Al cuore della tecnica: Nancy e Stiegler
p. 109-114
Texte intégral
Trapianto d’origine, origine del trapianto
1La prosa, lo “stile”, che caratterizza la produzione filosofica di Jean-Luc Nancy è una prosa dai caratteri del tutto peculiari: è la scrittura di un corpo e di una vita, con la duplicità semantica che l’uso del genitivo permette. È la scrittura che un corpo effettua, e al contempo è un corpo che si scrive, che scrive se stesso, inscrivendosi nel corpus testuale.
2Se quest’operazione non è del tutto inedita (si pensi ai luoghi classici dell’autobiografia filosofica, quali per esempio le Confessiones agostiniane o l’Ecce homo di Nietzsche) in Nancy essa assume i caratteri di una marca, di un marchio, di una in-scrizione e di un tatuaggio intimo: potremmo sostenere che tutti i testi nancyani, in particolare quelli dedicati al tema del corpo e del toccare1, sono testi autobiografici, in cui il corpo in questione è sempre il corpo di chi scrive, di Jean-Luc Nancy, e dello scrivente in generale.
3Dunque potremmo tentare di definire questo particolare dispositivo scritturale come un’autobiografia trascendentale, in cui il senso del termine trascendentale è quello dato dalla tradizione kantiana, vale a dire di essere condizione di possibilità e di pensabilità dell’esperienza. Nessuna esperienza senza autobiografia, senza corpo autobiografico, senza in-scrizione del corpo. Nasce a questo punto il problema del cortocircuito, della circolarità presupposto-posto, del rimando continuo tra un presunto prius temporale e il suo succedaneo: in una scrittura che non abbiamo esitato a definire autobiografia trascendentale, come è possibile stabilire le posizionalità logiche e cronologiche del corpo e della scrittura, nei loro nessi reciproci?
4Forse è possibile leggere alcuni passi dell’autobiografia filosofica par excellence di Nancy, L’intrus, come la narrazione di questa sensazione di differimento, di questa Stimmung esistenziale che si incarna nel corpo fisico e in quello testuale: «Corpus meum e interior intimo meo, i due insieme per dire esattamente, in una configurazione completa della morte di Dio, che la verità del soggetto è la sua esteriorità e la sua eccessività: la sua esposizione infinita» (I 42; it. 34).
5L’esposizione di cui parla Nancy è quella, come è noto, a cui lo ha sotto-posto (oltre che ex-posto) l’esperienza del suo trapianto di cuore. Nancy, nel testo che abbiamo appena preso in considerazione, fa una fenomenologia del corpo, del corpo proprio e del proprio corpo, esponendo al pubblico la sua mancanza di congruenza, il suo difetto d’origine, il suo essere un intruso in questo mondo (a questo riguardo è indicativa la testimonianza, riportata da Nancy, del medico che, interrogato dal filosofo sul perché della “difettosità” del suo cuore, rispose che questo era semplicemente “programmato” per durare fino a cinquant’anni), vale a dire un uomo che “naturalmente” sarebbe dovuto morire assieme al suo cuore, e che invece è ancora vivo solo a causa di una congiuntura spazio-temporale tra la sua storia esistenziale e la storia della tecnica.
6L’intrus, piccolo testo che apparentemente sembra poco più di una narrazione personale, si rivela qui carico di pregnanza teoretica: nelle parole autobiografiche di Nancy è celata, come un intruso appunto, una tesi sulla tecnica (e sulla scrittura come eminente rappresentante della tecnica), che risponde alla questione logico-cronologica che abbiamo prima sollevato. Secondo Nancy infatti, come argomentato nella citazione sopra riportata, l’esposizione e l’esteriorità sono costitutive, potremmo dire ontologiche, sono la verità del soggetto.
