3. Posizioni iniziali: in trincea
p. 104-146
Texte intégral
1Questa parte è dedicata all’analisi delle rappresentazioni dei maltrattanti nei primi momenti in cui arrivano al cam, dopo aver affrontato un ciclo di colloqui individuali ed essere quindi ammessi ai gruppi psicoeducativi. Lo studio delle loro posizioni iniziali si snoda intorno a tre principali nuclei tematici, emersi come rilevanti all’interno dei loro discorsi: donne, violenza, maschilità.
3.1. Donne
2Gli uomini che si rivolgono al cam hanno prevalentemente un’età compresa tra i trenta e i settant’anni, hanno relazioni eterosessuali stabili, la maggior parte di loro sono padri, per lo più con figli e figlie ancora minorenni. Una grossa parte delle narrazioni prodotte all’interno dei gruppi psicoeducativi riguarda quindi le mogli, le compagne, le donne in generale. Gli uomini parlano della loro relazione di coppia e del rapporto con i figli, offrendo un interessante spaccato su diverse dimensioni della vita quotidiana, e rivelando il proprio punto di vista, le credenze e le attese, rispetto alle relazioni sentimentali e alla famiglia. In particolare, rivelano la loro concezione dei doveri delle donne, in quanto mogli e madri, e più generalmente le loro opinioni sulla libertà femminile.
3.1.1. “Mi provoca”
3Al momento dell’arrivo ai gruppi psicoeducativi e nel corso dei primi incontri, i partecipanti considerano i propri atteggiamenti come “una brutta reazione a un suo comportamento” e attribuiscono alla compagna la responsabilità degli atti violenti. Dal punto di vista dei maltrattanti, la compagna – aggressiva, irritante, provocatrice – è l’unica colpevole dalla loro “reazione” violenta.
4Nel passaggio che segue, estratto dal diario di campo, uno degli uomini del cam, che al momento sta affrontando la separazione dalla compagna pur continuando a convivere con lei, descrive una banale disputa coniugale avvenuta alla presenza del figlio:
“È nato tutto per un succo di frutta. Perché il bambino ne beve troppi, ha una pancia che non mi piace per niente, non fa attività sportiva, io cerco di ridurglieli… E poi a casa siamo in questa situazione dei viveri separati, anche nella gestione del frigo, per cui io ho il mio succo. Quindi vado là per prenderlo e il succo non c’era più. Allora ho chiesto a mio figlio se l’aveva bevuto lui, e ho cominciato a fargli delle domande, e lui non rispondeva. E lei s’è messa in mezzo. S’è messa in mezzo, non mi ha lasciato parlare con il bambino”.
C. si scalda, alza la voce, anche l’operatrice alza leggermente il tono di voce e interviene per invitarlo a riflettere. Diventa uno scambio serrato, un dialogo tra loro. Gli altri uomini ascoltano in silenzio.
“È che a mia moglie non va mai bene niente. Se io dico “Buongiorno”, subito mi accusa “Ti sembra il modo di dire buongiorno?!”. È la mia modalità. È come se lei mi volesse provocare continuamente. Ma il famoso rispetto, nel rapporto di coppia, ma quando arriva?”. [Estratti dal diario di campo]
5L’intervento della donna nello scambio tra padre e figlio viene interpretato dal maltrattante come una “provocazione” da parte della compagna. C. accusa la donna di “intromettersi”, mentre l’operatrice gli fa notare che il suo modo di rivolgersi al bambino stava divenendo aggressivo e che probabilmente la moglie ha sentito l’esigenza d’intervenire per proteggere il figlio. L’atteggiamento dell’uomo dimostra implicitamente l’aspettativa, ai suoi occhi disattesa, di una maggiore attenzione da parte della moglie all’alimentazione e alla salute del bambino. Dal suo punto di vista, tali elementi bastano a innescare una reazione impetuosa, ai suoi occhi legittima. L’uomo prosegue la descrizione della dinamica dei fatti:
Abbiamo continuato a discutere e lei ha cominciato a filmarmi con il cellulare, provocandomi, dicendomi “Ora ti filmo tutto così vedi come ti comporti!” Allora io le ho tritato il telefono. L’ho spaccato sul mio ginocchio, gliel’ho triturato! Quella è stata l’unica cosa fisica che c’è stata. [C., incontro di gruppo]
6In questo caso, la violenza non è diretta contro la donna ma contro un oggetto, il telefono cellulare della compagna. Tale forma di violenza è spesso interpretata dagli uomini come un modo per sfogare fisicamente la propria rabbia e raramente viene riconosciuta come un atto rivolto contro la moglie, seppure senza alcun contatto. Al cam i maltrattanti sono incoraggiati a riconoscere tali atti come vere e proprie minacce e gesti d’intimidazione nei confronti della compagna. Di fronte a narrazioni di questo tipo, operatori e operatrici intervengono puntualmente, per condurre l’uomo a riflettere sull’asimmetria tra il gesto della donna – ai suoi occhi “provocatorio” – e la sua conseguente “reazione” – eccessiva, sproporzionata, violenta, carica di conseguenze.
7Nel momento in cui arrivano al cam, all’inizio del loro percorso, gli uomini non riescono a spiegarsi come siano potuti arrivare a compiere degli atti di una tale portata, poiché considerano se stessi delle persone “non violente”. La totale attribuzione di responsabilità alla propria compagna è per i maltrattanti l’unica interpretazione plausibile, come viene illustrato nel passaggio che segue:
Com’era possibile che l’uomo che detestava la violenza fosse esso stesso diventato quel mostro che tanto aborriva? Questa era la domanda che mi ponevo e alla quale avevo dato più o meno consciamente l’unica risposta che avesse una parvenza di sostenibilità: non era colpa mia! Era ovvio, non poteva essere altrimenti. Era mia moglie che mi provocava, e di motivazioni per essere arrabbiato con lei ritenevo di averne veramente. La mia non era una violenza gratuita, poiché ero decisamente calpestato dai suoi comportamenti, che erano ingiusti. E su questo senso d’ingiustizia subìta riempivo il mio bagaglio di giustificazioni. Solo così riuscivo a dare una ragione a tutto! [V., lettera pubblica]
8Mogli e compagne abituate a rispondere, ribattere, contraddire, sono percepite come istigatrici della violenza. Tale percezione trova conferma in queste due lunghe testimonianze di O., la prima nel corso di uno degli incontri di gruppo iniziali, la seconda diversi mesi dopo, nel corso di un’intervista individuale:
La mia relazione precedente è durata più di dieci anni, e non ho mai avuto nessun problema, mentre con la mia compagna di oggi sono molto violento. Penso che sia lei a tirarmi fuori questi problemi. Mi sento continuamente incalzato, punzecchiato. Con lei è tutto una provocazione. Ma forse, come dite voi, è questa la chiave culturale: non bisogna considerarle come provocazioni. [O., incontri di gruppo]
Io ho avuto dei problemi, problemi che sono emersi e che mi hanno portato qui, che si sono manifestati con il nuovo rapporto. Questo fatto è importante, perché prima io avevo avuto un rapporto con una ragazza, un rapporto lungo, dove non ho avuto modo di provare sentimenti di rabbia e di arrivare al punto cui sono poi arrivato con mia moglie. Non avevo avuto bisogno di dover ricorrere alla violenza, a tratti e in alcune circostanze addirittura violenza fisica. Quindi, il mio era un problema grosso, perché era difficile da riconoscersi. È stato difficile per me riuscire a capire che poteva essere un problema mio, visto che per lunghi anni, in un rapporto lunghissimo, mai si era verificata una cosa del genere. Tutte le difficoltà incontrate in questo nuovo rapporto io le imputavo unicamente alla mia nuova compagna. Capisci? Era la sua irrazionalità, era il suo umore particolare, le sue manie, il suo egocentrismo, la sua inadeguatezza, tutta una serie di cose che imputavo a lei e che mi portavano poi a esser così. Per me si trattava di un forte limite, che ho cercato di affrontare con le terapie individuali. Entrambi abbiamo seguito dei percorsi, anche di coppia, e io praticavo queste cose cercando di lavorare su me stesso e provando a fare qualcosa per aiutare lei, perché io il problema lo vedevo in lei. Questo era il mio grosso limite. E speravo d’altro canto che la terapia che lei faceva potesse portarla a risolvere i problemi che lei aveva. Per cui inquadravo la cosa nella convinzione che fosse lei a dover risolver i suoi problemi. […] Per me lei era la causa di ogni male, non soltanto per me, ma anche per i miei figli, perché le discussioni che tirava fuori portavano tensione a tutta la famiglia e si manifestavano in litigi, ecc. [O., intervista biografica]
9Con frequenza gli uomini confrontano la relazione attuale con i loro precedenti rapporti sentimentali per osservare che, in passato, non avevano mai sentito “il bisogno di dover ricorrere alla violenza”. Nel momento in cui tale aspetto viene approfondito in situazione d’intervista o nello scambio con gli operatori del cam, essi raccontano che la compagna precedente era nei loro confronti più “affettuosa”, “premurosa”, “mansueta”. Se paragonate alle “ex”, le mogli o compagne attuali appaiono come “irrazionali”, “egocentriche”, insubordinate. Anche a bambini e bambine viene spesso attribuita la colpa della violenta “reazione” del padre. Attraverso un meccanismo accusatorio, blaming nel gergo clinico, gli uomini interpretano le proprie azioni brutali come una risposta alle continue “provocazioni” da parte di figli e figlie.
Martedì sera ho reagito in maniera violenta. Ho preso un giocattolo dei bambini e l’ho sbattuto sul letto. Poi mi sono arrabbiato con il piccolo, perché mi provocava. Non me la sono mai presa con i bambini prima d’ora. In questo periodo reputo di essere pericoloso perché questa volta l’ho strattonato e gli ho detto “Tu la devi smettere, tu sei un mostro”. Poi sono uscito di casa. [T., incontro di gruppo]
10In altri casi, la compagna è accusata di essere la responsabile della loro “reazione”, attraverso espressioni apparentemente innocue che tuttavia rivelano forme di vittimizzazione secondaria. Eccone qualche esempio:
Le donne non dovrebbero permetterci di comportarci così. [incontro di gruppo]
Se ci fermassero prima, non si arriverebbe a tanto. [incontro di gruppo]
Se ci sono uomini violenti, è perché le donne glielo permettono. [incontro di gruppo]
Io non sono stato denunciato perché mia moglie mi diceva “Se ti denuncio, io ti rovino la carriera”. Questo è il discorso. La donna giustifica sempre. O per amore, o perché non vuole rovinarti, ci sono tanti motivi che giustificano che la moglie non ti denunci. [B., focus group 1]
11Questo genere di affermazioni ricorre spesso nei discorsi di senso comune e produce una doppia vittimizzazione delle donne. Non solo le compagne degli uomini maltrattanti subiscono violenza da parte dei loro partner, ma allo stesso tempo sono anche ritenute colpevoli della propria condizione di “vittime”.
12Le testimonianze analizzate finora sembrano evocare la credenza secondo cui le donne sono moralmente responsabili della perdita dell’autocontrollo maschile, che può portare come conseguenza alla prevaricazione violenta o al dominio sessuale. Come nel caso delle donne vittime di stupro e di violenza sessuale s’indaga su scollature esagerate e su minigonne troppo corte, o su possibili atteggiamenti provocanti, nel caso della violenza domestica spesso si accusano le donne di non saper reagire, di aver scelto “l’uomo sbagliato” o di non essere state in grado di cambiarlo. Tali considerazioni riducono drasticamente il problema strutturale della violenza maschile nelle relazioni d’intimità a una questione individuale, di quella donna in particolare, lasciando nel frattempo in ombra l’agency dell’autore di violenza, la complicità omosociale maschile e la legittimazione culturale di tali gesti. Allo stesso tempo, tali credenze hanno il potere di orientare le valutazioni e decisioni degli operatori e operatrici dei servizi sociali, delle forze dell’ordine e delle istituzioni giudiziarie1. Gli stessi giudizi morali sulle condotte femminili riecheggiano nei discorsi degli uomini maltrattanti, al fine di giustificare i propri comportamenti aggressivi.
3.1.2. Cattive mogli, cattive madri, non-persone2
13Oltre a rappresentarsi come vittime di una compagna provocatrice, nei discorsi degli uomini maltrattanti ricorrono continuamente affermazioni orientate a denigrare la partner, a svilire le sue competenze nell’operare delle scelte e a screditare la sua persona, intesa come soggetto adulto dotato di diritti e libero di autodeterminarsi. Le compagne sono innanzitutto rappresentate come “isteriche”, immature, in preda all’emotività, incapaci di “controllare i nervi”, offrendo un pessimo esempio ai figli. Ecco di seguito alcuni esempi emersi dal campo:
Non riusciva a frenare i suoi istinti nemmeno dinanzi ai figli. [O., intervista biografica]
Dovevo intervenire per difendere i bambini da lei, dalle sue scenate. [T., incontro di gruppo]
Mia moglie mi perseguita con telefonate continue. Mi chiama per dirmi le solite cose stressanti. […] Lei vuole tutte le attenzioni per sé, mi ha fatto terra bruciata intorno. [M., incontro di gruppo]
14Dall’analisi dei racconti degli uomini, i toni assertivi delle compagne sembrano percepiti come vere e proprie aggressioni, ai loro occhi del tutto ingiustificate. Negli incontri di gruppo, spesso i maltrattanti omettono di chiarire le ragioni per cui le mogli “brontolano”, “fanno scenate”, “li stressano”: tali motivazioni emergono a fatica grazie alle domande di operatori e operatrici che, seguendo un approccio di genere e pro-femminista, invitano gli uomini a considerare sia le disuguaglianze strutturali che determinano la divisione del lavoro, sia il punto di vista della compagna nella ricostruzione della dinamica dei fatti. Senza l’intervento del conduttore o della conduttrice del gruppo, tali comportamenti femminili rimarrebbero stigmatizzati come delle “scenate isteriche”. In altri casi ancora, i maltrattanti rappresentano le proprie compagne come “egoiste”, “individualiste”, “opportuniste”, e quindi meschine, mediocri, socialmente emarginate, come negli estratti che seguono:
Lei sembra pensare solo alle sue esigenze, non ha alcuna sensibilità per i bisogni degli altri. […] Lei crede più nell’individualismo che nella famiglia, nella sua famiglia sono tutti separati! [H., incontro di gruppo]
Mi rendo conto che anche le persone che le vogliono bene la tengono a una certa distanza. [D., incontro di gruppo]
15Le reiterate richieste da parte di mogli e compagne a favore di una condivisione del carico di lavoro domestico e di cura sono descritte come pretese capricciose e strategie persecutorie nei confronti degli uomini, come vediamo dagli estratti qui riportati:
Lei mi chiama quando le faccio comodo, perché c’è da portare il bambino dal dentista, perché bisogna fargli la carta d’identità, ecc. [F., incontro di gruppo]
Lei non mi dà tregua, ha sempre bisogno di sentirsi importante, di essere riconosciuta. Ha avuto una vita difficile perché i suoi non se la cagavano mai. Io la capisco… Però a volte lei non capisce me. L’altro giorno si è incazzata perché vedevo la partita, sbattuto sul divano dopo dieci ore di lavoro. Lei non capisce… [J., incontro di gruppo]
16Quando si parla invece della sfera professionale o della gestione economica, le donne sono spesso descritte come inaffidabili, o perché “non lavorano”, o perché “non sanno amministrarsi”, in ogni caso sono considerate incapaci di agire autonomamente, senza la tutela di altre figure:
Mia moglie è una che le cose se le dimentica, è una che l’orologio non sa nemmeno cos’è, per cui, fin da allora [da quando ci siamo sposati], i primi contrasti sono stati per i suoi ritardi o per i suoi modi di fare. [Z., intervista biografica]
Non sa gestire i soldi, non sa dargli valore. [V., incontro di gruppo]
Lei con i soldi ha un rapporto particolare, perché tutto quello che ha guadagnato, se l’è bruciato. [N., intervista biografica]
Dal punto di vista economico lei fa degli errori. Suo papà le ha lasciato un negozio che ha fatto fallimento, e a volte io le dico quello che deve fare. Lei è un po’ stupida nel modo di pensare. È un po’ tonta su queste cose. [H., incontro di gruppo]
Doveva occuparsi lei del permesso di lavoro, ma per una sua negligenza non è stata in grado di farlo. [T., incontro di gruppo]
17In alcuni casi emerge con forza una retorica orientata a infantilizzare la moglie, paternalisticamente considerata alla stregua dei figli: strategia discorsiva che permette al marito di ergersi a regolatore dell’ordine familiare e della vita domestica. Nel corso di un incontro di gruppo, questo aspetto risalta in maniera particolarmente evidente:
“C’è stato un episodio la settimana scorsa”. P. racconta di aver chiamato la moglie dall’ufficio. “Lei al telefono piangeva. Era sconvolta perché era andata a vedere l’allenamento dei figli, e li ha trovati che si stavano menando. Lei è intervenuta e c’è stato un conflitto verbale con il più grande, per cui si è risentita e spaventata. […] Al che io sono arrivato a casa e ho fatto parlare tutti e tre. Ho fatto raccontare a ognuno quel che era successo. Adesso, quando mia moglie ha queste reazioni d’ira, riesco a controllarla meglio. Lei mi ha detto ‘Non ci vado più a vedere cosa succede ai tuoi figli. Non li voglio vedere in questa situazione’ ”.
