1. Il fenomeno della violenza. Prospettive socio-antropologiche
p. 21-32
Texte intégral
1.1. La violenza come oggetto sociologico
1Prima di analizzare il ruolo della violenza nell’organizzazione dei rapporti di potere tra i generi, in questo capitolo ripercorrerò alcune tappe del pensiero socio-antropologico intorno a un fenomeno complesso e sfuggente, per andare alla radice della riflessione sulla violenza come forza sociale.
2Nel saggio sul contrasto, uno dei “padri della sociologia”, Georg Simmel, indaga la complessità delle manifestazioni violente e s’interroga sull’opportunità di studiare il fenomeno da un punto di vista sociologico. Per Simmel non vi è alcun dubbio sul significato della “lotta” poiché essa “causa o modifica comunità d’interessi, unificazioni, organizzazioni”1. Al di là degli effetti che genera, i fenomeni conflittuali meritano di essere esaminati in sé, poiché rappresentano una “forma di associazione” e “una delle azioni reciproche più vivaci”. Senza mai distinguere in maniera inequivocabile tra “violenza”, “lotta” e “conflitto”, nella sua analisi il sociologo tedesco dedica ampio spazio alla dimensione interpersonale della violenza e agli aspetti più strettamente legati all’interazione. Conflitto e coesione sociale sono per Simmel elementi strutturali che coesistono in maniera interdipendente, in particolare all’interno dei gruppi sociali. Esempi quali l’istituzione del matrimonio o il sistema indiano delle caste mostrano fino a che punto “vincolo” e “contrasto” siano elementi strettamente connessi2, funzionali all’equilibrio della vita comunitaria e all’esistenza di relazioni di solidarietà.
3In particolare, Simmel evidenzia il carattere di “normalità” dei rapporti conflittuali: essi sono forme di associazione umana che “non si distinguono dalle altre relazioni”, pertanto meritano tutto l’interesse dell’indagine sociologica. L’ostilità e il contrasto, fino all’estremo della violenza, sono da considerarsi come veri e propri legami sociali e forme di relazione3, tanto più intense quanto maggiore è l’eguaglianza e il rapporto di intimità tra le parti4. Il caso della violenza tra coniugi è particolarmente degno d’interesse: per Simmel il conflitto si genera in virtù del vincolo che le unisce ed è proprio l’intensità del vincolo relazionale a dare potenzialmente luogo a manifestazioni quanto mai violente e inattese. A tal proposito, Simmel offre l’esempio della gelosia, che considera un sentimento associato a legami forti e un fenomeno sociologicamente rilevante, poiché “collega l’estrema violenza dell’eccitazione antagonistica a una stretta appartenenza comune”5.
4Anche nella forma espressiva estrema della guerra, il conflitto è inteso da Simmel come un fenomeno costitutivo della norma sociale, piuttosto che una sua eccezione. L’invito è quindi rivolto a osservare e identificare tutte quelle forme di violenza che avvengono in forma “diffusa, impercettibile o latente” anche in tempi di pace6, come è il caso della violenza maschile nelle relazioni d’intimità.
1.2. Civilizzazione dell’aggressività
5Al centro della sua opera più importante, Il processo di civilizzazione, scritta tra gli anni Trenta e Sessanta del xx secolo, il sociologo tedesco Norbert Elias analizza i processi che portano al controllo della violenza in età moderna7. Parallelamente alle trasformazioni politiche che danno luogo all’istituzione dello Stato moderno, si realizzano molteplici cambiamenti dal punto di vista psicologico e sociale, funzionali allo sviluppo del controllo e della repressione emozionale degli esseri umani. Secondo Elias con la modernità le nazioni occidentali avviano un processo di pacificazione, reso possibile dalla “civilizzazione delle pulsioni” in comportamenti standardizzati e prevedibili, universalmente accettati. Il processo descritto da Elias sembra agire in direzione di una severa autocostrizione dei singoli, permettendo la nascita della società degli individui e delle buone maniere8.
