”.
38Nel passaggio tra passato e presente, tra prima e dopo, si mantiene e talvolta si rafforza la figura dell’homo faber, imprenditore di se stesso e risolutore, sebbene fondata su principi diversi: l’uomo che sopporta lascia spazio all’uomo che comprende; la razionalità ottusa viene messa da parte a favore dell’ascolto empatico e dell’efficace gestione delle proprie emozioni; la tentazione d’intervenire immediatamente a fronte di una “provocazione” è sostituita da un freddo distacco rispetto ad ogni situazione di conflitto. Queste performance alternative, esibizioni di nuove maschilità disinvolte e sicure, rimangono coerenti con i tratti normativi della maschilità egemonica e diventano motivo di soddisfazione, talvolta di un orgoglio paternalistico.
39Per continuare a “essere uomo” è necessario “fare l’uomo”11 attraverso pratiche alternative alla violenza, rispettando le prescrizioni della norma eterosessuale. Queste nuove maschilità sembrano fondarsi su nuove competenze e nuovi saperi. Abbandonando la violenza, i maltrattanti sembrano virare dalla logica del controllo – di sé, della propria compagna – alla logica della “prestazione”, secondo la concezione di Federico Chicchi e Anna Simone12, che da un punto di vista del genere diviene la strategia per l’adempimento del modello di maschilità egemonica. Nei paragrafi successivi analizzerò alcuni esempi di saperi e competenze acquisite e messe in scena dagli uomini, in sostituzione dei comportamenti maltrattanti, e presentate come nuovo fondamento delle loro maschilità “rinnovate” e “non-violente”.
4.5.1. Sapersi esprimere
Ho capito che esiste anche un altro modo di affrontare le situazioni, non affrontandole di petto ma facendo un passo indietro, cercando di capire cos’è la cosa più conveniente, perché è anche una questione di furbizia. È più conveniente delirare o cercare di starne fuori? […] Per esempio, la settimana scorsa tra di noi c’è stato un momento proprio idilliaco per me, che non succedeva da qualche anno. Mi sono sentito proprio che dovevo veramente dirle delle cose e mi sentivo di potergliele dire bene, a costo di qualsiasi reazione da parte sua. E infatti ci siamo incontrati, le ho chiesto udienza, perché avevo bisogno di due ore per parlare con lei. Ci siamo visti, abbiamo parlato e sono stato contento perché sono riuscito a farle capire quello che le volevo dire, senza arrabbiarmi… Ci sono stati dei momenti carichi, ci sono stati dei momenti in cui mi sono messo a piangere disperatamente, perché non ero ancora riuscito a spiegarmi e lei voleva andare via. […] Aveva visto che mi stavo agitando, lì per lì ha avuto paura, poi però è rimasta perché ha visto che comunque non ero stato violento. Evidentemente non si è sentita minacciata come un tempo, quando quel genere di agitazione, più che nello sconforto pesante poteva sfociare nella rabbia e in vere e proprie aggressioni. [L., intervista biografica]
40Rispetto a un tempo in cui la tensione emotiva sarebbe sfociata nell’espressione violenta, oggi L. racconta di aver saputo esprimere la sua frustrazione senza ricorrere alla violenza, ma parlando e sfogandosi attraverso il pianto – non solo per rispetto della propria compagna ma anche “per una questione di furbizia”. Nel caso dell’episodio appena citato, “la violenza dormiente” non si è risvegliata. Abbandonare la violenza ha condotto L. ad adottare forme espressive meno consuete e meno ovvie per un uomo, faticose da realizzare, ma forse strategicamente più efficaci. In tal senso i maltrattanti dimostrano innanzitutto a se stessi di essere capaci di fare la scelta più conveniente, sia per una proficua gestione del rapporto con la compagna, sia per tenere alta la considerazione di sé. Sebbene cercare il dialogo e piangere non siano comportamenti ascrivibili ai modelli egemonici di maschilità, la performance della maschilità normativa sembra realizzarsi attraverso la capacità di operare una scelta strategica di successo. Pur abbandonando la violenza, gli uomini continuano a fare il genere al maschile e ad aderire consensualmente alla norma eterosessuale, mostrando in primo luogo a se stessi di saper fare la propria maschilità diversamente.
4.5.2. Saper scegliere
41Nel passaggio che segue, Q. racconta di aver saputo scegliere di evitare la violenza, in una situazione di tensione che in passato lo avrebbe portato ad aggredire la compagna.