L’uomo sembra orgoglioso del modo in cui ha gestito la situazione, quindi continua: “In passato mi sarei comportato diversamente di fronte alla sua aggressività, al suo modo di dire ‘i tuoi figli’… Le avrei detto ‘Hai rotto!’ e le avrei detto che comunque non può permettersi di offendere. [Mostrando un certo orgoglio] Questa volta sono stato molto calmo. In casa la persona più alterata di tutte era lei”. [Estratti dal diario di campo]
18Se, da un lato, l’uomo ha imparato a riconoscere lo stato d’animo della moglie, questa volta senza considerarlo come una “provocazione” o un’accusa nei suoi confronti – “Si è risentita e si è spaventata” – tuttavia, egli assume verso la donna un atteggiamento di protezione/controllo. Nel corso della discussione di gruppo, tale postura è criticata duramente tanto dagli operatori quanto dagli altri partecipanti.
A questo punto l’operatore che conduce il gruppo interviene severamente e, rivolgendosi all’uomo, lo invita a mettere in discussione il suo punto di vista e a rispettare le gerarchie tra la madre e i figli: i genitori devono mostrarsi uniti davanti ai figli, la moglie e il marito devono essere sullo stesso piano. P. sembra cadere dalle nuvole, la sua soddisfazione iniziale sembra svanire: “Io rispondo semplicemente a una richiesta che lei mi fa, di mediare con i figli”. L’uomo rimane in silenzio per il resto dell’incontro, contraddetto e visibilmente turbato. [Estratti dal diario di campo]
19A seguito dell’intervento dell’operatore, uno dei maltrattanti apostrofa apertamente P., dicendogli: “Devi imparare a riconoscere la differenza di gerarchia tra i figli e la moglie, devi imparare a vederli su piani diversi”. Anche altri partecipanti si uniscono alla critica, sottolineando l’atteggiamento paternalista e la strategia d’infantilizzazione della moglie, strategia che finisce per delegittimare il ruolo della madre nell’educazione dei figli. L’attestazione maschile dell’inadeguatezza materna, in ragione di un’emotività considerata eccessiva, è funzionale a giustificare l’intervento regolatore del padre-razionale.
20Dalle parole degli uomini emerge che tali rappresentazioni – che ritraggono le donne come inaffidabili e irrazionali e allo stesso tempo colpevoli della “reazione” violenta di mariti o compagni – sono spesso sostenute dall’approvazione tacita o manifesta di altre persone, in particolare nell’ambito della cerchia familiare. In primo luogo i maltrattanti evocano la generale normalizzazione dei comportamenti violenti in seno alla famiglia, come espresso nel passaggio che segue:
Tutto ciò viene accettato, anzi presentato come “le cose normali che succedono in famiglia”. Anche nella mia famiglia, per dire, mia madre citava una frase di suo padre: “Se in casa volano i piatti, tutto bene, è normale”. Quindi, è una cosa considerata a un livello di normalità. […] Di discorsi se ne sentono tanti. Sento anche tante donne che dicono che gli uomini che picchiano le donne fanno bene. Evidentemente loro non le hanno mai prese oppure parlano per parlare. Come pure ci sono tanti uomini che dicono “Beh però la tipa rompe il cazzo”, oppure “Io non gliele do, ma se le meriterebbe”. Il messaggio un po’ viene anche da lì. [T., intervista biografica]
21La confusione tra “conflitto” e “violenza” sembra essere molto diffusa3. In diversi casi, gli uomini del cam raccontano di essersi sentiti sostenuti da persone vicine, colleghi, parenti, familiari, che avvalorano le loro posizioni anziché quelle delle compagne. Questa sorta di consenso e legittimazione sociale, espresso da uomini e donne, è indicato dai maltrattanti come uno dei principali ostacoli all’assunzione di consapevolezza e di responsabilità rispetto ai propri comportamenti violenti.
Con mia sorella e mio fratello ho parlato delle dinamiche dei nostri litigi, dei litigi con mia moglie. Ne ho parlato con i miei amici e con i miei colleghi. Non ho parlato del percorso che sto facendo qui, al cam, anche perché so che mia sorella andrebbe fuori di testa, se sapesse che sto venendo qui, a causa di mia moglie. Perché mia sorella dà questa lettura: lei ritiene che i problemi siano esclusivamente di mia moglie, quindi che io venga qui, per lei sarebbe… Andrebbe fuori di testa. Direbbe “Questa donna è fuori di testa, e al cam ci deve andare mio fratello!”. E non è solo lei a prendere le mie difese, ma tutti! Un’altra cosa particolare è che tutti, tutti, compresi i parenti di mia moglie, anche i suoi genitori, sposavano assolutamente la mia versione. Dicevano “Eh lo so, abbiamo questo problema, nostra figlia è così…” [Q., intervista biografica]
Per me questa fu un’ulteriore conferma delle mie ragioni. Quando successero gli episodi di violenza, sua madre e suo fratello presero le mie difese, e non le sue, di lei, perché erano abituati a queste sue reazioni eccessive, al fatto che lei fosse così violenta, che portasse il conflitto a quel livello di esasperazione, che la portavano veramente a essere una bestia incontenibile. […] Dopo il primo grave episodio di violenza, sua madre venne a casa. Lei le raccontò i fatti, e sua madre se la prese con lei, dicendole di non fare la stupida. Invece che darle conforto, sua madre s’incavolò con lei e se ne andò via. [V., intervista biografica]
22Un elemento di particolare interesse è rappresentato dal fatto che, con frequenza, gli uomini raccontano di aver trovato la solidarietà, se non addirittura un aperto sostegno, da parte del padre della compagna, il suocero, come a voler sancire una continuità nel controllo della condotta femminile dal padre al marito.
Al suo babbo gliel’ho detto una volta. Gli ho detto “Io non ce la faccio più. Qua bisogna far qualcosa, perché io sono arrivato anche a darle due cazzotti”. E lui ha capito. [T., intervista biografica]
Ne ho parlato anche con mio suocero. Anche lui ha detto “Non sono riuscito a educarla come avrei voluto. Prova a correggerla tu”. [N., incontro di gruppo]
Finché c’era mio suocero, lui era un parafulmine per me. Lui mi ha sempre messo in guardia, e io sapevo fin dall’inizio chi mi sono preso [riferito alla moglie]. Speravo di tirar fuori una persona migliore. [O., incontro di gruppo]
23Da queste testimonianze, gli atti di violenza contro le donne nelle relazioni d’intimità sembrano usanze culturalmente accettate e condivise, piuttosto che pratiche devianti, reati o violazioni dei diritti umani. Attraverso le opinioni degli altri, gli uomini riferiscono di trovare conferma al proprio vittimismo, alla normalizzazione della violenza e alla legittima necessità di disciplinare i comportamenti “della propria donna”, indipendentemente dai mezzi impiegati per farlo. In tal modo i maltrattanti avvalorano indirettamente la gerarchia di potere tra uomini e donne e l’uso strumentale della violenza come tecnica disciplinare o come strategia per il mantenimento dell’ordine patriarcale. Tale percezione sembra trovare fondamento in una misoginia vivace e diffusa, secondo cui le donne – e in particolare le donne che sfuggono alle ingiunzioni di genere eteronormative – sono soggetti pericolosi per sé e per gli altri, da proteggere o da “tenere a bada”. Se da un lato l’eteronormatività assicura il perpetuarsi di un ordine binario, secondo cui uomini e donne sono entità distinte ma complementari – come lo sono razionalità ed emotività, mente e corpo, soggetto e oggetto – dall’altro essa agisce producendo differenze e gerarchie morali tra le condotte femminili considerate legittime e quelle illegittime.
24In tal senso la famiglia eterosessuale è un campo particolarmente rilevante per indagare la percezione che gli uomini hanno di sé e delle relazioni reciproche con gli altri membri del nucleo familiare. Dalle loro testimonianze, la temporalità della vita in famiglia sembra scandita dai momenti in cui il marito-padre è a casa: l’arrivo dopo il lavoro, la cena, il fine-settimana. Su queste circostanze si riversano le attese maschili rispetto all’ideale di un’armonia fondata sulla “complementarietà dei ruoli”, piuttosto che sulla “reciprocità dei ruoli”4. Tali momenti assumono una sorta di sacralità, violata nel momento in cui divengono l’occasione di litigi o di vere e proprie violenze. Secondo il punto di vista maschile, i momenti d’incontro con la famiglia spesso sfociano nel conflitto a causa dell’incapacità della moglie di preservare l’equilibrio della vita familiare. Le donne, talvolta solo per aver manifestato apertamente la propria opinione, sono considerate “colpevoli” della rottura di quest’armonia idealizzata, rottura che suscita negli uomini, parafrasando le loro espressioni, una profonda delusione e un generale senso di malessere. Descrivendosi come “uomini normali” che non desiderano altro che una “famiglia normale”, a più riprese, i maltrattanti affermano con disappunto: “Ci siamo rovinati il fine settimana”, “Non si può mai cenare in pace”, “Certo che il fine-settimana me lo aspettavo diversamente”.
Io, a tutti gli effetti, mi ero reso conto di tutte le cose che non andavano fin dal secondo giorno di matrimonio. […] Io volevo solo e semplicemente dire “Io sono io, sono il capofamiglia, decido tutto io e si fa quello che dico io”. Ovviamente lei non era di quest’avviso, per cui da lì sono nati tutti i problemi. […] Tante volte, quando si litigava, lei mi diceva “Tu avresti voluto una moglie sorda, cieca e muta”. E io le rispondevo “Eh!”. [Z., intervista biografica]
25Come ha fatto notare Isabella Merzagora Betsos, le narrazioni degli uomini rispetto alla “compagna ideale” spesso riecheggiano le virtù muliebri evocate nella novella del Boccaccio Griselda, di cui si celebrano le doti di subalternità, sottomissione e mansuetudine5. Dalle loro parole prende forma un’immagine della donna come “regina della casa” e “angelo del focolare”, custode e unica responsabile dello spazio domestico e della prole, da cui dipende l’onore della famiglia.
