Comunità e co-esistenza
p. 23-27
Texte intégral
1Alla fine degli anni Ottanta del Novecento si è sviluppato tanto in Italia quanto in Francia un dibattito sulla categoria di comunità che ha messo in discussione un paradigma tipico della filosofia contemporanea, per il quale essa veniva intesa come quella sostanza che connette determinati soggetti tra loro nella condivisione di una comune identità. In questo modo la comunità appariva concettualmente legata alla figura del “proprio”: che si trattasse di appropriarsi di quanto è comune o di comunicare quanto è proprio, la comunità restava definita da una appartenenza reciproca. I suoi membri risultavano avere in comune il loro proprio, essere proprietari del loro comune1. Contro questo cortocircuito concettuale si ponevano una serie di testi2, quali La comunità operosa di Jean-Luc Nancy, La comunità inconfessabile di Maurice Blanchot, La comunità che viene di Giorgio Agamben e Communitas. Origine e destino della comunità di Roberto Esposito, per i quali la comunità rimandava a una sorta di alterità costitutiva che la sottraeva a ogni connotazione identitaria.
2Il dibattito che si è sviluppato negli ultimi vent’anni, specie in Italia e in Francia, intorno al concetto di comunità prende avvio dalla pubblicazione de La comunità inoperosa di Jean-Luc Nancy. Il proposito di Nancy è il seguente: prendere atto della difficoltà di definire univocamente una nozione di comunità (o di bene comune), in quanto «la testimonianza più significativa e ingrata del mondo moderno […] è quella della dissoluzione, della dislocazione o della conflagrazione della comunità» (CD 11; it. 19), e farla finita con una rappresentazione della comunità che la configura come un’essenza pre-data da realizzare. Nancy è consapevole delle difficoltà da affrontare: è necessario innanzitutto «sgombrare l’orizzonte che è dietro di noi. Interrogare quella dislocazione della comunità che è ritenuta l’esperimento da cui sono nati i tempi moderni» (CD 28-29; it. 33).
3La storia è sempre stata pensata sullo sfondo di una comunità perduta, esemplificata in infiniti modi e paradigmi: famiglia naturale, polis ateniese, repubblica romana, prima comunità cristiana, corporazioni, comuni e confraternite. Distinta dalla società (che Nancy definisce come una semplice associazione e ripartizione delle forze e dei bisogni) e opposta al dominio (che dissolve la comunità sottomettendo i popoli), la comunità è definita non soltanto come la comunicazione intima dei suoi membri fra di loro, ma anche come la comunione organica di se stessa con la propria essenza. In ogni momento della storia dell’Occidente il sentimento dominante è sempre stato quello di una nostalgia per una comunità più arcaica e ormai perduta, da Ulisse fino alla cristianità al punto che «la comunità potrebbe essere al tempo stesso il mito più antico dell’Occidente e il pensiero, tipicamente moderno, di una partecipazione dell’uomo alla vita divina: il pensiero dell’uomo che penetra nell’immanenza pura» (CD 31; it. 35). La comunità non è ciò che la società avrebbe perso, ma «è ciò che ci accade – questione, attesa, evento, imperativo – a partire dalla società» (CD 34; it. 37).
4Questa presa d’atto è tutt’uno con il proposito di scardinare la comprensione essenzialistica della comunità. Infatti pre-disporre un’essenza da realizzare è il modo in cui, secondo Nancy, l’Occidente ha pensato fino a oggi le condizioni di possibilità di una comunità: la comprensione essenzialistica della comunità coincide con il tentativo di dare una definizione essenzialistica della comunità. Lungo un percorso fortemente segnato dal Mitsein di Heidegger e l’être avec di Bataille, la comunità non è concepita da Nancy come ciò che mette in rapporto determinati soggetti, ma piuttosto come l’essere stesso del rapporto. Dire, come ha appunto sostenuto Nancy, che la comunità non è un “essere” comune, ma l’essere “in comune” di un’esistenza coincidente con l’esposizione all’alterità, vuol dire farla finita con tutte le declinazioni sostanzialistiche, di carattere particolare e universale, soggettivo e oggettivo. Scrive Nancy: «[…] la questione della comunità è la grande assente della metafisica del soggetto» (CD 17; it. 24).