7L’esperienza del trapianto ha dischiuso a Nancy la possibilità della scoperta della proteticità a priori del soggetto. Il soggetto, potremmo così dire, nasce come intruso e con un intruso al proprio interno, perché l’intruso è a priori, il trapianto è a priori: «L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in se stesso, inquietante spinta dello strano, conatus di un’infinità escrescente» (I 45; it. 37). Il soggetto è tale solo in quanto esposto a un complemento che più intimo non si può: qualcosa che lo rende possibile, come è condizione di possibilità per la vita di un trapiantato il cuore di un altro che “invade” il centro del suo petto. Se volessimo “forzare” la nostra lettura nancyana in questa direzione potremmo arrivare a sostenere che la scrittura stessa rappresenta la tecnica d’incisione, d’“intrusione” per eccellenza, tecnica antichissima (solo tramite essa l’uomo “entra” nella storia propriamente detta) di estroiezione dell’umano dalla propria interiorità, ma al contempo mezzo d’introiezione universale dell’altro, che attraverso di essa si intrude in me.
8La “storia” dell’uomo comincia con un trapianto: trapianto di cuore e di cervello, tramite la scrittura, che si inscrive dentro di noi scriventi/leggenti. E Nancy, implicitamente ed esplicitamente, ci mette a parte di questo duplice trapianto costitutivo: quello della tecnica, che completa e rende vero (vivo e sopravvivente) l’uomo che senza di essa non lo sarebbe, e quello della scrittura, tecnologia prima e prima chirurgia, prototecnica di trapianto di idee ed emozioni. Il rapporto tra la temporalità del protetico, del tecnico, del trapiantato, e il soggetto è una temporalità differita, eppure al contempo originaria: è il difetto originario stesso, il difetto d’origine, il differimento in sé (dove l’“in sé” è lo stesso “in sé” della “cosa in sé” kantiana).
9Le definizioni qui riportate, di evidente ascendenza derridiana, ci introducono al dialogo che intendiamo aprire, tra due grandi filosofi francesi dell’epoca postderridiana: Jean-Luc Nancy, ovviamente, e Bernard Stiegler, che del vocabolario derridiano ha fatto sue proprio quelle espressioni che abbiamo appena riportato, e in particolare quella di “difetto d’origine”.
10Al défaut qu’il faut, come lo chiama Stiegler, dedichiamo le riflessioni che seguono.
Le defaut qu’il faut: il circolo tecnico originario
11Bernard Stiegler, che fu allievo di Jacques Derrida, è il filosofo francese che da più anni, nel campo della fenomenologia, dell’antropologia e degli studi sui media, sta elaborando una potente riflessione sul tema della tecnica, sui suoi rapporti con la soggettività umana (singolare e sociale) e sulla sua importanza nell’evoluzione dell’essere umano.
12La tesi di Stiegler, argomentata nella monumentale trilogia (che l’autore promette di estendere ulteriormente, avendo annunciato già la preparazione dei prossimi due volumi) dal titolo La tecnique et le temps2, e in almeno altri dieci volumi minori, dedicati alla divulgazione delle tesi argomentate in forma più complessa in questa, è che la tecnica sia il proprium dell’umano: ciò che lo caratterizza a livello ontologico e cronologico. Stiegler sostiene, usando come referente scientifico principale il paleo-antropologo André Leroi-Gourhan, che l’essere umano si evolva in virtù di un’evoluzione tecnologica, che affianca e modifica quella biologica, rendendolo un essere del tutto unico nel regno naturale, perché sospeso al di sopra delle determinazioni mondo-ambientali proprie dell’animale: «Il problema posto qui è quello dell’evoluzione non solamente biologica di questo essere essenzialmente tecnico che è l’uomo, sebbene la dimensione zoologica sia una parte essenziale del fenomeno tecnico stesso e per così dire suo enigma, È l’evolzuione della ‘protesi’, che non è essa stessa viviente, ma attraverso la quale ciò nonostante l’uomo si definisce in quanto essere vivente, che costituisce la realtà dell’evoluzione dell’uomo, come se, con essa, la storia della vita dovesse proseguire con altri mezzi rispetto alla vita: è il paradosso di un vivente caraterizzato nelle sue forme di vita dal non-vivente»3.
