La decostruzione ellittica del Cristianesimo di Jean-Luc Nancy
p. 75-80
Texte intégral
1Nancy definisce la decostruzione del cristianesimo come «un movimento che sarebbe allo stesso tempo di analisi del cristianesimo – a partire da una posizione che si suppone in grado di oltrepassarlo – e di trasposizione, accompagnata da una trasformazione del cristianesimo stesso, che si oltrepassa, si disloca, e dà accesso a risorse che occulta e insieme custodisce» (NT 7; it. 11).
2In questa sede non intendo discutere la legittimità o la possibilità di un oltrepassamento del cristianesimo supposto come soggetto unitario (nella sua pluralità di forme), ma intendo soffermarmi sul suo presupposto. Condizione fondamentale della buona riuscita della decostruzione del cristianesimo è la sua analisi ovvero la capacità di cogliere le innervature e le strutture fondamentali del cristianesimo per poi trasporle e riassemblarle inventando l’altro. Nel presente scritto intendo esporre alcuni rilievi critici riguardante il piano dell’analisi. Premetto che non mi è possibile in questo breve saggio rendere giustizia al complesso procedimento decostruttivo di Nancy nella sua interezza. Mi limito a tratteggiare e a interrogare criticamente due aspetti essenziali della decostruzione del cristianesimo intrapresa da Nancy: l’adorazione e il monoteismo.
L’Adorazione
3L’adorazione non consiste in un dire. L’adorazione non dice niente: essa si rivolge al niente del dono del mondo che si rinnova sempre, che è creazione continua – evento nuovo e fortuito. Rinnovazione radicale. In quest’esperienza dell’adorazione gioca un ruolo essenziale il paragrafo 39 dell’Anticristo di Nietzsche secondo cui il cristianesimo non è una fede – l’assunzione irrilevante che qualcosa sia accaduto –, ma una pratica, un fare e soprattutto un non-fare, una forma di esistenza non reattiva che è capace di accogliere tutto. Il paradiso accade in questa pratica beata che non conosce nessuna negazione. Detta pratica non prega, non conosce risurrezione e non sa niente di un mondo che è altro da questo mondo nel senso dell’al di là del mondo. Questa pratica conosce l’altro del mondo soltanto nella sua forma trans-immanente ovvero intesa nel senso dell’eccesso di sé del mondo. Ma a chi ci si rivolge in questo approccio adorante? «Ad-orare significa letteralmente: rivolgere le proprie parole. Ma, essenzialmente, rivolgersi all’altro della parola: alla res» (D 175; it. 191) L’adorazione si rivolge al dono del mondo e al suo esistere – stupirsi dell’essere dell’esserci in quella scheggia di tempo che è respiro beato. L’adorazione si rivolge al mondo come improbabile rottura, separazione del giorno e della notte, delle terre e delle acque. L’adorazione si rivolge a quel differenziarsi delle differenze e delle contiguità che non sono niente di concreto, ma che tacitamente/invisibilmente aprono all’esperienza, configurandola e alterandola: l’adorazione consiste nel mantenersi sul niente – né ragione né origine – dell’apertura.
4Mi permetto qui di fare due osservazioni sul tema di adorazione.
1. L’adorazione viene descritta nella prima persona plurale. Nancy dice noi. Quanto è legittimo questo noi? Quanto è spartibile quest’esperienza dell’adorazione? Quanto la singolarità adorante dello scrivente è iterabile? È legittimo assumere l’iterabilità di questa apertura al niente del mondo?
2. Non sarebbe azzardato vedere nell’adorazione una divinizzazione del mondo aperto al suo proprio fuori, all’avvento di un suo nuovo evento, al continuo trascendersi senza trascendenza. Per quanto Nancy rifiuti esplicitamente quest’interpretazione nel saggio D’un Wink divin (in D 159-178; it. 149-171), si prova spesso la netta impressione che nell’adorazione avvenga un’ambigua divinizzazione-teologizzazione della diffèrance. Quest’impressione si rafforza nel secondo volume della Déconstruction du christianisme, in modo particolare nel saggio Il n’ya a pas du sens: cela est adorable (A 19-34). Nel leggere le avvincenti pagine di Nancy si è talvolta presi dalla sensazione che l’adorazione non sia solo ellittica, esposta a un vuoto che si infinitizza, ma anche troppo poco difficile. In un testo di Lèvinas dal significativo titolo Aimer la Torah plus que Dieu compare l’espressione «adorazione difficile»1: la fede non si basa sul sentimento religioso, ma su un’assenza di rassegnazione in una condizione di credito verso Dio. Si manifesta così una fede matura dovuta (ovvero grazie) alle ingiustizie subite, all’assenza di giustizia che aspetta giustizia.
