Cogito diventa Imago: lo statuto plurale dell'arte da Nietzsche a Nancy
p. 103-108
Texte intégral
1Appare di stringente cogenza che l’odierna riflessione filosofica prenda le mosse a partire da un assunto di fondo, che suona, allo stesso tempo, come un’impellente chiamata alle armi: l’ontologia non è stata ancora pensata, o, per meglio dire, è stata pensata a partire da un concetto di Essere come totalità monolitica e monologica, sideralmente distante dal mondo degli essenti, non più in grado di rendicontare le infinite possibilità insite nel reale. L’Essere, di contro, lungi dal rappresentare l’assolutamente altro rispetto all’ente, si dà esclusivamente in quanto circolazione di senso, e il senso comincia solo laddove la presenza è parcellizzazione, contaminazione, intensità assoluta. Da Friedrich Nietzsche a Jean-Luc Nancy, i cui movimenti di pensiero saranno i protagonisti del nostro discorso, si compie una parabola che riconsegna l’Essere al suo luogo naturale d’origine, il mondo dei fenomeni, l’universo intrinsecamente plurale dei sensi.
2E l’arte? Cosa ha che fare l’arte con il discorso ontologico?
3Sarà necessario, preliminarmente, prendere le distanze da una concezione limitante dell’estetica, troppo romantica, per cui il Bello risulterebbe come un carattere formale della cosa stessa. L’arte non rappresenta quell’astratto concetto unitario sotto il quale sussumere le più svariate esperienze artistiche, concepite alla stregua di mere espressioni esteriori o prodotti tecnici realizzati secondo regole pseudo-estetiche paradigmatiche. Diversamente (ed è il punto di vista sia di Nietzsche sia di Nancy), l’arte è originariamente spartizione del senso, esposizione carnale di un istante, di un tocco (sia esso pittorico, scultoreo, fotografico) che non possiamo far altro che ripetere, riaffermare, se intendiamo cogliere il passaggio da una presenza all’altra, da un’esistenza locale all’altra.
4Lo statuto ontologicamente plurale dell’arte ha un’origine strettamente fisiologica, corporea, che si costruisce plasticamente secondo un movimento circolare che trasferisce, trasporta il senso dall’alveo politeistico degli stimoli nervosi al dominio della parola. Tradurre in termini linguistici un impulso nervoso, un tocco aurorale che ha dato vita al processo artistico equivale a una re-petitio, a un’affermazione-richiesta che non provoca, ma esibisce il valore assoluto che il mondo è già di per sé. Noi facciamo senso, sostiene Nancy, non in quanto creatori, ma come ascoltatori che plasmano ed espongono l’originaria spartizione del senso. Tuttavia, lo stadio della resa linguistica rappresenta solo l’ultimo anello di una lunga catena di trasposizioni viventi che si replicano indefinitamente nel corso del tempo e si proiettano moltiplicate nello spazio. In un certo senso, l’azione della parola immiserisce quell’inaugurale ricchezza e plurivocità insite nell’impulso nervoso, così come, però, il cieco abbandono al crogiuolo degli istinti relega il movimento artistico nell’astruso campo dell’intuizionismo. Allora, ripetere la circolazione di senso che il mondo già da sempre incarna, come dice Nancy, significa seguire le orme di quell’übertragen che Nietzsche, in Su verità e menzogna in senso extramorale, definisce proprio come trasferimento, circolazione metaforica del senso, o, meglio, dei sensi. Ci pasciamo nell’illusione, sostiene Nietzsche, di conoscere l’essenza delle cose, ma, in realtà, non possiamo far altro che mimare quel μετα-ϕερεῖν (meta-phereîn), quel portare con sé che differisce il senso dal mondo degli affetti al “colombario romano” iperfunzionale dei concetti, passando (e il discorso sull’arte si gioca tutto qui) per l’immagine. Risulta così vano ogni disperato tentativo di cogliere un’essenza dell’arte, la cui verità risiede, invece, tutta nel mondo fenomenico e si risolve integralmente in un “mobile esercito di metafore”.
