L'immemorabile: la decostruzione del cristianesimo nel luogo della visitazione
p. 55-67
Note de l’éditeur
Il testo qui presentato è la versione italiana di un mio saggio di recente pubblicazione dal titolo: The Immemorial: the deconstruction of Christianity starting from Visitation, in Deconstructing Christianity with Jean-Luc Nancy, edited by A. Alexandrova, I. Devisch, L. ten Kate, Aukje van Rooden, Preamble by Jean-Luc Nancy, New York, Fordham University Press, 2011.
Texte intégral
1«L’arte non commemora, mai. Non è fatta per custodire una memoria, e quando viene realizzata in un monumento, non fa la parte del memoriale. […] Se l’arte in generale ha un rapporto con la memoria, è con la strana memoria di ciò che non si è mai depositato in un ricordo, che non è dunque suscettibile né di oblio né di memoria – poiché non l’abbiamo mai vissuto né conosciuto, e che tuttavia non ci lascia. […] L’arte è ciò che sempre si eccede verso ciò che la precede o che le succede e, di conseguenza, anche verso la propria nascita e la propria morte» (V 9-10; it. 11-12).
2Siamo partiti da qui, dall’incipit di un piccolo, ma straordinariamente denso, scritto di Nancy apparso nel 2001, Visitation (de la peinture chrétienne) – perché desideriamo sin da subito individuare la centralità della riflessione artistica nancyana nella questione relativa alla “decostruzione del cristianesimo”. In particolare, la Visitazione si può intendere – secondo Nancy – come il luogo non memorabile in cui ha origine la “dis-chiusura” della religione cristiana e, in generale, di tutte le religioni monoteistiche e politeistiche – come vedremo a breve.
3Ma, la prima domanda è: come può un linguaggio privo di memoria dis-chiudere il tempo cronologico delle religioni? E come può tale immemorabile divenire nascita e quindi svelamento? Cos’è che l’arte propriamente es-pone? Rende visibile? Dis-chiude? E in che senso, più propriamente, la Visitazione rappresenta il momento in cui tutto ciò “fa opera”?
Del senso assente
4Nancy distingue nettamente l’arte mitologica dall’arte cristiana. Egli concentra poi la sua attenzione sull’arte che “eccede” se stessa in quanto non appartiene né a un passato né tantomeno a un futuro; non giace in un ricordo, né sconta l’oblio; prende congedo da ogni logica sacrificale, non succede alla nietzschiana “morte di Dio”. Essa dischiude «la profonda memoria immemoriale, che nasce nei tempi ‘favolosi’, al di qua della storia, nell’epoca in cui l’uomo sembra ricordare ciò che non ha mai saputo»1.
5Nessuna trascendenza, nessun senso metafisico, nessun “oltre”. L’immemorabile è la sottrazione o la distruzione-decostruzione di codici: il codice del monoteismo, del cristianesimo, del sacro e del sacrificio. Tali codici hanno perso – secondo Nancy – il loro senso allocutorio-fondativo e sprofondano nella tautegoricità, nella chiusura del rinvio ad “Altro”. La metafisica «è stata liquidata col naufragio del senso, ossia con il compimento delle possibilità di significazione dell’Occidente (Dio, Storia, Uomo, Soggetto, Senso stesso…)» (PF 12-13; it. 10-11). Tale compimento, nella duplice accezione di ciò che è giunto a un traguardo e insieme ha esaurito le proprie possibilità compiendosi e quindi finendo, fa sorgere il niente da raggiungere e il niente della fine, della morte. In una parola, tale compimento “ritrae” nel senso pittorico del termine, l’assenza del senso. Il niente del senso è il suo esplicito, visibile, manifesto ritrarsi – nel senso di ciò che si ritira, si assenta e in questo movimento “fa” apparire, produce (ποιεῖν, poieîn).
6Per usare il lessico di Nancy, «noi non siamo né nel prima né nel dopo di un Senso che non sia stato finito, ma soltanto in questa scansione, in questa inflessione di una fine la cui finitezza stessa è l’apertura, il possibile accoglimento – il solo – di un altro a-venire, di un’altra domanda di senso» (PF 30; it. 32). Quello che la storia ci ha consegnato è un senso ormai destinato alla sua estrema finitezza. Pensare tale finitezza senza colmarla o pacificarla, senza seguire alcuna teologia o ontologia negativa, significa installarci simultaneamente in uno spazio che si fa e si disfa senza mediazione. «Un pensiero finito è un pensiero che rimane su questa im-mediazione» (PF 29; it. 30). Da qualche parte, in qualche modo, un orizzonte è stato perso e il conforto di un limite drasticamente dissolto. Resta l’affermazione della finitezza o de-finitezza, che dir si voglia, il cui assoluto débordement ci lascia tutti esposti sul limite, quasi come figure liminali dell’Essere.