Per anni ho lavorato a La Spezia, stavo fuori dalle cinque di mattina alle sette di sera, un paio di sere a settimana uscivo, poi andavo a trovare la mamma, e quindi ci siamo salvati. Ora, dal primo settembre sono in pensione e sono cominciati i problemi, per qualsiasi cosa, la spazzatura, il mangiare. Per esempio un giorno a pranzo lei mi fa un panino, e io mi sono incazzato! Le ho detto che si deve organizzare meglio. E lei mi risponde che ha da fare le sue cose. [U., prima volta ai gruppi]
In quel periodo io dovevo attraversare tutta la città per andare a lavorare. […] Io non ne potevo più. A me non piace spostarmi in macchina. In quel periodo lì, per me, andare e tornare era faticosissimo. Quindi, quando tornavo, si finiva a litigare per diversi motivi, o perché tornavo a casa e non c’era pronto da mangiare, o se c’era, era estremamente salato. Praticamente io mangiavo malissimo, ero abituato forse meglio in casa con i miei genitori. E lei, per quanto si potesse impegnare, i suoi limiti erano quelli. […] Non è che facesse grandi cose, non ne ha mai fatte, nemmeno per il bambino. Per me è una sofferenza sapere come mangia lui. Non sa fare niente, non sa nemmeno mettere la pentola con l’acqua. Ha bruciato più di una volta la pentola perché se l’è scordata sul fuoco! Abbiamo rischiato anche gli incendi in casa, Cristo! Sono quelle situazioni che nel lungo periodo, ma anche nel medio, ti fanno uscire dai gangheri. A me, m’hanno fatto uscire dai gangheri. [N., intervista biografica]
26La preparazione dei pasti è un elemento tanto banale quanto ricorrente nei racconti degli uomini e sembra corrispondere all’aspettativa di cura associata al ruolo di moglie e madre, secondo l’ordine polarizzato e gerarchico istituito dalla norma eterosessuale6. Ancora una volta emerge “il mito della complementarietà” e la diversa gerarchia tra ruoli maschili e ruoli femminili, tra lavoro retribuito e lavoro domestico e di cura. In tal senso, gli uomini maltrattanti non mancano di enfatizzare il valore superiore delle loro attività, se paragonate a quelle della moglie o compagna:
Non vado mica a pettinare le bambole io, io vado a lavorare. Se lei non mi dà modo di aggrapparmi alle cose, allora io non mi arrabbio. [H., incontro di gruppo]
Intanto vi dico che io dormo pochissimo, perché lavoro molto e ho sempre centomila cose a cui pensare… Ma non ne risento, la cosa non mi crea problemi. Quello che mi crea problemi è l’ansia che ho quando torno a casa. Ieri lei comincia con il problema della lavatrice. Io ho la lavatrice che non funziona benissimo, e quindi comincia con l’accusa, dicendomi che me ne devo occupare io, e insiste e insiste finché alla fine io mi sono incazzato e le ho detto “Mi hai rotto i coglioni! Chiama tu l’amico di tuo padre, ti organizzi, tu sei casalinga!” e da lì è partita una discussione pesantissima. […] Così alla fine della discussione me ne sono andato e non le ho portato il bambino all’asilo. […] Lei mi dice che non sono un bravo padre di famiglia. Ma cosa vuole? Io lavoro, sto fuori tutto il giorno, mantengo tutta la famiglia […] Lavoro, non bevo, non fumo, praticamente non esco mai, e questa che rompe e pompa tutti i giorni. [O., prima volta ai gruppi]
27Il mancato riconoscimento del lavoro domestico non retribuito delle donne sembra corrispondere specularmente a un’esaltazione del proprio impegno professionale, fuori dall’ambito familiare. In particolare, la frase “non le ho portato il bambino all’asilo” sembra presupporre che la cura dei figli non sia intesa come un onere da condividere ma come un dovere esclusivo della moglie. Tale concezione è ribadita in diverse occasioni, come nei casi che riportiamo di seguito, in cui la moglie ha assunto davanti ai figli una posizione diversa dal marito:
Le donne hanno il vizio di mettere da parte noi uomini in famiglia. I bambini sono delle mogli. Quello che doveva fare tua moglie era prendere tuo figlio e dirgli “Il babbo ha ragione”. [M., incontro di gruppo]
Io non potrei avere una moglie che non sia moglie a 360 gradi, cioè che non pensi ai figli, che non pensi al marito. […] Io mi preoccuperei per il bambino, perché… come può vederti un figlio, se tua moglie ti chiede un euro a maglietta per stirare? Viene meno la figura del padre, che è per la sua crescita una figura importante. [E., incontro di gruppo]
28Dal punto di vista degli uomini, a complemento del ruolo femminile di “nutrice”, il padre è tenuto ad assumere un ruolo normativo, legittimato dalla sua funzione di provider – colui che provvede al sostegno materiale della famiglia. Il timore di perdere il proprio posto, in famiglia come in società, ricorre spesso nelle narrazioni degli uomini che frequentano il cam e riecheggia le argomentazioni avanzate a favore del riconoscimento della “sindrome di alienazione parentale”7, così come le rivendicazioni del movimento di padri separati a livello internazionale8. Per i padri contemporanei, la separazione e il divorzio sono in alcuni casi percepiti come minacce all’integrità del ruolo maschile e paterno, in un contesto sociale che muta rapidamente, trasformando i ruoli familiari e le relative aspettative. La cosiddetta “emergenza paterna contemporanea” inasprisce il conflitto tra i generi, alimenta la retorica della “crisi maschile”9, si traduce nel mother blaming10: l’accusa a madri, mogli e donne in generale della traumatica perdita di centralità degli uomini, nella sfera privata e nella sfera pubblica.
3.1.3. Doveri e libertà delle donne: lo stigma della strega
29Le aspettative dei maltrattanti rispetto al ruolo di moglie e madre sembrano distribuirsi intorno a due polarità, coerenti con le due più comuni interpretazioni della violenza maschile sulle donne. Secondo Carmen Leccardi, da una parte la violenza maschile nelle relazioni d’intimità è ritenuta il prodotto dell’oppressione patriarcale materiale e simbolica, fondata sul dominio degli uomini e sulla subordinazione delle donne in tutte le sfere della vita. D’altra parte, proprio la rottura dell’ordine patriarcale e la crescente emancipazione femminile è considerata una delle cause principali delle violenze degli uomini, intese come il tentativo di ristabilire un ordine di genere asimmetrico, per restaurare la centralità maschile contro “il nuovo potere delle donne”11.
30Per quanto riguarda il rapporto con le proprie compagne, i racconti degli uomini maltrattanti sembrano coerenti con entrambe le spiegazioni. Da una parte gli uomini mettono l’accento sui “doveri” delle donne, delle mogli e delle madri, e descrivono la propria violenza come un intervento che ne sanziona l’inadempienza; dall’altra, essi mostrano una chiara insofferenza rispetto alla manifestazione del desiderio femminile e all’espressione, da parte delle donne, del diritto alla propria libertà individuale. Come vedremo, in questo secondo caso la violenza è utilizzata dagli uomini per contenere e porre dei limiti alla conquista di maggiori spazi di autonomia e di auto-determinazione.
31Le diverse dimensioni del dominio maschile esercitato dagli uomini sulle donne nelle relazioni d’intimità emergono in maniera efficace dalla testimonianza di quest’uomo del cam, ex dirigente aziendale oggi in pensione, sposato con una donna che “faceva la casalinga” e non aveva dunque un lavoro salariato:
Io volevo tenerla dentro la campana del mio potere, economico e sessuale… […] Molto difficilmente io le davo l’accesso ai soldi. Avevo un conto corrente solo intestato a me stesso e la mattina le davo 20.000 lire, oppure 10.000 lire. Non è che capissi bene quello che lei doveva o non doveva fare, c’erano tante spese da sostenere e forse lei si rivolgeva ai suoi genitori. […] Tante volte siamo stati fino alle due, alle tre di notte ad arrabbiarci, a discutere perché lei non si concedeva e d’altra parte questa è la verità, io non posso nasconderla. […] Nei momenti in cui andavo a cercare il litigio e il contrasto, io puntavo sul discorso dei soldi, e anche, magari, forse questo più in gioventù, sul discorso del sesso. Perché io sono sempre stato molto portato per il sesso, lei magari un pochino meno. Ma è anche vero che io la prendevo anche con violenza. Lei doveva anche soccombere a tutto questo. [B., intervista biografica]
32In questo caso si evidenzia la legittimità del ruolo di comando per chi “porta i soldi a casa”, ruolo che garantisce potere e controllo su ogni sfera della vita della moglie e afferma la sovranità maschile anche sul corpo femminile, esigendone la totale e costante disponibilità sessuale. In un passaggio successivo, lo stesso uomo, alla luce del percorso nel centro d’ascolto per maltrattanti, rivede i suoi comportamenti, riconoscendoli come il prodotto del modello maschile dominante per la sua generazione.
Io sono sempre stato un maschilista. A parte in questi ultimi due anni [da quando frequento il cam], ho sempre pensato che certe cose le donne non le devono fare, che il marito deve sentirsi padrone a casa propria. Solo in questi anni ho cambiato prospettiva ma mi rendo conto di non avere ricevuto un’educazione sentimentale. […] Per me mia moglie era mia e soltanto mia, una cosa che io dovevo solo e soltanto comandare e abusarne fino a che mi piaceva, fino a che faceva comodo a me. [B., intervista biografica]
33Queste affermazioni, espressione di una visione esplicitamente patriarcale, sono comunque meno frequenti rispetto a testimonianze che rivelano più velatamente l’incapacità di accettare comportamenti femminili riconducili all’affermazione della propria libertà da parte delle donne. In questo caso, il punto di vista degli uomini non si esprime come volontà di mantenere la parner in uno stato di subordinazione né come netta negazione dei suoi diritti, quanto piuttosto come l’insofferenza rispetto alla sua emancipazione, alla sua autonomia nel governo di sé, alla sovranità della compagna sulla propria vita.
Lei ha le sue amicizie, la sua vita, le sue uscite, e adesso comincerò anch’io così. Lei fa quello che le pare. Dice che torna a mezzanotte, poi invece arriva all’una. [U., incontro di gruppo]
Lei dormiva con il bambino e io dormivo da solo, e a me sta cosa qua mi dava noia. Io mi sono alzato delle notti che pretendevo che lei venisse a letto da me, perché avevo bisogno del suo calore. Io ero arrivato a questo livello. Poi c’erano le serate in cui lei usciva, doveva andare al corso di ballo, continua a farla sta cosa, e il bambino me lo lasciava lì. Io ero tornato dal lavoro e mi trovavo lì con sto figliolo, però ci s’era messi d’accordo così. Andava bene, ma chiaramente a me sta cosa non mi piaceva. Io ho sopportato tantissimo, chiaramente sono stato sulle mie, nel senso che le ho fatto fare tutto quello che ha voluto, però poi alla fine… E poi, ha delle frequentazioni… Ha tutte amiche che sono separate, io non so quanto avrà influito. Alla fine lei ha preso questa decisione e io le ho detto “Vuoi separarti? e separiamoci! Fai quello che devi fare”… E poi mi è arrivata la lettera dall’avvocato. [N., intervista biografica]
34In questo passaggio, N. manifesta il proprio disagio, generato dall’alterazione di quelle che considera le norme della vita coniugale: il fatto di non dormire più nello stesso letto, di dover rimanere a casa con il figlio mentre la moglie “si diverte”, di dover essere compiacente anche quando la moglie arriva “all’ora che vuole”, intrattenendosi con “le amiche separate o divorziate”. Il suo discorso è a tratti contraddittorio e oscilla tra l’affermazione di un accordo stabilito con la compagna – “Ci siamo messi d’accordo così” – e l’immediata insofferenza rispetto a esso – “Mi dava fastidio”. In conclusione, N. enfatizza il proprio sacrificio personale, sostenendo di aver “sopportato tantissimo”.
35Nel passaggio successivo, estratto dal diario di campo, emergono ulteriori elementi a dimostrare l’inadeguatezza maschile di fronte alla libertà femminile:
P. racconta un episodio al gruppo: “Il giovedì mia moglie esce sempre con le amiche, o prima di cena o dopo cena e l’altra settimana mi dice che sarebbe andata per negozi. Allora io le ho detto ‘Ti si vede a cena?’ Lei mi ha risposto ‘Sono fatti miei’. Poi le ho detto ‘Allora stasera serata completa?’ Mia moglie ha risposto alla difensiva, attaccandomi, al che sono intervenuti anche i miei figli dicendo ‘Mamma, vai fuori anche stasera?’ ”
P. racconta con enfasi il sostegno dei figli maschi, come a dimostrare la legittimità del suo atteggiamento a fronte dell’insistenza da parte della moglie. L’operatore e l’operatrice gli fanno notare che lui interpreta come “aggressività” da parte della moglie il modo in cui lei afferma il suo legittimo diritto a uscire con le amiche, reagendo a un attacco da parte degli uomini di famiglia.
P. argomenta il suo punto di vista: “A me sembra che lei sfrutti il fatto che io frequento i gruppi [al cam] per far presente certe cose. Ci marcia proprio. Certo poi magari sono io che vedo le cose in negativo”.
L’operatrice interviene, invitandolo a riflettere: “E se invece provi a vedere le cose in positivo?” L’uomo risponde timidamente: “Vedo che lei è più disposta a manifestare il suo parere, a dire chiaramente cose che prima avrebbe lasciato correre. Ora non ha più timore di far presente il suo punto di vista”. [Incontro di gruppo]
36Sebbene P. abbia accettato che la moglie esca con le amiche una sera a settimana, non rinuncia tuttavia a sottolineare che si tratta di una concessione da parte sua. Nel momento in cui la moglie si risente e ribadisce il proprio diritto ad avere una vita sociale, a ristabilire la propria autonomia e a espandere il proprio space for action12, il marito ricade nell’automatismo che lo porta a interpretare l’atteggiamento della moglie come “una provocazione”. Sollecitato dagli operatori, e in seguito dagli altri partecipanti al gruppo psicoeducativo, P. riuscirà a re-interpretare la reazione stizzita della moglie come la semplice manifestazione assertiva del suo punto di vista, della sua soggettività, e della sua (oggi) maggiore fiducia, poiché non teme più il rischio di subire aggressioni da parte del marito, anche in ragione della partecipazione agli incontri del cam. In tal senso, l’espressione “ci marcia proprio” sembra voler sottolineare che, con il venir meno della violenza, il comportamento della donna assume i tratti di un eccesso di autonomia.
37L’analisi delle narrazioni maschili riportate fin qui evidenzia la tensione tra le aspettative maschili rispetto ai doveri femminili coniugali e materni e una realtà in profondo e continuo mutamento, in cui le donne cercano simmetria e reciprocità nella relazione coniugale e nella condivisione del lavoro domestico e di cura, per affermare la propria autonomia nella gestione dei rapporti sociali, della vita professionale e del proprio tempo libero. La reiterazione di rappresentazioni negative delle donne – descritte come irrazionali, isteriche, aggressive, istigatrici, egoiste, opportuniste, insubordinate, e sostanzialmente eversive del ruolo tradizionale materno e coniugale – è utilizzata dagli uomini come giustificazione plausibile della propria violenza. Tale ripetizione discorsiva svela il suo potere produttivo poiché permette alla figura maschile di emergere in termini oppositivi e gerarchici come portatore di ordine e di razionalità. Tale processo sembra realizzarsi non solo sul piano delle relazioni d’intimità, ma mostra elementi di continuità con la più ampia sfera dei rapporti sociali tra uomini e donne.
38Traendo ispirazione del concetto di whore stigma ideato da Gail Pheterson13, secondo cui, sul piano simbolico, la possibilità di essere socialmente considerata “una prostituta” rappresenta per qualsiasi donna una minaccia costante al suo onore, possiamo affermare che aleggia sul capo delle donne anche una sorta di witch stigma, ovvero la minacciosa possibilità per una donna di essere considerata “una strega”. Secondo questa concezione, storicamente stabile, “le femmine” sono considerate isteriche, irrazionali, “provocatrici” e quindi potenzialmente pericolose, malvagie, o banalmente “delle stronze”, come espresso con grande efficacia dalle testimonianze degli autori di violenza. Tuttavia, tale concezione assume forme mobili secondo il momento storico e i contesti locali in cui si realizza. Come a rievocare l’immagine della strega medievale14 o della femme fatale tardo-ottocentesca15, tale dispositivo morale può essere innescato su scale molteplici, da diverse istituzioni e attori sociali e sembra riprodursi incessantemente nei discorsi di senso comune, con la finalità di rimettere le donne “al proprio posto”.