5Metafora, übertragen, per Nietzsche, circolazione, spartizione originaria, per Nancy: il ruolo dell’arte si gioca tutto sulla soglia, in quell’essere-tra le materie differenziate e la materialità come differenza, in quell’essere-tra l’affettività e la costituzione, organizzazione, presentazione dell’affettività stessa. Quello dell’arte è una sorta di circolo estetico, analogicamente imparentato con quello ermeneutico: è necessario partire dai sensi, ma, ai sensi, bisogna anche ritornare (così come accade per il testo nell’ermeneutica), una volta compiuto un certo processo interpretativo (mai, tuttavia, totalmente gestito dal soggetto, ma sempre influenzato da condizioni materiali, storiche e così via), riaffermando, secondo una prospettiva temporale che richiama da vicino quella nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale, la principiale eterogeneità dei sensi e l’endogena polisemia del gesto artistico.
6In definitiva, la verità dell’arte non si guadagna per mezzo di una visione integrata di sensi e loro relativa sistematizzazione, ma es-ponendo, mostrando un’unità sinestetica alternativa a quella ordinaria (definibile come sensus communis), che risulta ingenerata, in quanto consustanziale ai sensi stessi. In altri termini, l’arte interviene sul mondo degli affetti come un fenomeno emergente, già da sempre intimamente correlato con la materialità propria dei sensi e già da sempre immerso nel medesimo ambiente naturale, il mondo.
7Tale originaria comunione, al tempo stesso, sensibile e intelligibile, tra attività artistica e mondo della vita scatena la nascita di una Umwelt, un ambiente, una sorta di universo soggettivo, perennemente in formazione, che ricrea sempre di nuovo i propri legami di significazione sulla base delle interazioni con il mondo.
8Potremmo azzardare che la Umwelt artistica fondi biologicamente e semioticamente il mondo, o, meglio, lo esponga, lo manifesti nel suo più genuino carattere di mondanità. «L’arte forza il momento del mondo come tale, l’essere-mondo del mondo, non come un ambiente in cui si muove un soggetto, ma come esteriorità ed esposizione di un essere-al-mondo […] L’arte obbliga un senso a toccarsi da sé, a essere il senso che è. Ma in tal modo, non diventa semplicemente ciò che chiamiamo un senso, per esempio la vista o l’udito: abbandonando l’integrazione del vissuto, diventa altro, un’altra istanza d’unità, che mostra un altro mondo, non visivo o sonoro ma, appunto, pittorico o musicale» (M 37-42; it. 38-41).
9Sulla scorta di questo passaggio possiamo arguire come l’arte si manifesti nel passaggio dall’uditivo al musicale, dal visivo al pittorico… Finora abbiamo negato la possibilità dell’esistenza di un’essenza o concetto generale dell’arte, ma non abbiamo indicato una via alternativa per nominare il fenomeno artistico.
10Ecco, per l’appunto, il fenomeno artistico. Non parleremo più di arte, ma di singole produzioni artistiche. L’arte è immediatamente la Nona sinfonia di Beethoven o la Danza dei sette veli nella Salomè di Carmelo Bene. Nell’incipit della Nona, intitolato Allegro ma non troppo, un poco maestoso, si avverte un senso di vuoto e di indistinto, quasi che la musica si originasse dal caos: elementi facenti parte del territorio sonoro si trasformano, grazie a quel processo metaforico che l’arte stessa incarna, in valori, altezze, rapporti armonici, in una Umwelt musicale che abbandona i rapporti di significazione presenti nell’unità sinestetica ordinaria, non per crearne di nuovi, ma per sospenderli.
11Tuttavia, Nancy dice ancora di più: l’arte forza il momento del mondo come tale, obbliga un senso a toccarsi da sé. Dietro queste espressioni non si cela forse una violenza del tocco artistico?