7La perdita di contorni stabilizzanti e stabiliti – cioè fondanti – è, insieme, l’essere al limite e il limite dell’essere stesso. Tali affermazioni, lungi dal poter sembrare semplici o ridondanti giri di parole, sono di fatto le autentiche poste in gioco del pensiero; anzi, più precisamente, sono la vera condizione e urgenza di un nuovo pensare. La perdita dell’orizzonte stesso sembrerebbe così essere l’orizzonte della filosofia. Ma tale perdita è iscritta proprio nel luogo più fortemente fondativo: il passaggio dal pensiero mitico (luogo delle divinità presenti) al pensiero religioso di tipo monoteistico (luogo dell’assenza di Dio).
8La posizione di Nancy appare, dunque, sin da queste prime battute subito chiara: se da un lato la fine della metafisica ha rescisso ogni legame con la filosofia tradizionale e se dall’altro il processo decostruttivo ha inaugurato lo spazio a-venire della fine del senso come morte o come «l’attendersi ai limiti della verità»2, il luogo di “im-mediazione” del senso non può darsi ancora e di nuovo in modo archetipico o archeologico. Nessun ritorno a un’origine quindi, bensì es-posizione di/ad un senso necessariamente finito in cui risiede «l’assoluto stesso dell’esistenza» (PF 23; it. 23). Più precisamente: «al nostro tempo non conviene e non importa di volersi appropriare la sua (del senso) provenienza: noi non siamo né greci, né ebrei, né romani, né cristiani, né una combinazione calcolata di questi nomi, il cui senso, in ogni caso, non è mai dato semplicemente. Noi non siamo né il ‘compimento’, né il ‘superamento’ della ‘metafisica’, non siamo né il processo, né l’erramento. Ma accade che noi esistiamo, e che comprendiamo che ciò (noi stessi) non è l’insensato di una significazione riassorbita, annullata. Nell’indigenza e nella necessità, ‘comprendiamo’ che ‘noi’, qui, ora, è ancora e di nuovo responsabile di un senso singolare» (PF 31; it. 32-33).
9Ecco, in questa nuova formulazione che esclude ogni recupero di una possibile infinità, e indica parimenti il congedo da ogni universalità, è racchiusa la cifra del pensiero di Nancy e la vera novità – la vera scommessa – da lui introdotta nella riflessione e nel dibattito contemporaneo. Infatti proprio qui si apre lo spazio, ora, per parlare di un “noi” o di una pluralità, senza trasformare questo “noi” in una sostanziale ed esclusiva identità e quindi ricadere in una rinnovata autoposizione del cogito. In altri termini, si aprono le condizioni per poter parlare di un “noi” all’altezza dell’oggi. Questo ci resta da pensare – dopo la modernità.
10In tale contesto, perciò, Nancy fa scattare il suo caratteristico movimento, l’unico possibile movimento consentito per quella che potrebbe ancora essere chiamata “filosofia”: lungi dal considerare questa generale fuga dal significato una catastrofe o una perdita, «io – scrive il filosofo – voglio pensare ciò come l’evento del significato nel nostro tempo, per il nostro tempo. Si tratta di pensare il significato in assenza del significato. […] Si tratta di pensare cosa il ‘significato’ possa essere quando si è arrivati alla fine del significato [corsivi miei]» (Y 109). La filosofia non può più essere, come una volta, la fornitrice ultima di esso, né può continuare a essere, secondo la lectio kantiana, «la filosofia che non vuole dare il significato, ma analizzare le condizioni per pronunziare un significato coerente» (Y 109).
11Ma allora, di nuovo, torna la domanda che ci siamo posti all’inizio e che va posta a Nancy: se la filosofia oggi non può più fornire il significato né la spiegazione/costruzione delle condizioni per renderlo possibile, cosa può fare? La risposta che il filosofo offre è, insieme, di una folgorante semplicità e di un’ardua complessità. Infatti, riprendendo il responso nietzschiano sulla fine del senso, egli afferma che quest’ultima «è la rivoluzione stessa: la destituzione dell’autorità del significato o il significato come autorità» (Y 109), e di conseguenza è, alla lettera, «l’ingresso nell’inaudito» (Y 109). In tal senso è davvero, come sottolinea lo stesso Nancy, la più pura assunzione e prosecuzione di quanto avevano già capito – nel punto di articolazione e passaggio da un’epoca a un’altra – autori e artisti come Rimbaud3. E questo proprio perché «oggi il significato è assente; in un discorso questa assenza è proprio ciò a cui noi siamo esposti e questa esposizione costituisce ciò che io non chiamerò solo la nostra storia presente, ma – con Rimbaud – la nostra eternità ritrovata [corsivi miei]» (Y 110).
