2. Prendere atto: il limite oltrepassato1
p. 100-103
Plan détaillé
Texte intégral
1Quando parliamo di “uomini maltrattanti”, di che tipo di maltrattamento stiamo parlando esattamente? Denigrazioni, strategie di controllo, spinte, schiaffi, calci: fino a che punto arrivano le violenze dei protagonisti di questa ricerca nei confronti delle loro compagne? Si tratta di uomini sistematicamente violenti, oppure di maltrattanti occasionali?
2Prima di procedere all’analisi delle rappresentazioni maschili emerse dal campo, vorrei innanzitutto presentare alcune testimonianze che descrivono gli episodi di violenza “più gravi” commessi dai protagonisti di questa ricerca, per dare un’idea delle diverse forme di abuso e dell’intensità della violenza agita. Nel corso dei gruppi psicoeducativi o durante le interviste, gli uomini hanno raccontato, spesso con dovizia di particolari, alcuni specifici episodi di violenza fisica, descritti come “isolati” dalla routine della relazione di coppia, spesso i più brutali e tragicamente spettacolari. Riprendendo la terminologia utilizzata da Lenore Walker, i maltrattanti hanno descritto la “fase di esplosione”, in cui la violenza “si scatena”2.
C’era stato un forte litigio, ero uscito e dopo un po’ ero tornato indietro per prendere qualcosa, visto che avevo capito che avrei dovuto rimanere fuori a dormire… Insomma la mia donna era in casa con sua sorella, che era arrivata apposta, che sapeva che c’era stato questo brutto litigio, sapeva che lei non stava bene. Era arrivata, non so se per proteggerla da me o per stare con lei, penso entrambe le cose. […] Allora io sono tornato, loro erano nella stanza e V. [la compagna] mi è venuta a provocare. Nel senso che io sono entrato, ho preso dal cassettone quello che dovevo prendere e le ho salutate con un cenno. Nel momento in cui stavo uscendo, lei si è piazzata davanti a me e ha detto “Allora ti comporti così perché c’è mia sorella”. Si è spostata ancora e ha detto “Vedi, non me le metti le mani addosso quando ci sono altre persone”. E io le ho dato un bello spintone, per togliermela da davanti, perché lei era tra me e la porta. E quella volta si è fatta male, perché io l’ho spinta di lato, lei non se l’aspettava ed è caduta per terra e si è fatta un taglio in faccia. [T., intervista biografica]
L’ho picchiata e l’ho buttata in terra mentre era in gravidanza. […] Avevamo passato una serata movimentata e quando lei mi ha svegliato io le ho dato dei calci, dei calci nella pancia, e lei era incinta che aspettava il bambino. C’era anche mia sorella e le ho detto “Portatela via che se no io l’ammazzo”. E poi è arrivata l’ambulanza. È partita la denuncia d’ufficio perché le hanno dato più di venti giorni di prognosi. [D., incontro di gruppo]
La sera dell’evento drammatico accadde questo. Lei cominciò a urlare e a un certo punto cominciò a spaccare la roba. Prese una bottiglia di vino e la spaccò sul muro, fai conto proprio il muro da rimbiancare, e a un certo punto cominciò a urlare contro i vicini, ma facendogli nome e cognome. Cose di questo tipo qua, cosa che se questi chiamavano i carabinieri… Io la vivevo così questa cosa: ero in imbarazzo e non sapevo proprio cosa fare. Non riuscivo a tenerla, per cui la presi e le dicevo di smetterla, e lei ancora più rabbiosa cominciò prendere e a tirare i vasi per terra alle due di notte. Urlava contro i vicini, tutti i nostri problemi