39Nel caso delle relazioni d’intimità, l’impiego da parte degli uomini maltrattanti dello “stigma della strega” è frutto di una percezione soggettiva – parziale e genderizzata – di alcuni tratti e comportamenti femminili e dalla loro esagerazione. Trovando eco e consenso a diversi livelli, tale processo di alterizzazione e naturalizzazione16 sembra operare in maniera produttiva, divenendo una strategia discorsiva di marginalizzazione e squalificazione, controllo e disciplinamento, sia della compagna nell’ambito delle relazioni d’intimità, sia potenzialmente delle donne in generale, nella più ampia sfera dei rapporti sociali17. Lo “stigma della strega” viene per esempio utilizzato per promuovere l’immagine caricaturale di donne manipolatrici che si dicono vittime di violenza solo per ottenere la custodia esclusiva dei figli in sede di divorzio. Sul piano del discorso politico, esso diviene un efficace capro espiatorio del potere maschile e viene impiegato per screditare e squalificare donne militanti, attiviste, giornaliste e avversarie politiche.
40Poiché, come osserva Erving Goffman, siamo portati a “credere che la persona con uno stigma non sia proprio umana”18, per gli uomini maltrattanti tale dispositivo pare funzionare come giustificazione dell’uso strumentale della violenza come “tecnica di correzione” e come “violenza creatrice di diritto”19, nel senso di un diritto maschile all’esercizio del potere nella sfera intima e familiare. In diverse declinazioni, lo stigma della strega può essere pensato come applicabile non solo nei confronti delle donne, ma di tutti quei soggetti che potenzialmente sfidano la norma eterosessuale: esso agisce sul piano simbolico e materiale, partecipando alla (ri)legittimazione del ruolo maschile in seno alla famiglia e alla restaurazione della sua pubblica autorità, secondo il modello della maschilità egemonica.
3.2. Violenza
3.2.1. “Prima della violenza”
41Prima di arrivare a rivolgersi a un centro di ascolto per maltrattanti, in molti casi gli uomini che ho incontrato avevano già provato a “fare qualcosa”, nel tentativo di “risolvere un problema” che ancora non riuscivano a definire, ma di cui percepivano le conseguenze sulla loro stessa salute fisica e mentale. L’incapacità di riflettere su di sé e sul proprio agire violento si traduce in una profonda sofferenza e in una ricerca affannosa, a tratti disperata, di possibili soluzioni. Alcuni uomini raccontano di essersi rivolti a medici specialisti, di aver intrapreso percorsi di terapia individuale, familiare, di coppia. Altri ancora hanno consultato “preti”, “esorcisti” o “streghe”, oppure sperimentato pratiche alternative quali l’agopuntura, la meditazione, la bioenergetica e lo yoga. Prima dell’arrivo al cam, nell’immaginario degli maltrattanti, gli autori di violenza erano “codardi degni di disprezzo”, mentre la violenza era ritenuta una forma di devianza lontana dalla propria esperienza. Proprio per questo le loro richieste di aiuto si erano rivelavate buchi nell’acqua: nella maggior parte dei casi, gli esperti consultati non avevano né le competenze né l’esperienza necessaria a individuare, tra le cause del loro malessere, i loro stessi atteggiamenti prevaricatori o l’asimmetria dei rapporti di potere in seno alla coppia e alla famiglia.
Prima che la violenza entrasse a far parte della mia vita, avevo un’idea precisa sul tema. Innanzitutto non avevo mai vissuto situazioni violente, mai alcuna violenza inflitta, nessuna violenza subita. Ho avuto un’infanzia felice, genitori premurosi e un’educazione adeguata, insomma niente che potesse presagire ciò che poi sarebbe accaduto. Della violenza pensavo che fosse l’espressione della peggiore bassezza umana e ritenevo gli uomini violenti il sintomo più vergognoso della mancanza di dignità personale di cui soffriva la nostra società civilizzata. [G., lettera pubblica]
Avevo un pregiudizio sulla violenza: mi aspettavo che fosse legata a un certo strato sociale. Quando sono venuto qua la prima volta avevo dei timori. Pensavo di entrare in un gruppo di drogati, ignoranti, gente marginale, invece ho trovato persone di un certo livello, con cui fare riflessioni di un certo tipo. [T., incontro di gruppo]
Prima pensavo che la violenza riguardasse una piccola parte della società, personaggi di un certo tipo: persone violente, persone cattive, persone che vogliono il male degli altri, altre persone. Pensavo “Non mi riguarda, io non sono così, sono una persona buona, sono una persona che vuole bene a sua moglie, sono una persona che sta cercando di fare tutto il suo meglio perché le cose funzionino”. [S., focus group 1]
42Anche per i maltrattanti, gli uomini violenti sono sempre “altri”, distanti da sé e dalla propria esperienza di vita. Persino negli incontri psicoeducativi, alcuni di loro hanno maggiore facilità a identificare i comportamenti violenti della persona che siede al loro fianco piuttosto che a decostruire le sequenze delle proprie prevaricazioni, contro la propria compagna e i propri figli. Nelle loro parole, la violenza irrompe nella vita di persone “tranquille”, moralmente integre, spesso addirittura abituate a tollerare ingiustizie di vario genere. Quando arrivano al cam, i maltrattanti sono in grado di riconoscere un atto di violenza, solitamente “il più grave”, descritto come un singolo episodio eccezionale – isolato, improvviso, inspiegabile – incoerente rispetto a un passato in cui la violenza non li riguardava, se non altro non come autori.
In ventitré anni non è mai successo niente, poi un giorno c’è stato un episodio brutto. Un giorno si è spenta la luce. È stato un caso. [A., incontro di gruppo]
Io vorrei chiedere a voi [rivolgendosi agli altri uomini del gruppo]. Io non sono mai stato un violento, ho fatto una sola cosa una volta nella vita, e dopo che ho fatto quello non posso più dire né fare niente. [C., incontro di gruppo]
43Questa mise à distance della violenza, operata dagli stessi uomini maltrattanti, rivela gli effetti della rappresentazione stereotipata della violenza come devianza estrema e del maltrattante come “mostro”. Difficilmente la violenza è pensata come un fenomeno che riguarda pratiche quotidiane e persone normali. Se interrogati apertamente, gli stessi uomini maltrattanti si dichiarano contrari all’uso della violenza da un punto di vista ideologico, teorico, politicamente corretto. Forse anche per questo motivo, spesso raccontano episodi della propria vita in cui hanno saputo prendere le distanze in maniera netta e determinata da condotte aggressive.
Non sono mai stato attratto dalla violenza. Al contrario, ho sempre separato le coppie che litigavano, intervenivo nelle risse per separare le persone… [T., incontro di gruppo]
Io non avevo mai avuto episodi di violenza, anche un po’ per vigliaccheria forse. Non dico solo violenza nei confronti delle donne, ma nemmeno tra adolescenti avevo vissuto situazioni violente, neanche allora… Tendevo a rifuggire la violenza […] per paura di subirla, di affrontarla, di affrontare una scazzottata… Per questo dico “per vigliaccheria”. […] E poi consideravo la violenza come una cosa negativa. E qui c’è la separazione delle carriere, tra quella emotiva e quella razionale… Io penso di essere scollegato tra qui [mette una mano sul cuore] e qui [mette una mano sulla testa]. Nella mia visione del perfetto evoluto, la violenza non era accettabile. [V., intervista biografica]
44Nonostante la sua “vigliaccheria” e il generale “ripudio” per la violenza, V. si trova a dover prendere atto della violenza che ha agito contro la propria compagna. Ai suoi occhi, è proprio il rifiuto ideologico della violenza a mascherare la sua incapacità di entrare in relazione con se stesso, con la propria emotività e con la propria esperienza. Nel passaggio successivo, un altro degli uomini del cam racconta diversi episodi in cui ha evitato conflitti potenzialmente pericolosi, nel corso del suo servizio militare in un’unità delle forze speciali, in un ambiente che descrive come particolarmente violento.
Arrivata la maggiore età son partito per fare il militare. Fin da quando ero bambino avevo quest’idea: volevo entrare nelle forze speciali. Avevo dei timori, perché sapevo benissimo che situazione era, che tipo di corpo era: una banda di teste di cazzo sostanzialmente. Mezzi delinquenti. Questo era quello che mi avevano sempre raccontato. […] L’ambiente era tremendo, perché era un covo di fascisti, proprio di quelli immatricolati. […] E poi in quelle situazioni si crea il fenomeno del nonnismo. […] Ti pigliavano alle spalle, ti tiravano dei colpi nelle gambe, sui muscoli praticamente. Chiaramente se non te l’aspetti senti male e non puoi reagire. Dovevi accusare e zitto. […] Queste cose in qualche modo le ho sopportate, perché poi lì non puoi reagire. Ho incassato ma poi me ne sono fatto una ragione, proprio perché lo sapevo che era così. Non che io le abbia poi rifatte a mia volta, anzi. Sono stato uno dei pochi che non ho rifatto quello che ho subito, perché mi sembrava stupido. […] Erano proprio delle teste… facevano violenza proprio per il gusto di farla, per loro era importante, era un credo, in qualche modo […] C’erano degli episodi di prepotenza forti. Io poi chiaramente sapevo anche difendermi, però con certi personaggi non ci volevo avere a che fare, perché sapevo cosa poteva succedere. [N., intervista biografica]
45N. racconta di aver sopportato a lungo, evitando di reagire. Come nel suo caso, in altre occasioni gli uomini maltrattanti hanno riferito episodi in cui hanno subito violenza, per lo più da parte di altri maschi, o ancora dal padre, dalla madre, dai fratelli maggiori, senza tuttavia (poter) reagire con altrettanta violenza. Da un lato queste narrazioni sembrano intese a consolidare il loro profilo di “vittime” e in qualche modo sono avanzate come alibi ai comportamenti che li hanno condotti a frequentare un centro per uomini maltrattanti. D’altra parte, le loro testimonianze mettono in luce l’esistenza di molteplici gerarchie dei rapporti violenti, basate non solo sul genere ma anche sull’età e sul tipo di relazione: tra pari, tra anziani e matricole, tra genitori e figli, tra fratelli maggiori e fratelli minori, tra marito e moglie. Come vedremo più avanti, la violenza viene impiegata selettivamente e assume significati distinti secondo il tipo di relazione.
3.2.2. Nominare la violenza
46Poiché i discorsi rivelano profondi legami con il desiderio e il potere20, è interessante osservare come il lessico degli uomini che frequentano il cam sia infarcito di termini ed espressioni che evocano metafore della guerra, del conflitto, della contrapposizione, del controllo e della competizione.
Tu vorresti pilotare le situazioni, dovresti imparare a pilotare te stesso. [incontro di gruppo]
Ho tre fronti di guerra aperti: con mia moglie, con mio figlio, con la salute. [incontro di gruppo]
Sono un carro armato, io vado avanti. [incontro di gruppo]
Ormai la situazione è questa, non c’è trippa per gatti. La nave rompighiaccio avanza dritta verso i poli. [incontro di gruppo]
Bisogna lavorare per conquistare una posizione. [incontro di gruppo]
Dobbiamo pianificare, prendere delle decisioni, il campo di battaglia è questo… [incontro di gruppo]
47Come illustrato da George Lakoff e Mark Johnson, le metafore radicate nel linguaggio umano non sono una mera costruzione linguistica ma, da un punto di vista socio-politico, rivelano le percezioni, il pensiero e le condotte degli attori sociali21. In questo caso, l’utilizzo di un linguaggio di tipo bellico-militare nel parlare comune, anche quando non riferito esplicitamente all’antagonismo della relazione di coppia, sembra alludere in maniera indiretta ai valori della competizione e della continua lotta per la propria sopravvivenza. Le espressioni utilizzate dagli uomini del cam evocano una percezione di sé come costantemente sotto attacco, esposti a minaccia, asserragliati, costretti a strategie difensive, sempre vigili e senza la possibilità di “abbassare la guardia”.
48Nel momento in cui invece si trovano a dover descrivere i propri comportamenti, diversi autori e autrici hanno osservato che i maltrattanti utilizzano strategie discorsive per eludere il riconoscimento consapevole degli atti compiuti contro la propria compagna22. Nelle testimonianze che seguono, vengono riportati diversi esempi di minimizzazioni, giustificazioni e omissioni:
Ho un problema caratteriale. [P. incontro di gruppo]
Non ho mai picchiato i miei figli. Beh, qualche volta uno schiaffo puntuale, gli sculaccioni, ok… ma non ombrellate nella testa. [M. incontro di gruppo]
Non è che l’abbia mai proprio mandata all’ospedale. [N., incontro di gruppo]
C’è stato qualche schiaffettino, ma proprio una pacchettina. Una cosa che ti viene da ridere anche a te. […] Quella volta lo schiaffettino non gliel’ho tirato, però mi sono incazzato. […] Anche le mamme danno degli schiaffettini ai bambini, perché i bambini portano all’esasperazione, così io con lei. È normale, tutti lo fanno. Tutti gli uomini lo fanno. [H., incontro di gruppo]
49Oltre all’impiego di eufemismi per descrivere azioni gravi – quali insulti, minacce, lanci di oggetti, fino ad arrivare a vere e proprie aggressioni fisiche – nei loro racconti, i maltrattanti operano una selezione delle informazioni, danno risalto ad alcuni aspetti e ne omettono degli altri. Come abbiamo già notato nel capitolo precedente, con frequenza gli autori di violenza descrivono un episodio in maniera sbrigativa, escludendo dalla ricostruzione dei fatti gli elementi che pongono l’accento sulla loro intenzione di esercitare un potere sulla compagna. In alcuni casi dicono di “non ricordare”, in altri utilizzano giustificazioni alle proprie aggressioni, dal banale “lei mi ha provocato” fino a più complessi alibi e scuse.
50Nel corso degli incontri collettivi, gli uomini maltrattanti imparano a riconoscere alcune forme di manipolazione. Spesso sono gli altri partecipanti alle sedute di gruppo a vigilare sui resoconti di chi parla, arrivando a svelare i trucchi auto-assolutori, continuamente impiegati nella produzione discorsiva. Con il tempo, al cam si genera la possibilità di “chiamare le cose con il loro nome” e si arriva a descrivere in maniera esplicita anche le azioni più violente, senza dover più ricorrere a eufemismi e a giustificazioni. Dopo un certo numero d’incontri, “calci in culo”, “calci in faccia”, “spinte”, “manate” e tentati “strangolamenti” sono illustrati senza alcuna inibizione. Tale passaggio è potenzialmente pericoloso, poiché rischia di condurre all’esaltazione di un vissuto comune, in risposta alla supposta aggressività femminile. Tuttavia l’operatore e l’operatrice, consapevoli di tale rischio, sono molto attenti a marcare il sottile confine tra l’ammissione di un comportamento abusivo e la sua implicita celebrazione. L’uno o l’altra intervengono puntualmente per far sì che la possibilità di nominare i fatti senza giri di parole possa essere utile all’assunzione di consapevolezza, e quindi all’interruzione della violenza, evitando di aprire il campo alla complicità sessista.