6Nel passaggio tra il medioevo e l’età moderna, nuovi codici di comportamento quali il ritegno e l’autocontrollo divengono i tratti distintivi delle classi superiori, per poi successivamente essere assunti per imitazione dagli strati inferiori della società. Secondo Elias, in quest’epoca si assiste al “progredire della soglia della ripugnanza”9, per cui la violazione delle norme che regolano le buone maniere appare come minaccia all’ordine della vita sociale. Molti comportamenti, per lo più legati ai bisogni corporali, “la mala creanza”, sono considerati sgradevoli e sanzionati socialmente, fino a divenire oggetto di tabù e di altre restrizioni. La violenza è dunque relegata a precise enclave spaziali e temporali, considerata legittima solo se esercitata da specifiche figure espressamente autorizzate da parte del potere statale – come nel caso delle forze dell’ordine – o se inquadrata come manifestazione delle masse, in periodi di crisi o di stravolgimenti10. Secondo Elias, l’invenzione dello sport e in particolare della boxe, insieme alla diffusione del libro, della radio, del teatro, e in seguito del cinema, sono fenomeni dell’epoca funzionali alla regolazione dell’aggressività.
7Nel passaggio dalla società aristocratica cortese a quella industriale borghese, il processo di civilizzazione delle condotte determina un progressivo allontanamento degli individui dai propri istinti e l’ingiunzione a dominare slanci affettivi e pulsionali. La repressione della propria emotività e delle manifestazioni sentimentali sono uno dei risultati delle nuove condizioni sociali dell’epoca moderna, della divisione del lavoro, dell’esistenza dei mercati e della concorrenza11. Non per questo la violenza scompare. L’analisi di Elias ci permette di evidenziare la mobilità e lo storico “progredire” della soglia di tolleranza sociale ai comportamenti violenti, così come il processo che ne determina la canalizzazione attraverso altre forme. Con la modernità, la violenza diviene oggetto di un processo d’interiorizzazione e individualizzazione: la violenza nello spazio pubblico si ritira nello spazio domestico e privato.
1.3. Violenza, diritto, potere
8Sebbene ascrivibili alla filosofia del diritto e alla filosofia, le analisi di Walter Benjamin e di Hannah Arendt in merito alla questione della violenza hanno influenzato profondamente il pensiero sociologico in materia. In un breve saggio giovanile pubblicato nel 1921, Walter Benjamin propone un’analisi della violenza nel suo rapporto con il diritto e la giustizia, inquadrando in particolare la relazione tra violenza e potere dello Stato. Mantenendone l’ambiguità, il filosofo tedesco impiega il termine Gewalt nella sua accezione polisemica, traducibile contemporaneamente con “violenza”, “potere” o “autorità”12. Secondo Benjamin, in un primo momento il problema della violenza si colloca nell’ambito della legittimità dei mezzi. Si può considerare la violenza uno strumento moralmente accettabile per raggiungere dei fini ritenuti giusti? È possibile operare una distinzione tra violenza legittima e illegittima? Certamente la separazione tra l’una e l’altra non dipende dal valore degli scopi, ma “dall’interesse del diritto a monopolizzare la violenza”13, per necessità di preservare il diritto in quanto tale.
9Di fronte al pericolo della violenza del singolo, “rischio o minaccia per l’ordinamento giuridico”, Benjamin afferma che è interesse del diritto stesso, in funzione della sua conservazione, concentrare il monopolio della violenza nelle mani dello Stato. Riprendendo la formulazione di Max Weber14, Benjamin considera che il monopolio della violenza sia utile al mantenimento dell’ordine sociale, non per preservare i fini giuridici ma per “salvaguardare il diritto stesso”15. Il punto cruciale dell’analisi di Benjamin consiste nella legittimazione dell’uso della violenza da parte del “potere”. Nel caso del potere dello Stato, ne sono esempio il militarismo e il servizio militare obbligatorio: la violenza non è impiegata a fini “naturali”, ma come garanzia del diritto dello Stato a esercitare violenza16. Secondo Benjamin, qualsiasi contratto giuridico – apparentemente privo di violenza – conferisce a una delle parti il diritto di ricorrere alla violenza, in caso della violazione dello stesso. Nel caso del “contratto sociale”, il potere dello Stato si può tradurre in violenza attraverso il ricorso alla pena di morte o nell’istituzione delle forze di polizia17.
