Guerra, sovranità, responsabilità. Una riflessione con Nancy e Derrida
p. 127-132
Texte intégral
1La mia riflessione di oggi, in tempi di guerra come quelli in cui viviamo, in tempi di una guerra che si combatte “al di là del confine” e rischia spesso di venire dimenticata, nasce dall’esigenza di interrogarsi, ancora una volta, sulle responsabilità cui ogni guerra ci chiama. «Ciò che conta, d’altra parte», afferma Nancy nel 1991, in occasione della Guerra del Golfo, «sono le determinazioni politiche, le approvazioni o le critiche, le motivazioni e le ragioni che possono ancora impegnare, se è possibile, la responsabilità di ciascuno. Eppure, la nostra responsabilità è anche, di già, impegnata in un’altra maniera ancora: come responsabilità del pensiero» (ESP 127; nell’edizione italiana questo saggio non è stato tradotto).
2Ora l’interrogativo sulle nostre responsabilità in guerra non può essere posto, a mio parere, che a partire da una riflessione sulla sovranità e sul rapporto tra sovranità e guerra. «Poiché la guerra», afferma Nancy, «è necessariamente la guerra dei Sovrani, oppure, non c’è guerra senza Signori della Guerra» (ESP 128). La sovranità sembra dunque avere come complemento necessario e ineludibile la guerra che, a sua volta, si delinea come manifestazione suprema della sovranità. La guerra si svela infatti, secondo Nancy, «come τέχνη (téchne), come arte, esecuzione o messa in opera della Sovranità stessa» (ESP 128). E ancora: «La guerra è indissociabilmente la ϕύσις (phýsis) e la téchne della sovranità» (ESP 146). «La guerra è il monumento, la festa, il segno cupo e puro della comunità nella sua sovranità» (ESP 148).
3Sembra concordare su questo punto Derrida nella misura in cui afferma, nel seminario La bestia e il sovrano, che la sovranità «non è mai priva di nemico, […] ha bisogno di un nemico per essere ciò che è»1. E aggiunge inoltre che «questa determinazione del nemico non può in alcun caso, per definizione, avvenire in nome dell’umanità»2. L’umanità infatti, come afferma Schmitt, «non può condurre nessuna guerra, poiché essa non ha nemici, quanto meno non su questo pianeta […]. Il concetto di umanità esclude quello di nemico, poiché anche il nemico non cessa di essere uomo e in ciò non vi è nessuna differenza specifica»3. Le guerre in nome dell’umanità non sarebbero altro, di conseguenza, che pretesti per «far passare di contrabbando interessi stato-nazionali, quindi di una determinata sovranità»4.
4È per questo che la distinzione tra i cosiddetti stati canaglia (États voyous o rogue States) e gli stati nazionali sovrani che si ergono a difensori dell’umanità risulta molto più problematica di quanto si possa credere a prima vista. Non a caso Derrida ricorda, con Chomsky, che per molto tempo Saddam Hussein è stato considerato dagli Stati Uniti un alleato e un cliente, e che questo trattamento «è finito solo nel giorno in cui Saddam ha smesso di mostrarsi docile alla strategia politica e militar-economica degli Stati Uniti […]. Solo da quel momento l’Iraq, cessando di essere un alleato, un complice o un docile cliente, è divenuto un ‘rogue State’, e si è iniziato a parlare di Saddam Hussein, del capo di uno Stato Canaglia, come di una bestia, la ‘bestia di Baghdad’»5. Solo dal momento in cui non ha più riconosciuto la sovranità degli Stati Uniti.
5Provando a soffermarci, ora, sul concetto di sovranità, è interessante notare come, pur partendo da presupposti simili, Derrida e Nancy sembrano però approdare a conclusioni molto differenti.
6«La sovranità», che si tratti di monarchia o di democrazia, «designa innanzitutto», afferma Nancy, «la sommità, la cima» (CMM 145; it. 94). Il sovrano si stacca dal basso, è elevato, separato, slegato da ogni vincolo, libero da ogni relazione: absolutum. Ora se il sovrano è alla sommità, se il sovrano è la sommità separata dalla base, allora, afferma Nancy, egli è «l’esistente che non dipende da nulla – da alcuna finalità, da alcun ordine di produzione o di soggezione, né dal lato dell’agente né dal lato del paziente, né dal lato della causa né dal lato dell’effetto. Dipendendo da nulla, il sovrano è interamente rimesso a lui stesso, in quanto ‘lui stesso’, per l’appunto, non si precede e non si fonda, ma è il nulla, la cosa stessa alla quale è sospeso. Nulla come sommità, acme o colmo d’esistenza: separato dall’esistente stesso» (CMM 160; it. 105). Priva di presupposto e fondamento, alla sovranità non resta che fondarsi da sé e autolegittimarsi, ed è proprio in questo «stato d’eccezione» (CMM 161; it. 105) in cui le leggi risultano sospese, che il sovrano esercita il proprio potere legiferando.