51La mise à distance della violenza, le minimizzazioni, giustificazioni, omissioni, così come la colpevolizzazione delle donne di cui abbiamo già parlato, possono essere considerate vere e proprie “tecniche di neutralizzazione”. I criminologi Gresham Sykes e David Matza già negli anni Cinquanta descrivevano le strategie criminali volte a eludere la responsabilità individuale e a negare il reato, proprio attraverso aggiustamenti discorsivi funzionali a ridefinire le proprie condotte23. Lo psicologo Albert Bandura parla di selective moral disengagement, tecnica per nascondere gli imperativi etici condivisi e liberare il soggetto dalla responsabilità per i propri atti24. Nell’analisi della vita quotidiana come rappresentazione, Goffman sostiene che gli attori sociali “creino intenzionalmente quasi ogni tipo di falsa impressione, senza doversi porre nell’insostenibile situazione di aver detto una menzogna sfacciata” e arrivino quindi a “dire bugie senza averne detta tecnicamente alcuna”, grazie all’uso di allusioni, ambiguità, omissioni25. Nel nostro caso, le minimizzazioni, giustificazioni e omissioni sono anche strategie del controllo nella produzione discorsiva26: attraverso la reiterazione di un particolare modo di parlare – Butler parlerebbe di “atti linguistici”27 – partecipano alla produzione e riproduzione delle gerarchie tra i generi, attraverso una pratica quotidiana e regolata. In tal senso, il conflitto tra i generi assume anche la forma di una lotta tra diverse interpretazioni dell’esperienza della violenza.
3.2.3. Percezioni e usi della violenza
T.: “Il problema non è quello che si fa, ma la percezione di quello che si fa”.
D.: “Io ho fatto violenza fisica e non lo percepivo. Le ho dato uno schiaffo, le ho dato una spinta, le ho stretto la testa. Ma se mi avessero chiesto ‘Hai picchiato una donna?’, avrei risposto ‘No, assolutamente!’ ”. [Focus group 1]
52Da questo estratto emerge l’esistenza di una prima soglia tra ciò che è percepito come violenza e ciò che invece viene considerato come normale interazione. Nel corso di una discussione di gruppo, D. racconta di aver sottovalutato in passato i suoi atti di violenza fisica, poiché – dal suo punto di vista – lo schiaffo, la spinta, lo stringere la testa non avevano conseguenze. Come abbiamo già visto nel caso della violenza sugli oggetti, questa è spesso descritta come uno sfogo fisico alla propria rabbia.
Spaccare qualcosa, rompere qualcosa, dargliele, per me era liberatorio, non era una frustrazione, assolutamente. Stavo meglio. Altro che. A voglia! Io avrei spaccato tutto. Più spaccavo e più mi calmavo, più stavo tranquillo. [C., incontro di gruppo]
53Quando non viene descritta come “una liberazione”, gli uomini dicono di agire violenza non in maniera attiva, ma di essere passivamente soggiogati da forze esterne:
Si è spenta la luce.
Sono stato accecato.
Per me è come chiudere le tapparelle, non vedo più niente.
In quei momenti lì sono una pentola a pressione.
Vedo rosso.
Arriva l’ondata.
Mi si tappa la vena.
Mi prende la fiammata.
Ho perso il controllo.
Son partito.
È come se io fossi una marionetta manovrata da agenti esterni.
Devo imparare a controllare il serpente, a cavalcarlo bene.
Dentro di me c’è sempre qualcosa che cova, che devo tenere a bada.
Se dovessi dare retta a quelli che sono gli istinti primordiali che ci sono in ognuno di noi, farei cose che chiaramente non vorrei fare…
54I racconti dei maltrattanti evocano discorsi di senso comune, secondo cui la violenza maschile è percepita come naturale e improvvisa. Come il “raptus” spesso citato nelle narrazioni della cronaca nera, l’idea dell’“istinto” come forza cui dare sfogo, oppure come potenza da tenere sotto controllo, sembra richiamare la concezione dell’aggressività maschile come innata piuttosto che appresa e riassumibile nella formula boys will be boys. Rispetto alla violenza, gli uomini sembrano avere due sole opzioni: arrendersi a tale “istinto”, abbandonare il controllo e quindi esprimere la violenza, oppure resistervi e quindi vigilare su di sé, auto-reprimendosi.
55La violenza è descritta come una scelta solo quando è – dal loro punto di vista – l’unica scelta possibile. Nella costruzione discorsiva dei maltrattanti, il gesto violento viene compiuto al fine di risolvere una situazione che descrivono come esasperante e senza alternative, come vediamo nei passaggi che seguono.
Se ho fatto determinate cose è perché non potevo fare altrimenti. Nel senso che, con gli strumenti che avevo allora, quella per me era l’unica scelta possibile. All’epoca avevo delle convinzioni per cui non potevo fare altro che reagire in questa maniera. Quelli erano gli strumenti che avevo, non provo vergogna a dirlo. […] Io le avevo dato due schiaffi e non ero assolutamente pentito di averglieli dati, ma per niente! Io mi consideravo uno che era stato costretto per forza di cose a dover comportarmi in questa maniera. Pensavo “Se l’è cercata in tutti i modi”, “Mi ha provocato in tutti i modi”. Ecco, adesso invece, anche quando la mia compagna ricorre a dei modi aggressivi nei miei confronti, perché continuano a esserci anche dei modi brutti, riesco a capire che cerca di dirmi anche qualcos’altro, oltre a quello che mi contesta direttamente. [O., intervista biografica]
Nella mia visione razionale, io non potevo fare altro che quello. È una situazione che si è verificata. Pensavo: io non posso fare altrimenti, per evitare di fare danni bisogna stare separati. Questa era la mia spiegazione razionale. Non è che pensassi di aver fatto bene ai miei figli, però per me, per tutto quello che subivo, era il minimo che io potessi fare. Non avevo nessun pentimento, ma per nulla. La mia reazione esasperata era un modo di relazionarsi con una persona altrettanto esasperante, quindi non poteva avere altra conseguenza, altro effetto che quello lì. […] Per me questa cosa qui era assolutamente razionale, senza nessun pentimento”. [Q., intervista biografica]
56Come in altre testimonianze esaminate in precedenza, anche in questo passaggio i maltrattanti minimizzano la gravità dei fatti e celano la responsabilità delle proprie azioni, poiché raccontano l’episodio come “qualcosa che è accaduto” in maniera quasi naturale, piuttosto che come una dinamica cui hanno partecipato attivamente, ricorrendo a gesti intenzionalmente aggressivi contro la compagna, con uno scopo preciso.
57In altri casi gli uomini parlano di una “violenza giusta”. Nel corso di un focus group uno dei presenti ha affermato: “noi stessi spesso ci consideriamo dei portatori di giustizia”. Con frequenza i maltrattanti citano episodi in cui non hanno esitato a intervenire in risposta a qualche prevaricazione, tra colleghi, tra i figli, tra la moglie e i figli: essere capaci di intervenire è considerata una qualità maschile, secondo il modello della maschilità egemonica. La figura dell’uomo “giustiziere”, a tratti “vendicatore”, contribuisce alla costruzione di un’immagine eroica di sé, come negli estratti che seguono:
Quando vedo un’ingiustizia, non ce la faccio proprio a contenermi. Per questo passo dalla ragione al torto, perché sbaglio nell’atteggiarmi. Invece che essere posato, tranquillo, io parto immediatamente. Devo imparare su questo, ci sto provando, ma ho ancora tanto da fare. [N., intervista biografica]
Al cam viene fuori spesso: molte persone agiscono con la violenza, tante volte per senso di giustizia. Come se la violenza rendesse pan per focaccia a un’ingiustizia, magari nemmeno su di noi, ma nei confronti degli altri, che sarebbe proprio un’immagine eroica. [T., intervista biografica]
58Lo stesso senso di giustizia viene evocato quando, dal loro punto di vista, diviene necessario difendersi da quelli che sono descritti come “i soprusi” della moglie.
Il problema è che noi non eravamo capaci di riconoscere che siamo stati violenti ancora prima di arrivare alla violenza vera. Per noi quella non era violenza, quella era legittima difesa! [S., focus group 1]
Per me era una difesa. Non ero consapevole del fatto di aver fatto violenza, ma sapevo di essermi difeso. Male, però mi sono difeso. [O., focus group 1]
59Come vedremo nell’analisi delle maschilità, in questi casi gli uomini raccontano di aver scelto di utilizzare la “violenza giusta” per rispondere a minacce o soprusi, talvolta da parte della partner. Anche in queste occasioni la donna è ritratta come “isterica” e “irrazionale”, “ingiusta” nei confronti del marito o dei figli. Il gesto violento è talvolta giustificato come un intervento “in difesa” dei bambini, a conferma delle aspettative intorno al ruolo regolatore esercitato dalla figura paterna, anche nel contrastare quella che viene dipinta come una “cattiva madre”.
Lei era aggressiva con i bambini e quindi io reagivo. […] Lei non smetteva di urlarmi in faccia, con il bambino in braccio, per cui io le ho strappato il bambino dalle braccia, l’ho spinta, l’ho buttata a terra e poi l’ho chiusa in una stanza. [T., incontro di gruppo]
Il timore della violenza di mia moglie mi fa essere violento a mia volta. Come quando lei sbotta davanti ai bambini, io le dico “Egoista maledetta” e sono aggressivo a mia volta, con una violenza che non so gestire. [L., intervista biografica]
60Nella gestione del rapporto di potere con la partner, oltre a veri e propri atti di violenza fisica, i maltrattanti raccontano di utilizzare anche “la minaccia della violenza”, ovvero la violenza come possibilità, come vediamo in questa testimonianza:
Il fatto è che la mia donna non s’interrompeva, per cui più che agire violenza io la minacciavo con la violenza. Mi dicevo “La picchio, è vero che la picchio”… però la violenza era come una minaccia nei suoi confronti, come a dirle “Guarda che se io vado avanti da questa parte e tu vai avanti dall’altra, poi lo sai dove arriviamo”. Io con la violenza, o con la minaccia, volevo fermare la dinamica, ma lei non si interrompeva… Cioè, io non ho mai ottenuto con la violenza di fermare la dinamica, sembra una frase fatta, ma veramente ho ottenuto solo peggio. [Q., Focus group 1]
61Se all’inizio del loro percorso gli uomini descrivono la violenza come una forza che prende il sopravvento, e quindi come una perdita di controllo, nel momento in cui si approfondisce l’esame delle dinamiche dell’interazione, i maltrattanti arrivano a definire con precisione tutta una serie di strategie per gestire la propria forza e regolarne l’intensità. Riporterò un lungo estratto in cui gli uomini riflettono collettivamente su tale aspetto:
N.: “Sapevo che se avessi veramente agito violenza l’avrei ammazzata. Io non ho mai ammazzato nessuno, però male a qualcuno posso averglielo fatto, un cazzotto piantato bene. Se lo tiro a una donna le stacco la testa, per dire”. […]
O.: “Quindi riuscivi a regolare la tua forza?”
N.: “Ecco, bravo, io sono arrivato a fare violenza fisica, ma controllata”.
Operatrice: “Quindi il fatto che fosse controllata non te la faceva percepire come violenza fisica?”
N.: “Sapevo che era violenza fisica, ma mi faceva stare male”. […]
T.: “Anche per me era così”.
E.: “Per me invece era diverso… Non credo che quando ti trovi in quella situazione riesci ad avere la forza per controllarti. Secondo me non ti sei controllato, ti è andata bene… Almeno, io ragiono per me”.
N.: “Per quanto fossi accecato, sapevo che non dovevo usare la potenza completa in quel momento”.
E.: “Io penso che, a me, mi è andata bene. So che avrei potuto farle veramente del male. Poi certo, se avessi avuto a che fare con un uomo era diverso. […] Se ti trovi un uomo dall’altra parte, magari quando hai tirato un pugno lui ti rispedisce il pugno, e ricarichi finché non diventa una colluttazione tra due persone forti. Se dall’altra parte c’è una donna, il primo schiaffo che hai dato l’ha bell’e bloccata. Non sei te che hai regolato la situazione, ma è proprio quello che si è venuto a creare: la disparità fisica. Lei non ce l’ha fatta. Se ti trovavi di là un uomo, lui ricarica e allora vince il più forte”. [Focus group 1]
62Nel corso di questo lungo scambio, attraverso l’analisi dettagliata del modo in cui gestiscono la propria forza nell’aggredire la compagna, gli uomini dimostrano che il loro uso della violenza è razionale, intenzionale e selettivo. I diversi gradi di violenza sembrano in parte corrispondere a diversi scopi del gesto violento, in parte sono giustificati dal fatto che la violenza è agita su una donna, per cui – dal loro punto di vista – lo scambio non è alla pari. Ai loro occhi una donna non è in grado di reagire alla forza fisica di un uomo, pertanto è sufficiente una “lieve” aggressione. Riecheggiando le tesi lombrosiane, questa riflessione mette in luce la credenza secondo cui le donne sono inferiori ai maschi dal punto di vista della potenza fisica (e intellettuale)28. Nelle spiegazioni maschili, di fronte a una donna, la violenza è “naturalmente meno intensa”. Dall’esame delle loro parole, pare che solo con un altro uomo vi sia la possibilità di esprimere liberamente e pienamente la propria forza, mentre con una donna si è costretti a contenere la propria potenza, di fronte al limite della (supposta oggettiva) fragilità fisica femminile. Vediamo un’altra testimonianza che permette di approfondire questa riflessione:
Io non sono mai stato un violento. […] In realtà io mi sono solo difeso: lei mi è saltata addosso e ha cominciato a riempirmi di pugni e io, solo perché sono più forte di lei, le ho rotto due costole. Per questo vorrei chiedere se secondo voi le nostre situazioni di aggressività sono legate a un’incapacità di gestire la rabbia solo con una donna in particolare o anche in altre situazioni, con i figli, sul lavoro, ecc. A me personalmente succede con certe donne, con altre no. A me è successo così. Io sono uno tranquillo, i miei figli non li ho mai picchiati, non sono uno violento. Mi succede solo con alcune donne. [J., incontro di gruppo]
63Nel racconto di J., il fatto di essere “più forte di lei”, oltre ad apparire come una giustificazione, genera sofferenza: la frustrazione sembra scaturire dall’imposizione del limite della supposta inferiorità fisica della compagna. Nell’agire violenza gli uomini escono perdenti perché la compagna – poiché debole – si fa male. La presunzione della propria superiorità fisica sembra condurli a percepire tale asimmetria come sleale, quasi “una trappola”, che li rende deterministicamente colpevoli di un abuso.