10Il saggio della filosofa tedesca Hannah Arendt, Sulla violenza, viene invece pubblicato qualche anno dopo le proteste mondiali del 1968, in risposta al libro di Frantz Fanon, I dannati della terra, che aveva elogiato l’uso della violenza come strumento per l’emancipazione dei popoli, contro la violenza del sistema coloniale18. In un periodo caratterizzato da profondi mutamenti sociali, per la “Nuova Sinistra”, la violenza, sotto forma di guerra e rivoluzione, pareva l’unica interruzione possibile del processo storico di dominazione e la sola possibilità per il riscatto dei subalterni. Al contrario, Arendt rifiuta di accettare la legittimità politica della violenza e sostiene che, dove c’è obbedienza o consenso, il ricorso alla violenza non sia necessario. L’autrice tedesca ritiene che violenza e potere non siano da considerarsi fatti naturali ma prodotti storici, sociali e culturali delle società umane19.
11Complice l’esilio americano e il passaggio alla lingua inglese, Arendt sente l’esigenza di distinguere i diversi significati di Gewalt, diversamente da Walter Benjamin che li utilizzava invece indistintamente. Mentre “il potere” fa parte dell’essenza di tutti governi e deve solo esibire la propria legittimità – esso è un fine in sé, pertanto non va giustificato – “la violenza” è per natura strumentale e, come tutti i mezzi, ha sempre bisogno di una giustificazione per giungere al fine prefissato. Tra violenza e potere esiste una relazione interdipendente e allo stesso tempo reciproca e inversa20: dove il potere cede, la violenza entra in gioco. Secondo Arendt, il dominio per mezzo della pura violenza si realizza nel momento in cui si sta perdendo il potere, o quando il consenso che lo sostiene si è già consumato21. Ai suoi occhi, la violenza non è fondatrice o creatrice di ordinamenti, come lo era per Benjamin “la violenza generatrice di diritto” o per Fanon la violenza intesa come “follia creativa”. Essa non è né bestiale né irrazionale, ma è una manifestazione umana che si esprime quando il senso di giustizia è offeso.
12Nel nostro caso, proveremo a trasferire questi concetti nell’ambito delle relazioni interpersonali tra partner, interrogandoci su quali siano le violazioni che legittimano il diritto di una delle parti a ricorrere alla violenza. In particolare, la violenza maschile degli uomini sulle donne, nelle relazioni d’intimità, può essere interpretata, nell’accezione di Benjamin, non solo come un mezzo per perseguire fini specifici, ma soprattutto come esercizio di un potere che afferma e conserva il diritto (maschile) al comando. La riflessione di Arendt sarà invece utile a pensare l’uso della violenza come strategia tesa a compensare e riparare le perdite in termini di potere (maschile), dal punto di vista simbolico e materiale.
1.4. Relazioni di potere, stati di dominio, tecnologie di governo
13Michel Foucault analizza i rapporti tra potere e violenza rifiutandosi di aderire a definizioni statiche dell’uno o dell’altra22. La violenza è per Foucault una delle forme e degli strumenti del potere, come nel caso della violenza delle istituzioni sugli individui23. Questa ha un referente puntuale e concreto, un corpo o un oggetto, mentre la relazione di potere è orientata a trasformare l’azione in sé. Se la prima mira a rendere la vittima passiva, diversamente, il potere presuppone un atteggiamento attivo anche da parte di chi ne subisce l’azione, aprendo a un campo di maggiori possibilità, tra cui la manifestazione di strategie di resistenza da entrambe le parti24.
14Diversamente dalla violenza, il potere ha invece un carattere strettamente relazionale: esso è sempre presente nei rapporti umani, “che si tratti di comunicare verbalmente […] o che si tratti di relazioni d’amore, istituzionali o economiche”25. Laddove avviene il mutamento di tali rapporti, le relazioni di potere assumeranno esse stesse nuove forme e configurazioni, proprio in virtù della libertà delle parti, potenzialmente in grado di adottare strategie di resistenza capaci di rovesciare un assetto precedentemente stabilito26. In questo modo Foucault supera la separazione netta tra oppressi e oppressori e rivela il potere come forza pervasiva, strutturante ogni forma di rapporto umano. Esso è presente non solo nelle relazioni politiche ed economiche, ma anche nelle interazioni quotidiane o nei rapporti sentimentali, nei saperi, nei discorsi27, nelle interpretazioni28. Il potere agisce sulle condotte, ma non necessariamente in maniera coercitiva29.