Se avessi agito violenza, che cosa sarebbe successo? Avrei sentito un enorme senso di colpa. Gli stessi occhi che mi guardavano, un senso di sconfitta e di fallimento forte, ma soprattutto un senso di grande frustrazione interiore, perché avrei continuato a non essere io, ma una parte di me che prende il sopravvento e ha il controllo. Per cui, decidendo di evitare la violenza, ho provato un grande senso di libertà, nonostante lei mi mettesse le mani addosso, nonostante fossi stato offeso, nonostante vivessi una sensazione che mi dava ansia perché lei urlava davanti a tutti… Non avevo quel tipo di frustrazione, ma avevo quel senso di consapevolezza per cui pensavo: “Non posso controllarla questa situazione. Non lo posso fare. Lei farà quello che vuole” […] Per me, è stato un punto importante della mia esperienza. Per me, la vera schiavitù era lo sfogo della rabbia. […] Il senso di libertà nasce nel momento in cui il paradosso vuole che sei più libero tra le quattro mura di una cella che correndo su un prato. Quel tipo di libertà è una libertà che va al di là dell’ambiente esterno. […] Il senso di libertà che ho provato è stato quello della libertà di scegliere, e di impedire a qualche cosa di esterno di fare delle scelte che alla fine non volevo. Ho scelto di non volere essere violento. E a seguito di tutta questa cosa, quando mi sono alzato il giorno dopo mi sentivo bene, perché sentivo di aver agito bene, sentivo che dovevo fare qualcosa, che dovevo aiutarla. Poi, ero consapevole che, se lei della sua vita vuole fare delle cose, io non posso impedirle di fare quello che lei sente di fare. [S., intervista biografica].
42La scelta di non agire violenza permette di sottrarsi a quel senso di sconfitta e di fallimento che sarebbe stato generato dall’aperta manifestazione della rabbia. Riconoscere di saper scegliere attivamente e consapevolmente, anziché lasciarsi passivamente “possedere” dalla violenza, suscita un grande “senso di libertà” dai vincoli e dai condizionamenti esterni: un altro dei tratti normativi della maschilità egemonica.
4.5.3. Saper accettare
43Grazie al percorso all’interno dei gruppi, guidati dall’intervento dell’operatore e dell’operatrice, con il tempo gli uomini sembrano sviluppare la capacità di mettersi in ascolto di un altro desiderio, poiché sviluppano una maggiore empatia nei confronti della propria compagna e allo stesso tempo guardano a se stessi con un nuovo sguardo. L’“esuberanza” della soggettività della compagna non è più (solo) percepita come un limite, ma come una risorsa in grado di arricchire la loro esperienza umana.
44In questa fase, alcuni uomini sono in grado di accettare nuovi compromessi nella gestione delle relazioni affettive, per esempio accogliendo di buon grado una separazione consensuale – “per il nostro bene, ma soprattutto per quello del bambino” – oppure attraverso configurazioni non convenzionali della vita familiare, come nel caso che segue:
Domenica per esempio siamo stati bene. Io sono stato a casa mentre lei è andata al cinema con il bambino. Poi, quando sono tornati, il bambino è venuto a dormire nella stanza in cui dormo io e mi diceva come fare perché non mi facesse male la schiena. […] Prima avrei reagito in tutt’altro modo, ora accetto di dormire da solo nel lettino, ci vado senza che me lo dicano. Ora ho pazienza, per me non è un problema. [I., incontro di gruppo]
45Alla luce del percorso al cam, quest’uomo è stato capace di accettare la propria difficoltà a convivere con la moglie, poiché aveva constatato di non essere sempre in grado di evitare del tutto gesti aggressivi nei suoi confronti. La coppia ha quindi raggiunto il compromesso di convivere nello stesso appartamento solo alcuni giorni la settimana e tuttavia di continuare a dormire in camere separate, trovando in questo modo un nuovo equilibrio nel rapporto tra marito, moglie, e figlio. Essere capaci di riconoscere e ammettere i propri limiti diventa un tratto della loro maschilità non-violenta rinnovata. Tale abilità si realizza nella possibilità di sperimentare forme di relazione alternative a modelli prestabiliti, per accogliere configurazioni diverse, più vicine al proprio sentire e a quello della compagna e dei figli. La capacità di sottrarsi all’ingiunzione di modelli familiari stereotipati rappresenta ai loro occhi un altro esempio di maschilità competente di cui essere orgogliosi.
4.5.4. Saper risolvere
46Alla fine del percorso trattamentale, anche il profilo dell’“uomo risolutore” sembra sopravvivere alla sospensione del ricorso alla violenza. Di seguito riporterò due episodi simili in cui il marito è chiamato a intervenire in situazioni di emergenza a sostegno della moglie. Nel primo estratto, nel corso di un’intervista biografica, V. racconta un episodio in cui la donna era rimasta senza benzina e lui aveva reagito in maniera esagerata, trasformando un banale incidente in un grave episodio di violenza.