12A tal proposito, sentiamo Nietzsche, adesso, nel Crepuscolo degli idoli: «l’essenziale nell’ebbrezza è il senso dell’aumento di forza e di pienezza. Di questo sentimento si fanno partecipi le cose, le si costringono a prendere da noi, le si violentano, – questo processo si chiama idealizzare. Liberiamoci qui di un pregiudizio: l’idealizzare non consiste, come si crede comunemente, in una sottrazione o eliminazione di ciò che è piccolo, accessorio. Il punto decisivo sta piuttosto nel tirar fuori grandiosamente i tratti principali, così da far scomparire in tal modo gli altri»1.
13La violenza del processo d’idealizzazione non rinvia forse all’arte che forza, obbliga? Il tirar fuori i tratti principali non rimanda forse alla creazione di un’unità sinestetica alternativa? Il ritrarsi dei tratti non principali non fa eco all’abbandono dei consueti rapporti di significazione?
14Nietzsche e Nancy condividono lo stesso obiettivo: mostrare come l’arte si manifesti plasticamente in perfetta continuità con il mondo della vita, dei sensi, non rinunciando, però, a crearsi una sorta di “nicchia ecologica” dalla quale fare ἐποχή (epoché) dei significati tradizionali e sollecitare il mondo a venire alla presenza.
15Al fine di comprendere con maggior chiarezza i termini del nostro discorso riflettiamo, adesso, sul termine tedesco che Nietzsche utilizza per indicare il “tirar fuori” i tratti capitali, ovvero Heraustreiben (composto dall’avverbio heraus che significa fuori e dal verbo treiben che sta per condurre, germogliare, sollecitare). Allora, cosa proietta-fuori il soggetto ebbro nietzschiano? Lavorando ancora sul termine tedesco, notiamo che il sostantivo Trieb (pulsione, istinto) deriva proprio dal verbo treiben. Così, è come se, nel proiettare-fuori fossero già ricompresi gli istinti fondamentali (plurivocità dei sensi in Nancy) o, ancora meglio, come se nella proiezione, i tratti capitali fossero proprio gli istinti fondamentali dell’ebbrezza soggettiva, ovvero l’apollineo e il dionisiaco.
16Una nuova unità sinestetica è venuta alla luce, frutto non di un geniale capriccio o di un lavoro tecnico tout court estrinseco, bensì di una comunione intima tra gesto artistico e mondo delle pulsioni. L’estetica dà voce all’ontologia. L’essere non è un Moloch singolare che, poi, successivamente, si trasforma in una realtà plurale: è direttamente, ci dice Nancy, singolare-plurale, ovvero immediatamente legato al fisiologico, al corporeo.
17Rimaniamo, ancora per un attimo, su Nancy. L’essere-mondo del mondo è un ambiente, sì, ma non un ambiente cucito addosso a un soggetto. Tanto nell’estetica di Nancy quanto in quella di Nietzsche, possiamo rinvenire gli estremi di una critica radicale, non della soggettività in generale, ma di un certo tipo particolare di soggettività tradizionale. Ecco perché dall’asfittico cogito cartesiano passiamo al mondo dell’imago, dell’immagine che è presenza reale.
18Per Nancy la presenza non è il risultato di un’azione tautologica, ma indica un uscire-fuori della cosa dalla sua semplice-presenza, grazie al lavoro dell’immagine, che è imitazione solo nel senso specifico dell’emulazione. Il termine latino aemulus, infatti, rinvia, non solo alla volontà di eguagliare, ma anche alla rivalità. In questo senso, la cosa e l’immagine non s’identificano, ma si contendono la presenza (sempre, e non talvolta), competono per essa. La presenza, così come la intende Nancy, è praes-entia, un essere-davanti-a-sé della cosa (grazie alla violenza, alla forza tensiva dell’immagine).