15Come vedremo, l’approccio foucaultiano contribuisce a superare il paradigma della dominazione nell’analisi dei rapporti tra i generi e aggiunge complessità alla mera contrapposizione tra “dominanti” e “dominati”. Secondo Foucault, solo cristallizzandosi, ovvero perdendo il proprio carattere di mobilità, le relazioni di potere assumono la forma di “stati di dominio”30. Il filosofo francese cita il caso dei rapporti tra uomini e donne uniti da un legame matrimoniale tra l’Ottocento e il Novecento. L’esempio serve a mostrare come le relazioni di potere possano fissarsi in modo da essere perpetuamente asimmetriche, limitando fortemente i margini di libertà di una delle due parti:
Nella struttura coniugale tradizionale della società dei secoli xviii e xix, esisteva solo il potere dell’uomo: la donna poteva fare tante cose, tradirlo, sottrargli del denaro, negarsi sessualmente. Ella subiva, tuttavia, uno stato di dominio, nella misura in cui queste cose erano, tutto sommato, soltanto delle astuzie, che non riuscivano mai a ribaltare la situazione. In questi casi di dominio – economico, sociale, istituzionale o sessuale – il problema è infatti di sapere dove si formi la resistenza.31
16Rispetto all’eccezionalità degli stati di dominio, il potere è presente in ogni tipo di rapporto, all’interno di ogni relazione, e presuppone il ruolo attivo di tutte le parti coinvolte32. La sua stessa pervasività implica il suo potenziale rovesciamento, tramite forme di resistenza altrettanto mobili e diffuse33. Diversamente, gli stati di dominio sono situazioni consolidate di oppressione, in cui permane un’asimmetria di potere che non è in grado di essere rovesciata34. Le strategie di resistenza si possono produrre, rimanendo tuttavia “soltanto delle astuzie”.
17La creazione degli stati di dominio avviene e si mantiene per mezzo di specifiche “tecnologie di governo”: “la maniera in cui si governa la propria moglie, i propri figli, come anche la maniera in cui si governa l’istituzione”35. Tale governo delle condotte produce i soggetti, non esclusivamente attraverso l’esercizio del potere individuale, ma sempre di più in direzione di un potere insito nelle forme più generali di interpretazione e gestione della soggettività36. Nel corso di questo lavoro vedremo come i gesti intimidatori o esplicitamente violenti degli uomini contro le donne nelle relazioni d’intimità possano essere interpretati come una delle tecnologie del governo maschile in seno alla famiglia. Allo stesso tempo, la prospettiva foucaultiana è utile ad analizzare la stessa produzione discorsiva degli uomini autori di violenza come un vero e proprio campo di potere.
1.5. Il continuum della violenza strutturale
18Nell’introduzione a una raccolta pubblicata in Italia nel 2005, Françoise Héritier tenta un’analisi della violenza in una prospettiva costruttivista, pur riconoscendone il suo carattere non unitario. L’antropologa francese insiste nel rilevare la specificità umana di certe forme di violenza, risultanti da complessi processi culturali, piuttosto che il loro carattere “naturale”. Sebbene la violenza non sia innata, l’omicidio, l’infanticidio, lo stupro sono forme di violenza proprie dell’essere umano37; l’aggressività si acquisisce e si sviluppa con l’educazione ed è sempre costruita “in funzione dei bisogni, dei desideri, delle passioni” umane38. Come avviene nell’imposizione del potere, della volontà, delle idee, anche la violenza è per Héritier “un mezzo di espressione e di azione che mira ad appagare desideri”39.
19Dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, sono apparse molte raccolte antologiche sul tema della violenza in antropologia40. Riferendosi esplicitamente alla raccolta curata da Héritier, Roberto Beneduce mette in guardia sulle “insidie dei discorsi antologici”, che a suo parere rischiano di appiattire la peculiarità di contesti storici ed etnografici specifici sotto un’unica definizione egemonica41. Il tentativo di unire in una stessa analisi genocidi, torture, olocausti, rende il campo d’indagine molto generico e porta con sé il pericolo di “banalizzare il tema” e “perdere nitidezza”42. Secondo l’antropologo italiano, l’analisi della violenza dovrebbe invece astenersi da generalizzazioni e, al contrario, radicarsi fortemente nei contesti storici, economici e politici, a seconda dei casi in questione. Beneduce sostiene che l’antropologia non dovrebbe preoccuparsi tanto dell’origine della violenza o delle sue cause, quanto delle nuove relazioni sociali e metafore del potere che essa “produce”. L’invito è prendere in considerazione “il normale funzionamento della violenza” e “il [suo] potere generativo, positivo, un potere che contribuisce a riprodurla anche in luoghi inattesi (la famiglia e le relazioni sociali, per esempio)”43.
20Il volto speculare della violenza è la sofferenza sociale che ne deriva. Secondo l’antropologo medico Paul Farmer, le manifestazioni concrete dell’una e dell’altra sembrano trascendere gli scenari dello stato d’eccezione, di un conflitto alternativo alla pace: entrambi i fenomeni risiedono nel “cuore della modernità” e, proprio per questa ragione, meritano di essere oggetto dell’attenzione e delle indagini di sociologi e antropologi44. Farmer rievoca il concetto di “violenza strutturale” coniato dal sociologo norvegese Johan Galtung verso la fine degli anni Sessanta, secondo cui esistono tre tipi di violenza: la violenza diretta o fisica, la violenza culturale o simbolica, e la violenza strutturale45, quest’ultima determinata dalle strutture sociali e dall’azione delle istituzioni politiche ed economiche che agiscono sulla vita degli individui46. Il concetto è stato inizialmente ripreso dallo psichiatra James Gilligan, che ha descritto la violenza strutturale come “l’elevato tasso di morte e disabilità che soffre chi occupa gli strati più bassi della società, in contrasto con i tassi relativamente più bassi di coloro che si trovano al di sopra”47. A sua volta, Farmer rielabora i concetti di Galtung e Gilligan attraverso una nuova definizione, secondo cui:
La violenza strutturale indica una violenza esercitata in modo sistematico – ovvero, in modo indiretto – da chiunque appartenga a un certo ordine sociale. […] In breve, il concetto di violenza strutturale mira a informare lo studio dei meccanismi sociali dell’oppressione.48
21L’oppressione, che sembra essere “un dato di fatto”, “colpa di nessuno”, agisce sui singoli individui in modo diverso, secondo il posto che questi occupano nell’ordine sociale. Farmer invita gli etnografi a concentrare la propria attenzione sui meccanismi della violenza strutturale e sulle sue manifestazioni materiali, ovvero su tutto ciò che è “etnograficamente visibile”. Tale approccio permette di cogliere il modo in cui le disuguaglianze sono strutturate o storicamente legittimate da processi sociali e culturali, e come esse siano espressione di un particolare ordine politico ed economico – come nel caso del razzismo, della povertà, del divario di genere, del sessismo. Nonostante le critiche49, il concetto di violenza strutturale rielaborato da Farmer è stato da più parti apprezzato, poiché colloca la questione del potere e delle disuguaglianze sociali al centro della ricerca etnografica, con particolare enfasi all’“iscrizione sociale [della violenza] nei corpi”50. Tale questione diviene vera e propria “cornice teorica, metodo d’indagine e imperativo morale ed etico” per ogni ricercatore e ricercatrice51, in grado di cogliere “la brutalità degli accordi dati per scontati”52.
22In un commento al saggio di Farmer, Nancy Scheper-Hughes e Philippe Bourgois propongono di “concepire la violenza come se operasse lungo un continuum, dall’aggressione fisica alla violenza simbolica, alle forme rutinarie di violenza quotidiana, includendo la violenza strutturale cronica, storicamente integrata, la cui visibilità è offuscata dalle egemonie culturali”53. Secondo gli antropologi americani, l’interesse per la violenza risiede non solo nella sua “fisicità”, ovvero nelle sue manifestazioni materiali, ma più propriamente nelle dimensioni sociali e culturali che le conferiscono potere e significato. Il concetto di violence continuum intende scardinare le distinzioni tradizionali tra forme di violenza pubblica e privata, visibile e invisibile, legittima e illegittima. L’idea di una continuità tra i “crimini di pace”54 e i crimini di guerra è centrale nella ricerca di Scheper-Hughes e Bourgois: dal genocidio alla violenza quotidiana, la violenza è parte del normale svolgersi della vita nelle società umane, praticata in modo strisciante e invisibile nelle istituzioni civili, così come nelle forme spettacolarmente crudeli che assume in alcuni contesti specifici.