13Questa tesi non rappresenta una novità nell’orizzonte dell’antropologia filosofica. Nella parabola novecentesca che questa disciplina assunse, incarnata da tre pensatori paradigmatici quali Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen, essa ha ricevuto una potente tematizzazione filosofica, soprattutto per opera dell’ultimo dei tre4. Ma per la prima volta essa, dopo l’interdetto lanciato da Heidegger sull’intera disciplina (che in una certa misura ne segnò per lungo tempo le sorti), trova in Stiegler una compiuta formulazione filosofica in un orizzonte interno alla fenomenologia suffragato da studi scientifici sulle moderne scoperte paleoantropologiche.
14L’espressione stiegleriana a priori protetico acquisito compendia in sé tutta la concezione dell’autore sul fenomeno-tecnica: la tecnica, che per l’essere umano si dà sempre in quanto protesi (supplemento, complemento, aggiunta) è un acquisito, consiste in un’acquisizione culturale, dataci tramite le mediazioni storico-concrete che gli uomini hanno messo in atto nel corso del loro cammino evolutivo. Essa però al contempo è anche, sempre, un a priori: ci è data; nasciamo immersi in essa ed essa muta la nostra percezione di noi stessi e quella che abbiamo della realtà che ci circonda.
15Stiegler applica le sue riflessioni addirittura al corpus (eminentemente anti-antropologico) heideggeriano: «Il Dasein è temporale: egli ha un passato a partire da cui, anticipante, egli è. Ereditato, questo passato è ‘storico’: il mio passato non è il mio passato, è innanzitutto quello dei miei antenati»5. È in questo passato, che è un passato tecnico, che si fonda l’essenza stessa della tecnica: quella che consiste nella sua coincidenza con il tempo, con il suo essere il fondamento (s)fondato della temporalità umana.
16La tecnica è il tempo, secondo Stiegler, perché la storia dell’uomo e quella del Dasein cominciano esattamente con la scritturalità: prima non vi è storia, né uomo, né Dasein, ma solo il rumore di fondo del βίος (bíos), eternamente fluente e privo di memoria, se non biologica. La tecnica e il tempo sono dunque uniti in una struttura di circolarità infinitamente rimandante a se stessa, a un punto cieco, a una falla, a un difetto necessario: le défaut qu’il faut a cui abbiamo fatto cenno.
17Questo difetto originario si ancora su un supporto, è necessitato a farlo, per sfuggire dal pericolo del regresso infinito (che qui coincide con la caduta nell’oblio del non scritto come coincidente al mai-stato): la traccia mnestica, che diventa in Stiegler traccia mnemotecnica, perché necessariamente incisa su un supporto, esteriorizzata in un processo che egli definisce terziarizzazione della memoria (o epifilogenesi). Con questa definizione viene designata la facoltà unicamente umana di esteriorizzare in un impianto tecnico-culturale la propria memoria, creando così un terzo polo di aggregazione delle ritenzioni mnemoniche, oltre la memoria biologica e quella individuale. Eppure, se non riducibile alla memoria individuale e della specie, la memoria “terziaria” è a queste comunque co-essenziale e co-originaria.
18La filosofia della tecnica di Stiegler, a nostro parere, esplica in un campo più vasto, quello delle scienze antropologiche e paleo-antropologiche, ma anche nel costante confronto con alcuni luoghi classici della storia della filosofia (Kant, Husserl, Heidegger) la tesi che Nancy, a livello decostruttivo, esistenziale, ex-positivo (ricordando che la grafia nancyana del termine include la “pelle”, in francese peau, scrivendosi ex-peau-sition) riporta nel suo testo più personale, più intimo: quello dedicato al suo cuore mancante e al cuore non suo che giace nella più profonda intimità del suo corpo.