19L’opera d’arte, allora, è presenza reale proprio in quanto proietta-fuori l’oggetto della rappresentazione per porlo come dinanzi a uno specchio, simbolo, insieme, di autenticità e doppiezza. Così, nei lavori di Kandinskij, per esempio, punto, linea e superficie si specchiano, sospendendo i consueti rapporti geometrici di significazione e dando luogo a una nuova unità sinestetica. Il soggetto, su questa scia, può solo fungere da cassa di risonanza del processo artistico, guidarlo, ma non inventarlo ex nihilo. L’esigenza polimorfa che ci impone di danzare, cantare, suonare o rappresentare con i colori è antecedente a qualsiasi forma di soggettività forte pensabile, è una sorta di “infanzia”, che designa non un’età precisa, ma un’eternità diffranta in ogni istante, situazione, cultura.
20In termini nietzschiani, possiamo affermare che è necessario partire dal fenomeno (e sottolineiamo fenomeno, non cogito) dell’artista (che viene definito il più trasparente) per guardare agli istinti fondamentali della potenza, della natura (l’esigenza polimorfa di Nancy). Sempre nello stesso frammento cui stiamo facendo riferimento, Nietzsche aggiunge che il gioco, ciò che è inutile, l’infantile è l’ideale del sovraccarico di energie. Eternamente ruota la ruota dell’essere, potremmo dire, e la sua infanzia ritorna in ogni istante, situazione, cultura, a rammentarci che l’arte sprona il mondo alla presenza, a testimoniare che il mondo stesso altro non è che un’opera d’arte autogeneratasi.
21L’estetica di Nietzsche e Nancy, come già detto, dà voce all’ontologia, la ripensa in termini nuovi, ma, di certo, non per ri-fondarla. Il pensiero che pensa l’arte è un pensiero del fuori, ma, anche, e, soprattutto, un pensiero letteralmente impensabile. Se l’origine, come ormai ampiamente chiarito, è polimorfa, l’accesso a essa verrà sottratto al pensiero di continuo, secondo una sorta di logica autoimmunitaria, per parafrasare Derrida, per cui ciò che è disposto dinanzi a noi, nel momento stesso in cui aumenta le sue forze per mettere in scena la rappresentazione, prepara, insieme, la sua distruzione, prevede il proprio ritrarsi.
22Il gioco dell’arte va giocato su una soglia che è, insieme, una scena, dove la relazione tradizionale soggetto-oggetto vacilla. Ancora Derrida ci può aiutare: «La chiamerei una scena, la scena del soggettile, se non ci fosse già qui una forza per trafugare ciò che sempre mette in scena: la visibilità, l’elemento della rappresentazione, la presenza di un soggetto, addirittura di un oggetto. Soggettile, la parola o la cosa, esso può prendere il posto del soggetto o dell’oggetto, non è né l’uno né l’altro»2.
23Il soggettile è processo, insieme caotico di traiettorie, intersezioni, prospettive, è quell’al di là del soggetto mediante il quale pensare la co-appartenenza di mondo della vita e attività artistica, nonché l’esigenza polimorfa che eternamente si ripresenta. E Nancy, in un passo che rasenta il poetico, lo dice in modo esemplare: «lo sguardo si impregna di colore, l’orecchio si impregna di sonorità. Nella mente non c’è niente che non sia nei sensi: nell’idea non c’è niente che non sia nell’immagine. Io divento il blu del ritratto di Olga, io divento la dissonanza di un accordo, un passo di danza. Io: non è più questione di io. Cogito diventa imago»3.
Notes de bas de page
1 F. Nietzsche, Götzen Dämmerung, Nietzsches Werke, Berlin, De Gruyter, 1969, § 8, p. 110, trad. it. G. Colli e M. Montinari, Crepuscolo degli idoli, in Opere, Milano, Adelphi, 1970, § 8, pp. 112-13.
2 J. Derrida, Antonin Artaud. Forsennare il soggettile, trad. it. A. Cariolato, Milano, Abscondita, 2005, p. 11.
3 J. L. Nancy, Au fond des images, Paris, Galilée, 2003, pp. 26-27, trad. it. A. Moscati, Tre saggi sull’immagine, Napoli, Cronopio, 2007, p. 44.
Auteur
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