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Che cos’è il collettivo?

p. 15-21


Texte intégral

1.

1Che cos’è un “collettivo”, una collettività o una comunità? In cosa consiste l’essere insieme? Non consiste solamente nel trovarsi gli uni accanto agli altri. Bisogna che l’essere “accanto” sia esso stesso compreso come altra cosa rispetto alla pura e semplice simultaneità contingente in un medesimo spazio. Non è una questione di spazio-tempo e neppure di “uno” e “parecchi” secondo una qualche aritmetica.

2Vorrei mostrare che il collettivo comincia con e nel singolare, lo fonda nel momento stesso in cui ne è a sua volta fondato. Pertanto partirò da ciò che ci appare la proprietà più singolare nel senso della più privata, individuale – quella che si suppone essere la proprietà di un “soggetto” degno di questo nome, che sia soggetto psicologico o politico: la libertà.

3La libertà in quanto potere di cominciare è quella che viene designata in Kant come “cosmologica” per distinguerla dalla libertà “morale” che consiste nel fatto di poter obbedire o no alla legge morale (di cui, peraltro, non perdiamo mai il senso, neppure quando la violiamo). Sono due aspetti della stessa cosa: la libertà morale, decisione tra il bene e il male, vale soltanto quando mette in opera tutto il possibile per un’azione. La “volontà buona” non è un pio desiderio, insiste Kant. Ora un’azione – diciamo per il bene – dev’essere tale che possa avere un’estensione universale; questo è il nucleo dell’imperativo. Per questo bisogna dunque che in qualche modo essa inauguri nel mondo una nuova “serie di fenomeni” come dice Kant. Anche se prendo da Kant un esempio semplice e fuori moda come quello del commerciante che dà correttamente il resto a un bambino, l’aspetto della rettitudine dell’atto non è separabile dal fatto che con questo atto il commerciante innesca per se stesso, per il bambino, per i suoi prossimi e quelli del bambino, cioè per la società, un concatenamento di atti, di esempi, di lezioni, di pensieri e anche di affetti che hanno il loro inizio proprio in quest’atto di libertà.

4Allontanandoci da Kant possiamo dire: l’“inizio” è tutto ciò che fa “mondo” (o “immondo”…). È ciò che non si limita a succedere come un effetto a una causa (come d’altra parte ancora in Kant). Insomma si tratta di ciò che viene ex nihilo. Quest’espressione, fino a un certo punto, si può convertire in: ciò che è causa sui o che obbedisce soltanto alla propria legge. Si riconoscerà Spinoza. Come passare da Kant a Spinoza? Dalla libertà di un soggetto alla libertà soltanto di Dio? Non è acrobatico come sembra, se si va al fondo delle cose. La libertà di Dio in Spinoza è quella che devo comprendere elevandomi nei generi della conoscenza e arrivando a coincidere con essa. Sono libero se non mi credo libero come un soggetto indipendente dal resto del mondo, ma lo sono se mi conformo all’ordine del mondo – non all’ordine empirico dato, ma a quello che mi indicano gli affetti e la comprensione della vera destinazione della conoscenza. La libertà di Kant è l’atto attraverso il quale io mi distacco dal corso dei fenomeni per aprirvi una nuova serie, regolata su una prospettiva di universalità (oppure sul suo rifiuto e il suo ribaltamento, nel male radicale). Nell’uno e nell’altro, se io annullo la differenza dei contesti e delle formulazioni, la libertà consiste nel coincidere con l’inizio di un mondo.

5Per entrare in questo pensiero bisogna comprendere bene ciò che “l’inizio” designa: non un momento che può essere messo in relazione esso stesso a uno stato anteriore (per esempio quando comincio a scriverti sono determinato dai tempi della comunicazione epistolare, dalla mia accettazione già data di rispondere alle tue domande eccetera) ma quello che, in un atto, non si riduce a questa determinazione e, di conseguenza, neppure al soggetto. Direi: ciò che determina un’apertura di senso – e che viene sempre da più lontano di “me” per andare anche più lontano.

2.

6Ciò che si chiama “morale” o “etica” si apre proprio con questo “da più lontano” e “andando più lontano”. Cosa vuol dire “un valore morale”? Forse ciò implica che esso sia “bene”? Ma “bene” in qual senso? Nel senso di ciò che risponde a una normatività data: mentire è male, dire il vero è bene? Ma cosa significa dire il vero? Ogni normatività morale presuppone altra cosa a monte: bisogna che sia stato posto, determinato ciò che deve essere. Ora, già Platone diceva che il “bene” è “al di là di ciò che è” – si potrebbe tradurre così: il dover essere non è un essere-già-dato che si pone come norma (dire il vero, essere fedele, rispettare la persona umana); dover-essere indica sempre l’essere come “dovere”, cioè al contempo obbligazione e a-venire (nel senso in cui in francese si dice “deve accadere presto” per dire “sta per accadere presto”). E Spinoza come Kant designano il “bene” come il punto di fuga di una prospettiva o di una tensione che non può stabilire il proprio fine, ma soltanto indicarlo all’infinito. La “letizia” di Spinoza o l’“universalità” di Kant.

