A partire da Jean-Luc Nancy. Note sulla comunicazione
p. 141-146
Texte intégral
Siete longitudine e latitudine, un insieme di velocità e di lentezze tra particelle non formate, un insieme di affetti non soggettivati1.
E…
1Il punto di partenza par excellence di ogni possibilità comunicativa, non soltanto filosofica, è un qui e ora che indica una determinazione spazio-temporale, ossia il “luogo” operativo e comune in cui il pensiero entra in gioco “facendosi carne”. L’intero repertorio delle questioni classiche della filosofia si riassume in un hic et nunc. La domanda, non banale, a cui si deve provare a rispondere è se questo qui e ora debba essere concepito come spazio comune d’incontro definito dai parlanti e dalle comunità di parlanti, in tal senso rivalutando le componenti politico-sociali che sono alla base di ogni intesa e “fare spazio”. Oppure se esso debba piuttosto essere compreso come il correlato oggettivo di ogni possibilità dialogica inerente all’atto stesso della comunicazione, e del pensiero, in cui prende corpo ogni singolarità, determinatezza e presenza. Nel primo caso, invece di parlare in prima persona, si parla per citazione o riferimento, e la formula che si pensa debba aprire una breccia nella vaga generalità del tempo e dello spazio e permettere di concentrare l’attenzione su colui che parla e su coloro ai quali si parla, è essa stessa una vaga generalità, e cioè una generalità già storicizzata. “Storicizzare” qui vuol dire posizionare se stessi in una comunità, in una lunga storia e in un luogo definito dalla storia, che è il terreno d’azione in cui si trasmette quel che è stato trasmesso, in cui si ripetono le ripetizioni, in cui si consolida l’incantesimo della storia e della società, e in cui confluisce ogni hic et nunc2. Ma questo “incantesimo” [Bann] per ben far funzionare quella società che in esso si identifica e cristallizza, non può fare a meno di produrre e fare esperienza di elementi da essa separati, distintivi e singolari, che dalla società sono messi al bando [Bann]. Allora parlare in un qui e ora vuol dire anche prendere distanza, allontanarsi, vivere in esilio e separati dal luogo sociale a partire da cui si parla. Vuol dire, cioè, non più parlare del “qui”, ma parlare esattamente qui, separando da questo parlare nella storia quella storia di cui si parla, l’altro incomparabile e ineffabile luogo in cui colui che parla, e ciò di cui parla, è perduto3. Si parla e non si parla, e questa è l’impossibile connessione tra l’incantesimo e la sua rottura, tra la ripetizione e la sua interruzione, tra la connessione e la frattura: tra la società e il singolo. Questo è il tema, o uno dei temi che si incontrano nei testi di Jean-Luc Nancy: l’incantesimo (della legge, della società, della storia, del corpo, della filosofia), il qui e l’ora, il cominciare con il finire4.
2Ogni possibilità della comunicazione mette dunque capo a quello spazio dialogico che è il luogo “a partire dal quale” prendere distanza. Questa distanza e separazione è interpretata da Nancy nei termini di un abbandono e della legge che presiede alla messa al bando dell’individuo. Ogni legge, infatti, è “legge dell’abbandono”, ossia è l’altro dalla legge, soggiacente alla legge, che fa la legge applicandosi per sottrazione. Colui che è messo à bandon (bandum, band, bannen) non è semplicemente posto al di fuori della legge e indifferente a questa, ma è “consegnato al bando” (à-ban-donné), abbandonato dalla legge, e cioè esposto e rischiato nella soglia in cui vita e diritto, esterno e interno si confondono (cfr. IC 149-150; it. 158-159). La legge dunque è tale solo nella misura in cui lascia in eredità l’abbandono della legge, sottraendosi a ogni obiezione. E colui che segue la legge è già abbandonato: egli non seguirà, non procederà, e nemmeno sarà lì, in nessun luogo, neanche solo, né altrove, in nessun Dove, strappato dal dove e dalla parola, non-locato e non-parola.
3Come si può quindi ancora parlare, discutere e porre problemi? L’irrinunciabile gesto in queste operazioni è quello del qui e ora che da qualche altra parte, in un altro testo o contesto per esempio, sarà attraversato dalla parola, dalla discussione e dal porre problemi, invocato “da qui a lì” e attualizzato. Il luogo designato dal qui non è quindi “pre-dato” (presupposto e derubato di ciò che ancora non è); esso non è da trovarsi semplicemente in uno spazio discorsivo o sociale già costituito, in cui qualcosa potrebbe essere come se fosse trapiantato; piuttosto esso è dischiuso attraverso il riferimento a esso nella comunicazione. E l’ora in cui la domanda si fa voce, non è semplicemente uno dei punti – degli ora – presenti nel flusso di un meccanismo che segna il tempo, ma un momento che è attraversato da questo “ora” della domanda. Si dischiude così l’hic et nunc in cui qualcosa può apparire e essere discusso in uno spazio e in un tempo, poiché il qui non ha luogo ma esso è in ogni istante qui o lì ex-citato (cfr. IC 153; it. 162)5. E se l’altro che pone la domanda lo fa lì, egli è anche qui come ecceità rizomatica6.