5Nella prefazione all’edizione francese di Communitas di Esposito, Nancy, richiamando le violenze intercomunitarie (nello specifico il Congo, i Balcani, l’Irlanda), mette in evidenza come queste conferiscano un’eco di morte al nome di comunità. E tuttavia ribadisce la necessità interna che proprio questa deriva determina di ripensare il cum come ciò di cui e a cui dobbiamo rispondere. Anche perché, richiamandosi all’ego sum di Descartes, che traduce in ego cum, lo stesso io non è pensabile che in rapporto agli altri. Quel che tutte le forme di comunità operosa hanno in comune è la progettazione di sé come realizzazione dell’essenza, cioè il vagheggiamento dell’assoluto. Ma cos’è l’assoluto? L’assoluto è il senza rapporto.
6La comunità da costruire operosamente è un’istituzione che racchiude, tiene in sé l’essenza. Il tratto comune a tutte le comunità dell’assoluto sta nel fatto di collocare qualcosa (un’idea, una cosa, una persona eccetera) come non plus ultra, come epifania dell’essenza, proprio perché inglobante in sé qualcosa che va al di là della sua finitezza di cosa e/o persona. La comunità operosa coincide con la presentazione nella migliore delle forme di qualcosa che di per sé non ha forma: si tratta infatti di un’essenza, la quale è sempre ulteriore alla forma, ma di cui l’entità comunitaria si è appropriata in modo soddisfacente. L’operosità di questa comunità consiste nell’accogliere in sé quest’essenza e nell’incanalarla dandole così forma: si tratta di un’essenza, la quale è sempre ulteriore alla forma, ma di cui l’entità comunitaria si è appropriata in modo soddisfacente. L’opera di costruzione della comunità è essenzialmente un lavoro di appropriazione e di formazione dell’essenza predisposta. Anche se la società è il meno comunitaria possibile, non è possibile che non ci sia comunità. «La comunità ci è data – o noi siamo dati e abbandonati secondo la comunità: non è un’opera da fare, ma un dono da rinnovare, da comunicare» (CD 87; it. 79), un munus, scriverà Esposito, nei confronti degli altri che ci richiama nello stesso tempo alla nostra costitutiva alterità da noi stessi. Nancy con la definizione di comunità inoperosa indica una comunità che non mette in opera alcuna comunità. È per questo, scrive Nancy, che da allora in poi ha continuato a far slittare il lessico di cui si serviva in direzione dell’essere-in-comune, dell’essere-insieme, della partizione, per arrivare all’essere-con.
7Qual è dunque il legame tra la comunità e il co-esistere? Il tema è sviluppato fecondamente in Essere singolare plurale. Scrive Nancy: «Ciò che esiste, qualsiasi cosa sia, dal momento che esiste, co-esiste. La co-implicazione dell’esistere è la spartizione di un mondo. Un mondo non è nulla di esterno all’esistenza, non è l’addizione estrinseca di altre esistenze: un mondo è la co-esistenza che le dis-pone assieme» (ESP 49; it. 44). In una conferenza al Program in Critical Theory dell’Università della California del 1988 Nancy chiarisce come la comunità non sia un rapporto astratto o immateriale o una sostanza in comune: la comunità è un essere in comune, essere uno con l’altro o essere insieme. Io sono “io”, solo se posso dire noi. La comunità è un partecipare all’esistenza.
8La questione dell’essere e del senso dell’essere diventa la questione dell’essere-con e dell’essere-insieme. È in questo che Nancy individua il significato dell’inquietudine moderna, che non ha che fare con una “crisi della società”, ma con una sorta di ingiunzione che la “socialità” o la “socializzazione” degli uomini rivolge a se stessa, o che essa riceve dal mondo: «Dover essere solo ciò che essa è, ma dover infine essere essa stessa l’essere in quanto tale.[…] In un certo senso, è sempre la situazione occidentale degli inizi a ripetersi, è sempre il problema della città, quello la cui ripetizione ha già scandito i momenti migliori e i momenti peggiori della nostra storia. Oggi, questa ripetizione si riproduce in una situazione i cui due dati principali formano una sorta di antinomia: da una parte il dispiegarsi di un mondo, dall’altra il venir meno delle rappresentazioni del mondo» (ESP 55; it. 51).