12L’“inaudito” – il non ancora mai udito, verso cui, riecheggiando Rimbaud, Nancy fa segno – trova qui la sua spiegazione. Si tratta di avviare la filosofia a una diversa operosità, a un diverso poieîn che consiste in una certa modalità di ‘descrivere dal di fuori’. Un ‘descrivere dal di fuori’ che costituisce così il movimento inverso di un doppio fare filosofico.
13Da una parte esso si traduce infatti nella concreta azione del parlare sulla fine del pensiero filosofico come il limite interno al suo significato stesso. Ma dall’altra si tratta – nel farla finita appunto con la “descrizione”, dall’interno della filosofia, di significati universali e presupposti già dati – di esporre la filosofia stessa al suo ‘fuori’, ossia alla “inscrizione”, sulla sua ‘pelle’ per dir così, degli eventi del mondo nella loro ormai non più universalizzabile singolarità. Ma con questa avvertenza: che tale esercizio di ‘escrizione’ (descrizione ‘del di fuori/ dal di fuori’) non definisce semplicemente un nuovo orizzonte della filosofia; esso non è un semplice cambiamento dialettico atto a rinnovare la possibilità della filosofia. La finitezza non è una negatività che viene tolta e conciliata. È invece un evento che ferma l’attenzione ‘dentro’ e ‘sul’ suo stesso confine. L’orizzonte perduto del significato diventa così lo spazio in cui la sua stessa assenza si espone.
14E allora, per tornare alla questione centrale dalla quale siamo partiti: come possiamo fare filosofia in assenza di un orizzonte di senso? Come possiamo rendere le nostre orecchie ‘pronte’ per l’inaudito – ossia per ciò che non è ancora stato mai udito? Il nome che Nancy assegna a tale compito è quello di poieîn, da intendersi come un fare del pensiero esposto al suo limite, senza alcun orizzonte confortante, nel quale vige soltanto l’eterna exscription del significato in ritirata. Si tratta, in definitiva, di abitare in quel “non-luogo” che appartiene alla letteratura – come straordinariamente afferma Blanchot in dialogo con Nancy – in cui «non c’è nulla da detenere, nessun segreto». Ciò che opera è solo l’inoperosità che attraversa la scrittura stessa e con essa il pensiero4. La scrittura è il luogo del neutro, dell’impersonale, è «quella forma d’espressione che, al contrario della parola parlata, trova il suo senso ultimo non tanto nel ‘fare opera’, ma piuttosto nel disattivarla, o ‘disoperarla’, esponendola alla sua irrimediabile perdita di padronanza».
15Non a caso fin da sempre, «scrivere equivale a passare dalla prima alla terza persona», vale a dire all’«evento non illuminato di ciò che avviene quando si racconta»5. Il neutro a cui la scrittura allude è assenza dei fini, assenza della fine, suo svuotamento, il suo ritiro indefinito dal senso. La finitezza quindi non è da intendersi come ciò che implode in una superficie d’immanenza (vedi Deleuze), né tantomeno come ciò che ci riserva una trascendenza, bensì come la continua finitizzazione di tutti i significati.
16«Nella finitezza non è questione di fine, né come scopo, né come compimento, e che non è questione che di una sospensione del senso, infinito, ogni volta rimesso in gioco, riaperto, ogni volta esposto con una novità così radicale che subito viene meno» (PF 21; it. 21). In questo continuo venir meno, in questo incessante sottrarsi, che è la finitezza in quanto tale, si inscrive il movimento dell’esistenza: «la nascita ci ha rivolti verso di esso. Ma come anche solo aprire l’occhio: in questo punto la morte lo ha già chiuso» (PF 22-23; it. 23).
