Il rito dell’antropogenesi: Ego Sum
p. 69-74
Texte intégral
1La grande avventura dell’uomo cartesiano è come se fosse “spaventosamente” comprensibile solo alla luce della κένωσις (kénosis) a cui Nancy sottopone il cogito, l’autocoscienza che, in quanto risuonante ego, è qualcosa di effimero, che non dura che il tempo del suo pronunciamento. Quante volte al giorno, in effetti, io sono quell’“Io vedo di vedere”? Quante volte sono corpo e pensiero di pensiero (cogito me cogitare?) Questo è il vero punto della decostruzione. È solo a fronte di questo interrogativo, infatti, che noi comprendiamo l’atto fondativo cartesiano. E cioè il suo voler coraggiosamente fermare e stabilizzare ciò che è per sua natura instabile, fittizio, vacuo. Come se, rispetto al dirompente flusso vitale, avessimo bisogno di un testimone che at-testi che noi siamo. È come dire che la drammaticità dell’atto cartesiano è comprensibile solo a fronte dell’abisso che ha disoccultato e rispetto al quale il soggetto preme per erigere un recinto attraverso un rito che, coincidendo nel proferire ego, dà la parvenza di sostanzializzare ciò che invece è effimero per eccellenza.
2Questo è quanto Nancy spinge a pensare allorché cerca il luogo dove il soggetto si inabissa, la nostra nera essenza che siamo senza saperlo, e che alla fine trova nel buio del corpo, in quella «estensione incommensurabile del pensiero [che] è l’apertura della bocca […] a forma di ego» (ES 161; it. 153). Il punto vero della decostruzione è arrivare a comprendere che «Descartes aveva intravisto che l’uomo è il Soggetto e che nell’uomo il Soggetto infinitamente si inabissa» (ES 159; it. 152). La kénosis si consuma così, da una parte, nella riduzione del soggetto a una realtà puramente linguistica o, meglio, ad un atto performativo che si compie ogni qualvolta c’è qualcuno che proferisce ego; e dall’altra, nell’individuazione − se mai un non-luogo possa essere individuato −, di questo (meta)sensibile, o metà-sensibile, in cui quell’ego, EGO!, risuona, segnalando che c’è qualcuno, unum quid, che parla.
3La prima operazione alchemica1 di Nancy è dunque la riduzione del soggetto al suo for2, al Mundus est fabula, finzione, narrazione, racconto. Esso è una costruzione che coincide col dire. Ma, siccome mundus, il cosmo, è ciò che il soggetto ha raccontato e costruito e dunque la pura proprietà di sé del sé, è chiaro allora come il “soggetto che narra il suo mondo” altri non è che “il soggetto che narra se stesso”, col risultato che il soggetto è tale nella misura in cui si dà nella sua narrazione. Una “narrazione che”, un “mundus che”, e dunque un “soggetto che”, però, est fabula, finzione.
4Così, quando Descartes dice: «Questa proposizione: ‘io sono io esisto’, è necessariamente vera ogniqualvolta la pronuncio o la concepisco nel mio spirito» (ES 121; it. 121), è chiaro, a questo punto, come sia quel hoc pronuntiatum (il fatto che parlo) ad acquistare un valore assoluto, cioè sia l’enunciazione in quanto tale, e non il suo contenuto (ciò-che-si-dice), a essere vero (cfr. ES 121; it. 121). Ma dire questo significa, all’estremità dell’atto decostruttivo, far coincidere il soggetto con un atto performativo: ego sum. Anzi, dice Nancy, il soggetto qui diventa il «performativo della performazione» (ES 123; it. 123), per cui se il performativo è quell’atto di parola che pone in essere qualcosa (si pensi a “la seduta è aperta”), l’ego è quell’atto di parola che rende possibile ogni altro atto di parola.