Sapevo che era violenza fisica, ma mi faceva stare male, perché comunque per me quello era un confine che io non volevo assolutamente superare, ma che purtroppo ho superato. Quindi per me erano una violenza e una sofferenza allo stesso tempo. [N., focus group 1]
Quando sono violento, a me succede che dopo mi sento una merda. Lei mi attacca, io la riprendo e le faccio troppo male, perché io sono più forte. [J., incontro di gruppo]
64Dal punto di vista dei maltrattanti, poiché la donna provoca, l’uomo reagisce e passa quindi automaticamente dalla parte del torto, solo perché è più forte di lei. La naturalizzazione e cristallizzazione dell’asimmetria della forza fisica tra uomini e donne permette di celare i meccanismi sociali che hanno reso le donne “più deboli” – meccanismi fondati per esempio sulla limitazione dell’accesso agli strumenti utili alle attività produttive e sull’incitamento all’uso del corpo femminile come mezzo per il lavoro riproduttivo e sessuale29. A questo proposito, la scrittrice Virginie Despentes sostiene che
un’impresa politica ancestrale insegna alle donne a non difendersi. […] Le ragazzine vengono addestrate a non fare male agli uomini, le donne richiamate all’ordine ogni qual volta che trasgrediscono la regola. […] Gli uomini, in tutta sincerità, ignorano fino a che punto non ci si possa difendere dal dispositivo di indebolimento delle ragazze, fino a che punto tutto sia scrupolosamente organizzato per garantire che essi trionfino senza rischiare granché, quando aggrediscono le donne. Credono, mellifluamente, che la loro superiorità sia dovuta alla loro grande forza.30
65In cerca di spiegazioni (auto-assolutorie) alle proprie condotte violente, i maltrattanti sembrano operare una lettura dei rapporti tra i generi che enfatizza il potere delle donne di rendere gli uomini vittime della propria forza fisica – così come, nel caso dello stupro, le donne sarebbero in grado di rendere gli uomini vittime del proprio desiderio sessuale. Torna in questo senso lo “stigma della strega”: sotto una nuova veste si ripropone la figura della femme fatale o della strega, infida seduttrice e provocatrice a un tempo, fisicamente e moralmente debole, di fronte alla quale un uomo si trova costretto a “cedere all’istinto”.
66Secondo tale concezione, lo scontro tra uomini e donne non avviene sullo stesso terreno, “ad armi pari”. Se in alcuni casi tale asimmetria sembra rappresentare un vantaggio maschile – poiché garantisce loro di avere l’ultima parola con “un cazzotto piantato bene” oppure con uno “schiaffetto educativo”, secondo il contesto e la necessità – tuttavia, in tempi di post-patriarcato, gli uomini che ho incontrato descrivono la propria “superiore” forza fisica come una condanna, poiché le donne, in ragione della loro natura e della loro debolezza costitutiva, li costringono al superamento di un limite che oggi non è più consentito oltrepassare. Come nel caso dell’uomo vittima della donna incantatrice, che fa della seduzione un’arma e induce il malcapitato in tentazione, si delinea in questo caso l’immagine della donna “provocatrice”, che sfida e minaccia l’imperativo dell’autocontrollo maschile, causandone il debordamento violento.
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67Gli uomini maltrattanti sembrano muoversi in quello spazio indefinito della Gewalt di Walter Benjamin, in cui i confini tra violenza, potere e autorità sono sfuocati. In tal senso la violenza degli uomini contro la propria compagna è “creatrice e conservatrice di diritto”31, poiché intesa ad affermare il proprio diritto/potere a un ruolo di comando, in un momento storico in cui il potere dell’uomo/marito/padre non è più indiscusso. Il malcelato sense of entitlement manifestato dagli autori di violenza sembra esprimere la resistenza maschile al cambiamento nei rapporti tra partner e il rifiuto dell’accettazione delle nuove soglie d’intolleranza al sessismo e alla violenza maschile.
68La violenza sembra, in secondo luogo, impiegata per governare la propria compagna, come “tecnologia di governo”32, in grado di arrivare potenzialmente a fissare le relazioni di potere tra marito e moglie in maniera asimmetrica, fino ad istituire uno “stato di dominio”. La paura delle donne che hanno subito violenza dal proprio marito o compagno – così come in alcuni casi il loro senso di colpa – può essere intesa come rivelazione di uno stato di dominio: tale condizione non va tuttavia interpretata come rigida né totale, poiché, nonostante la paura, il senso di colpa e le violenze subite, le donne continuano ad adottare strategie di resistenza, spesso esponendo se stesse ad ulteriori rischi.
69In alcuni casi la violenza sembra essere utilizzata come tecnica di correzione: un insieme di pratiche orientate a educare, “raddrizzare”, sanzionare, disciplinare i comportamenti della moglie, in funzione di norme di riferimento intese come universali. Si tratta in questo caso della violenza impiegata in risposta ai comportamenti femminili considerati “irrazionali”, a-normali o illegittimi, come in queste due brevi testimonianze.
Io non volevo farle del male. Voglio dire che quello che sentivo in quel momento era che volevo avere il controllo della situazione […] In quel momento lì io avevo bisogno di chiuderle la bocca, di insegnarle, tra virgolette, la dico un po’ così, di “insegnarle le buone maniere”. [V., Focus group 1]
Le tirai questo schiaffo e lei si calmò all’istante. Sicché io ebbi a dire nel gruppo “In quell’occasione lo schiaffo è stato terapeutico, è servito”. [N., intervista biografica]
70Infine la violenza rivela tutta la sua “forza espressiva”33 come esternazione della tensione generata dal contenimento della rabbia e, simultaneamente, insieme di atti linguistici e corporei34 che, ripetendosi nel tempo, si fanno performance di alcuni tratti normativi della maschilità (eterosessuale) egemonica. Comune a tutte queste diverse forme di violenza maschile contro le donne nelle relazioni d’intimità è la dimensione morale della violenza: quella che gli uomini chiamano la “violenza giusta”, possibile anche grazie a una vasta trama di strategie discorsive, che comprendono sia le denigrazioni esagerate delle condotte femminili, sia le minimizzazioni delle proprie azioni violente. Nelle prossime pagine, attraverso l’analisi della maschilità e delle sue trasformazioni, avremo modo di approfondire altri significati attribuiti dagli uomini alla propria violenza contro la compagna, nell’ambito delle relazioni d’intimità.
3.3. Maschilità
71In questo paragrafo cercheremo di capire che cosa c’entra la maschilità nell’analisi della violenza degli uomini contro le donne nelle relazioni d’intimità. Come ha fatto notare Cirus Rinaldi, riferendosi al caso di Agnese esaminato da Garfinkel, “l’aspetto performativo del genere e le pratiche di esibizione di genere ci costringono a dare prova di essere maschi o femmine ogni volta che ci ritroviamo in presenza degli altri, al fine di evitare perdite in termini di reputazione e di rischiare una degradazione di status”35.
72Il focus sulla relazione affettiva eterosessuale, spesso coniugale e co-genitoriale, permette di studiare il modo in cui gli uomini fanno la maschilità in questo specifico ambito locale e situato, e quindi di esaminarne la costruzione contestuale e interazionale36. Se consideriamo il genere come una performance, in che modo la violenza degli uomini sulle donne nelle relazioni d’intimità permette di realizzare, raggiungere, mantenere lo status di maschio, così come viene socialmente inteso in questo momento storico? In che modo gli uomini usano la violenza contro la propria compagna per affermare la propria maschilità (eterosessuale) egemonica e allo stesso tempo compensare la perdita della propria faccia, in quanto uomini, mariti e padri?
73In questo capitolo tratterò il modo in cui i maltrattanti gestiscono la propria immagine di sé, non solo nei confronti della propria compagna e delle donne in generale, ma soprattutto in relazione a un modello normativo di maschilità (eterosessuale), rispetto al quale anche altri attori assumono rilevanza: il proprio sé, i maschi del gruppo dei pari, i colleghi, gli amici, gli stessi uomini che partecipano agli incontri del cam. Come ha osservato Vulca Fidolini, l’analisi orizzontale delle interazioni tra maschi permette di de-essenzializzare i ruoli di genere e superare il paradigma del rapporto tra “dominanti” e “dominate”, per fare luce sulla molteplicità di relazioni prodotte dalla pratica delle maschilità37.
74La peculiarità del contesto in cui ho raccolto le testimonianze maschili, un centro d’ascolto per maltrattanti, ci invita a tenere in considerazione diverse temporalità. In primo luogo il momento in cui gli uomini arrivano al cam, in cui la violenza è, rispetto alla maschilità, presentata come una strategia “per salvare la faccia”38. In secondo luogo il momento di “crisi”, in cui sono portati a riconoscere le conseguenze dei propri atti: in questo caso la violenza viene percepita come una “vergogna” e quindi come minaccia per la propria reputazione di uomini, mariti e padri. Infine, dopo un lungo periodo di frequentazione dei gruppi psicoeducativi, gli uomini sembrano trovare strategie per restaurare la propria maschilità, questa volta senza ricorrere alla violenza, grazie ad una sorta di “civilizzazione” della stessa39. Da “martiri” a “eroi”, passando per uno stato di evidente “crisi” e “vulnerabilità”, le rappresentazioni di sé e della propria maschilità si trasformano nel tempo, mostrando una pluralità di prassi di genere al maschile, le quali, pur nelle loro differenze, sono in grado di mantenersi coerenti con il modello di maschilità egemonica.
3.3.1. Martiri
Sono io che mi sento attaccato. Mi sono reso conto che io ho un’ipersensibilità a essere contrariato in una certa maniera, ho una certa attitudine al sentirmi aggredito. Quindi diciamo che in passato mi sono sentito vittima di un’aggressione e legittimato a reagire. Invece, venire qui [al cam] mi ha fatto riflettere sul fatto che quelle che io considero aggressioni probabilmente vanno ricondotte a un determinato contesto, che può non aver a che fare con la mia persona, con il mio essere. Quindi devo imparare a non sentirmi sotto accusa, a non sentirmi aggredito. [O., intervista biografica]
75Nel corso di questo lavoro ho già fatto riferimento alla tendenza dei maltrattanti ad adottare un atteggiamento difensivo rispetto ai commenti delle proprie compagne, interpretandoli come provocazioni, accuse o rimproveri. In particolare, dalla ricerca emerge con forza la centralità della considerazione che gli uomini hanno di se stessi – in quando maschi, uomini, mariti e padri. La legittimazione sociale di cui hanno bisogno per aderire a un modello di maschilità (eterosessuale) egemonica40 fa sì che questi si mostrino particolarmente sensibili agli attacchi alla propria immagine di sé, manifestando al riguardo una pronta capacità reattiva. In tal senso, essi sembrano (re)agire per difendere la propria “faccia” di fronte a minacce reali o potenziali, e quindi per compensare quella che viene percepita come il rischio di una perdita di virilità.
76Nel corso della ricerca etnografica ho osservato che gli uomini maltrattanti, nella prima fase del programma trattamentale, si descrivono come “martiri”: vittime delle proprie mogli, affaticati dal lavoro, costretti ad affrontare stress quotidiani di diverso tipo. Nel momento in cui si raccontano, la descrizione dei fatti è organizzata in modo da presentare se stessi nel ruolo dell’oppresso, di chi subisce una situazione senza alcun margine di movimento. Nelle loro parole non vi è alcun cenno alla scelta consapevole e deliberata di agire un determinato gesto aggressivo.
Il bello è che lei ha la licenza di uccidere verbalmente, mentre non tollera in alcun modo la mia arrabbiatura. Lei dice che mi trasformo, che mi si trasforma il viso. Prende e mi porta davanti allo specchio e mi obbliga a guardarmi. Ma oh! Ma come si permette! Per questo io ora vorrei spezzare una lancia a favore di noi che siamo qui [si rivolge al gruppo, guardando gli altri negli occhi]. Io mi sento di reagire a una violenza sia fisica che verbale. Io mi sento vittima. Dovevate vedere il casino, la scena che ha fatto, e poi davanti ai bambini. E m’insegue per tutta la casa, stanza per stanza. Mi pungola, non mi dà pace. [O., incontri di gruppo]
77In molti casi gli uomini sembrano selezionare aneddoti e dettagli orientati a costruire un’immagine positiva di sé e a presentarsi come normali, nel senso di non-devianti, ma anche nel senso di conformi alla norma (eterosessuale). In alcune occasioni raccontano episodi che li rappresentano come uomini che sanno essere responsabili e generosi, altruisti, “persone su cui contare”, all’altezza della situazione.
Una volta ci fu un’emergenza. Accompagnai la mia ex fidanzata a casa e quella notte suo cugino si sentì male. Lei mi chiamò alle tre di notte dicendo “Bisogna che torni perché mio cugino sta male”. Io mi dovevo alzare presto perché il giorno dopo dovevo andare a Roma per lavoro, ma dissi “Che me ne frega” e andai. Suo cugino aveva avuto un ictus e lo portarono in ospedale. La sera stessa tornai da lei, e lei si sentiva in debito. Io pensavo “Sono cose che si devono fare”. Per me era normale… Io per lei e per la sua famiglia ero una persona apprezzata, perché ero a disposizione. [N., intervista biografica]
78Nelle loro testimonianze spesso enfatizzano il proprio senso del dovere, si mostrano fieri della propria professionalità e dei meriti che sono stati loro riconosciuti pubblicamente.
Effettivamente dal mio lavoro io ho tratto una grossa soddisfazione sia economica sia umana, che anche in termini di esperienza lavorativa. […] Onestamente, io mi sono piano piano costruito da solo, perché sono partito dal basso per arrivare alla posizione in cui ero [dirigente], però me lo son fatto tutto da solo. […] Oggi posso permettermi di aiutarli i miei figli. […] Ritrovarmi dall’oggi al domani a casa, in pensione, mi ha cambiato, mi ha lasciato diverse amarezze. Tutt’oggi sogno cose inerenti al lavoro. [B., intervista biografica]
79Nelle narrazioni maschili ricorrono le figure del self made man, indipendente e autarchico, e dell’homo faber, imprenditore di se stesso e risolutore. Come osserva Michael Kimmel, quest’ultima espressione “è più che una metafora: si riferisce alla capacità riproduttiva maschile, all’abilità degli uomini di generare se stessi […] e il potere maschile di generare la società”41. L’importanza che gli uomini attribuiscono al proprio ruolo di provider è sottolineata negli estratti che seguono:
Per un periodo non volevo che lei accettasse gli aiuti [economici] dai suoi genitori. Era un periodo in cui purtroppo si viveva solo del mio stipendio, ma le spese erano tante perché ci siamo comprati la macchina, ci siamo comprati prima la roulotte e poi la casa al mare, per cui spese ce n’erano. E io non volevo che lei accettasse gli aiuti dalla sua famiglia, ma se sua madre non ci avesse aiutati non ci saremmo potuti permettere questi lussi. [Z., intervista biografica]
Mia moglie, dopo quello che è successo, ha aperto un suo conto in banca. […] L’altro giorno ha visto il conto e aveva finito i soldi. Mi ha fatto piacere che sia rimasta a secco, perché così io le ho prestato subito i soldi e lei ha visto che non mi pesa. [P., incontro di gruppo]
80L’“uomo risolutore” soddisfa i bisogni materiali della famiglia ed è capace di intervenire in questioni pratiche, partecipando in questo modo al “mito creazionista genderizzato” dell’homo faber 42. Assolvere queste funzioni è ritenuto sufficiente a ottemperare agli obblighi attesi dal ruolo sociale maschile; allo stesso tempo sembra legittimare l’esercizio di un potere sulla compagna e nella famiglia. In tal senso, le osservazioni o i “rimproveri” espressi dalla moglie appaiono ai loro occhi del tutto fuori luogo, come un mancato riconoscimento del loro operato. I maltrattanti riferiscono di sentirsi gratificati nei momenti in cui hanno l’occasione per riaffermare la gerarchia tra marito e moglie, intervenendo come nel sopracitato caso del conto in rosso, in cui P. descrive con compiacimento paternalista quello che ritiene un gesto di generosità, anziché l’esercizio e l’affermazione di un potere.