17Pensare il movimento finito dell’esistenza non più quindi secondo un’immanenza di senso di fronte a una trascendenza infinita a essa contrapposta, bensì come un semplice finito che proprio perciò non fa immanenza, perché disloca, sposta, fa riversare su un fuori di senso ogni immanenza istituita. Questo è allora il compito della filosofia finita: pensare che non v’è un «briciolo di senso che si possa ricevere o trasmettere: la finitezza del pensiero è che il senso vi è indissociabile dalla ‘comprensione’ singolare, ogni volta, di un’esistenza singolare» (PF 23; it. 24). Qui si trovano le spaziature di ogni nascita e di ogni morte. Ma “qui” è un luogo inappropriabile, come il senso finito di ogni esistenza che non fa ritorno a sé. In conclusione, scrive Nancy, il compito di un pensiero finito è quello di «esporsi al finito del senso» (PF 53, it. 61). Quindi «Non un pensiero della limitazione, che implica l’illimitatezza di un aldilà, ma un pensiero del limite come ciò a partire da cui, infinitamente finita, l’esistenza si solleva, e a cui si espone. Non un pensiero dell’abisso e del nulla, ma un pensiero dell’in-fondatezza dell’essere: del solo ‘essere’ la cui esistenza esaurisca tutta la sostanza e tutta la possibilità. Un pensiero dell’assenza del senso come unica garanzia della presenza dell’esistente. Questa presenza non è essenza, ma – ἐπέκεινα τῆς οὐσίας (epékeina tês ousías) – nascita alla presenza: nascita e morte alla presentazione infinita del fatto che non c’è un senso finale, ma un senso finito, del senso finito, dei sensi finiti, una molteplicità di frammenti singolari di senso che non appartengono ad alcuna unità e ad alcuna sostanza; che non vi sia senso stabilito, non vi sia fissazione, istituzione, fondazione del senso, ma una venuta, del venire, delle venute di senso. Questo pensiero richiede una nuova ‘estetica trascendentale’, quella dello spazio-tempo nel qui-ora finito, che non è mai presente, ma non è per questo il tempo schiacciato sul suo continuum o sulla sua estasi. Finitezza: l’irriducibilità ‘a priori’ della spaziatura. Ma anche estetica trascendentale materiale della disparità e della dis-locazione dei nostri sensi, dei nostri cinque sensi di cui niente ci consente di dedurre o fondare un’unità organica e ragionata. La divisione dei cinque sensi, che si potrebbe dire emblematica della finitezza, inscrive o escrive la divisione del senso finito» (PF 48-49; it. 54-55).
18Tale è allora il denudamento del pensiero, la chenosi6 in cui avviene lo svuotamento dei fini e dei principi. Non si tratta di rinunciare al senso, ma di vedere il senso nell’apertura e nell’incompiutezza del presente, nella sua estraneità, nel suo non coincidere mai con ciò che di esso possiamo vedere o sapere. Non si tratta di andare al di là, perché l’al di là è già qui, è proprio nell’instabilità e nell’opacità del presente, nella sua inesauribilità. I dualismi, le opposizioni, con cui siamo abituati a ragionare, non funzionano più. Il denudamento del pensiero è anche la sua «ateologizzazione» (PD 155; it. 169): l’abbandono degli dei, cioè di ogni perfezione, o di ogni ragione, di ogni fondamento, che viene a riempire l’apertura del qui e ora, anche quando ci riferiamo a questa pienezza come a qualcosa di perduto. Nel momento in cui si sveste del sapere, si sottrae a se stesso come atto intellettuale, il pensiero non incontra dunque la mistica, che rafforza la dimensione del medesimo, ma l’etica: si fa rapporto, relazione all’altro, apertura del senso e non sua fissazione. Per far ciò è necessario recuperare i temi cristiani e metterli in questione dal loro interno. È questa la decisa operazione di Nancy, avviata già in La comunità inoperosa e mirabilmente proseguita in La Visitazione della pittura cristiana, Noli me tangere, Tre saggi sull’immagine, La dischiusura. È così che, del resto, appare la κένωσις (kénosis): svuotamento ontologico e non teologico.
19«Divina è la partizione che fa mondo. […] Dio vi si svuota di sostanza e il divino vi diventa la misura della partizione tra la luce e l’ombra, tra il vedere e il visibile. Questo luogo, questo corpo, è quindi il luogo, la cavità del Dio svuotato e del vuoto divino. Oppure: ciò che resta del divino – ciò che resta divino del divino – sarebbe ancora questo nome, dies/divus, che raccoglie in sé una kénosis nella quale l’ateologia si rivela spoliazione e verità del ‘mistero’» (D 103-104; it. 94-96).
Di una “inaudita” Visitazione
20Cosa “opera” (poieîn) la Visitazione?