5Prima di significare qualcosa, infatti, ogni emissione di voce segnala qualcuno (cfr. PP 25; it. 25) che parla e a partire da cui si dà tutto il resto. Che cosa succede, infatti, quando si pronuncia ego sum? Proferire “io sono” non è come proferir “la seduta è aperta”, dice Nancy. Nel pronunciare la seduta è aperta, a questo dire fa seguito qualcosa che dura; nel dire invece ego sum, io dico qualcosa che si esaurisce nel mentre si dice, la cui unicità non coincide che con la sua istantaneità (ES 151-152; it. 145). Per cui possiamo dire, con Nancy, coincidendo il cogito con l’evento performativo, esso è coestensivo a quella stessa performazione, motivo per il quale: “io sono” intanto che proferisco “io sono”.
6Ma ciò vorrà dire anche qualcos’altro: e cioè che «l’essere non consiste in un enunciato, né nella sostanza di un enunciatore», in quanto «sostanza e posizione, senso dell’enunciato, sono naturalmente tutti performati in cogito» (ES 123; it. 121). Cosa resta allora? Terribile ritrarsi di ogni cosa! Cosa resta se ogni cosa, qualsiasi cosa procede dall’emissione di voce? Ecco lo spaventoso, il perturbante, nel leggere le pagine di Nancy. Ripetiamo: ego, in quanto finzione, narrazione, dire, è ciò che coincide con l’emissione di voce stessa. Se ego sum, in quanto proferimento di “ego sum”, è nell’istante in cui lo proferisco, allora chi proferisce “ego sum” prima che ogni ego sum venga proferito? «Né un’essenza linguistica dell’uomo, né una legge del simbolico, né un essere-già-da-sempre parlato potranno rendere conto né avere ragione di questo for anteriore o esteriore al soggetto parlante, anteriore o esteriore alla parola» (ES 125; it. 123).
7Il punto, allora, è questo: rispetto a questo for, a questo dire, a questo narrare, a questo fingere, a questo affabulare, il “chi” resta un enigma, ineffabile. Che cosa c’è allora dietro al soggetto, dietro alla maschera? «L’uomo, spogliato di ogni verità, è esattamente ciò che nasconde in sé la verità non umana dell’uomo»3. «Ovunque, nel mondo l’Io si esclude nel e dal suo for. E questa esclusione è ciò che ci resta da pensare» (ES 126; it. 124). E cioè, ciò che resta da pensare è ciò che resta escluso dal for stesso e nel for: Ciò che sta prima, anche se non posa come un fondamento. «Un’esclusione – infatti dice − che non è, o che piuttosto non causa assenza, né sfaldamento, né finzione, né verità, ma che forma il soggetto in modo ben più abissalmente intimo» (ES 126; it. 124) nella misura in cui ce ne fa scorgere la nudità, la nigredo, il vuoto rimbombante o il caos sbadigliante, l’orlo e l’abisso. «Questo significa – ancora − che ci resta da pensare qualcosa che non è né una natura, né una struttura del soggetto, e neanche ça e che però compie l’atto stesso di ego, la sua autoposizione nella forma della sua esclusione» (ES 126; it. 124).
8Ora, se pensiamo al fatto che “ego sum” altro non è che un’emissione di voce, questo ego sum, non può essere, e non può darsi che a partire da un corpo, da glottide, faringe, velo del palato, alveoli, denti, labbra che, contraendosi, sfregandosi, pronunciano l’inesteso “ego sum”. È a partire dal corpo, dunque, che l’anima è secreta in quanto enunciazione. Il che significa che l’anima è tale nella misura in cui si staglia, si eleva, si distingue dal corpo. L’io, cioè, che si costituisce per differenziazione dal corpo, al quale è totalmente unito, non può che coincidere con la distinzione stessa, e cioè con l’atto di distinguersi dall’estensione attraverso l’inesteso proferimento ego sum. Significativamente, è proprio la “cosa estesa” a possedere da «sola la figura autentica della sostanza», mentre «la ‘cosa che pensa’ si sostiene solo con l’intuizione immediata e istantanea di una sostanzialità che consiste solamente nella sua immediatezza e istantaneità e che, di conseguenza, non ha luogo» (ES 143; it. 143).