4Questo procedere per multipli, per continue proliferazioni e duplicazioni che condividono lo stesso luogo, viene sospeso di fronte a un aut che è al tempo stesso disgiunzione e congiunzione, alterazione e alternativa, legge a cui ogni singolarità è sottoposta per essere separata, spezzata e interrotta: legge della sua ex-posizione e della sua cessazione. Legge dell’abbandono.
Tutto il concatenamento individuato nel suo insieme è un’ecceità7.
O…
5E così siamo tornati al punto di partenza.
6Nell’aut la non-equivalenza, propria della congiunzione “e”, è data da una disgiunzione esclusiva. Cioè l’aut-aut, pur essendo coordinativa di tipo correlativo, è costruita con congiunzioni disgiuntive. Aut-aut ha dunque valore dilemmatico che, per la disgiunzione, implica un’alternativa esclusiva. Così in Kierkegaard, che a partire da un aut-aut del dire possibile inaugura in Enten-Eller la serie degli pseudonimi. Essi non sono solo caratteri psicologici che permettono il dispiegarsi di alternative di vita ma posizioni esistenziali che all’interno di questa esistenza parlano dell’altro. Si sbaglierebbe considerando l’attitudine di Kierkegaard alla scrittura, la sua professione di fede, come ondivaga o schizofrenica. Essa invece è precisa, lucida e razionale. È quella di uno scrittore che non si mette al di sopra della propria creazione considerandola il risultato di una finzione infallibilmente e totalmente controllabile, ma che osserva, scrivendo con pieno coinvolgimento, lo svolgersi aporetico del pensiero, il quale se non ha “vie d’uscita” ha tuttavia la possibilità di spostarsi su un altro piano (o stadio). Senza un’alternativa, una variazione, senza un aut, non potrebbe esserci alcuna comunicazione. Ci deve essere un aut perché ci deve essere la possibilità di parlare, discutere e porre problemi. Questa possibilità – e questo significa la possibilità di ogni comunicazione – dipende conseguentemente da un elemento linguistico che non esprime né un affermare né un negare ma che annuncia un’altra possibilità e, più esattamente, la possibilità dell’altro. L’aut, che è singolarità, non nomina questo altro, e non lo mostra, ma apre al luogo da dove esso può esprimere o mostrare se stesso. Nella comunità conversante la singolarità non è dunque “difetto” ma, proprio in quanto singolarità, manifestazione del senso: essa crea spazio per luoghi e tempi.
7In Diapsalmata (da Enten-Eller) Kierkegaard scrive: «Non è solo in certi istanti che io, come dice Spinoza, considero tutto æterno modo, ma io sono costantemente æterno modo! E d’essere così credono in molti, quando, fatta una cosa qualsiasi, unificano o mediano tali antitesi. E tuttavia è un equivoco, perché la vera eternità non sta dietro a un enter-eller, ma davanti».8 Qui l’enten-eller non è un o “e” o tra cui scegliere, bensì l’insieme formale di ogni possibile scelta. Una prospettiva non interna e non esterna ma scelta. Da quest’impossibilità, da questo “trovarsi in”, “opposto a”, da questo incardinamento per cui è: «Tremendo! Come non può sviluppare un uomo il rimanere fermi sul posto ed essere fermati soltanto dalla possibilità!»9 ne consegue un procedere ad infinitum che Roland Barthes definirebbe ninisme dell’esistenza estetica. Quest’esistenza estetica (ed estatica) riconosce in ogni decisione solo una ragione per il rimorso successivo, e quindi si ritrae dal prendere anche una singola decisione. Per questa esistenza la “vera eternità” non sta nella decisione ma nell’indifferenza verso essa, o nel tentativo di evitarla. Ma il rifiuto dell’indifferenziato deve essere il più grande perché chi evita di prendere una decisione prende una decisione, e cioè decide di non decidere.
8Così è nel linguaggio che si raggiunge il limite della filosofia. Esso è raggiunto quando la logica e il significato del fondamento in generale sono stati esplorati fino in fondo, nel senso che la fine della filosofia è il fine del pensiero. Se la fine della filosofia ci priva tanto di un fondamento della libertà quanto della libertà come fondamento, tale “privazione” «era già inscritta nell’aporia filosofica consustanziale al pensiero di un fondamento della libertà e/o al pensiero della libertà come fondamento» (EL 16; it. 6). Quest’aporia, che nella filosofia stessa era già stata enunciata e denunciata da Spinoza, fa emergere la questione di una libertà esistente non fondata «o di una liberazione dell’esistenza persino nel suo fondamento (persino nella sua essenza). Così, la fine della filosofia appare come il rilascio del fondamento, nel senso che essa ritira l’esistenza alla necessità del fondamento, ma anche nel senso che essa mette in libertà il fondamento, che lo affida alla ‘libertà’ infondata» (EL 16; it. 6).