Il giorno dopo saremmo partiti in vacanza con altre persone. […] Io ero diventato matto a sistemare tutta una serie di cose prima della partenza […]. E quella sera, dopo quella mole di lavoro, decidemmo di andare fuori a cena. Eravamo con la macchina e con lo scooter, perché entrambi stavamo rientrando dal lavoro in posti diversi. Poi, tornando, lei finì la benzina. Io ero già arrivato a casa e lei mi chiama e mi dice “Sono senza benzina”. E io mi incazzai. Dissi “Ma come? Non fai mai benzina!? Arrivi sempre all’ultimo momento!”. Fatto sta che andai lì, presi la tanica dalla macchina, andai a prendere la benzina, e cominciò a esserci una discussione accesa. Discussione che cominciò a degenerare nelle solite identiche dinamiche di sempre, fino a un punto in cui diventò particolarmente cruenta. Lei cominciò a urlare a squarciagola alle due di notte. […] Quindi, quando la sentii urlare, io la presi per farla stare zitta, e lei cominciò a graffiarmi con le mani. Cercai di fermarla, e il risultato fu che lei rimase graffiata qui [indica il viso] e sul braccio. Io la presi per le braccia con forza e lei rimase graffiata… e il giorno dovevamo partire con gli altri! Tutti l’avrebbero vista così… A volte io non so nemmeno come sia potuto accadere tutto questo. Ma questo è stato. [V., intervista biografica]
47Il secondo frammento invece è estratto dagli incontri di gruppo, a distanza di due anni. L’uomo riferisce un secondo episodio del tutto simile al primo e questa volta racconta di aver saputo risolvere il conflitto in modo completamente diverso.
Ero al lavoro e lei mi telefona mentre era alla guida. Io mi trovavo in ufficio e stavo per mettermi a mangiare. A un certo punto la sento imprecare, perché le si era spenta la macchina nel traffico. È la quarta volta che succede che lei rimane a secco perché si dimentica di fare benzina o perché fa delle valutazioni molto soggettive su quanto dovrebbe durare la benzina. In passato, in occasioni del genere abbiamo avuto delle discussioni molto accese, una volta le ho anche dato uno schiaffo per questo fatto. Quindi in quel momento sentivo che stava montando una rabbia dentro di me, conoscevo quella reazione e sapevo perfettamente dove mi avrebbe portato. Ho frenato subito e le ho detto “Vengo lì”. Ho mollato il pranzo e l’ho raggiunta. Avevo la tanica nel baule, e ho risolto. [V., incontro di gruppo]
48Nel caso della risoluzione non-violenta del conflitto, V. è stato capace di interpretare efficacemente la propria maschilità non-violenta. Davanti agli altri uomini del gruppo si mostra fiero della sua nuova performance di “uomo risolutore”, ancora un tratto tipico della maschilità normativa. La sua nuova immagine di sé si fonda sull’orgoglio per il fatto di sapere reagire in modo civile, consapevole, maturo, in situazioni che in passato lo avrebbero condotto a gesti di violenza carichi di conseguenze negative. Se in passato la violenza commessa lo avrebbe portato a sentirsi in colpa, a vergognarsi o a sentirsi umiliato, la sua nuova abilità – peraltro espressa con un velato compiacimento paternalista – nell’interpretare il ruolo positivo dell’“uomo risolutore” senza aggredire la compagna, anzi proteggendola, gli procura viceversa un senso di soddisfazione e di benessere. Questo nuovo profilo, seppur non-violento, è fondato su nuovi saperi/poteri e rimane nella cornice della norma eterosessuale e dei rapporti gerarchici tra i generi, poiché colloca l’uomo-competente in una posizione di superiorità rispetto alla donna incapace e distratta. A conferma di ciò, va osservato che, nel contesto dell’incontro di gruppo, la narrazione dell’episodio genera l’ammirazione degli altri partecipanti accompagnata da risatine e sguardi complici, suscitati al cliché sessista della “donna al volante”.
4.5.5. Saper gestire
49Rinegoziare la propria faccia su altri presupposti permette agli uomini di sostituire l’immagine dell’“eroe” a quella del “martire”. Nel caso che presentiamo in questo paragrafo, tale trasformazione si traduce nella capacità di affrontare la separazione, e successivamente il divorzio, “a mente fredda”, evitando la spirale di violenza che sembrava annunciarsi nel corso dei primi incontri.