23Ai fini della mia analisi, tali concetti permettono di cogliere la continuità tra le forme più banali di violenza maschile contro le donne – intese come violenza ordinaria, rutinaria, normativa della vita quotidiana – e crimini brutali quali i femminicidi – manifestazioni di quella che è considerata una violenza straordinaria, patologica, eccessiva. Seguendo l’approccio proposto da Scheper-Hughes e Bourgois, il mio tentativo consisterà nell’indagare i legami e le connessioni che esistono tra la prima, resa invisibile da un processo di normalizzazione, e la seconda, comunemente considerata invece come “eccezione”. Il concetto di violence continuum mira proprio al superamento di tale divisione, e si traduce in un invito a osservare “le piccole guerre e i genocidi invisibili”, condotti tanto negli spazi pubblici normativi quanto in quelli privati, in seno alla famiglia e alle relazioni cosiddette amorose.
24La violenza strutturale – quella violenza radicata nel senso comune55 e negli ingranaggi del potere – è generalmente una violenza invisibile, proprio perché assorbita nelle routine quotidiane e trasformata in espressioni di valore “morale”, al servizio delle norme convenzionali. L’idea di un continuum della violenza rappresenta inoltre un invito a esaminare la soglia che separa ciò che è considerato violenza da ciò che non lo è, tra i comportamenti considerati “devianti” e quelli che rientrano in una cornice di “normalità”: una soglia dal carattere fluttuante, storicamente determinato, soggettivo.
25Similmente, il sociologo francese Pierre Bourdieu utilizza il termine “violenza simbolica” per definire una violenza “gentile e spesso invisibile”, che non viene riconosciuta come tale, ma anzi confusa con altro. È per esempio il caso di comportamenti sessisti che vengono interpretati come una forma di galanteria56. L’esempio paradigmatico della violenza simbolica è per Bourdieu l’ordine di genere: un’istituzione storicamente inscritta nell’oggettività delle strutture sociali e quindi difficile da percepire. La comprensione di questa peculiare forma di dominazione richiede di superare la distinzione netta tra costrizione e consenso, tra imposizione esterna e impulso interno. Bourdieu invita a riconoscere i modi in cui spesso “i dominati” aderiscono pienamente alle forme di dominazione, producendole e riproducendole. Tale violenza si perpetua attraverso l’accettazione della doxa e nel riconoscimento dell’ordine sociale come naturale 57.
26Pur avendo il merito di collocare la questione del rapporto tra violenza e genere nella sociologia mainstream, tuttavia il paradigma di Bourdieu è stato criticato per la sua rigidità e per il modo in cui restituisce un’immagine uniforme degli uomini e delle donne, così come del maschile e del femminile58. Il sociologo francese è stato inoltre accusato di aver completamente obliterato l’apporto delle analisi radicali condotte fin dagli anni Settanta da studiose femministe quali Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet, e Monique Wittig59. Come vedremo, quasi due decenni prima della pubblicazione del testo di Bourdieu, il femminismo materialista aveva contribuito in maniera del tutto innovativa all’indagine critica dei rapporti tra i sessi, studiando in maniera approfondita le condizioni materiali del dominio maschile all’origine dell’oppressione delle donne, analizzando in particolare lo sfruttamento domestico e sessuale delle donne, il monopolio maschile degli strumenti complessi e delle armi, così come dei saperi e della produzione di conoscenza. Secondo Leo Thiers Vidal, la violenza simbolica, così come trattata da Bourdieu, “non è in grado di cogliere le dimensioni insieme materiali e simboliche dei rapporti tra i sessi, così come la loro interazione”60. Approfondiremo tali questioni nel prossimo capitolo.