9Così è nell’hic et nunc dell’esistenza che sta quella che Nancy chiama “l’assiomatica dell’effettività spazio-temporale dell’esistenza”, che mette in gioco, ogni volta, «la sua intera possibilità di esistere, consegnandosi ogni volta in essa come essenza di se stessa» non implicando per questo «l’equivalenza assiologica di tutto ciò che si produce nei diversi luoghi e momenti della storia» (EL 21; it. 10).
10In questo modo l’aut-aut indica possibilità congiunte, non nel senso che l’uno e l’altro siano offerti inizialmente alla scelta della libertà, perché essi non sono prima della libertà che li sceglie, ma essi sono solo con il mettersi in gioco della libertà. L’aut non ha che fare con lo scegliere se uno si decida per una cosa o per un’altra ma piuttosto che uno scelga volendo, con questa scelta, che qualcosa sia posto nell’esistenza. Qui si tratta della volontà che è alla base di qualsiasi volere, del decidere che è presupposto allo schiudersi delle decisioni. Ancora in modo più radicale, dell’indecisione, del non scegliere, del rimanere fermi nella possibilità, per salvarsi dal nulla che avanza inghiottendo, nell’infinito delle possibilità, ogni possibilità dell’infinito. Eppure la volontà di salvezza dal nulla richiede che questo nulla venga alla luce nella coscienza.
11La possibilità della scelta, della decisione, del qui e ora, che accompagna ogni dire filosofico (e ogni dir-la – nel tempo e nello spazio – questa scelta) è già irrimediabilmente incastrata nella sua in-essenziale alternativa.
12Concludo con le significative parole, su Dio e la libertà, del libero docente Eberhard Schleppfuss, uno dei personaggi che si trovano nel Doctor Faustus di Thomas Mann: «Il dilemma logico di Dio consiste in questo: che egli non è stato capace di conferire alle creature, cioè agli uomini e agli angeli, l’autonomia della scelta, vale a dire il libero arbitrio e nello stesso tempo il dono di non poter peccare. La religiosità e la virtù consistono dunque nel fare buon uso, vale a dire nessun uso della libertà che Dio avrebbe dovuto concedere alle creature […] Libertà è una gran cosa, è la condizione della creazione, è ciò che ha impedito a Dio di renderci immuni dal peccato di apostasia. Libertà è la libertà di peccare, e la religiosità consiste nel non far uso della libertà per amore di quel Dio che ha dovuto elargirla»10.
13Il controcanto di Nancy: «La libertà della necessità è il predicato dialettico dell’essente soggetto dell’essere. Come ogni esistenza, l’essere vi si trova così assoggettato. Ma se la libertà è qualcosa, è proprio ciò che svanisce una volta fondato. L’esistenza di Dio stesso doveva essere libera, nel senso che la libertà che la portava in seno non poteva risultare un suo predicato o una sua proprietà. La teologia e la filosofia avevano riconosciuto assai bene il limite, o il dilemma. Dio, concepito come l’essere necessario della libertà, rischiava di portare alla rovina sia se stesso sia la libertà» (EL 15-16; it. 5).
14Ma la libertà – scrive Bataille (La letteratura e il male) citato da Nancy – «non è forse il potere che manca a Dio, o che possiede solo verbalmente, poiché non può disobbedire all’ordine che egli è?» (EL 16; it. 5).
Notes de bas de page
1 G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. a cura di M. Guareschi, Roma, Castelvecchi, 2006, p. 386.
2 L’aporia è quella seconda la quale ogni cominciare (“qui e ora”) deve ammettere presupposizioni e asserzioni, e cioè un inizio che, come qualcosa d’immediato, costituisce per ciò stesso un presupposto.
3 A differenza di Hegel, per Nancy ogni conservare è un perdere, ogni partire un arrestarsi, ogni partecipare un prendere distanza.
4 Cfr. W. Hamacher, Ou séance, touche de Nancy, ici, in On Jean-Luc Nancy: The Sense of Philosophy, a cura di D. Sheppard, S. Sparks e Colin Thomas, London, Routledge, 1997, pp. 38-62.
5 Per rendere chiaro questo punto Nancy fa l’esempio della frase: “qui è l’essere scritto qui” [«ici s’inscrit ici»], che non è solo un commentario all’iscrizione del qui, ma ciò in cui questa iscrizione stessa prende posto (cfr. ivi, p. 152).
6 Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 388: «Un’ecceità non ha inizio, fine, origine e destinazione. È sempre nel mezzo. Non è fatta di punti, ma soltanto di linee. È rizoma». Sulla struttura rizomatica della comunicazione cfr. anche: R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 157-162.
7 G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 387.
8 S. Kierkegaard, SKS 2, 47-48; trad. it. Enten-Eller, a cura di A. Cortese, Milano, Adelphi, 1976, vol. 1, p. 99.
9 S. Kierkegaard, SKS 18, 279, JJ:417; trad. it. Diario 1840-1847, a cura di C. Fabro, Brescia, Morcelliana, 1980, vol. 3, p. 167 (n. 1138).
10 Th. Mann, Doctor Faustus, trad. it. E. Pocar, Milano, Mondadori, 1996, pp. 115-116.
Auteur
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