messi in piazza. A un certo punto la rabbia era tale che, a quel punto, la presi per i capelli e la trascinai giù dalle scale, con me [si copre il viso]. Io in quel momento, nonostante provassi rabbia, non avevo una reale intenzione di farle male. Quello che io volevo era avere il controllo su di lei, cioè farla smettere di fare quelle cose che stava facendo. Siccome non riuscivo a farla smettere in nessun modo, allora l’enorme rabbia che avevo mi portava a farle paura, a creare una situazione di terrore affinché lei smettesse. Allora la trascinai già per le scale, la portai nella stanza al piano di sotto e le cominciai a urlare, a gridarle cose tipo “Adesso basta, non ne posso più, te lo faccio vedere io il terrore, questa è la notte del terrore”. Continuavo a urlare contro di lei, e la prendevo per i capelli e glieli tiravo, la sbattevo contro le pareti della stanza. E gridavo “Questa è la notte del terrore, non ne posso più di te!”. E questa cosa durò più di mezz’ora e quindi le ho tirato i capelli forte, per molto tempo. Il mio gesto è stato quello, ma nel trascinarla giù dalle scale, siccome lei era completamente ubriaca e priva di senso dell’orientamento, nel tentare di reagire lei si rigirò e cascò di lato, sulle costole. […] Il giorno dopo lei mi disse “Dopo quello che è successo ieri sera io voglio andare in ospedale”. Allora la portai al pronto soccorso. [S., intervista biografica]
3Per gli uomini che ho potuto osservare e ascoltare nel corso della ricerca, questi particolari episodi hanno rappresentato il superamento di un limite. Il sangue, una frattura, una denuncia: quando diventano tangibili, gli effetti della violenza sono descritti come “campanelli d’allarme” che hanno contribuito alla loro presa di coscienza e alla scelta di rivolgersi a un centro per maltrattanti. Spesso raccontano di essersi resi conto della gravità dei propri comportamenti attraverso lo sguardo di persone esterne alla coppia, come avviene per quest’uomo quando nota l’espressione severa dei medici al pronto soccorso.
La portai all’ospedale e lì provai il primo grande senso di vergogna. Fu drammatico. Lì è come se tutto insieme capissi il significato della violenza che fino a quel momento non mi era chiaro… In quel momento, quando la ritornai a prendere dentro, vidi me stesso nello sguardo dei medici, nel modo in cui mi guardarono… In quell’istante lì è cambiata la mia vita. Ricordo che questa cosa la raccontai al primo incontro del cam, perché in quei momenti vedi te stesso con gli occhi degli altri. [S., intervista biografica]
4In altri casi, gli autori di violenza arrivano al cam quasi per caso, per provare o perché sollecitati, ed è grazie al confronto con altri uomini che prendono atto della gravità delle loro azioni.
Devo dire che per me il percorso al cam è stato importante, proprio per il fatto di avere questo specchio davanti e rendermi conto di questo elemento, della violenza… Per me riuscire a vedermi spostato da me stesso e dalle mie ragioni è stata una cosa che ha avuto un certo impatto. [E., incontri di gruppo]
5Attraverso il percorso trattamentale, dal singolo episodio “eccezionale”, esito drammatico della relazione abusiva, gli uomini sono invitati a riflettere sui diversi gradi di violenza che hanno preceduto “l’episodio”, per arrivare a identificare il continuum delle forme di abuso che esercitano quotidianamente sulle proprie compagne.