Notes de bas de page
1 G. Simmel, Sociologia cit., p. 213.
2 Ivi, p. 216.
3 Ivi, p. 227.
4 Ivi, pp. 334-335.
5 Ivi, p. 242.
6 Ivi, p. 279.
7 N. Elias, Il processo di civilizzazione [1939], Bologna, il Mulino, 1988.
8 Ivi, p. 295.
9 Ivi, p. 297.
10 Ivi, p. 351.
11 Elias accenna solo superficialmente alle modalità secondo cui tale processo agisce diversamente sugli uomini e sulle donne e su altri soggetti che sfuggono a tale categorizzazione binaria.
12 W. Benjamin, Per la critica della violenza cit., pp. 5-28.
13 Ivi, p. 9.
14 Cfr. M. Weber, La scienza come professione – La politica come professione [1919], Milano, Edizioni di Comunità, 2001, pp. 41-113.
15 Cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza cit., p. 9.
16 Cfr. E. Balibar, Violenza: idealità e crudeltà, in F. Héritier (a cura di), Sulla violenza, Roma, Meltemi, 2005, p. 58.
17 A proposito della pena di morte, esercizio di un potere supremo, Benjamin sostiene che “il suo significato non è di punire l’infrazione giuridica, bensì di statuire il nuovo diritto”. Per quanto riguarda la polizia, il suo “diritto” interviene dove lo Stato “non è più in grado di garantirsi – con l’ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo”. Cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza cit., p. 15.
18 F. Fanon, I dannati della terra [1961], Torino, Einaudi, 2007.
19 H. Arendt, Sulla violenza [1970], Parma, Guanda, 1996, p. 90: “Né la violenza né il potere sono fenomeni naturali, cioè manifestazione di un processo vitale; appartengono alla sfera politica delle cose umane, la cui qualità essenzialmente umana è garantita dalla facoltà dell’individuo di agire, dalla capacità di dare inizio qualcosa di nuovo”.
20 Ivi, p. 61.
21 Ivi, p. 96.
22 D. Defert, La violenza tra poteri e interpretazioni nelle opere di Michel Foucault, in F. Héritier (a cura di), Sulla violenza cit., p. 74.
23 Cfr. M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Gallimard, 1972; Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione [1975], Torino, Einaudi, 1993.
24 Id., Dits et écrits. IV:1980-1988, Paris, Gallimard, 1994, p. 236.
25 Id., L’etica della cura di sé come pratica della libertà [1984], in A. Pandolfi (a cura di), Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3: 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 284.
26 Id., L’etica della cura di sé come pratica della libertà cit., pp. 284-285.
27 Id., L’ordine del discorso [1971], Torino, Einaudi, 2004, p. 5. Cfr. Id., Microfisica del potere. Interventi politici, Torino, Einaudi, 1977.
28 Cfr. Id., La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 [1976], Milano, Feltrinelli, 1999. In quest’opera Foucault affronta il tema del rapporto tra il sapere e l’esercizio di un potere, sottolineandone la dimensione produttiva, mettendo in discussione l’ipotesi che ne evidenziava esclusivamente il carattere repressivo. A proposito della lotta tra testi e interpretazioni cfr. Id., Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio del xix secolo [1973], Torino, Einaudi, 1976 e Id., Herculine Barbin, dite Alexina B, Paris, Gallimard, 1978.
29 Id., La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 cit., p. 81.
30 Id., L’etica della cura di sé come pratica della libertà cit., p. 275.
31 Ivi, p. 285.
32 Id, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 cit., p. 82.
33 Ivi, pp. 84-85.
34 Cfr. D. Defert, La violenza tra poteri e interpretazioni nelle opere di Michel Foucault cit., p. 88.
35 M. Foucault, Bisogna difendere la società cit., p. 292.
36 D. Defert, La violenza tra poteri e interpretazioni nelle opere di Michel Foucault cit., p. 93.
37 Cfr. F. Héritier (a cura di), Sulla violenza cit., p. 26. Héritier fa l’esempio dell’uccisione di Caino per mano di Abele, atto dovuto all’invidia e alla gelosia: “Queste ultime devono allora essere considerate come meccanismi profondi della volontà di autoaffermazione, distruttive solo nella misura in cui possono esercitarsi esclusivamente nella più stretta vicinanza”, ovvero in seno a stretti rapporti di fiducia.
