La questione ultima: il tema del sacrificio tra Derrida e Nancy
p. 121-126
Texte intégral
Della questione del sacrificio, è necessario dire che essa è la questione ultima
G. Bataille
1Poche pagine, nell’intera tradizione filosofica occidentale sono radicali come quelle che in Entre Nous Levinas dedica a Heidegger. Riprendendo ancora una volta il § 47 di Sein und Zeit, Levinas riflette sulla natura di quello “Sterben für”, il “morire per” evocato da Heidegger, caratterizzato dal filosofo tedesco come “semplice sacrificio”, un “sacrificarsi per un altro per una determinata cosa”.
2Levinas parte proprio da tale sacrificio, da quel morire per l’altro, dalla relazione con altri e la sollecitudine per altri prima della determinazione di sé: «Il filosofo è alla ricerca dell’esistenziale dell’essere-per-la-morte e s’incammina verso la sua significazione ‘autentica’ nella anticipazione (Vorweg) libera e coraggiosamente angosciata, senza condivisione, né associazione, ma dove ‘morire per…’ gli appariva soltanto come ‘semplice sacrificio’ e senza che la ‘morte per altri’ possa in verità liberare altri dal morire e senza mettere in questione la verità del ‘ciascuno muore per sé’. L’etica del sacrificio non arriva a scuotere il rigore dell’essere e dell’ontologia dell’autentico»1.
3A parere di Levinas il morire per l’altro, il sacrificio, caratterizzano una responsabilità per altri inesplicabile a partire da sé, più antica di ogni ri-memorazione, di ogni riconoscimento. Responsabilità per altri che non dà nulla da conoscere, nulla che si possa raccogliere nella puntualità di una manifestazione, di un disvelamento. Essa viene piuttosto connotata come rottura senza ritorno, catastrofe, an-archia: essa «non viene dal tempo fatto di presenze – sprofondate nel passato e rappresentabili – dal tempo degli inizi o delle assunzioni. Essa non mi lascia costituirmi in io penso, sostanziale come una pietra o come un cuore di pietra, in sé e per sé […] Responsabilità che non lascia tempo: senza presente di raccoglimento o di rientro in sé; e che mi mette in ritardo: davanti al prossimo io compaio piuttosto che apparire»2.
4Il rapporto con altri non come rappresentazione o ri-conoscimento, messa a distanza e distinzione: ma come prossimità, ossessione. Questa relazione con l’esteriorità è per Levinas anteriore a ogni atto di coscienza, prossimità senza tematizzazione possibile: il sé è precisamente descritto in De Dieu qui vient à l’idée come il non potersi sottrarre a un’assegnazione che non mira alcuna generalità. Sacrificio “senza condizione”: il per segnala la passività prima di ogni sapere, di ogni potere.
5In vari testi Derrida riprende le suggestive pagine di Heidegger e Levinas sul tema del sacrificio. Nelle toccanti riflessioni di Donner la mort, Derrida sottolinea come è nella misura in cui il morire, se esso “è”, rimane il mio morire, che io posso morire per l’altro o dare la mia vita all’altro. Non è pensabile un dono di sé che nella misura di quest’insostituibilità, nota Derrida nel suo commento a Sein und Zeit, evidenziando l’attenzione di Heidegger verso la possibilità fondamentale e fondatrice del sacrificio.