7Cominciare, fare in modo che esista qualcosa che non è ancora dato, ecco l’unico modo di fare il “bene”. A condizione che qualcosa giunga all’esistenza ed entri nella partizione infinita del senso. Se invece il mio atto fa uscire dall’esistenza e infrange il rapporto di senso, allora è cattivo. È per questa ragione che uccidere è sempre un male, salvo nei casi conosciuti della “legittima difesa” e della “guerra”. Ma, com’è noto, questa “legittima” e questa “guerra” (anch’essa concetto di una legittimità) devono essere stabilite ogni volta nuovamente. Uccidere tuttavia concerne un universale: sopprimere ogni esistenza fuori di me. Ma alla fine vuol dire sopprimere anche me, ponendomi fuori dal rapporto. In compenso, “non uccidere”, cos’è? Se vuol dire semplicemente astenersi, si tratta soltanto di un omicidio differito, mimetizzato. Dunque “non uccidere” deve essere: “cominciare altra cosa”. Per esempio, una parola, un saluto. E poi? Quale “Salut!”, quale “Salve!” io voglio rivolgere? Proprio un augurio di buona salute? Oppure una vita ottima, eccellente? Quale sarebbe? Non posso determinarla. Certamente è chiaro che bisogna si tratti di una vita: che l’altro mangi, dorma, sia protetto. E poi? Che abbia un lavoro? Forse – ma, soprattutto, che egli trovi nel suo lavoro o altrove un’apertura di senso. Cioè che egli acceda alla propria libertà. Che inizi anche lui. Che egli cominci a essere come io stesso comincio aprendo un nuovo rapporto con lui.

8Al limite estremo (senza limite…) dell’atto morale può esserci soltanto la giustizia, intesa come giusta attribuzione o retribuzione di ciascuno secondo il proprio essere, cioè il suo dover-essere, la sua possibilità d’essere. Pertanto infinita. So all’incirca che è “giusto” che ciascuno abbia da mangiare, dormire, educarsi, proteggersi, ma cos’è “giusto” per te per esempio, per te singolarmente, per quella persona là con precisione? Nessuno ce lo dirà, certamente neppure lei stessa. Ma è questa la giustizia. Così è impossibile esercitare questa giustizia, da un certo punto in avanti – quando è assicurata la semplice e necessaria vita – senza che il rapporto di qualcuno a un altro sia calamitato da uno o dall’altro dei due moventi: o la libertà dell’altro, oppure l’amore dell’altro. I due moventi possono congiungersi, ma non necessariamente. L’amore agisce come se qualcosa fosse dato, come se l’essere di ciascuno, e il loro rapporto, fosse dato, in un’infinità presente, attuale. Il rapporto alla libertà richiede al contrario che niente sia considerato come dato.

9Come ho già detto, le due istanze possono conciliarsi. Amare l’altro nella e per la sua libertà. Liberare l’altro per l’amore. Quando dico “l’altro”, bisogna capire che egli è sempre anche in me. Amarmi io stesso e/o liberarmi io stesso: è la condizione perché vi sia un inizio. Non bisogna sempre presupporre uno schema “altruista” per la morale. L’altruismo vale soltanto se si esercita anche in me, per me: soltanto se io mi approvo, se mi desidero nel mio stesso atto, se mi riconosco come un altro per l’altro e per me. Sempre, certamente, a condizione di non chiudere ma aprire, di non negare ma affermare, di non uccidere, di non rifiutare il senso, il rapporto – il rapporto di tutti e di ciascuno all’infinito. Si tratta di aver da: di portarsi avanti, verso, di portare l’“essere” a essere o a esistere…

3.

10Si tratta dunque di un aver da, che non è certamente privo di una tonalità etica (“bisogna [il le faut]”) ma che non è il “dovere” generato da una norma. Bisogna, sì, bisogna esistere? Lo sappiamo tutti, altrimenti ci lasceremmo morire. Se persistiamo nel vivere, quasi tutti, spesso in condizioni durissime, lo dobbiamo al fatto che sentiamo e avvertiamo tutti questo “aver da”, che non è affatto la semplice riproduzione della specie. Noi ci sentiamo e ci sappiamo lanciati, inviati, indirizzati a… – a nient’altro che all’illimitato dell’esistere e del rapporto o dei rapporti da cui esso è inseparabile.