81Nelle interviste ricorrono inoltre riferimenti a “ingiustizie” subite nell’infanzia o nel corso della vita. In diversi casi, gli uomini si descrivono come bambini fragili e gracili o adolescenti timidi e sensibili. Talvolta riportano episodi di violenza subita in famiglia o nel gruppo dei pari, dalle punizioni fisiche del padre o della madre, al fatto di dover andare a lavorare giovanissimi per “portare i soldi in casa”, all’aver assistito ai rapporti sessuali tra i genitori o subìto forme di bullismo da compagni più grandi. L’enfasi sulla propria rappresentazione come vittime di violenza può apparire come una giustificazione, ma allo stesso tempo racconta l’esperienza maschile della violenza subìta, ovvero la possibilità concreta di divenire facilmente bersaglio di aggressioni e maltrattamenti43. I maltrattanti descrivono contesti in cui la violenza è un elemento strutturale della vita dei maschi, comunemente accettato nelle interazioni quotidiane, in famiglia, a scuola, in strada, sul lavoro.
82La loro fragilità si esprime anche nelle narrazioni che rivelano le difficoltà e il senso d’insicurezza nelle relazioni con le donne, fin dalla prima adolescenza, attraverso i primi scambi romantici e sessuali con le ragazze.
Sul lavoro avevo conosciuto una ragazza. Per me era un innamoramento atroce, però probabilmente per la mia difficoltà proprio a interloquire con il sesso femminile… Al primo appuntamento andammo al cinema e lei, che forse era più scafata di me, cominciò a farmi delle avances anche di tipo sessuale e io scappai addirittura, per la vergogna. So che il giorno dopo in ufficio tutti lo sapevano e mi prendevano per il culo, sicché fu veramente una grossa delusione. [Z., intervista biografica]
Avevo sempre avuto un gran senso d’insicurezza. Penso che questo sia un altro tema della mia vita. Da adolescente mi sono sempre molto rifugiato nell’arte, e poco in quello che fanno gli adolescenti, cioè conoscere le ragazze, cercare di rimorchiare. Io ero invece abbastanza avulso da tutto questo, e questo ha creato delle gravi lacune nelle mie capacità relazionali. Anche con questa donna che magari già a quell’età aveva ambizioni di fare famiglia, mentre io invece pensavo all’arte, pensavo a fare chissà che cosa. [V., intervista biografica]
C’era qualcosa in me, una grande difficoltà a mettere in campo la mia emotività, i miei sentimenti, il mio modo di essere, la mia fragilità. Mi sono sempre sentito come “non all’altezza”… Ero terrorizzato all’idea di deludere una donna, quindi avevo bisogno di eccellere in qualcos’altro, divenire un ottimo sportivo, piuttosto che un bravissimo smanettone di moto o queste cose qua. Avevo bisogno di trovarmi dei punti fermi in qualche cosa, però la relazione con le donne è sempre stato un problema. [S., intervista biografica]
83In tutto l’arco della vita, la relazione sentimentale con una donna è descritta come un’esperienza che può scuotere e generare conflitti. La presenza intima di un’altra persona, la compagna, è a più riprese narrata come un turbamento che li costringe a rinegoziare i propri spazi e le proprie priorità44. Quando parlano della moglie o compagna attuale, i maltrattanti la descrivono come la figura che più di ogni altra attenta all’integrità della loro immagine in maniera costante e ripetuta – o perché non riconosce i meriti del marito o perché trae vantaggio dalla sua vulnerabilità. Nelle frasi che seguono, vediamo come gli uomini riferiscono i comportamenti delle compagne, presentandoli come minacce alla figura maschile.
Mi ha detto più volte: “I coglioni in questa casa ce li ho io”. [incontro di gruppo]
A me ha detto: “Io ti ho fatto diventare uomo”. [incontro di gruppo]
Mi dice: “Voglio che tu ti comporti da padre, da marito!” [incontro di gruppo]
Lei mi dice che sono un uomo frustrato. [incontro di gruppo]
84La rottura di un ordine familiare fondato sulla superiorità gerarchica degli uomini sulle donne – i maltrattanti vi si riferiscono chiamandola “mancanza di rispetto” – è interpretata come un’umiliazione che produce effetti importanti sulla propria autostima.
Sono venuto in Toscana per lei, per agevolare il suo lavoro. Lei gestisce un negozio di famiglia. E da quando siamo venuti qui, ho questa vita da immigrato clandestino, con tanti lavori sparsi, non ho più un lavoro diurno. […] Originariamente non ero così. Mi sento di essere “lo sfigato della scuola”, che a un certo punto esplode ai bulli. Che lei se ne vada in viaggio per lavoro ok, mi sta bene, mantiene tutta la famiglia, però anch’io faccio un sacrificio per lei. [L., incontri di gruppo]
85In quest’ultima testimonianza, oltre all’“umiliazione” di dover riconoscere la propria compagna come “la capofamiglia” dal punto di vista economico, squalificando il ruolo maschile di breadwinner, la frustrazione espressa da L. sembra associata a una perdita di centralità e al mancato riconoscimento della sua partecipazione alla gestione della vita familiare. Ai suoi occhi, la compagna è il pilastro dell’organizzazione della famiglia, poiché è lei ad assumere il ruolo di principale provider, facendolo quindi sentire come “lo sfigato della scuola”.
Le cose sono andate in picchiata quando lei ha deciso unilateralmente che io diventassi la casalinga, e che fosse lei a portare a casa la grana. Ora non ce la facciamo con i soldi […] Prima, la famiglia la mantenevo io, lavorando in un supermercato. Lei doveva solo stare a casa con il bambino piccolo e non dovevo nemmeno lavorare a tempo completo, avevo un lavoro part time. [L., intervista biografica]
86In questa seconda testimonianza, L. evoca un passato in cui nella coppia i ruoli erano definiti secondo criteri tradizionali e funzionavano in maniera efficace, mentre oggi, al contrario, i problemi economici familiari sembrano causati dal fatto che lui è “costretto a fare la casalinga”. Dal punto di vista maschile, l’attuale confusione tra i ruoli sgretola la matrice d’intellegibilità assicurata dalla norma eterosessuale. Anche in questo caso ritroviamo elementi del female blaming, nell’accusa alla moglie di essere la responsabile e colpevole della nuova e precaria condizione maschile, e quindi della loro sofferenza.
87In diverse occasioni, gli uomini lamentano la perdita della centralità del proprio ruolo. Spesso rivelano di “sentirsi presi in giro”, o più volgarmente di “sentirsi presi per il culo”. Si descrivono con espressioni come “sono aria che si sposta in casa”. Raccontano la propria insofferenza a ricevere ordini, a “sentirsi dire quello che devono fare”, mentre vorrebbero che la compagna e tutta l’organizzazione familiare si adeguassero alle loro esigenze. In altri casi, dover riconoscere e accettare il punto di vista dell’altra, talvolta anche solo la sua presenza, sembra percepito come una perdita, in termini d’immagine e di sovranità, talvolta come un vero e proprio oltraggio all’autorevolezza maschile, fino divenire legittimazione della loro “reazione” violenta.
3.3.2. La violenza come strategia per salvare la faccia
88Se è vero che gli uomini impiegano la violenza in maniera strumentale, per ripristinare la propria posizione dominante nei rapporti tra i generi, secondo quella che la sociologa Christine Castelain-Meunier definisce come “maschilità difensiva”45, tuttavia quest’analisi sembra spiegare solo parzialmente la violenza degli uomini contro la propria compagna.
89Riprendendo Erving Goffman, possiamo pensare gli atti di violenza maschile come “azioni preventive” e “azioni correttive”, ovvero “tecniche di difesa” di cui gli uomini si servono per “compensare il discredito che non è stato possibile evitare”46. In tal senso le azioni violente sono finalizzate a ricostruire la propria immagine di sé davanti a diversi pubblici – di fronte a se stessi, davanti alla propria compagna, idealmente al cospetto del gruppo dei maschi e agli occhi della società in generale, per ristabilire un sistema intimo, familiare e sociale che garantisca la centralità maschile indiscussa. Goffman sostiene che tali azioni correttive possano scaturire da una mancanza di fiducia nel proprio ruolo, e quindi indurre gli attori sociali a interpretare quello che vorrebbero fosse “il proprio io ideale”. Ricorrendo a principi di tipo drammaturgico, il padre dell’interazionismo simbolico definisce la faccia (o facciata) come “l’equipaggiamento espressivo di tipo standardizzato che l’individuo impiega intenzionalmente o involontariamente nella propria rappresentazione”47.
90Gli individui, in questo caso gli uomini maltrattanti, cercheranno di essere coerenti con la propria faccia e con le aspettative ad essa associate, per garantire una “resa teatrale” ottimale e dare maggiore rilievo agli elementi da cui dipende la propria reputazione, in linea con il modello di maschilità egemonica. Tali performance non si fissano in rappresentazioni permanenti, ma possono mutare nel tempo, sono quindi “soggette ad alterazioni”48. L’analisi microsociologica permette di cogliere le pratiche attraverso cui i soggetti, nelle diverse situazioni della vita quotidiana, costruiscono attivamente il proprio ruolo e la propria reputazione, anche da un punto di vista di genere, inteso come “una routine e come una realizzazione sistematica”49, esito e insieme fondamento dell’agire sociale50.
91Nel momento in cui arrivano al cam, la violenza è presentata come un’apparente strategia per “salvare la faccia” di fronte alle minacce alla propria immagine e al timore di perdere la propria sovranità. Il suo impiego sembra confermare la propria appartenenza simbolica al gruppo di maschi dominanti.
Molti di quelli che vengono al gruppo dicono “Non c’è modo di parlare con mia moglie”, hanno difficoltà proprio a relazionarsi, proprio a dialogare con la moglie. […] Quindi dobbiamo creare un argine per non essere schiacciati… Questa era la nostra difesa, era la mia difesa. [Q., intervista biografica]
92Se da un lato la violenza contribuisce a ristabilire un ordine intellegibile, dall’altro è una risorsa per definire, confermare e affermare un’identità di genere ideale, riferita a un modello normativo. Perdendo il controllo delle proprie emozioni ed esprimendo la rabbia attraverso il proprio potenziale corporeo, gli uomini mettono in scena la propria maschilità attraverso pratiche specifiche, incorporate e genderizzate51: alzando la voce, spalancando gli occhi, mostrando i denti, arrossendo, muovendosi in maniera concitata e alzando le braccia a mo’ di minaccia, urlando, lanciando oggetti, dando calci contro qualcosa o qualcuno. Questi gesti, descritti con precisione nel corso degli incontri di gruppo, non solo minacciano, spaventano, feriscono la compagna e le altre eventuali persone presenti, ma possono essere considerati pratiche citazionali di genere, atti linguistici e corporei ripetuti nel tempo, destinati a un pubblico reale e immaginario, e intesi ad affermare “sono un uomo e mi comporto come tale”.
93In tal senso, la negazione della propria responsabilità e degli effetti generati dai propri comportamenti è coerente con la loro immagine di uomini normali, nel senso di “conformi alla norma (eterosessuale)”. Secondo il loro punto di vista, le pratiche descritte poco sopra, se impiegate in difesa della propria reputazione, rientrano in questo frame di “normalità”. Saper reagire e rispondere alle offese o minacce potenziali, anche attraverso performance aggressive, è considerato uno dei tratti essenziali della maschilità egemonica cui sembra difficile rinunciare, se non privandosi della maschilità in toto. Tuttavia, una volta intrapreso il percorso psicoeducativo, tale presa di posizione comincia a vacillare, mostrando le controindicazioni e gli effetti collaterali delle condotte violente: primo tra tutti, oltre alle conseguenze negative sulla propria compagna e sui figli, il loro stesso malessere.
3.3.3. La cultura maschile dello stoicismo
94Nel corso delle interviste biografiche alcuni maltrattanti raccontano di aver “sempre” avuto difficoltà nella gestione ed espressione delle proprie emozioni, come se questo fosse un tratto caratteristico della loro personalità individuale. Alcuni di loro raccontano di “sentirsi violati quando lei mi costringe a esprimere le mie emozioni”.
95La repressione dell’emotività è un tratto comune a molti uomini, come risultato di una socializzazione che consente l’espressione di alcune emozioni associate alla forza, mentre scoraggia la manifestazione di sentimenti associati alla vulnerabilità. La cultura maschile dello stoicismo sembra fondarsi su alcuni presupposti fondamentali, dal controllo delle proprie emozioni, alla razionalità come unico principio dell’azione, all’auto-costrizione e alla sopportazione come paradigma. “Essere preda delle emozioni” è considerata una caratteristica femminile e, per gli uomini, una debolezza. L’eccessiva sensibilità è ritenuta un comportamento irrazionale, che li allontana dal raggiungimento dei propri obiettivi e dal controllo della situazione.
Ho sempre vissuto cercando di reprimere le emozioni, rileggendo tutto sotto un profilo razionale. Cioè, ritenevo che tutto quello che può accadere potesse essere giustificato e ricondotto al raziocinio, e consideravo la componente emotiva assolutamente d’intralcio al percorso che volevo fare. Questa è stata la mia visione, che ho razionalizzato verso i diciassette, diciotto anni, proprio in maniera “scientifica”, come una negazione di quello che sentivo. E questo mi ha portato anche a instaurare una relazione duratura, di diversi anni, con una persona di cui io non ero assolutamente innamorato. […] Poi incontro questa persona [la moglie] con la quale ho avuto una storia molto coinvolgente, clandestina, sia da parte mia che da parte sua, e lì io decido di abbandonarmi alla mia componente emotiva. Una cosa… un passo per me… questo per me è stato un grande cambiamento… […] Quindi, che cosa è successo? È successo quello che è successo. Da non provare emozioni, a provare solo emozioni di rabbia… Sono precipitato da un eccesso all’altro. […] E probabilmente la violenza che ho dovuto manifestare è frutto anche di un’incapacità mia di gestire la componente emotiva perché appunto non ci ho mai fatto i conti. Ho deciso di non farci i conti. Poi questa [la moglie] è come se si fosse messa in maniera scientifica a spronare la mia parte emotiva ed è venuto fuori un casino. [Q., intervista biografica]
Sono sempre stato una persona tacciata di essere poco empatica nelle relazioni. Mi si riconosceva sì di essere molto intellettivo, capace di fare ragionamenti, capace di affrontare le situazioni pratiche di un certo tipo, però poi nella relazione, in quello che poteva essere l’impatto emotivo con le persone… Gli altri mi ritenevano un po’ orso. […] Oggi è chiaro che è un problema che devo affrontare. [V., intervista biografica]
96Dai resoconti degli uomini incontrati emerge spesso la difficoltà maschile a entrare in relazione con la propria sfera emotiva. Al contrario, i maltrattanti evocano l’ingiunzione alla razionalità come forma di controllo, orientata a “sopportare”, “incassare”, “ingoiare”, insomma “resistere” stoicamente, senza mostrare cedimenti, in contesti sociali diversi – sul lavoro, in famiglia o nella relazione di coppia. Nei loro resoconti, la relazione sentimentale con la compagna è l’esperienza che più di ogni altra li ha costretti a perdere il controllo e a superare i confini di una razionalità descritta come rassicurante, spingendoli verso quel lato di sé che fino a quel momento erano riusciti a “tenere a bada”.