21Essa opera il vero atto della creazione. Nel cuore della pittura cristiana Nancy installa la sua déclosion. Siamo nel 1530. Pontormo dipinge una delle sue tante Visitazioni. Qui ha luogo l’immemorabile e l’inaudito. La Visitazione è «l’assente di ogni ricordo verso cui risale senza fine una memoria infinita, ipermemoria o piuttosto immemoria» (V 10; it. 12). Al di là dell’annuncio (Annunciazione) e prima della nascita (Natività), al di là della parola e prima di ogni visibile; la verità della Visitazione, la sua forma, consiste nel suo essere priva di forma; senza forma compiuta, senza figura. L’evento non assicura nulla, indica semplicemente. È l’immemorabile: ciò di cui non si ha memoria perché non è il passato ma l’a-venire di cui parla Blanchot. L’inaudito a cui si riferiva prima Nancy nel suo Il pensiero finito è tutto nella scena della Visitazione: «L’essenziale è sottratto agli occhi e passa attraverso le voci, attraverso un tocco di voce che fa trasalire l’intimo e il non-nato nell’invisibile. Ciò che accade, infatti, è un lampo dello spirito tra due presenze assenti, due vite in ritiro dall’esistenza, tanto immemorabili da essere inattese e improbabili, nei ventri chiusi di una donna sterile e di una vergine» (V 13; it. 14).
22Non appena infatti Maria si presenta in visita a Elisabetta, quest’ultima, presa dalla gioia del gesto di grazia, fa risuonare il saluto della Vergine dentro il proprio ventre, dove si trova – in attesa di nascere – Giovanni Battista: «Appena il suono del tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bambino è trasalito per l’esultanza nel mio seno» (V 12; it. 13). La pittura rende visibile ciò che si trattiene nel non-ancora. Tale visibilità risuona e fa eco come voce e udito che «balzano agli occhi» (V 13; it. 14). Tutto appare come sospeso, i ventri delle due donne «si toccano senza toccarsi» (V 15; it. 15). Le forme dei tessuti si gonfiano di Spirito; sono attraversate da un soffio che le dis-piega, permettendone la visione, promettendone l’es-posizione, la messa a nudo, la venuta, la nascita. Continua attesa, come spesso accade nei ritratti – è come se il soggetto ritratto stesse nell’attesa di ricevere lo sguardo dello spettatore, del visitatore… È quanto accade tra le quattro donne che compongono la Visitazione (Maria, Elisabetta e le due serve) e noi, tra il loro sguardo e la nostra disponibilità di vedenti. Vi è una presenza immemorabile celata nel ventre di Maria: invisibile agli occhi, tuttavia risuona7 e si rende presenza udibile di un’assenza visibile.
23Ma la tela di Pontormo ci offre ancora altra materia pittorica su cui riflettere: due uomini provengono dal fondo oscuro della scena – uno ha in mano una pagnotta e un coltello, l’altro una bottiglia. Uno il pane, l’altro il vino. Altra risonanza, altro rimbalzo: si fa innanzi il gesto della spartizione del pane e del vino, gesto che non a caso, ancora oggi traccia la memoria dell’incarnazione cristiana che però affonda le sue radici nella sacralità dionisiaca e quindi mitica. Il pane e il vino costituiscono la cifra del cristianesimo in quanto segni tangibili di un’assenza del divino. La pittura di Pontormo fa sprofondare tali segni nell’oscurità della scena e compie così – secondo la lettura di Nancy – un «gesto notevole di sottrazione del religioso» (V 29; it. 27). Nella tela del 1530 si coagula la verità immemoriale di una scena che presenta un’assenza che è sempre-già-qui, e che decostruisce – a ben vedere – il cristianesimo dal suo interno. L’immemorabile della Visitazione è infatti «questo luogo e questo momento di provenienza e di presenza a cui non si risale ma che è sempre-già qui […] , dunque sempre di nuovo a venire come il rinvenire del passato più antico di ogni passato, la sua visitazione sempre ripresa in uno slancio in cui la superficie stessa si solleva, si gonfia e sussulta» (V 35-36; it. 32-33). La pittura dischiude i margini di ogni tempo mitico e/o trascendente: essa apre una presenza che, lungi dal definire contorni, forme, figure e spazi si assenta, batte in ritirata e in questo movimento si espone a noi. Nella Visitazione di Pontormo Nancy individua il divino che resta celato e cifrato; ma è proprio tale ritiro e tale assenza a costituire la presenza visibile. La pittura riesce a compiere questa “proferazione”, questo portare innanzi un’immagine che trattiene la sua esposizione e così facendo, paradossalmente, si espone, si presenta, si offre. In questo luogo sta la verità nascosta del Cristianesimo e parimenti dell’ateismo, che non nasce come opposizione a esso, ma è il suo correlato più profondo.