Mani addosso, grida, maltrattamenti, umiliazioni. Anche in pubblico. Se capitava che io la strangolassi per farla star zitta, lei lo andava a dire a tutti, e mi rinfacciava “Io sono cattiva per colpa tua” […] Perché poi succede così: magari lei mi tira lo sgabello, io mi proteggo e quello rimbalza contro di lei e la colpisce. Anche un gesto innocente, come ripararti quando lei ti tira un oggetto, poi finisce che le cavi un occhio. Il bambino piccolo sentiva… abbiamo fatto sempre attenzione a non litigare davanti a lui, ma poi ci hanno detto che sicuramente anche nel sonno sentiva. [T., incontro di gruppo]
Calci, mani al collo come per strangolare, calci in faccia, sempre moderati, perché comunque un calcio in faccia può fare veramente male. Calci anche quando era incinta. Io stesso ho voluto fare questa esperienza [al cam] e le ho chiesto esplicitamente di denunciarmi. [H., incontro di gruppo]
Non sono mai stato violento con le donne. Invece con lei [con la moglie] c’è stato il conflitto fin da subito, anche fisico. Certo tutte piccole cose, perché io non voglio vantarmi di questo, ma ci tengo a dirlo: non è che l’ho mai mandata all’ospedale. Un livido che è un livido non gliel’ho mai fatto, anzi è stata lei a graffiarmi più volte. Però lo schiaffo, la mano intorno al collo, il calcio nel culo, eh, queste cose qua le ho fatte, ci mancherebbe altro. [N., intervista biografica]
Questa storia di metterle le mani addosso è iniziata molto presto. Bestemmie, urla, voci, violenze varie, e questo anche di fronte ai bambini. […] Litigavo con mia moglie, la colpevolizzavo, davo la colpa a lei della mia malattia, davo la colpa a lei di tutto, fino a che una mattina le dissi “Guarda, non mi cercare perché io non torno più”. Presi una borsa con due o tre cose, il computer, la macchina, e me ne sono andato via. Per due mesi questa donna non ha saputo più dov’ero. L’ho lasciata senza soldi ovviamente – perché tutti i soldi che avevo preso dalla liquidazione erano investiti – per cui lei è rimasta a secco. […] A un certo punto della mia vita le ho detto “Senti non ce la faccio più a vivere con te, ci si separa”, pur essendo cosciente che io senza lei non avrei saputo cosa fare. Però lo facevo. Forse per metterle paura, per metterle ansia, per farla cambiare. Ma non era questo il sistema, secondo quello che è oggi il mio punto di vista. [B., intervista biografica]
6Queste lunghe testimonianze ci permettono di entrare nel clima del centro d’ascolto e di conoscere l’entità di alcune delle violenze commesse dai partecipanti ai gruppi. Tali episodi sono tuttavia solo “la punta dell’iceberg”: casi esemplari, in linea con alcuni elementi già messi in risalto dalle narrazioni della cronaca e coerenti con un immaginario diffuso e stereotipato sugli uomini maltrattanti.
7Nelle pagine successive tenterò di andare oltre la superficie dei fatti più eclatanti, per identificare gli atti “meno gravi”, ripetuti nel tempo, che hanno gradualmente condotto a questi episodi apparentemente isolati. In particolare, l’analisi delle rappresentazioni maschili sulle donne, sulla violenza e sulle maschilità, permette di rivelare alcune delle credenze culturali, socialmente prodotte e riprodotte, che favoriscono la legittimazione di tali comportamenti. Le parole e i gesti dei maltrattanti sono rielaborazioni dell’esperienza personale e privata che mostrano tutta la loro rilevanza da un punto di vista sociologico, poiché costituiscono rappresentazioni di sé e del proprio immaginario, in quanto uomini violenti e in quanto uomini tout court.
8Nel setting del centro d’ascolto, le differenze di classe, cultura, età e provenienza sembrano ridursi per lasciar spazio alla predominanza della dimensione di genere. Certamente non tutti gli uomini sono violenti, ma (quasi) tutti i violenti, nelle relazioni d’intimità, sono uomini. Attraverso alcuni temi emersi con forza dal campo e corrispondenti a vere e proprie figure delle maschilità, cercherò di ricostruire le trasformazioni nel tempo di alcune delle idee, credenze e valori degli uomini che hanno frequentato il cam nel periodo in cui ho condotto questa indagine.
Notes de bas de page
1 “Il limite oltrepassato” è anche il titolo della mostra realizzata insieme alla fotografa Erica Canepa (“Il limite oltrepassato. Parole e immagini di uomini e donne nelle relazioni d’intimità”, Palazzo Ducale, Genova, 20-29.11.2013), che accosta le parole di uomini che hanno frequentato il Centro di Ascolto per uomini Maltrattanti di Firenze alle immagini di donne che si sono rivolte al centro antiviolenza di via Mascherona a Genova.
2 L.E. Walker, The Battered Woman cit.
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