50Nel momento in cui ho cominciato a osservare i gruppi, C. descriveva il processo di separazione dalla moglie come molto angosciante, caratterizzato da continui scontri e reiterati episodi di violenza. Nel corso dell’intervista biografica, circa un anno dopo, l’uomo presenta invece la separazione con distaccato ottimismo, fino ad affermare: “La separazione è il male minore”. Gli estratti che riportiamo di seguito, oltre a testimoniare una progressiva interruzione della violenza fisica, permettono di osservare la graduale trasformazione del suo atteggiamento nei confronti della moglie ma soprattutto della sua immagine di sé: di volta in volta C. interpreta la propria maschilità in modo diverso, selezionando nuovi elementi, riuscendo tuttavia a mantenerne la stabilità all’interno del paradigma della matrice eterosessuale. Questo primo estratto dal diario di campo descrive la sua condizione all’inizio del percorso trattamentale.
C. è entrato in fretta nella stanza, ha preso una sedia e l’ha messa dalla parte opposta rispetto a dove si siede di solito. Mostrandosi insofferente dice “Vediamo se cambiando posto cambia qualcosa”. Sbuffa, si muove continuamente sulla propria sedia, ha difficoltà a seguire le discussioni di gruppo, si distrae quando parlano gli altri uomini. Sembra assorto nei suoi pensieri. […] È il suo turno di parola. È visibilmente agitato. Fa una battuta a denti stretti, chiede di saltare il turno e parlare dopo, ma si vede che fatica a contenere la rabbia. Esordisce dicendo “Domenica ho avuto uno scontro”. Descrive un episodio di violenza verbale e poi il modo in cui ha distrutto il cellulare della moglie davanti al bambino. [Estratti dal diario di campo]
51Nel corso dei primi incontri C. afferma di “stare male”. È completamente assorbito dalla propria sofferenza e manifesta la propria tensione anche nel corso delle sedute di gruppo. Appare molto centrato su di sé. In questa fase gli operatori temono nuovi e più gravi episodi di violenza ed esercitano un particolare controllo sulle sue condotte.
Io sto male. Siamo praticamente separati in casa. Ognuno mangia da sé, dorme per conto suo. C’è freddezza, c’è tensione. Questa situazione mi fa tristezza. Questa situazione per me è una sofferenza che mi dilania. L’attrazione tra di noi è forte e persiste. A me quasi mi sembra una trappola. [C., incontro di gruppo]
52Qualche settimana dopo, la separazione si profila come una scelta che C. è costretto a subire. Dal suo punto di vista, la fine della relazione è un’opzione inaccettabile. La decisione sembra imposta dalla moglie, nei confronti della quale dice di nutrire un profondo risentimento.
Nel corso dell’incontro di oggi, è soprattutto C. a parlare. La sua situazione sembra essere arrivata a un bivio, o forse a un vicolo cieco: una convivenza forzata con la compagna, il rapporto affettivo inesistente, una separazione che gli sembra impossibile affrontare, sia per motivi economici (stipendio insufficiente, alto costo della vita, due affitti, ecc.) sia logistici (gestione della vita quotidiana, in particolare dell’accudimento del figlio). Nelle sue affermazioni accusa costantemente la compagna di avergli reso la vita impossibile e di non collaborare a risollevare le sorti della vita coniugale. […] Sostiene la “non fattibilità” della separazione, insistendo sulle difficoltà economiche e sulle esigenze del bambino, il quale, a suo dire, “vorrebbe vedere i genitori insieme”. Eppure, sostiene di “aver imparato a sopportare”. [Estratti dal diario di campo]
53Con il succedersi degli incontri di gruppo, C. comincia ad apparire più sereno. Si dichiara disposto ad accettare il sostegno di altre persone, da parte dei suoi genitori e della famiglia della moglie. Si mostra preoccupato per il cambiamento in arrivo, ma sembra accogliere la separazione come possibilità. Dice di essere in grado di mettere da parte il suo risentimento e riconosce l’affetto che lo lega alla madre di suo figlio.
Per la prima volta dopo diversi incontri, C. oggi sembra più calmo. “Questa settimana è stata più tranquilla. Lei sembra aver deciso di volersi separare. A me disturba però lo accetto. Me ne sto facendo una ragione”. Fa presente il fatto che si sta facendo aiutare economicamente dai genitori, tuttavia questa volta non esprime l’insofferenza né il senso di umiliazione che aveva manifestato nell’incontro precedente. Parla a lungo del figlio, con apprensione ma tranquillamente. Rispetto alla prospettiva della separazione, la sua preoccupazione per il bambino viene enfatizzata a più riprese: “Mi dispiace per lui” oppure “È lui che ne risente più di tutti”. Rispetto alla moglie si mostra molto più sereno delle volte passate, affermando: “Voglio bene alla madre di mio figlio”; “Siamo andati a cena fuori ieri e ci siamo divertiti, siamo stati bene”; “Possiamo trovare regole e accordi per parlare serenamente”. Oggi riconosce i traguardi raggiunti e gli aspetti positivi: “Ho smesso di menare le mani, sicuramente a parole continuo a essere aggressivo, ma sto facendo un percorso”. [Estratti dal diario di campo]
54Una volta accettata la separazione, C. diventa operativo: affronta gradualmente le difficoltà che si presentano di volta in volta ed è in grado di parlarne serenamente, ascoltando e tenendo in considerazione anche il punto di vista della sua (ex) compagna.