24«La verità del monoteismo è l’ateismo di questo ritiro. La ‘presenza reale’ diviene la presenza che per eccellenza non è presente: quella che non è qui. Quella di cui l’esser-ci è un essere esposto all’altrove di questo stesso luogo, eppure in questo stesso luogo senza altrove visibile né invisibile, direttamente sulla tela, qui come nel suo ventre gonfiato di pittura. Questa pittura proferisce: questo è il mio corpo. Questa è l’esposizione della pelle o del velo sotto i quali nessuna presenza si nasconde e nessun Dio attende se non il luogo stesso, qui, e il tocco singolare della nostra esposizione: godimento e sofferenza di essere al mondo, esattamente qui e in nessun’altra parte» (V 45-46; it. 43). La ‘presenza reale’ è tutto tranne che presente; è la sottrazione manifesta a cui tutti i monoteismi sono legati: il Dio cristiano, il Dio ebraico, il Dio musulmano. È la loro comune alleanza svelata dalla pittura della Visitazione: scambio infinito tra rappresentazione e non-rappresentazione, tra visibile e non-visibile. Non si dà immagine. L’immagine della Visitazione è inoperosa, sventra di colpo il pensiero di un qui come effige di un al di là, e simultaneamente dissimula la dischiusura della promessa o dell’attesa. L’immagine inoperosa della Visitazione – per questo forse poco frequentata – è «l’apertura del luogo che dà luogo a ciò che non ha luogo: la presenza in quanto essenzialmente eccede e si eccede. La presenza dunque in quanto non la si presenta o non vi si accede propriamente, ma in quanto è offerta a una visitazione che fa la prova dell’invisibile nel suo seno» (V 51-32; it. 48).
25Come giustamente osserva Nancy, «Nietzsche è stato il primo a conoscere l’agitazione che nasce quando la presenza si mette a tremare nel ritrarsi del principio. […] La presenza non si stacca più dal suo fondo e nemmeno vi sparisce: essa si tiene, vacillante, sul bordo dell’apparire in un mondo in cui non c’è più lacerazione tra l’essere e l’apparire. La presenza stessa è diventata questa lacerazione. […] Presenza lacerata, presenza lacerante. Essa è al mondo non essendoci. Essa è in avanti o arretrata rispetto a sé» (D 118; it. 112). Ecco l’impensato del nichilismo. Esso dice l’impotenza del nulla; l’ultima, estrema sua verità consiste nella sua impossibilità. «Il nichilismo stesso lascia intravedere, proprio nel momento della sua realizzazione, lo spazio del neutro in cui l’annichilimento è arrestato di fronte all’inesorabile perseveranza dell’essere senza nome, senza soggetto, in uno spazio vano senza vie d’uscita»8. Ecco in che senso per Blanchot, a cui Nancy dedica non a caso due capitoli nel suo La dischiusura, non si tratta di pensare a partire dalla negazione dell’esistenza di Dio, bensì di «condurre all’estremo e all’estenuazione del suo significato» (D 132; it. 126). Tutto il quadro è come un ventre: rivela una presenza assente. In un’atmosfera di sospensione che è rivelativa di una possibilità dell’impossibile; di un’attesa muta, di una carne che è spirito.
“Toccare senza toccare”
26Una carne che è spirito, la levée du corps: ecco l’altro luogo in cui – secondo Nancy – il cristianesimo segna la sua decostruzione9. La Resurrezione della carne costituisce il correlato o – per meglio dire – l’altra faccia della Visitazione. La levée du corps rivela, infatti, un paradosso ineliminabile: la presenza di un corpo – quello del Cristo – umano e divino allo stesso tempo o, più precisamente, la presenza di una tangibilità che non è più nell’ordine del sensibile; noli me tangere è giustappunto l’impossibilità in atto, un’interdizione, una mancanza a, uno scarto di; è un corpo sottratto quello del Cristo, un corpo che si sottrae all’umano e che purtuttavia esattamente come corpo accede al divino. Scopriamo un’impasse nel noli me tangere che è rivelativa dell’espropriazione dal/del corpo del Cristo e che può essere efficacemente riassunta dalle due principali proposizioni evangeliche: da un lato hoc est corpus meum e dall’altro noli me tangere. Nancy va dritto alla questione analizzando l’episodio – più volte assunto a tema dall’iconografia cristiana – del Noli me tangere presente nel quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni. Il Cristo risorto appare alla Maddalena, la quale riconosciutolo si protende verso di lui per toccarlo. Ma, e qui sta tutta la stranezza del gesto, il Cristo si sottrae a quel tocco – noli me tangere. Richiesta del tutto contrastante rispetto a quella dell’ultima cena, in cui il Cristo invita gli apostoli – suoi commensali – a mangiare e bere del suo corpo – hoc est corpus meum, da cui verrà tratto il rito dell’eucaristia – come pegno di vita eterna. Da un lato il corpo del Cristo viene trasformato nel pane e nel vino (e quindi viene reso umanamente tangibile), dall’altro al momento della resurrezione il corpo del Cristo viene reso inviolabile e intoccabile; la presenza tangibile deve dileguare, scivolare nell’assenza, nel non tangibile.