38 Ibidem.
39 Ivi, p. 25.
40 Per citarne solo alcune: F. Héritier (a cura di), Sulla violenza cit.; F. Dei (a cura di), Antropologia della violenza cit.; C. Corradi (a cura di), Sociologia della violenza cit.; N. Scheper-Hughes, P. Bourgois (a cura di), Violence in War and Peace cit.
41 R. Beneduce, Introduzione. Etnografie della violenza cit., p. 5.
42 Ivi, p. 8.
43 Ivi, p. 11.
44 P. Farmer, Un’antropologia della violenza strutturale, “Annuario di antropologia”, 6, 8 (“Sofferenza sociale”), 2006, pp. 17-49. Cfr. anche R. Beneduce, Introduzione. Etnografie della violenza cit., p. 19. Beneduce invita a considerare le conseguenze prodotte dalla violenza: “La sfida sta meno nel definire la violenza, meno ancora nel classificarla, quanto piuttosto nell’esaminare la totalità delle sue espressioni a partire dal suo riflesso costante: quello della sofferenza, dell’incertezza, della frustrazione, del dolore”.
45 J. Galtung, Violence, peace and peace research, “Journal of Peace Research”, 6, 3, 1969, pp. 167-191.
46 Tra gli esempi citati dall’autore figurano l’etnocentrismo, il classismo, il razzismo, il sessismo, il nazionalismo, l’“adultismo” e l’etero-sessismo.
47 J. Gilligan, Violence: our deadly epidemic and its causes, New York, Putnam Adult, 1996.
48 P. Farmer, Un’antropologia della violenza strutturale cit., p. 22.
49 Cfr. N. Scheper-Hughes, P. Bourgois (a cura di), Violence in War and Peace cit. I due antropologi statunitensi evidenziano i rischi di una lettura troppo lineare e deterministica del concetto di violenza strutturale.
50 D. Fassin Comments on “Anthropology of Structural Violence”, “Current Anthropology”, 45, 3, 2004, p. 319.
51 L. Green, Comments on “Anthropology of Structural Violence”, “Current Anthropology”, 45, 3, 2004, p. 320.
52 Cfr. L. Kirmayer, Comments on “Anthropology of Structural Violence”, “Current Anthropology”, 45, 3, 2004, p. 322; L. Wacquant, Comments on “Anthropology of Structural Violence”, “Current Anthropology”, 45, 3, 2004, p. 325.
53 N. Scheper-Hughes, P. Bourgois (a cura di), Violence in War and Peace. An Anthology cit., p. 319.
54 Gli autori parafrasano il concetto di “crimini di pace” ideato da Franco Basaglia, secondo cui certe forme di violenza quotidiana ammesse nelle nostre società, in primo luogo la violenza di Stato, sono funzionali a garantire una sorta di pace domestica. Cfr. F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia (a cura di), Crimini di pace, Torino, Einaudi, 1975.
55 “Ingrained in the common sense of everyday social life”: cfr. N. Scheper-Hughes, P. Bourgois (a cura di), Violence in War and Peace cit., p. 21.
56 P. Bourdieu, Gender and symbolic violence, in N. Scheper-Hughes, P. Bourgois (a cura di), Violence in War and Peace cit., p. 340.
57 Cfr. P. Bourdieu, Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 51. Cfr. anche Id., Gender and symbolic violence cit., p. 339.
58 V. Fidolini, Fai l’uomo! Come l’eterosessualità produce le maschilità, Milano, Meltemi, 2019, p. 16.
59 A proposito delle critiche femministe al testo di Bourdieu, cfr. N.C. Mathieu, Bourdieu ou le pouvoir autohypnotique de la domination masculine, “Temps modernes”, 604, 1999, pp. 286-324; H. Dagenaits, A.M. Devreux, Les hommes, les rapports sociaux de sexe et le féminisme: des avancées sous le signe de l’ambiguïté, “Recherches féministes”, 11, 2, 1998, pp. 1-22.
60 Cfr. L.T. Vidal, Le masculinisme de “La domination masculine” de Bourdieu, 2004, https://remuernotremerde.poivron.org/?p=710 [consultato il 28.11.2019].
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