97Spesso i passaggi di età e le trasformazioni nello stile di vita – divenire padre, trasferirsi in un’altra città, cambiare professione, andare in pensione – sono evocati come transizioni biografiche in cui il ricorso alla violenza si è intensificato.
Dal momento in cui è nato il terzo figlio, sono sorti molti problemi. Molti perché lei l’ha vissuta molto male, non lo voleva, e quindi… Io invece ero felice. Lei ha avuto quasi una depressione e così via. Io non capivo, non la capivo, quindi nutrivo un rancore, maturavo un rancore, in crescendo. Quindi le sono stato accanto, ingoiando di tutto, in quel periodo lì, poi io ho dovuto prendermi una rivincita… […] Perché il sentimento di rancore, il sentimento di rabbia, ha due matrici secondo me: quello che fa l’altro nei tuoi confronti – fa qualcosa di male, dice qualcosa di brutto – per cui tu covi il rancore e la rabbia; e quello che tu non fai per te stesso in ragione di non disturbare – non contrariare, non entrare in conflitto con l’altro – quindi tutte le rinunce. E questo è devastante. Le puoi evitare tutte e due, però una delle due, che è far presente i tuoi bisogni e le tue esigenze, è importante, perché altrimenti detona. Bisogna cercare di disinnescare questi meccanismi. [O., intervista biografica]
98Dal punto di vista degli uomini, la sopportazione silenziosa e prolungata sembra alimentare un senso del sacrificio individuale, che a sua volta sedimenta in rabbia e rancore. Dopo i primi incontri al cam, i maltrattanti pensano di non dover più reagire in alcun modo alle “provocazioni” e di dover quindi subire e sopportare, per evitare ogni nuova aggressione. Con il tempo, attraverso il percorso al cam, gli uomini sono invitati a esprimere le proprie emozioni, opinioni e sentimenti in maniera progressiva, senza dover per forza tacere, per poi “esplodere” in maniera violenta. Ecco come uno dei partecipanti si rivolge a un altro nel corso di una seduta di gruppo:
Non aspettare che sia lei a cambiare atteggiamento, comincia a cambiarlo tu, vedrai che cambieranno anche le reazioni di lei. Devi cominciare a far presente le cose che ti danno fastidio, dirle via via, senza assumere l’atteggiamento di colui che regge, che incassa, sopporta situazioni che non gradisce, per spirito di sacrificio. In quel modo ti mostrerai come un adulto che sa riconoscere ed esprimere i propri sentimenti, che ha un modo maturo di esporre il proprio punto di vista. [E., incontro di gruppo]
99Il controllo e la padronanza di sé sono prodotti del processo di civilizzazione e in particolare della civilizzazione delle pulsioni, che ha determinato il progressivo allontanamento degli individui dai propri istinti, invitandoli a reprimere l’emotività e le manifestazioni affettive, per celebrare invece l’agire razionale, fondato sul distacco e la padronanza di sé52. Tale processo ha riguardato in particolare la costruzione sociale delle maschilità: la dimensione corporea del maschile è stata progressivamente negata fino a scomparire, schiacciata dall’immagine del corpo performante, il “corpo-macchina”, o divenendo mero strumento di parola e quindi di autorità. La celebrazione di una razionalità libera da condizionamenti ha reso gli uomini estranei ai segnali fisici, rinunciando al corpo come luogo della costruzione della propria soggettività. Secondo Stefano Ciccone, l’idea dell’emancipazione maschile dai vincoli corporei si è costruita proprio in opposizione allo stereotipo del femminile, influenzato dai cicli ormonali, preda dell’emotività e del governo del corpo53. All’espressione delle emozioni, gli uomini hanno tradizionalmente opposto la stoica sopportazione: uno dei tratti dominanti della maschilità egemonica, insieme all’assunzione del rischio, alla durezza, alla potenza sessuale, alla competitività, all’assertività e all’indipendenza54. Nel capitolo successivo vedremo come, alla luce del percorso in un centro d’ascolto per maltrattanti, queste rigide posizioni iniziali possono essere rinegoziate, innanzitutto attraverso l’esperienza della “crisi” e grazie alla scoperta della propria vulnerabilità.
Notes de bas de page
1 I. Ventura, ‘They never talk about a victim’s feelings: according to criminal law, feelings are not facts” – Portuguese judicial narratives about sex crimes, “Palgrave Communications”, 2, 2016.
2 Sul concetto di “non persona” cfr. E. Goffman, Stigma cit., p. 29. Lo stesso concetto è stato utilizzato da Alessandro Dal Lago all’inizio degli anni 2000 per descrivere i processi di marginalizzazione dei migranti, cfr. A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 2005.
3 M.P. Johnson, A Typology of Domestic Violence cit.
4 D. Danna, Ginocidio. La violenza contro le donne nell’era globale, Milano, Elèuthera, 2007.
5 I. Merzagora Betsos, Uomini violenti cit., p. 54.
6 S. Benasso, L. Stagi, Ma una madre lo sa? La responsabilità della corretta alimentazione nella società neoliberale, Genova, Genova University Press, 2018. Cfr. anche L. Stagi, Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni, Milano, FrancoAngeli, 2008.
7 Introdotta dallo psichiatra americano Richard Gardner negli anni Ottanta, la “sindrome di alienazione parentale” o pas (Parental Alienation Syndrome) interpreta alcuni comportamenti disfunzionali di figli e figlie – diffidenza, timore e ostilità – nei confronti di uno dei due genitori, il cosiddetto “genitore alienato”, come il risultato di una strategia di manipolazione operata dall’altro, definito come il “genitore alienante”. A seguito di tale diagnosi, la mediazione familiare è spesso indicata come una delle soluzioni per superare quelle che vengono considerate come “difficoltà coniugali”, ma che in alcuni casi celano situazioni di conclamata violenza. La validità di tale teoria è da sempre oggetto di controversie, al punto che la pas non è stata inserita né all’interno del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, né nella lista di malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Diverse voci della comunità scientifica e accademica, così come i centri antiviolenza e numerose associazioni impegnate nella tutela dei minori, hanno segnalato a più riprese i rischi che possono derivare dall’introduzione di tale sindrome. Tuttavia, in molti casi e in diversi paesi, la pas continua a essere evocata in sede di tribunale nei procedimenti in materia di affido condiviso e diritto di visita, senza alcuna considerazione per gli episodi di violenza domestica e abuso sessuale su donne e minori, oppure minimizzandone gli effetti. Cfr. M. Crisma, P. Romito, L’occultamento delle violenze sui minori: il caso della sindrome da alienazione parentale, “Rivista di Sessuologia”, 31, 4, 2007, pp. 263-270. In Italia, la discussione sul cosiddetto decreto legge Pillon (2018-19), che prevedeva l’applicazione sistematica dell’affido congiunto a entrambi i genitori e l’introduzione della mediazione familiare obbligatoria in caso di separazione o divorzio, ha rinnovato le critiche intorno alla pas. Il rapporto del 2020 del grevio sull’applicazione della Convenzione di Istanbul da parte dell’Italia si è soffermato a lungo su questo punto, in particolare nei paragrafi relativi all’applicazione dell’articolo 31 “Custodia dei figli, diritto di visita e sicurezza” (pp. 59-62). Cfr. grevio, Evaluation Report on legislative and other measures giving effect to the provisions of the Council of Europe Convention on Preventing and Combating Violence against Women and Domestic Violence (Istanbul Convention): Italy, Consiglio d’Europa, Strasburgo, 13.01.2020, https://rm.coe.int/grevio-report-italy-first-baseline-evaluation/168099724e [ultima consultazione 09.02.2020].
8 Cfr. P.G. Prigent, G. Suer, Strategies discursives et juridiques des groupes de pères séparés. L’experience française, in C. Bard, M. Blais, F. Dupuis-Déri (a cura di), Antifeminismes et masculinismes d’hier et d’aujourd’hui, Parsi, Puf, 2019, pp. 411-436; A. Verjus, Les coûts subjectifs et objectifs de la masculinité: le point de vue des masculinistes (et des féministes), in D. Dulong, E. Neveu, C. Guionnet (a cura di), Boys don’t cry! Les couts de la domination masculine, Rennes, pur, 2012.
9 S. Ciccone, Maschi in crisi? cit.
10 S. Benasso, L. Stagi, Ma una madre lo sa? cit.; G. Petti, L. Stagi, Nel nome del padre cit.
11 C. Leccardi, Prefazione, in S. Magaraggia, D. Cherubini (a cura di), Uomini contro le donne cit., p. xvi. Cfr. anche T. Pitch, Qualche riflessione attorno alla violenza maschile contro le donne cit. e L. Re, E. Rigo, M.M. Virgilio, Le violenze maschili contro le donne cit.
12 L. Kelly, N. Westmarland, Domestic Violence Perpetrator Programmes: Steps Towards Change. Project Mirabal Final Report, London-Durham, London Metropolitan University and Durham University, 2015.
13 Cfr. G. Pheterson, The whore stigma. Female dishonour and male unworthiness, “Social Text”, 37, 1993, p. 60: “Le definizioni formali non distinguono tra la prostituta come sex-worker e la prostituta come colei che compie atti disonorevoli per fini poco dignitosi”. Secondo Pheterson, le nozioni di onore e dignità perdono di significato se non vengono associate a un discorso volto a promuovere i diritti umani per le sex-workers, finendo per alimentare al contrario una questione morale – comune a tutte le ideologie, dai conservatori ai progressisti, fino alle stesse femministe – che chiama in causa tutte le donne. Secondo l’autrice, il whore stigma, sostenuto e riprodotto dalle autorità legali, sociali, e psicologiche, svolge la funzione di dispositivo di disciplinamento femminile.
14 S. Federici, L. Fortunati, Il grande Calibano cit.
15 S. Bellassai, L’invenzione della virilità cit.
16 Cfr. C. Rinaldi, Maschilità, devianze, crimine cit., p. 149.
17 S. Federici, L. Fortunati, Il grande Calibano cit., p. 64: “La strega dunque viene cacciata in quella zona oscura della storia dove si continuano a relegare quelle che Hill ha definito le lunatic fringes e cioè quei soggetti politici ribelli che essendo stati sconfitti politicamente possono essere tranquillamente ignorati dal senno di poi, che li cataloga appunto come lunatici, degni di un esame psicologico più che di un’analisi storico-politica”.
18 E. Goffman, Stigma cit., p. 15.
19 W. Benjamin, Per la critica della violenza cit.
20 M. Foucault, L’ordine del discorso [1971], Torino, Einaudi, 2004, p. 5.
21 G. Lakoff, M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Milano, Bompiani, 2005.
22 M. Deriu, Il continente sconosciuto. Interviste a uomini autori di violenze sulle donne, in M. Deriu (a cura di), Il continente sconosciuto. Gli uomini e la violenza maschile, Liberiamoci dalla Violenza - Centro di accompagnamento al cambiamento per uomini, Regione Emilia Romagna, 2012; I. Merzagora Betsos, Uomini violenti cit.; C. Ventimiglia, La fiducia tradita. Storie dette e raccontate di partner violenti, Milano, FrancoAngeli, 2002.
23 G.M. Sykes, D. Matza, Techniques of neutralization: a theory of delinquency, “American Sociological Review”, 22, 6, 1957, pp. 664-670.
24 Citato in I. Merzagora Betsos, Uomini violenti cit., p. 70.
25 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione cit., p. 74.
26 M. Foucault, L’ordine del discorso cit.
27 J. Butler, Questione di genere cit.
28 A. Simone, La prostituta nata. Lombroso, la sociologia giuridico-penale e la produzione della devianza femminile, “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 2, 2017, pp. 383-398.
29 P. Tabet, Les mains, les outils, les armes cit.
30 V. Despentes, King Kong Girl, Torino, Einaudi, 2007, p. 35.
31 W. Benjamin, Per la critica della violenza cit.
32 M. Foucault, Bisogna difendere la società cit., p. 292.
33 F. Héritier (a cura di), Sulla violenza cit.
34 J. Butler, Questione di genere cit.
35 C. Rinaldi, Maschilità, devianze, crimine cit., p. 66.
36 Ivi, p. 61.
37 V. Fidolini, Les cuirasses de la masculinité. Jeunes immigrés, double morale sexuelle et double morale culturelle, “International Review of Sociology”, 28, 2, 2018, p. 358.
38 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione cit.
39 N. Elias, Il processo di civilizzazione cit.
40 R. Connell, Maschilità cit.
41 M. Kimmel, The Gendered Society cit., p. 7.
42 Ibidem.
43 G. Burgio, Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità, Milano-Udine, Mimesis, 2012.
44 A questo proposito cfr. L. Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.
45 C. Castelain-Meunier, Les hommes aujourd’hui. Virilité et identité, Paris, Acropole, 1988.
46 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione cit., p. 24.
47 Ivi, p. 35.
48 Ivi, p. 78.
49 Letteralmente “a recurring accomplishment”: cfr. C. West, D.H. Zimmerman, Doing gender, “Gender and Society”, 1, 2, 1987, p. 126.
50 Ibidem.
51 R. Connell, Questioni di genere cit.; L. Stagi, Anticorpi cit.
52 Cfr. N. Elias, Il processo di civilizzazione cit.; C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano, Feltrinelli, 1993.
53 S. Ciccone, Il maschile come differenza, intervento a “L’invenzione dell’eterosessualità. Maschi e altri maschi”, Palazzo Ducale, Genova, 03.03.2015.
54 K. Gaffney, A.J. Manno, Navigating the gender box: locating masculinity in the introduction to women and gender studies course, “Men and Masculinities”, 14, 2, 2011, pp. 190-209.
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