27Questo punto «è precisamente il punto in cui il toccare non tocca, non deve toccare al fine di esercitare il suo tocco. […] Il Cristo sottrae espressamente al contatto il suo corpo risuscitato. In nessun altro momento Gesù aveva impedito, né rifiutato che lo si toccasse. Qui, la mattina di Pasqua, e lontano dalla sua prima apparizione, egli trattiene o previene il gesto di Maria Maddalena. Ciò che non deve essere toccato è il corpo risuscitato. Noi possiamo comprendere abbastanza bene che egli non deve essere toccato perché non può esserlo: egli non è da toccare. Questo non vuol dire tuttavia che si tratta di un corpo incorporeo o immateriale, spettrale o fantasmatico. Il seguito del testo […] mostrerà infatti che questo corpo è tangibile. Ma qui, non è come tale che si presenta. O piuttosto, egli si sottrae a un contatto al quale potrebbe prestarsi. Il suo essere e la sua verità di risuscitato consistono in questa sottrazione, in questo ritrarsi che solo dà la misura del contatto che deve realizzarsi: non toccando questo corpo, toccare la sua eternità. Non venendo a contatto con la sua presenza manifesta, accedere alla sua presenza reale, che consiste nella sua partenza» (NT 25, 28; it. 24, 27).
28Il corpo risuscitato, secondo Nancy, non è il simbolo della vittoria sulla morte e l’accesso alla vita eterna. La morte non è vinta, come invece la religione assicura. La morte si dilata a dismisura. Il Cristo muore indefinitamente, e noli me tangere rappresenta il senso di questa morte sottratta al limite del solo decesso; o ancora, è la presenza di un’assenza o di una scomparsa indefinitamente rinnovata o prolungata. Ciò che la risurrezione rivela è l’inaggirabilità della morte. La verità di Cristo è quindi nella sua dis-parizione, nel suo allontanarsi per raggiungere il Padre – come egli stesso dice. Ma il Padre non è altro che l’assente. La risurrezione allora non è un ritorno alla vita, bensì la gloria in seno alla morte. Essa è in funzione del disvelamento della verità della morte. «La risurrezione non è una rianimazione: essa è il prolungamento infinito della morte che sposta e disinstalla tutti i valori di presenza e di assenza, di animato e di inanimato, di anima e di corpo» (NT 73-74; it. 63). Insomma, nella risurrezione si svela l’infinita alterità del/dal corpo, la sua sottrazione a se stesso e di se stesso. Un corpo invece apre questa presenza, presentandosi, mettendosi fuori di sé, separandosi da se stesso, espropriandosi. Il corpo è tutto nella sua “messa in evidenza”, tutto nella superficie dell’es-posizione, come in un quadro10.
29Allora, la sentenza nietzschiana «Dio è morto» significa, secondo Nancy: «Dio non ha più corpo. Il mondo non è più lo spaziamento di Dio, né lo spaziamento in Dio, ma diventa il mondo dei corpi. L’altro mondo si dissolve come il corpo della Morte, come la Morte in Persona: putrefazione in cui lo spazio è abolito, pura concentrazione, frantumazione, decomposizione dei corpi nel soave e ineffabile brulicare di questa cosa che non ha nome in nessuna lingua, in questo al di là del cadavere in cui Tertulliano, Bossuet, e tanti altri, fanno vedere la conclusione del mondo. Dio innominato dilegua insieme con questa cosa innominabile: scompare in essa, vi si rivela morto e Morte in Persona, cioè nessun corpo. È possibile che col corpo di Dio siano scomparse anche tutte le entrate di tutti corpi, tutte le idee, le immagini, le verità e le interpretazioni del corpo – e che non ci resti che il corpus dell’anatomia, della biologia o della meccanica. Ma perfino questo, anzi proprio questo vuol dire: qui, il mondo dei corpi, la mondialità del corpo, e là, discorso interrotto, l’incorporeo, il senso di cui non si possono più decifrare l’orientamento, l’entrata e l’uscita. Questa è ormai la condizione del senso: senza entrata né uscita, lo spaziamento, i corpi» (C 53-54; it. 50-51).