6In un’intervista del 1989 Jean-Luc Nancy conversa con Derrida proprio in merito al rapporto tra sacrificio e formazione del soggetto responsabile, in un famoso confronto poi intitolato Il faut bien manger. Derrida, nel corso dell’intervista, evidenzia come l’introiezione, l’inghiottimento, siano necessari alla formazione della soggettività, e come all’origine dell’identità ci sia un’eterogenesi: in quest’appropriazione, divoramento, Derrida indica lo schema dominante della soggettività stessa. Anche Levinas e Heidegger, a parere del filosofo franco-algerino, non sono liberi da un certo umanesimo tradizionale, in quanto anche loro, nelle parole di Derrida, «non sacrificano il sacrificio»: «Il soggetto (nel senso di Levinas) e il Dasein sono degli ‘uomini’ in un mondo in cui il sacrificio è possibile e in cui non è proibito attentare alla vita in generale, soltanto a quella dell’uomo, dell’altro prossimo, dell’altro come Dasein. […] Così come il Dasein, il Mitsein non è concesso al vivente in generale. Ma soltanto a questo essere-per-la-morte che rende così il Dasein altra cosa, più e meglio di un vivente […] Si tratta in ogni caso di riconoscere uno spazio lasciato libero, all’interno della struttura stessa dei discorsi che sono anche delle ‘culture’, per una messa a morte non criminale: con ingestione, incorporazione o introiezione del cadavere»3.
7Un certo modo di fare parte, una certa modalità di essere l’uno-per-l’altro, sembra essere al centro delle riflessioni di Derrida. Una certa maniera di partecipare, di essere l’uno-attraverso-l’altro. Essere-con, fare parte: Derrida torna su questi temi in maniera molto singolare nella prefazione a un libro di Nicholas Abraham e Maria Torok, in cui viene descritta la relazione tra il meccanismo di introiezione e quello di incorporazione4.
8L’incorporazione viene definita come un meccanismo che sorge nel momento in cui l’introiezione si trova davanti a un ostacolo impossibile da superare. Segreta, silenziosa e muta, essa si sottrae perfino allo sguardo dell’io, e l’oggetto incorporato diviene allora una specie di sepolcro funebre, una tomba che Abraham e Torok chiamano “cripta”. Abbiamo in questo processo d’incorporazione un paradosso: «un corpo estraneo [étranger] conservato come straniero [étranger] ma allo stesso tempo escluso da un io [moi] che quindi non ha più che fare con l’altro, solamente con se stesso. Quanto più conserva l’estraneo come straniero in sé, tanto più l’esclude»5. Un altro in me, come un segreto irraggiungibile: morto, eppure tenuto in vita. Fantasma, in me.
9La cripta, questo luogo di sepoltura, di lutto impossibile, diventa nella riflessione di Derrida il luogo di un’inclusione che esclude, di un interno talmente etereogeneo ed esterno da riaprire l’uno all’altro, l’uno nell’altro, l’uno come l’altro, il vivo come il morto, il salvo come il perduto. La cripta, il luogo più segreto e inconfessabile, custodisce l’oggetto più perduto eppure più tenacemente conservato, fa eccezione di me in me.
10L’uno con l’altro, esser-con: imparare a vivere con l’altro, come scrive Derrida in Spectres de Marx, «apprendre à vivre con i fantasmi, nell’intrattenimento, la compagnia o il consociativismo, nel commercio senza commercio dei fantasmi. A vivere altrimenti, e meglio. Non meglio, più giustamente. Ma con loro. Non c’è esser-con l’altro, non c’è socius senza questo con-qui che rende il con-essere in generale più enigmatico che mai»6.
11Intrattenersi con ciò che non è semplicemente presente, in un rapporto senza comunione, senza appropriazione, senza inclusione. Rapporto con una sopravvivenza spettrale, un’eccedenza sul vivente e il presente, con qualcosa che, come «un’attestazione autocontestatrice mantiene in vita la comunità autoimmune, la mantiene, cioè, aperta a qualche cosa d’altro e in più di se stessa»7.
12Qualcosa, nella vita, ribadisce spesso Derrida, vale più del vivente stesso. Nel mettere a morte, nella pena di morte, si rivelerebbe la congiuntura tra l’ontologico, il filosofico e il politico, in quanto «il proprio dell’uomo consisterebbe appunto nel poter ‘rischiare la propria vita’ nel sacrifìcio, nell’elevarsi al di sopra della vita stessa, nel valere, nella propria dignità, più e ben altro della propria vita, nel transitare attraverso la morte verso una ‘vita’ che vale più della vita stessa […] La pena di morte costituirebbe allora, al pari della morte stessa, ‘il proprio dell’uomo’ in senso stretto»8.