Il monoteismo
5Secondo Nancy la differenza tra politeismo e monoteismo non è una differenza di tipo quantitativo. Essa non riguarda in primo luogo il numero degli dei. La differenza tocca il modo stesso in cui il divino appare. Nel politeismo vi è una presenza effettiva degli dei. Gli dei sono potenze reali che ci minacciano e aiutano. Nel monoteismo «l’unicità di Dio significa invece il ritrarsi di questo Dio dalla presenza e quindi anche fuori della potenza così intesa» (D 57; it. 51). «Con la figura di Cristo è la rinuncia stessa alla potenza divina e alla sua presenza a diventare l’atto proprio di Dio e a fare di quest’atto il suo divenire-uomo. […] È il Dio la cui divinità è costituita proprio dall’assenza o il Dio la cui verità è proprio il vuoto-divinità» (D 57; it. 51). L’assenza di Dio viene declinata, riempita e misconosciuta nella forma di un ente supremo onnipotente nel senso del discorso onto-teologico.
6Il discorso di Nancy è fondamentalmente un discorso ellittico. L’ellissi significa letteralmente una soppressione di parole per dar concisione forza e vaghezza alla frase. Questa soppressione è un lasciare vuoto. Le posizioni di Nancy sulla fede monoteistica-cristiana hanno un che di profondamente ellittico nel senso che sono solo un gesto, un Wink, un cenno compresso, abitato da motivi eterogenei. Ma nel complesso mi sembra omettere e travisare momenti essenziali del cristianesimo, omissione che potrebbe impedire la riuscita di una decostruzione radicale.
7In modo inevitabilmente sommario posso elencare qui tre approcci di Nancy al cristianesimo che mi sembrano essere letteralmente frag-würdig:
1. In primo luogo appare problematica la tesi di un’assoluta coincidenza del cristianesimo con la metafisica e l’onto-teologia. Nella lettura di Nancy vi è una declinazione unilaterale del cristianesimo in senso onto-teologico. Nella Ontologia della libertà, Pareyson ha evidenziato con grande chiarezza l’incommensurabilità della esperienza religiosa (in primo luogo cristiana) con il problema metafisico riproponendo la distinzione pascaliana del Dio dei filosofi e del Dio della religione. Pareyson utilizza in questo contesto un’espressione che è tanto quotidiana quanto straordinaria: il Dio della religione è un Dio a cui si dà del tu2 ovvero è un Dio che si prega. Nella preghiera di Gesù si manifesta un’inusitata, quasi scandalosa confidenza verso Dio: si dà del tu a Dio in un modo nuovo, su cui ritorneremo.
2. Quando Nancy afferma che il monoteismo presuppone l’assenza di Dio, assenza che è la stessa condizione della possibilità della disseminazione dei fenomeni di desacralizzazione e del disincanto, dice qualcosa di vero, ma anche di tremendamente parziale. Tremendamente parziale perché quello che manca è proprio l’esperienza del tremore. Patocˇka3 e Derrida4 hanno giustamente evidenziato la centralità del tremore nel cristianesimo. Nell’evento del cristianesimo Dio si dà come mysterium tremendum. La persona trema quando si vede esposta nella sua unicità allo sguardo di Dio. In quest’esperienza vi è un’insuperabile sproporzione: esser esposto allo sguardo dell’Altro, senza poter vedere l’Altro5. Non si dà mai in senso stretto la presenza dell’Altro, ma solo il nostro essere alla Sua Presenza. A mio avviso, tuttavia, il momento del tremore non è in questi termini esclusivamente cristiano, ma costituisce un aspetto costitutivo e fondativo del monoteismo. Il tremore di fronte all’altro che vede senza essere visibile è il segreto del monoteismo. Il monoteismo non è solo ritrarsi del sacro, farsi assente di Dio, ma è anche esperienza positiva dell’essere di fronte all’Altro senza avere l’Altro di fronte. Esperienza positiva che apre in modo nuovo la possibilità – evidenziata da Levinas – di incontrare l’altro straniero come mio simile.
3. Il cristianesimo articola l’esperienza del tremore in modo specifico. Nell’essere di fronte all’Altro senza avere l’Altro di fronte, il cristiano dice ‘abba, Padre mio. In sede di esegesi biblica Jeremias ha mostrato come l’appello-invocazione ‘abba sia vox ipsissima di Gesù. Il significato straordinario dell’espressione ‘abba risiede nella sua centralità in riferimento al messaggio di Gesù. L’espressione ‘abba viene adoperata dai bimbi piccoli per chiamare il proprio padre: «‘abba era parola di linguaggio infantile di uso quotidiano. Per la sensibilità del giudaismo palestinese sarebbe stato impensabile rivolgersi a Dio con un tono così famigliare. Gesù ha osato rivolgersi a Dio come ‘abba. ‘Abba è vox ipsissima di Gesù»6. Ci si rapporta essenzialmente a Dio con la stessa dolcezza e fiducia con cui un in-fante si relaziona al padre7. L’espressione ‘abba non deve essere qui intesa primariamente come una tesi ontologico-metafisica riguardante il rapporto di oJmoivwsi" (homoíosis) tra il Padre e gli esseri umani8, ma come un insegnamento riguardo a “come” ci si deve rivolgere a Dio. La parola ‘abba riguarda il modo in cui deve avvenire il ri-volgersi a Dio. L’esperienza cristiana di Dio non è solo o per lo più quella metafisica di un ente onnipotente di cui si parla. Ma è un Dio a cui si dà del tu e che si prega nella fede. Nella Malattia mortale, Kierkegaard definisce Dio come il “che tutto è possibile” nella preghiera. «Perché si possa pregare bisogna che ci sia un Dio, un io e – la possibilità, ovvero un io e la possibilità nel senso pregnante, perché Dio è che tutto è possibile e che tutto è possibile, è Dio»9. Quest’interpretazione di Dio trova conferma nei Vangeli Sinottici. Nella trepidazione di sentirsi alla presenza di Dio si crede che tutto sia possibile e che l’impossibile possa accadere. La possibilità dell’impossibilità è affermata esplicitamente in rapporto al credente. Nel Vangelo di Matteo è scritto in questo senso: «Se avrete fede pari a un granellino di senape, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile» (Mt. 17, 20). Nella trepidazione dell’essere alla Sua presenza nasce quel fermento che permette la fede nell’impossibile che lo fa accadere10.