C. è oggi irriconoscibile rispetto a qualche settimana fa. Appare stanco, ma è sereno, disteso, di buon umore. Al suo arrivo scambia un paio di battute con un altro partecipante ai gruppi, si confronta cordialmente con l’operatrice in merito alla separazione, chiede qualche consiglio sui suoi problemi di salute. […] Descrive nei dettagli la dinamica organizzativa e progettuale in vista della separazione: la nuova casa, i turni per prendere il bambino, la gestione delle spese comuni e dell’affitto. Per la prima volta presenta queste difficoltà come affrontabili, come una configurazione realizzabile: “Abbiamo parlato della separazione, e sono riuscito ad ascoltare. Ho condiviso quello che lei diceva, abbiamo una visione comune. Lei si è attivata e ha già trovato una casa”. E ancora: “Quello di cui sono sicuro è che lei è la madre di mio figlio e lo sarà sempre, per me è una persona importante”. Rispetto al figlio afferma: “Io voglio comunque essere presente per questo bambino, è importante per me e per lui. Voglio seguire questo figlio”. [Estratti dal diario di campo]
55Un secondo momento rilevante è rappresentato dal passaggio in cui, nonostante il dispiacere, C. sostiene che “la tensione si è scaricata” e si definisce calmo e in pace con se stesso. Esprime qualche timore rispetto all’immagine che può offrire di sé, in quanto separato – “La gente fa discorsi a cazzo sulle separazioni” – ma appare orgoglioso della sua nuova condotta. Davanti al gruppo di uomini si compiace di riuscire a vivere questo cambiamento con serenità, coerenza, senza ricadute, e si mostra capace di affrontarne le conseguenze.
C. aggiorna il gruppo rispetto alla sua situazione. “La novità è che questa settimana è arrivata la lettera dall’avvocato di mia moglie e dovrò andare a parlare con lui. Dovrò trovarmi un avvocato anch’io, non so chi, perché non conosco nessuno. Lei sta nuovamente ricevendo il sostegno della sua famiglia e questo mi fa piacere. Mio figlio è la mia preoccupazione principale. Ho due mesi di tempo per organizzarmi. Fino a metà mese lui dovrebbe poter rimanere con me. Tutta questa situazione mi provoca un grande dispiacere perché trovo mia moglie una persona sola, al di là delle amicizie e della famiglia. La tensione che avevo dentro prima s’è scaricata tantissimo. Ho tante idee nella testa, ma le sto affrontando con calma. Credo di essere in pace con me stesso, ne sto parlando pubblicamente, con la mia famiglia, con alcuni colleghi. All’inizio ero un po’ titubante perché a volte la gente fa discorsi a cazzo sulle separazioni. Sono orgoglioso del fatto che riesco ad affrontare con serenità questa situazione. La gente mi chiede “Ma come fai? Ma come fai a reggere?” Nel pronunciare queste frasi, l’uomo sembra quasi vantarsi della propria forza. Sembra compiaciuto della sua capacità di essere all’altezza della situazione. [Estratti dal diario di campo]
56L’esibizione della sua fierezza si rinforza ulteriormente nell’intervista a una testata online, per un reportage sulla violenza contro le donne. C. accetta di apparire a volto scoperto e nel corso dell’intervista descrive la scelta della separazione come una decisione condivisa con la compagna:
C.: “Abbiamo preso la decisione, mia e di mia moglie, di optare per la separazione. La separazione è il male minore. […] La violenza ha rovinato il mio matrimonio”.
Giornalista: “Perché secondo te gli uomini si comportano così?”