9Questo implica un mutamento dei rapporti “filosofia-politica”. Se da una parte non si tratta più di una sola comunità, della sua essenza, della sua chiusura, della sua sovranità, dall’altra non si tratta più nemmeno di subordinare la comunità ai decreti di una sovranità altra. Ma non si tratta neppure di considerare la socialità come un accidente spiacevole ma inevitabile. La comunità è nuda, ma imperativa. Da una parte, dunque, il concetto stesso di comunità è dilaniato – ed è per questo che spuntano in maniera multiforme e caotica l’infranazionale, il paranazionale e le diverse dis-locazioni del “nazionale” in genere, quelle che Paolo Rumiz ha definito “tempeste identitarie” –, dall’altra il concetto di comunità sembra perdere ogni contenuto tranne quello del proprio prefisso, il cum, il con sprovvisto di sostanza o di legame, spogliato di interiorità, soggettività e personalità. In un modo o nell’altro la sovranità non è nient’altro che il com-, come tale sempre da “completare”.
10In un modo o nell’altro la sovranità nuda presuppone che si prendano le distanze dall’ordine filosofico-politico e dalla filosofia pratica: non per favorire un pensiero de-politicizzato, ma per favorire un pensiero che rimetta in cantiere la costituzione, l’immaginazione e il significato stesso del politico, o che permetta di ritrarne il profilo nel suo stesso ritrarsi e a partire dal suo ritrasi. Il ritrarsi del politico non significa infatti la sua scomparsa. Significa semmai che scompare il presupposto filosofico di ogni politica-filosofica, che è sempre un presupposto ontologico. Questo presupposto può prendere forme diverse: può consistere nel pensare l’essere come comunità e la comunità come destinazione, come ha mostrato nelle sue declinazioni peggiori la storia del Novecento, oppure può consistere nel pensare l’essere come anteriore ed esterno all’ordine della società, e nel pensare quest’ultima come esteriorità accidentale del commercio e del potere. Ma in tal modo l’essere-insieme non diventa mai davvero il tema e il problema dell’ontologia. «Il ritrarsi del politico è lo scoprimento, il denudamento ontologico dell’essere-con» (ESP 56-57; it. 52-53).
11Tuttavia, malgrado la fecondità teoretica di questo passaggio, un problema resta aperto. Sottraendo la comunità all’orizzonte della soggettività, Nancy ne rendeva estremamente problematica l’articolazione con la politica – non foss’altro per l’evidente difficoltà d’immaginare una politica del tutto esterna a una dimensione soggettiva –, trattenendola così in una dimensione necessariamente impolitica3. In questo modo il discorso sulla comunità continua a oscillare tra una declinazione politica, ma di esito regressivo – quella delle piccole patrie del suolo e del sangue – e una modalità teoreticamente feconda, ma politicamente intraducibile. Sulla presunta impolicità del pensiero di Nancy molto si è discusso. Nancy è consapevole della difficoltà che pone il suo discorso e cerca di porvi un argine quando afferma, nelle ultime pagine de La comunità inoperosa, che il politico non deve operare una comunione perduta o ventura, esso è il tracciato della singolarità, della sua comunicazione, della sua estasi. In questo senso «politico vorrebbe dire una comunità che si consacra all’inoperosità della sua comunicazione o che è destinata a questa inoperosità: una comunità che faccia coscientemente l’esperienza della sua partizione. Raggiungere un tale significato del politico non dipende, o comunque non sempre, da quel che si chiama una volontà politica, ma implica che si è già impegnati nella comunità, che se ne fa, in una maniera qualunque, l’esperienza in quanto comunicazione» (CD 100; it. 88).
12Nancy sottolinea la necessità di dover decidere di – e come – essere in comune, come permettere alla nostra esistenza di esistere e di farsi storia. Non si tratta ogni volta di una decisione politica, ma è una decisione a proposito del politico: se e come permettiamo alla nostra alterità di esistere insieme, di iscriversi come comunità e storia. Nella conferenza al Program in Critical Theory affermerà, e le sue parole valgono come conclusione, «Noi dobbiamo decidere di fare – di scrivere – la storia, esporci, cioè, alla non-presenza del nostro presente e alla sua venuta (in quanto ‘futuro’ che non è un presente che succede, ma la venuta del nostro presente). La storia finita è questa decisione infinita verso la storia. Ogni oggi è anche l’offrirsi dell’occasione di spaziare il tempo e di decidere in che cosa esso non sia più il tempo, ma il nostro tempo».
Notes de bas de page
1 Cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi, 1998.
2 Sul versante sociologico A. Bonomi, Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Milano, Feltrinelli, 2010 utilizza la categoria della comunità per descrivere la fase attuale della politica italiana.
3 Sul tema dell’impolitico si rimanda a R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Bologna, il Mulino, 1988.
Auteur
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