8Mi preme evitare un possibile equivoco. Le presenti osservazioni critiche riguardo alla pratica decostruttiva di Nancy non devono essere prese in senso apologetico. La decostruzione è una pratica che riesce appieno, se coglie le tensioni interne al suo tema nella loro specificità – (sebbene si debba essere sempre coscienti dell’inevitabile singolarità-pluralità della stessa specificità). La decostruzione riesce appieno se interroga, rivela, rimodella e differisce gli assi impensati sottesi al “testo-tema” studiato. Il testo, il tema, la res da decostruire possono essere il concetto di evidenza in Husserl, il concetto di diritto umano, o, come in questo caso, il cristianesimo. Se si considera il passo di Nancy sulla decostruzione citato all’inizio di questo saggio, possiamo dire che il successo della trasposizione e del dislocamento decostruttivo dipende in gran parte dall’analisi, che, per riuscire, deve contenere una rigorosa genealogia del “fenomeno” in questione. La decostruzione dev’essere infinitamente fedele al tema e alla res esaminata per essere capace di far emergere quanto nel tema stesso è dissimulato e impensato. Nello scritto Fede e sapere, Derrida avrebbe voluto assumersi il compito di inventare una macchina discorsiva unitaria capace di rendere giustizia a tre istanze differenti: etimologiche, genealogiche e pragmatiche11. Mentre la ricerca sugli effetti pragmatici è rivolta alla scoperta delle nuove regolarità e delle ricorrenze inedite nell’attualità singolare di una determinata pratica discorsiva (per esempio “come appare e dove appare oggi la religione?”), una ricerca genealogica intende rintracciare le stratificazioni di senso e le alterazioni del tema in questione nelle sue traversie storiche. Il successo della ricerca pragmatica è legato alla capacità di confrontarsi con i sensi sedimentati che inevitabilmente si alterano e si modificano (e ci modificano) nel corso della tradizione. In altre parole, anche nel caso in cui si volesse partire dall’assunto secondo cui oggi – ovvero nel contesto di una ricerca rivolta agli effetti pragmatici – il cristianesimo sia solo una reliquia, si deve rendere giustizia della specificità di questa reliquia. In questo scritto ho considerato alcuni momenti che, a mio avviso, non possono essere elisi in sede di analisi decostruttiva.
Notes de bas de page
1 E. Levinas, Difficile liberté, Paris, Albin Michel, 1973, p. 223; trad. it. S. Facioni, Difficile libertà, Milano, Jaka Book, 2005, p. 232.
2 L. Pareyson, Ontologia della libertà, Torino, Einaudi 2000, p. 85.
3 J. Patocˇka, Ketzerische Essai zur Philosophie der Geschichte, Stuttgart, Klett-Cotta, 1988.
4 J. Derrida, Donner la mort, Paris, Galilée, 1992; trad. it. L. Berta, Donare la morte, Milano Jaka Book, 2002.
5 Ivi, pp. 87-89.
6 J. Jeremias, Neutestamentliche Theologie, Gütersloh, Mohn, 1971, p. 72.
7 Si veda anche: M. Philonenko, Le notre Pére, Paris, Gallimard, 2001, pp. 35-38.
8 Su quest’aspetto rilevante della paternità di Dio si sofferma Nancy nel saggio Le judéo-chrétien (De la foi), in D 74.
9 S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabro, Milano, Sansoni, 1993, p. 640.
10 Un’analisi minuziosa del passo di Marco 23,15 può illustrare quale modalità deve prendere la fede richiesta da Gesù nella preghiera. Vorrei sottolineare che questa modalità della fede elude la prospettiva tipica della metafisica della presenza. Mi permetto di rimandare a un mio saggio: S. Micali, La preghiera come esperienza dell’impossibile, in “Archivio di Filosofia”, 2011, pp. 285-296.
11 J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della «religione» ai limiti della semplice ragione, in La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Bari, Laterza, 1996, p. 56.
Auteur
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