C.: “Sicuramente si approfittano di una situazione che è consolidata, probabilmente anche le donne glielo hanno permesso. In questo senso devo ringraziare mia moglie che mi ha fatto capire molte cose”. [Intervista a un giornale online]
57C. ammette pubblicamente di aver agito violenza e si dichiara soddisfatto del modo in cui ha saputo affrontare questo difficile percorso. Con ostentata sicurezza afferma di non temere le incertezze del futuro e, nel corso di un incontro di gruppo, traccia un bilancio del suo percorso:
Ringrazio gli uomini presenti, così come gli operatori del cam perché questo percorso è stato utile, anche se comunque io e la mia compagna abbiamo deciso di separarci. La separazione più che un colpo è stata una liberazione. L’amore sicuramente non esiste più, spero che in futuro ci sia rispetto. Devo imparare ad avere più rispetto per me stesso, a volermi più bene. […] Il rapporto con mia moglie si è rovinato e devo dire di aver capito che la responsabilità è mia e solo mia. Ora io vedo tante più cose rispetto a prima. Ho avuto delle belle soddisfazioni. […] Ormai la separazione è in atto e la settimana scorsa ho avuto un colloquio con l’avvocato. Alla fine ho detto di sì a tutte le sue condizioni. Sarà una difficoltà notevole almeno per un anno, ma la cosa non mi spaventa, mentre prima sì. [Estratti dal diario di campo]
58Nei due passaggi appena citati, l’uomo sembra trasformare il proprio stigma di “violento” nell’emblema13 del testimonial, attraverso l’ostentazione della sua capacità di agire con distacco, per arrivare a considerare la separazione, non solo un “male minore”, ma addirittura “una liberazione”. Anche nell’intervista biografica troviamo conferma a tale atteggiamento. C. si mostra impavido anche di fronte a un futuro incerto. Dimostra di avere il controllo della situazione, sapendosi organizzare in maniera efficace rispetto alle nuove condizioni di vita. In particolare, è in grado di riconoscere la propria vulnerabilità, ammettendo di aver provato paura per se stesso, non solo per la sorte del figlio:
Temevo la separazione perché avevo paura per me, avevo paura di quello che poteva riservarmi il futuro, per una situazione che è di difficoltà grossa. Lo è effettivamente perché io, dal momento in cui mi sono separato, mi sono trovato senza una casa. Dal giorno in cui mia moglie è andata via dalla casa dove stavamo, io in quattro o cinque giorni ne ho trovato una in affitto, anche se a una cifra molto alta, però confido che le cose possano cambiare. Soprattutto temo per il rapporto con mio figlio, spero che sia la scelta giusta, vedo che per ora si sente bene. Le paure che avevo qualche mese fa sono venute meno, adesso sto battendo il passo, rispetto a come potevo essere io, ogni giorno un piccolo passettino lo sto facendo. Sono piccoli passi, impercettibili, che comunque ci sono… [C., intervista biografica].
59Nel corso di questo lungo percorso individuale, possiamo ricostruire alcune tappe della trasformazione della sua maschilità. Dal timore della perdita e del disonore – rappresentato dall’abbandono e dalla separazione percepita come fallimento – fino all’orgogliosa assunzione di responsabilità rispetto ai propri comportamenti violenti, quest’uomo costruisce attivamente una nuova immagine di sé, interpretando con fierezza una maschilità rinnovata ed estremamente competente.
60Dalla logica del controllo alla logica della prestazione, passando per l’accettazione della propria vulnerabilità – “Ho avuto paura per me ” – C. afferma di non avere più bisogno di esercitare un controllo sulla propria compagna, né di dover piegare la situazione alle proprie esigenze. Diversamente, mette in mostra le sue nuove abilità, competenze, per mostrare di saper riconoscere una situazione in continua evoluzione e di essere capace di reagire in maniera ai suoi occhi adeguata, pertinente, coraggiosa, “battendo il passo”. La separazione non è più percepita come una perdita ma come una sfida, ovvero l’occasione per verificare i nuovi skills acquisiti con l’esperienza. Come avviene per molti padri separati, anche la paternità assume nuovi significati, divenendo un nuovo terreno su cui misurarsi e mettere alla prova la prestazione di una maschilità rinnovata. La fierezza generata da questa nuova immagine di sé sfocia, nel caso di C., nella volontà di assumere un ruolo testimoniale, quasi messianico, rispetto all’abbandono della violenza, come dimostrato sia dalla scelta di partecipare apertamente all’intervista per un quotidiano online, sia dal modo in cui dispensa consigli ad altri uomini. Nel corso dei focus group egli arriva ad affermare con enfasi: “A me interessa particolarmente parlare di questa cosa, far conoscere quella che è stata la mia esperienza”. Anche nel corso dell’intervista biografica approfondisce ulteriormente alcuni di questi aspetti:
Sicuramente ora sto riuscendo a mantenere il controllo, anche perché non mi sto vergognando di quello che sono stato e nello stesso tempo cerco di far capire certe cose a delle persone che tendono a comportarsi in maniera violenta, persone di mia conoscenza, che gravitano intorno a me, soprattutto nell’ambito lavorativo. Osservo certi comportamenti che possono sfociare in situazioni deprecabili. E consiglio a tutti di intervenire prima, e a volte mi sento dire “Ma tanto tu ti sei separato”. E io rispondo: “Ma questo è il male minore, se l’avessi ammazzata, non sarei separato, sarei in galera”. A volte ho avuto paura di me, ma per fortuna sono riuscito a non andare mai oltre il limite”. [C., intervista biografica]
*
61Con il venir meno della vergogna e del senso di colpa, queste maschilità rinnovate e non-violente fanno della prestazione la loro nuova bandiera. Riferendosi alla prestazione maschile corporea – intesa come potenza fisica e sessuale – Connell sostiene che “il genere diventa vulnerabile quando la prestazione non può essere continuata”14. Viceversa, nel nostro caso, essa permette di compensare la fragilità di genere dichiarata dai maltrattanti nel momento della “crisi”. La prestazione si presenta come un’efficace strategia per stabilizzare15 la maschilità, nonostante questa riveli la sua vulnerabilità, in parte dovuta al riconoscimento di sé come uomini che hanno agito comportamenti violenti. Tale risultato si fonda sull’acquisizione di nuovi saperi – sapersi esprimere, saper scegliere, accettare, risolvere e gestire – che sostituiscono il ricorso alla violenza o permettono la sua canalizzazione, grazie all’impiego di pratiche alternative.