13La messa a morte di ciò che nella vita vale più del vivente: da Benjamin a Agamben, passando per le riflessioni di Roberto Esposito, il recente ripensamento della comunità mette in rilievo la centralità della “messa a morte”, della sovranità intesa come poter di far vivere o di lasciare morire (secondo la formula di Foucault), evidenziando come tale violenza “eccezionale” serva a proteggere la comunità dalla sua stessa violenza. Una violenza sacrificale che rimuove la violenza verso se stessa, verso la propria ragione o fondazione, il proprio cuore, che deve essere mantenuto indenne, separato, integro.
14Anche Jean-Luc Nancy ha riflettuto profondamente sulla centralità del sacrificio, ritornando più volte sui testi di Hegel, di Heidegger, di Bataille. Nel breve testo intitolato L’insacrifiable, il filosofo francese comincia la sua riflessione a partire da una considerazione all’apparenza abbastanza immediata e semplice: ossia il fatto che l’intera umanità, ha praticato qualcosa che chiamiamo “il sacrificio”. Eppure, come sottolinea Nancy, sembra che l’Occidente riposi su un’altra fondazione, nella quale il sacrificio è stato sorpassato, sormontato, sublimato. In qualche modo, radicalizza Nancy, «accade come se l’Occidente cominciasse là dove il sacrificio ha termine» (PF 66; it. 215). Nel costituirsi dell’occidente, il sacrificio si sarebbe liberato di se stesso, trasfigurato, ritirato all’improvviso.
15L’appropriazione occidentale del sacrificio, da Socrate a San Paolo, da Agostino e Pascal sino a Nietzsche e Bataille, Heidegger e Jünger, ha incorporato, trasfigurato, metamorfizzato la stessa struttura originale. È come se il sacrificio che Nancy chiama “antico” fosse stato ridotto a una fase preliminare del “vero” sacrificio, il sacrificio senza spargimenti di sangue: il sacrificio spirituale, che non tocca la carne che perisce, e che porta “a verità” il sacrificio antico.
16Però Nancy osserva come il sacrificio esteriore non sia stato oltrepassato che per una modalità più elevata, più vera, della logica sacrificale. La rimozione del sacrificio, la sua concettualizzazione, nel suo trasfigurarsi, mantiene elementi di ciò che tenta di oltrepassare, di superare: una fascinazione non sradicabile con la violenza e la crudeltà. Come scrive ancora Nancy, «la ‘carne che non perisce’ rimane una carne staccata da un corpo adorabile, e il segreto di questo orrore continua a gettare una luce oscura dal punto centrale del superamento, dal cuore della dialettica: in verità è questo segreto che fa battere questo cuore, malgrado Hegel, oppure, e in modo più grave, è il gesto dialettico stesso che ha istituito questo segreto» (PF 80; it. 231).
17L’appropriazione di sé attraverso l’altro, quella che Nancy chiama la “trans-appropriazione sacrificale” è l’appropriazione del Soggetto che penetra dentro la negatività, e che mantenendovisi, sopportando la propria lacerazione, ritorna sovrano. Tale è l’economia del sacrificio, in cui il momento del finito è un ‘momento’ all’interno di un processo e di un’economia. Invece, scrive Nancy, «l’esistenza finita non deve fare scaturire il suo senso con una conflagrazione distruttiva della sua finitezza» (PF 101; it. 257).