7È su quest’incondizionalità della sovranità che Derrida insiste, a più riprese, nel seminario La bestia e il sovrano. A differenza di Nancy, Derrida attribuisce però questo diritto eccezionale di porsi al disopra del diritto, questo potere di fare ma anche di sospendere la legge, tanto al sovrano quanto alla bestia, delineando un’inquietante analogia tra il sovrano, l’animale e il criminale: «il sovrano e la bestia sembrano avere in comune il loro essere al di fuori della legge. È come se entrambi si collocassero, per definizione, lontano o al di sopra della legge, nel non rispetto della legge assoluta, della legge assoluta che stabiliscono o che sono ma che non devono rispettare. L’essere fuori dalla legge può senza dubbio, da un lato, ed è la figura della sovranità, assumere la forma dell’essere al di sopra della legge, e quindi la forma della Legge stessa […]; ma l’essere al di fuori della legge può anche, da un lato, ed è la figura di ciò che di solito si intende per animalità o bestialità, [l’essere fuori dalla legge] può individuare il luogo in cui la legge non appare, o non è rispettata, o si fa violare. […] condividendo questo comune essere al di fuori della legge, la bestia, il criminale e il sovrano si assomigliano in modo sconcertante; si richiamano e si evocano tra loro, uno con l’altro; c’è tra il sovrano, il criminale e la bestia una sorta di oscura e affascinante complicità, addirittura un’inquietante mutua attrazione, un’inquietante familiarità»6.
8Tale incondizionalità, tale mancanza di fondamento su cui i due filosofi sembrano concordare in quanto carattere peculiare della sovranità, li conduce, però, a conclusioni lontane in merito all’origine della sovranità stessa, che si tratti del monarca assoluto o del popolo. Mentre Derrida sostiene l’origine teologica del concetto di sovranità, affermando che «‘sovrano’, ‘superanus’, da ‘superans’, qualifica in primo luogo l’onnipotenza, la predominanza e la superiorità di Dio, del Signore-Dio, poi del monarca assoluto per diritto divino»7, e che «questo concetto di sovranità resta segnato da un’origine religiosa e sacrale anche quando è trasferito sul popolo e il cittadino»8, Nancy parla invece di origine democratica della sovranità, abbandonando ogni filiazione teologica: «Il popolo sovrano non detiene nulla di diverso dal monarca assoluto, vale a dire l’esercizio stesso della sovranità. Questo esercizio non è altro che la fissazione dello stato e della sua legge, o della legge che fa uno stato. Esso presuppone che nulla lo preceda né lo domini dall’alto, che alcuna autorità o forza istituente venga esercitata prima. La sovranità è la fine di ogni teologia politica: se fa ricorso alla figura del diritto divino, lo fa soltanto per modellare questa stessa figura sui tratti del sovrano» (CMM 151; it. 98).
9Ora, tornando alla guerra, e al legame quasi imprescindibile tra guerra e sovranità, Nancy sembra ipotizzare che l’unica soluzione (seppur inconcepibile) sia tentare una politica senza sovranità: per assicurarsi la pace bisognerebbe quindi uscire dalla logica della sovranità. Secondo Nancy occorrerebbe un’autorità che superi quella dei sovrani dotati del diritto di guerra, un’autorità di altra natura: «Se ogni popolo […] sostituisse alla logica del modello sovrano (e sempre sacrificale), non l’invenzione o la moltiplicazione dei modelli […], ma una logica altra, in cui la singolarità varrebbe allo stesso tempo assolutamente e senza fare esempio? In cui ognuno non sarebbe ‘uno’ che non essendo identificabile sotto una figura, ma infinitamente distinto dallo spaziamento, e in-finitamente sostituibile dall’intersezione che raddoppia lo spaziamento. Questo potrebbe chiamarsi, per parodiare Hegel, la singolarità mondiale. Questo avrebbe il diritto senza diritto di dire il diritto del mondo. La pace è a questo prezzo: al prezzo della sovranità abbandonata […]. Io lo so bene: questo non si lascia concepire. Non per noi, non per il nostro pensiero modellato sul modello sovrano, non per il nostro pensiero guerriero. Ma non c’è decisamente nient’altro all’orizzonte che un compito inaudito, inconcepibile – oppure la guerra» (ESP 166).
10A differenza di Nancy che considera la sovranità per essenza intrattabile – come si evince da quanto detto e come da lui stesso affermato: «Poiché il problema non è trasformare la sovranità: per essenza, lei è intrattabile, ma soprattutto, questa essenza intrattabile non appartiene più, in realtà, al mondo della ‘mondialità’» (ESP 156) –, Derrida agisce invece al cuore stesso del concetto di sovranità. Essendo un fantasma, un simulacro, un’illusione, la sovranità può essere decostruita: «se la sovranità, come animale artificiale, come mostruosità protesica, come Leviatano, è un artefatto umano, se non è naturale, è decostruibile, è storica; e in quanto storica, sottoposta a infinita trasformazione, è precaria, mortale e perfettibile»9.