62I nuovi saperi/poteri si traducono in nuove condotte maschili “convincenti e legittime”16, restituendo tuttavia un’immagine intatta dell’homo faber: risolutore, razionale, padrone di sé e soprattutto competente. In tal senso, le traiettorie dei maltrattanti, da “martiri” a “eroi” attraverso un ventaglio di diverse configurazioni, permettono di evidenziare la tensione verso modelli egemonici maschili nonostante l’interruzione della violenza. I discorsi e le pratiche degli uomini continuano a fondarsi sulla rappresentazione di sé come soggetti razionali, determinati, capaci di raggiungere i propri scopi.
63Traiettorie di questo tipo non rappresentano certo una radicale alterazione dei rapporti di potere strutturali tra uomini e donne, tuttavia, grazie al lavoro sui maltrattanti, la violenza maschile viene efficacemente contenuta e le vite di alcune donne vengono risparmiate. Nell’affermare “Se l’avessi ammazzata, oggi non sarei separato, sarei in galera”, C. rimane centrato sulla propria esperienza individuale e dimentica di riflettere su altri risvolti da non sottovalutare: poiché ha saputo fermarsi prima di raggiungere l’estremo più brutale del continuum della violenza, il maltrattante non solo si è sottratto a una severa condanna penale, ma ha evitato di uccidere l’ex moglie e di rendere il figlio un “orfano di femminicidio”.
64L’etnografia sembra rivelare che non vi è un modello di “vero uomo” in opposizione agli “uomini violenti”, sebbene molte campagne di comunicazione sulla violenza rivolte a uomini insistano su tale aspetto17. Al contrario, esiste una pluralità di configurazioni per costruire e mettere in scena le maschilità, rimanendo all’interno del modello della maschilità (eterosessuale) egemonica, quindi intorno ai valori del rispetto, del controllo, dell’indipendenza, del successo.
65In questo gioco di produzione del maschile, la violenza contro la propria compagna è, come altre forme di devianza e crimine, una pratica maschilizzante, ovvero una pratica “con effetto maschilizzante per il sé ”18. I risultati di questa ricerca etnografica sugli uomini maltrattanti ci invitano a superare un inquadramento di diverse forme di violenza maschile contro le donne in termini oppositivi, come un conflitto che si gioca esclusivamente nella battaglia degli uomini contro le donne. Lo studio delle maschilità permette di andare oltre questa logica dicotomica, per conferire una diversa rilevanza alle condotte violente degli uomini nelle relazioni d’intimità: riconoscendo in primo luogo la centralità del sé (maschile), la sua continua tensione verso modelli egemonici e verso il suo posizionamento nell’ambito dei rapporti relativi tra diversi tipi di maschilità.
66Attraverso il percorso psicoeducativo al cam, gli uomini apprendono a interrompere la violenza per sostituirla con comportamenti more rewarding, più gratificanti in termini di rappresentazione di sé. Interpreti di una pluralità di maschilità, i maltrattanti che hanno deciso di abbandonare la violenza contro la propria compagna inventano nuovi modi per recuperare la propria immagine nelle situazioni di conflitto, e per farlo mettono in campo nuovi saperi/poteri coerenti con la norma eterosessuale. L’efficacia di queste nuove prestazioni permette inoltre di rafforzare la propria maschilità intorno all’idea di successo.