9E in effetti se la sostanzialità del cogito, a differenza dell’estensione, consiste nella sua evidenza e cioè nell’immediatezza della sua apprensione; e se l’immediatezza della sua apprensione si realizza nella misura in cui ego si delimita nel e dal suo for, e in quel preciso istante, e non prima né dopo; è chiaro, allora che quell’evidenza – che piuttosto che sostanzializzare a questo punto desostanzializza – coincidendo con un atto (quasi con il click dell’otturatore) che è un atto singolarissimo di emissione di voce, ha la natura di un’istantanea. E, infatti, come un’istantanea4 che proviene dall’oscuro e si chiude nell’oscuro – prima e dopo, infatti, il pronunciare io non si dà io −, esso ha come sua struttura l’instabilità propria di una convulsione, di uno “strappo”, di uno “scuotimento totale” di una contrazione, di un annodamento, di un’increspatura, di una disgiunzione, di una disarticolazione (ES 131; it. 129). E ritorniamo così all’inizio. Il cogito non è altro che un atto performativo che però lungi dall’essere solo questo spalanca, con la bocca, la voragine di quell’ineffabile di cui dicevamo all’inizio: il corpo5. E la kénosis è compiuta, benché, il fatto «che cogito si fondi sulla possibilità stessa del linguaggio» (ES 124; it. 123), non può esimerci dall’interrogarci su che cosa sia questa stessa facoltà.
10Per faculté de langage noi intendiamo prima di tutto il fatto-che-si-parla distinto dal che-cosa-si-dice. Essa è un generico “poter” dire che at-test-a semplicemente la facoltà di enunciare. Inoltre, mentre il ciò-che-dico rappresenta il lato ontico del parlare, relativo al contenuto di ciò che si articola, il fatto-che-si-parli, in quanto potenza di dire, ne è il lato ontologico, cioè, trascendentale, rappresentando la condizione di possibilità di ogni cosa che si possa voler dire6.
11Ora, posto che è ciò-che-si-dice che di solito viene preso in considerazione dalla nostra attenzione quando qualcuno parla, ci sono, ciononostante, dei «concreti proferimenti in cui la relazione langue-parole si limita ad indicare semplicemente la faculté de langage»7. È questo il caso degli atti performativi.
12L’atto performativo, dunque, − ed ego sum si è stabilito esserlo, anzi, essere il performativo di ogni performativo – si limita a indicare la semplice – si fa per dire − faculté de langage. Ma per quale motivo ci sarebbe un ricorsivo bisogno di menzionare, celebrare, attuare – proferendola – la facultè de langage? E là dove nel performativo emerge il carattere rituale del nostro linguaggio, che cosa è ciò che si officerebbe in questo rito? Tutti i singoli atti rituali sono effettivamente tali proprio e soltanto in quanto si compiono “pronunciando formule”. In queste, posto che il ciò-che-si-dice è fondamentale, e fa la differenza, esso ha sempre per oggetto il fatto-che-si-parla8. Per cui, posto che il fatto-che-si-parli rimandi alla nostra faculté de langage, e posto che questa faculté de langage rappresenti il trascendentale, e cioè la condizione di possibilità di ogni possibilità, il rito allora non farebbe altro che celebrare, mettere in luce, officiare il fatto-che-possiamo-parlare, il fatto-che-si-parla e cioè la condizione di possibilità di ogni dire: ego sum. «Rituale […] è dunque l’esperienza empirica del trascendentale, l’evocazione discorsiva della disposizione biologica sottostante a ogni discorso umano»9 e, posto che solo tramite l’articolazione fonetica il parlante diventa fenomeno, si manifesta, è chiaro, allora, che nel rito ci si espone agli altri ed è in tale esposizione che esso inconfondibilmente consiste10.