11Bene inteso, quello che alcuni chiamerebbero “aspetto relazionale” è qui essenziale. Ma questo non è un “aspetto”, è l’esistenza stessa. Esistere, è essere-a… agli altri, al mondo o ai mondi, alle lingue, ai pensieri, alle sensazioni, alle figure, ai suoni, alle piante e agli animali… Sì, io credo che noi finiamo per vivere e pensare in uno spazio in cui tutto inizia e finisce con dei “soggetti” – isolati o in gruppo, poco importa – e non attraverso dei rapporti. Ora, vi sono esclusivamente rapporti. Ognuno è un rapporto, ognuno nasce da un rapporto ed entra egli stesso in una quantità di rapporti. Se non vi entra, non esiste. Quello che conta è ciò che “io” faccio, e io non faccio se non all’interno di un rapporto: per esempio vi parlo, entriamo in corrispondenza, e parlandovi io sono animato da molte intenzioni, idee, motivi, che mi provengono da altre persone, da altre corrispondenze, letture, film, brani musicali, cosa ne so? E anche voi, siete attraversati…

12Il “soggetto” – individuale o personale, colui che nasce e che muore – ci chiude l’orizzonte. O piuttosto fa orizzonte. Ma non sussiste libertà se c’è un orizzonte: la libertà fora tutti gli orizzonti. Essa va all’infinito.

13Il “collettivo” non è una collezione, una raccolta di pezzi singolari: esso precede le singolarità, e queste ultime provengono dall’essere-insieme. Ma questa non è né una collezione, né una sostanza comune. Non “è” nulla che si sottometta ad alcuna categoria se non a quella transcategoria o necessità archiontologica che è: “più d’uno”; non vi è mai “uno” solo. Il semplice “uno” esige molti “uno”, e la loro pluralità li precede e li eccede…

14Tuttavia non vi è certamente pluralità senza singolarità, ed esse sono contemporanee al loro essere-insieme. Vi è dunque una paradossale, doppia anteriorità del comune e del particolare: ciascuno precede l’altro. La “doppia anteriorità” del comune sul particolare e del particolare sul comune rimanda anche a una doppia anteriorità della “volontà generale” di cui parla Rousseau (cioè un desiderio del collettivo o del comune in quanto tale e in vista di se stesso) e del desiderio particolare. Entrambe sono insolubili, ma la seconda ha il vantaggio di mostrare meglio ciò che vi è di completamente aporetico in questa doppia anteriorità. Se c’è una volontà comune che precede, come emergerà da essa un desiderio particolare, o viceversa? Ma è anche, al tempo stesso, un modo di mostrare come l’impossibile montaggio di una “doppia anteriorità” deve essere compreso diversamente: vi è anche una medesima origine, e questa consiste nel rapporto. Cioè nella volontà, nel desiderio, nella tendenza o nella pulsione – mantengo qui indifferenziati questi termini – della circolazione di qualcosa come un “senso”.

15Si potrebbe dire che l’“umanità” consiste in questo, in questa circolazione. O anche, più precisamente, che l’umanità porta alla manifestazione dichiarata – nel linguaggio – la circolazione del “senso” che è quella del “mondo” in generale. L’universo non è un dato grezzo e in-sensato di “cose”, sopra le quali verrebbe ad articolarsi un logos. L’universo è in se stesso e da se stesso un logos – anche se eccede ogni logica, ogni linguaggio, ogni ragion sufficiente della propria esistenza. Si potrebbe dire: vi è come una “volontà generale” dell’universo – è ciò che si è voluto interpretare sia come “Dio” sia come “Storia”. Ma, appunto, questo non s’interpreta…

16Nella circolazione, il “comune” e il “particolare” sono completamente e intimamente intrecciati. Entrambi sono formati a partire dalla circolazione, come i suoi nodi, le sue articolazioni, le sue variazioni eccetera. Questo produce delle singolarità – singolarità “comuni” e singolarità “particolari”. Esso, cioè, sostituisce la coesione di un insieme – universo, cosmo, natura, dèi e uomini – con la rete degli incroci, delle interdipendenze, dei reciproci rimandi. In questa rete tutto accade al singolare – un “soggetto”, una “legge”, un “istante”, un “senso” – e questo singolare, a sua volta, consiste nell’intersezione di corrispondenze multiple, grovigli, compressioni, dispersioni. Si può dire che il contratto di Rousseau è la prima espressione della coscienza di questa mutazione che è veramente un’autentica mutazione antropologica: lo scioglimento dell’insieme o degli insiemi dati. Per questo motivo Rousseau deve proporre il concetto di “volontà generale”: da una parte, il “generale” cerca di ripristinare una forma d’insieme, d’altra parte la “volontà” emerge dal registro della tensione particolare verso una rappresentazione particolare (con la supposizione che l’agente di questa volontà possa diventare la causa della realtà di questa rappresentazione, il che è la definizione kantiana della volontà). Si potrebbe dire che è una commistione di cosmologia e di psicologia. Oppure una nuova teologia, dal momento che Dio è stato rappresentato proprio come la volontà del mondo. La difficoltà della volontà generale è dunque la stessa di Dio: quella non può esistere più di quanto possa esistere questo.