Ho capito che quei comportamenti appartengono al passato, tuttavia l’istinto c’è, ma non viene tenuto in considerazione, non è alimentato. È alimentato più un desiderio di sperimentare metodi nuovi, di continuare a sperimentarne, di alimentare e fortificare quelli. Vedo che è proprio la carta vincente, per quel che mi riguarda. Mi sento molto meglio, anche perché quelle metodologie che ho trovato per me stesso vedo che funzionano e più le uso, meglio funzionano. […] Il mio problema era che non ero mai sicuro di essermi fatto capire. Mi sembrava sempre di non riuscire a spiegarmi, mi faceva molto male sentirmi interpretato in maniera stravolta rispetto a quello che volevo dire, in maniera dissonante. In altre parole, temevo di apparire in un altro modo. [T., intervista biografica]
67Nell’arco di questo processo, nelle testimonianze degli autori di violenza, le donne, mogli e compagne, sembrano restare sullo sfondo, come a dimostrare che la violenza contro le donne è un conflitto che, di fatto, riguarda i rapporti tra gli uomini, la percezione che gli uomini hanno della propria maschilità – sempre mutevole e instabile, in cerca di continue conferme – e il timore della propria vulnerabilità e dipendenza19. Le strategie di gestione della fragilità maschile – che si rivela agli occhi dei maltrattanti nel momento in cui sono portati a riflettere sulla propria violenza – mostrano quanto possa essere brutale, anche per gli uomini, la tensione verso modelli egemonici ideali e difficili da raggiungere. Tale constatazione ci induce a pensare che, se i maltrattanti decidono di mettersi in discussione e di rivedere criticamente le proprie condotte, non è solo per amore della compagna e dei figli, per timore delle sanzioni, o perché sono preoccupati delle conseguenze delle proprie azioni. Gli uomini che decidono di “cambiare” sembrano farlo soprattutto per se stessi, ancora una volta per proteggere la propria immagine e la propria idea di sé da possibili minacce.
68Il mantenimento dell’ordine di genere, in particolare tra uomini e donne eterosessuali, si dimostra funzionale ad assicurare le gerarchie interne alle maschilità e ai rapporti reciproci tra loro. In tal senso, le relazioni di intimità – la coppia, la casa, la famiglia – si rivelano come uno degli spazi privilegiati della costruzione delle maschilità e della definizione di tali gerarchie. Anche nel rapporto con la moglie o compagna, la vera posta in gioco sembra essere per gli uomini salvare l’immagine di sé, rispetto a un modello di maschilità ideale e rispetto al giudizio degli altri maschi.
Notes de bas de page
1 I. Dominijanni, La guerriglia dei trend, “il manifesto”, 2.11.1992, cit. in C. D’Elia, G. Serughetti, Libere tutte! cit., p. 24.
2 R. Connell, Questioni di genere cit., pp. 130-132; L. Stagi, Anticorpi cit., p. 21.
3 J. Butler, Questione di genere cit.
4 V. Despret, Le emozioni. Etnopsicologia dell’autenticità, Milano, Elèuthera, 2002.
5 L. Stagi, Anticorpi cit., p. 76.
6 I. Bollain, Ti do i miei occhi, Spagna, 2003.
7 F. Héritier (a cura di), Sulla violenza cit., p. 25.
8 C. Rinaldi, Le maschilità negoziate nell’omosessualità, intervento a “L’invenzione dell’eterosessualità. Maschi e altri maschi”, Palazzo Ducale, Genova, 10.03.2015.
9 P. Bourdieu, Il dominio maschile cit.
10 Cfr. R. Connell, Maschilità cit., p. 64.
11 V. Fidolini, Fai l’uomo! cit.
12 Cfr. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017, pp. 14-15: “Il concetto di prestazione […] indica per lo più una ‘obbligazione’, ovvero quanto un soggetto dà o fa in adempimento di un’obbligazione da lui contratta rispetto agli obiettivi preposti. In un certo senso la prestazione coincide con l’adempimento richiesto che si è in grado o meno di erogare in uno specifico contesto di produzione. […] La prestazione mira a svolgere compiti stabiliti in un ammontare di tempo prestabilito per raggiungere l’obiettivo che ci si prefigge o che viene imposto. Dalla valutazione delle prestazioni e degli obiettivi raggiunti è possibile valutare il grado di performance degli attori sociali”.
13 E. Goffman, Stigma cit.
14 R. Connell, Maschilità cit., p. 55.
15 J. Butler, Questione di genere cit.
16 C. Rinaldi, Maschilità, devianze, crimine cit., p. 155.
17 Per citare solo alcuni esempi, faccio riferimento alle campagne americane “Real men don’t rape”, “Real men don’t beat women”, “Real men don’t buy girls”, alla campagna italiana “Noi no”, e a quella francese “Frapper ta femme ne fera jamais de toi un bonhomme”. A proposito delle campagne di comunicazione rivolte a uomini cfr. S. Ciccone, Maschi in crisi? cit., pp. 43-44.
18 C. Rinaldi, Maschilità, devianze, crimine cit., p. 155.
19 Secondo Lea Melandri, la violenza degli uomini nasce dal desiderio di cancellare la propria dipendenza dal corpo e dai legami, cfr. L. Melandri, Amore e violenza cit.

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