30Nancy indica nella morte l’esposizione stessa di cui ogni esistente è costituito. Non quindi atto finale a cui ogni cosa sarebbe destinalmente o cristianamente consegnata, bensì esposizione assoluta di tutte le cose in cui il tempo si tende o si es-tende, «fa crac senza aver cominciato, preme e rompe una massa di presente senza passato, spalanca l’istante senza precedenti, si crepa di nulla» (PD 187; it. 199). Il tempo della morte, il tempo mortale spazia l’esistenza come le crepe spaziano i muri: di nulla. Perché nulla c’è in quella spaziatura se non proprio l’esposizione stessa della finitezza irriducibile. Pensare la morte è pensare tale finitezza essenziale, assoluta: assolutamente staccata da ogni compiutezza, da ogni circolarità infinita e insensata. La morte non è il tempo a venire della fine o del compimento di un senso ultimo, come siamo abituati a pensare in un’ottica cristiana fondata sul circolo archeologico e teleologico dell’ἔσχατον (éschaton) finale; la morte è l’esposizione stessa del sé, di ogni sé all’altro che è sempre già qui, come una fenditura, come una crepa, come la lama di un coltello. Intesa così la morte eccede il senso della fine universale, del nulla cosmico da cui saremmo inghiottiti secondo un’immagine escatologica del tempo, è la morte infinitamente finita già giunta o meglio con-giunta alle cose, come una sincope, un arresto, una spartizione.
31Ecco ciò a cui il pensiero deve tendere, ciò a cui non può costitutivamente sottrarsi: l’esposizione del sé all’altro da sé non può pensarsi che come la lama di un coltello che lacera la pelle e la mette a nudo, letteralmente la apre. Proprio in questa apertura sta il dentro/fuori della nostra esistenza. Senza segreti, tale è l’esposizione, tale è la nudità e la novità della dis-chiusura.
Notes de bas de page
1 Cfr. M. Blanchot, L’entretien infini, Paris, Gallimard, 1969, trad. it. R. Ferrara, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, p. 421, secondo il quale è proprio la nostra relazione con tale “memoria immemoriale” a essere la più severa e radicale posta in gioco. Si veda anche, in proposito, Id., La communauté inavouable, Paris, Minuit, 1983, trad. it. D. Gorret, La comunità inconfessabile, Milano, SE, 2002.
2 J. Derrida, Apories. Mourir - s’attendre aux “limites de la vérité”; trad. it. G. Berto, Aporie. Morire - attendersi ai “limiti della verità”, Milano, Bompiani, 1999.
3 Rimbaud è uno dei ‘luoghi’ significativamente ricorrenti nel discorso di Nancy. Cfr., per esempio, PF 27; it. 28 e PD 175-177; it. 188-190.
4 Cfr. M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., p. 54.
5 R. Esposito, Terza persona, Torino, Einaudi, 2007, p. 159.
6 In relazione alla chenosi e alla ateologizzazione del pensiero, cioè alla decostruzione del cristianesimo si vedano in particolare: M. Gauchet, Le désenchantement du monde, Paris, Gallimard, 1985, trad. it. A. Comba, Il disincanto del mondo, Torino, Einaudi, 1992; J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, Roma-Bari, Laterza, 1995; G. Vattimo, Credere di credere, Milano, Garzanti, 1996; G. Granel, Loin de la substance: jusqu’ou? (Essai sur la kénose ontologique de la pensée dépuis Kant), in “Les Études philosophiques”, 4 (1999), pp. 535-544; G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; A. Galindo Hérvas, La soberanía. De la teología política al comunitarismo impolitico, Madrid, Estudios de Filosofía Política, Res publica, 2003.
7 Sul tema della risonanza e dell’inaudito si veda in particolare il volume di E. Lisciani Petrini, Risonanze. Ascolto. Corpo. Mondo, Milano, Mimesis, 2006.
8 W. Tommasi, Maurice Blanchot: la parola errante, Verona, Bertani, 1984, pp. 181-182.
9 Si veda a tal proposito R. Esposito, Chair et corps dans la déconstruction du christianisme, in Aa. Vv., Sens en tous sens. Autour des travaux de Jean-Luc Nancy, Paris, Galilée, 2004, pp. 153-164.
10 Su questo argomento si rinvia alle riflessioni di Nancy nel volume: Le Regard du portrait, Paris, Galilée, 2000, trad. it. R. Kirchmayr, Il ritratto e il suo sguardo, Milano, Cortina, 2002; nonché al lavoro di M. Carbone e D. Levin, La carne e la voce, Milano, Mimesis, 2003.
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