11La decostruzione della sovranità passa per un gesto iperbolico, quasi impossibile, dissociare cioè i due concetti indissociabili di sovranità e incondizionalità. Derrida intende decostruire la sovranità in nome di quello che abbiamo visto essere il suo carattere più proprio, l’incondizionalità, nell’intento ultimo di ottenere un’incondizionalità senza sovranità. A questo compito è chiamata l’Università: è da qui che può avere inizio la decostruzione della sovranità perché è qui che può realizzarsi l’incondizionalità senza sovranità, grazie alla libertà incondizionale di cui ogni Università dovrebbe godere: «L’idea moderna ed europea di Università presuppone, nel suo principio, il diritto incondizionale alla verità; meglio, il diritto incondizionale a porre qualsiasi questione necessaria a riguardo della storia e del valore stesso di verità, di scienza, e anche di umanità. Non vi è, in principio, limite, nell’Università, all’esame critico, io preferisco dire decostruttivo, di qualsiasi presupposizione, norma, assiomatica, e dunque di qualsiasi filosofia politica, ideologia, dogmatica religiosa o nazionale, come di tutti i poteri economici, sociali, nazionali, religiosi, che sono così, in un modo o nell’altro, sostenuti, rappresentati, serviti»10.
12È nel pensiero, in particolare, che Derrida individua l’esigenza e l’esperienza dell’incondizionalità. «Il pensiero non è nient’altro», afferma Derrida, «che questa esperienza dell’incondizionalità, non è nulla senza l’affermazione di quest’esigenza: questionare su tutto, compreso il valore della questione, e anche sul valore di verità e di verità dell’essere»11.
13E in nome di questa libertà incondizionale il pensiero può mettere in questione il principio di sovranità come principio di potere aprendo a un’incondizionalità senza sovranità. Senza sovranità vuol dire quindi senza potere ma, chiarisce Derrida, «senza potere» non significa «senza forza, foss’anche una certa forza della debolezza»12, debolezza che, sola, può aprire all’a-venire inanticipabile esponendoci all’evento dell’altro. Purtroppo, aggiunge però Derrida, questo diritto incondizionale alla verità è ancora una figura della democrazia a venire in quanto, «lo sappiamo fin troppo bene, le Università, non meno di quelle che chiamiamo democrazie, non si vedono di fatto, oggi, riconoscere questo diritto di principio che nondimeno le convoca e istituisce. Questa franchigia democratica, questa libertà incondizionale presuppone ma non si riduce a ciò che si chiama la libertà accademica (nozione ristretta e intrauniversitaria) e nemmeno alla libertà di opinione, di parola e di espressione che possono essere garantite dalle costituzioni degli stati»13.
14Tornando quindi, per concludere, all’interrogativo iniziale sulle nostre responsabilità in guerra e in particolare sul senso e la missione dell’Università e della filosofia «in questa guerra senza nome, in queste guerre senza nome»14, risponderei, con Derrida, che «questo pensiero dell’Università deve preparare, con tutte le sue forze, una nuova strategia e una nuova politica, un nuovo pensiero del politico. E della responsabilità politica. Per fare ciò deve allearsi nel mondo, dentro e fuori l’Europa, con tutte le forze che non confondono la critica della sovranità con l’asservimento, e neppure con la servitù volontaria, tutto al contrario»15. Questo pensiero e questa responsabilità restano ancora da inventare, e credo sia questo il compito cui oggi siamo chiamati, dal momento che, come ricorda Nancy, «se filosofare ha avuto […] in passato il significato di contemplare e fissare, oggi significa aprire gli occhi, occhi che sin qui non sono stati ancora aperti»16.
Notes de bas de page
1 J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), trad. it. G. Dalmasso, Milano, Jaka Book, 2009, p. 109.
2 Ibidem.
3 Ivi, p. 103.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 41.
6 J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), cit., pp. 37-38.
7 J. Derrida, Incondizionalità o sovranità, trad. it. S. Regazzoni, Milano, Mimesis, 2008, p. 42.
8 Ibidem.
9 J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), cit., p. 50.
10 J. Derrida, Incondizionalità o sovranità, cit., pp. 37-38.
11 Ivi, p. 38. Queste affermazioni di Derrida possono, a mio parere, essere lette come radicalizzazione di quanto sostenuto da Kant nella Dottrina trascendentale del metodo, in particolare nella sezione La disciplina della ragion pura rispetto al suo uso polemico, dove è precisato: «La ragione, in tutte le sue imprese, si deve sottomettere alla critica, e non può mettere nessun divieto alla libertà di questa». I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Kant’s gesammelte Schriften - Band III, Berlin, Georg Reimer, 1911, p. 484; trad. it. G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 460.
12 J. Derrida, Incondizionalità o sovranità, cit., p. 44.
13 Ivi, p. 38.
14 Ivi, p. 37.
15 Ivi, p. 44.
16 R. Esposito e J.-L. Nancy, Dialogo sulla filosofia a venire, cit., p. xi.
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