13Bene, ma a che pro? Perché questa esposizione (ex-peau-sition11)? Ritorniamo un attimo indietro, a quando abbiamo detto che il cogito è un atto performativo, un atto che si compie ogni volta che unum quid pronuncia ego sum. Quando abbiamo definito questo cogito precario, istantaneo, instabile, l’atto del distinguersi stesso in quanto inestensione − e cosa c’è di più inesteso del flatus voci – dall’estensione, intendevamo dire proprio questo: che il cogito è un atto performativo che si compie (ogni qual volta si pronuncia), ma che potrebbe anche non compiersi.
14«È un’idea completamente falsa – allora − credere che in materia di linguaggio il problema delle origini differisca da quello delle condizioni permanenti»12. Il linguaggio, dunque, si troverebbe sempre in uno stato sorgivo di cui conserva tutte le impurità, motivo per il quale la facoltà di linguaggio – e cioè il performativo, e cioè l’ego − attesterebbe proprio la semel natività dell’uomo, la precarietà della sua condizione stessa di possibilità, il fatto che questa potrebbe darsi ma anche non darsi.
15In effetti, a pensarci, «ha facoltà di linguaggio solo l’essere che nasce afasico per il quale il rischio di afasia è sempre incombente e per il quale, ancora, il passaggio da un’iniziale afasia a una contingente esecuzione verbale è lo stato a cui successivamente sarà sempre legato il soggetto in quanto parlante. Questo passaggio – dall’afasia al parlare – è cioè cronico, o meglio ricorsivo»13: mai avvenuto una volta per tutte, esso contraddistingue l’intera esperienza del locutore per cui qualsiasi parlante, nel dar luogo a un’enunciazione, deve anzitutto appropriarsi della lingua. Dire questo però non significa altro che dire che noi ci troviamo costantemente in uno «stato di carenza e di afasia dal quale occorre emanciparsi sempre di nuovo»14.
16Ma, se la facoltà di linguaggio attesta la semel natività dell’uomo, cioè la precarietà della sua esistenza, l’esigenza di narrare, di affabulare, di dire è allora necessaria affinché, compiendosi, sempre e ancora, il rito delle origini, unum quid possa dire sum.
17E Descartes certamente aveva compreso, in Mundus est fabula, in quella, come dice Nancy, necessità di fabulare, l’esigenza, propria della specie umana, di riprendere l’atto inaugurale dell’antropogenesi, di non farlo crollare, di non farlo cadere. La necessità di fingere, di inventare, di narrare, è allora la necessità di mantenere mundus ciò che mundus non è.
Notes de bas de page
1 Cfr. D. Calabrò, Jean-Luc Nancy: alla frontiera di un pensiero a venire, in PP p. x.
2 For, da Fari, dire, da cui fabula, narrazione, racconto. Ma cfr. ES 121; it. 121.
3 D. Calabrò, Dispiegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy, Milano, Mimesis, 2006, p. 28.
4 «L’io è quella parte istantanea che si crede il Tutto», dice Teste: P. Valéry, Monsieur Teste (1958), trad. it. L. Solaroli, Milano, SE, 1994, p. 82.
5 «In fondo all’intelletto c’è il corpo. Ma in fondo al corpo c’è l’intelletto», P. Valéry, cit., p. 83,
6 P. Virno, Quando il Verbo si fa carne, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003, p. 34.
7 Ivi, p. 36.
8 Ivi, p. 35.
9 Ibidem.
10 Ivi, p. 36.
11 Un’esposizione che non è «manifestazione piena», né «eliminazione del nascondimento» quanto piuttosto «nudità che si esplica» che si «es-pelle coagulandosi in immagine di superficie», «quasi come la musica […] che si dà tutta nella superficialità dell’ascolto», cfr. D. Calabrò, Dispiegamenti, cit., p.69.
12 F. Saussure, Corso di linguistica generale (1922), Bari, Laterza, 1970, p. 18.
13 P. Virno, cit., p. 79.
14 Ibidem.
Auteur
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