17Ma al tempo stesso ciò che si chiarisce attraverso questa difficoltà è il regime che chiamavo della “circolazione”: questo regime comporta uno sconvolgimento dello statuto del senso. La tensione che apre e accompagna la circolazione non può essere condotta a una risoluzione finale: non si è, se si può dire così, all’interno dello schema tensione/rilassamento, né all’interno dello schema ricerca del senso/compimento del senso. La volontà generale può soltanto essere rivolta verso se stessa: non soltanto “cosa vogliamo?” ma innanzitutto “chi siamo?” e “ci vogliamo noi-stessi?”, “vogliamo il mondo?” ma quale? eccetera.

4.

18Dobbiamo dunque fare esistere, creare – si potrebbe dire – un “comune”, un mondo comune o una collettività che non esiste, che non è data e che, in qualche modo, deve trovarsi e farsi esistere essa stessa… Ma questo non impedisce che il comune diventi così una singolarità che esiste nell’evento della sua singolarizzazione – un “popolo” per esempio, un rapporto in generale – un’amicizia, un amore, un affrontarsi, un confronto – bisogna pure che una certa rappresentazione sia possibile: cosa o chi e come vogliamo essere? Tuttavia questa rappresentazione non può costituire l’oggetto di una messa in opera volontaria secondo il modello di una volontà esecutiva. Essa deve lasciare aperta un’indeterminazione del suo contenuto e dunque anche una indeterminazione del suo passaggio all’atto.

19Oggi l’Europa non ha una volontà generale perché non riesce a darsi una rappresentazione politica di sé. Un tempo, invece, l’Europa si realizzò davvero, come l’Europa dei monasteri, delle corporazioni, delle franchigie borghesi, dei principi e dei re, dei mercanti, degli artisti, eccetera. Ma queste “Europa” successive restavano indeterminate, e si parlava poco o nulla di “Europa”. Proprio in questo contesto d’intensa circolazione è giunta la mutazione filosofica, antropologica e di civilizzazione di cui parlo: si potrebbe dire che con Rousseau l’Europa si è presa per l’umanità intera, e che l’umanità intera si è pensata capace di volere se stessa. Essa è entrata allora nella divisione e nella lacerazione interminabili delle volontà particolari, degli “interessi” e di una volontà generale la cui generalità era vuota di ogni contenuto umano o divino. In seguito è stato sufficiente un secolo di indipendenze nazionali per condannare l’Europa al proprio annullamento.

20Quel che ne sia o non sia dell’Europa, oggi dobbiamo pensare una messa in opera del tutto differente di questa volontà generale che è al tempo stesso mondiale – rappresentazione generale della democrazia, del diritto, dell’eguaglianza, eccetera – e frantumata in mille volontà particolari che pure si credono assicurate dalle loro rappresentazioni – popolo, stato, identità varie. Vi è tuttavia soltanto un’unica generalità effettiva, quella del capitalismo. Questo non dipende dalla volontà generale, oppure è questa volontà guidata da una rappresentazione del “generale” come accumulazione e accrescimento dell’“equivalenza generale”, cioè del denaro come lo definisce Marx. Questa specie di volontà generale è la scelta che la nostra civilizzazione ha fatto all’incirca nel Rinascimento.

21La questione per noi è di scoprire come possiamo desiderare altro oppure desiderare altrimenti. In fondo non desideriamo affatto l’equivalenza indifferente. Ma cosa? Come chiamare l’oggetto di un tale desiderio? Io lo chiamo “senso” ma lo chiamerei anche “desiderio”: desideriamo essere nel desiderio, nella tensione verso…, nello slancio. Ecco così la non-equivalenza: quando desidero qualcosa o qualcuno lo metto a parte, lo privilegio. È la stessa questione della volontà generale: che cos’altro essa può privilegiare se non il comune stesso? Ma non in quanto “comunità” né come “comunismo”, ancorché queste parole siano servite molto ad aprire la strada. Non come entità comune ma come circolazione, condivisione, risonanza, ripercussione, ripresa del senso – di questo senso che consiste soltanto nella sua circolazione.

22In questo – in questa circolazione di noi stessi tra noi altri – non cessa di aprirsi di nuovo e di rilanciarsi la nostra libertà – che altro non è se non la libertà stessa del mondo, la sua inizialità sempre ricominciata (ciò che Spinoza considerava la libertà esclusiva di Dio…).

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