Il cuore in gabbia: vivere e scrivere il supplemento d’origine
19Vogliamo concludere queste riflessioni sul problema della tecnica e della temporalità in Nancy e Stiegler tornando alla tematica con cui abbiamo aperto il nostro lavoro: quella dello “stile” proprio della scritturalità del corpo nancyana. Come abbiamo cercato di mostrare c’è una convergenza singolare sul tema della proteticità costitutiva dell’essere, e sul necessario ritardo d’origine che essa comporta, tra Nancy e Stiegler. Eppure i due pensatori, così vicini, appaiono totalmente distanti dal punto di vista estesiologico delle modalità scritturali adottate.
20Potremmo dire che entrambi, a loro modo, hanno fatto propria una certa eredità fenomenologica, mediata dall’apporto derridiano, vero e proprio spettro, o meglio, revenant, delle produzioni dei due autori. Se Stiegler incarna, con la sua sistematicità, con il procedere fenomenologico delle proprie argomentazioni, la tendenza più rigorosa, husserliana, dell’eredità fenomenologica in Francia (tenuto conto, ovviamente, della specifica peculiarità delle tematiche di cui Stiegler si occupa, che non appartengono a quello che classicamente viene definito “orizzonte fenomenologico”), Nancy, con la sua scrittura personale, esperienziale, frammentaria, incarna quel côté fenomenologico, il cui padre fondatore può forse essere rinvenuto nel secondo Martin Heidegger (e che Derrida ha sviluppato nella seconda parte della sua vita6), che è divenuto poi la decostruzione, dei testi e dei modi di argomentare della tradizione metafisica.
21Scrivendo, Nancy scrive sempre del corpo, del suo corpo, e fa dei suoi lavori l’immenso corpus di un’autobiografia, che rinuncia spesso all’argomentazione filosofica in favore dell’ex-posizione, dell’esser-posto a partire dalla propria pelle nell’esteriorità spaesante, e dell’esser stupito di questo. Questo stupore ci riporta al sentimento originario evocato da Aristotele come fondamento della filosofia. La filosofia di Nancy, riteniamo incarni proprio quel genuino atteggiamento, vissuto ed esistenziale, esposto alle cose, e ai testi, piuttosto che quello di chi segua le regole (interne ai testi) della disputatio.
22Lo stile di Nancy, dunque, ci appare essere, più di ogni altra costante caratterizzante del suo iter filosofico, un trascendentale sfondato, scavato, al cui centro batte un cuore non proprio: un intruso che lo rende possibile. È la scrittura quest’intruso, questa traccia che resta, come sempre ha insegnato Derrida, sottraendosi, lasciando un vuoto. Quel vuoto, che può articolarsi solo come un vuoto-pieno, un vuoto riempito, che Nancy porta al centro del proprio petto ricucito con il fil di ferro, è la mancanza d’origine, le défaut qu’il faut che fa sì che dell’uomo una scrittura sia possibile, che sia possibile una scrittura dell’uomo.
Notes de bas de page
1 Come sostenuto magistralmente da Jaques Derrida in Le toucher, Jean-Luc Nancy, cit.
2 B. Stiegler, La tecnique et le temps, voll. 1-3, Paris, Galilée, 1994, 1996, 2001.
3 B. Stiegler, La technique et le temps I. La faute d’Épimetée, Paris, Galilée, 1994, p. 64 (trad. mia).
4 Cfr. soprattutto A. Gehlen, L’uomo, trad. it. C. Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1983.
5 B. Stiegler, La technique et le temps, cit., vol. I., p. 19 (trad. mia).
6 Cfr. per esempio J. Derrida e G. Bennington, Derridabase/Circonfessione, a cura di E. Ferrario, Roma, Lithos, 2008.
Auteur
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