18In qualche modo, la tendenza al sacrificio è infatti sempre legata alla fascinazione di un’estasi rivolta verso un Altro o verso un Fuori assoluti, che ricongiunge il soggetto con la sua essenza mettendolo in partecipazione con il Fuori o con l’Altro: il sacrificio risponde a un’ossessione del “Fuori” della finitezza, oscuro e abissale. Come Nancy, ancora ne L’insacrifiable, sottolinea: «Il sacrificio occidentale sembra rivelare il segreto della μίμησις (mímesis) in quanto segreto di una μέθεξις (méthexis) tra-spropriativa e infinita (la partecipazione del Soggetto stesso alla sua soggettività, se così si può dire) […] Alla fine, non viene rivelato nessun segreto. O meglio, in definitiva, viene rivelato soltanto che non c’è che segreto: l’infinito segreto sacrificale. Ma non c’è niente che debba essere accordato, niente di ‘niente’. ‘Niente’ non è un abisso aperto al fuori. ‘Niente’ afferma la finitezza, e questo ‘niente’, subito, riconduce l’esistenza a sé, e a nient’altro. Esso la desoggettivizza, togliendole ogni possibilità di appropriarsi per mezzo d’altro che non sia il suo solo evento, avvento. L’esistenza, in questo senso, cioè nel suo senso proprio, è insacrificabile» (PF 103; it. 260).
19L’esaurimento, la chiusura dell’orizzonte del sacrificio, lo svilimento della logica sacrificale, potrebbero, secondo Nancy, liberarci dalle forme conosciute e forse ormai esauste di comunità, associate alla comunione, all’unità. La fine del fantasma del sacrificio, del sogno di una soppressione totale dell’alterità tale da ricongiungere l’esistenza con il suo fondamento irraggiungibile, senza resto, sarebbe per Nancy il punto di partenza per un’altra esperienza dell’essere-in-comune, diversa da quella dell’Occidente quale noi lo conosciamo.
20Non esiste un’esistenza sacrificabile in nome di una partecipazione a un “proprio” eppure universale destino che vale più dell’esistenza finita, singolare, in quanto, conclude con grande intensità Nancy, l’esistenza «si può solamente distruggere, o con-dividere […] la méthexis ormai si propone così, come la con-divisione [partage] proprio di quanto con-divide [partage]: il limite della finitezza e, al tempo stesso, il rispetto dell’insacrificabile. Cancellazione del sacrificio, cancellazione della comunione, cancellazione dell’Occidente» (PF 111; it. 263).
Notes de bas de page
1 E. Lévinas, Entre nous. Essai sur le penser-à-l’autre, Paris, Grasset, 1991, p. 214 ; trad. it. E. Baccarini, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Milano, Jaca Book, 1998, p. 243.
2 E. Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, Paris, Vrin, 1982, p. 117 ; trad. it. G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Milano, Jaca Book, 1983, pp. 194-95.
3 J. Derrida, Points de suspension, Entretiens, choisis et présentés par E. Weber, Paris, Galilée, 1992, p. 292 (trad. mia).
4 J. Derrida, Fors. Les mots anglés de Nicholas Abraham et Maria Torok, préface à N. Abraham e M. Torok, Le Verbier de l’Homme aux loups, Paris, Aubier-Flammarion, 1976; trad. it. M. Ajacci Mancini, F(u)ori. Le parole angolate di Nicholas Abraham e Maria Torok, Prefazione a N. Abraham e M. Torok, Il verbario dell’Uomo dei lupi, Napoli, Liguori, 1992.
5 Ivi, p. 17, trad. it. p. 55.
6 J. Derrida, Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993, p. 15 ; trad. it. G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Milano, Cortina, 1994, p. 4.
7 J. Derrida, Foi et savoir, in G. Vattimo e J. Derrida, La religion, Paris, Le Seuil, p. 69, trad. it. Fede e sapere. Le due fonti della «religione» nei limiti della semplice ragione, tr. it. di A. Arbo, in Aa. Vv., La religione, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 57.
8 J. Derrida e É. Roudinesco, De quoi demain… Dialogue avec E. Roudinesco, Paris, Fayard-Galilée, 2001, p. 239, trad. it. G. Brivio, Quale domani. Dialogo con É. Roudinesco, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 204.
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