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Il Laboratorio con i minori vittime e/o testimoni di violenza

p. 127-132


Texte intégral

1Questo testo si riferisce a un’esperienza maturata dal Consultorio di Psicoanalisi Applicata Il Cortile, durata nove anni, all’interno del Centro provinciale La Ginestra di Valmontone (Rm). La pratica che ne è derivata è stata poi trasferita (e lo è tuttora) nella sede del Consultorio, presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma. Negli anni il Centro ha accolto più di 2500 donne, ospitandone circa il 10 per cento, con altrettanti minori. Trattandosi di un centro «per donne e minori in difficoltà», inserito nella rete dei centri antiviolenza, abbiamo proposto e ottenuto di lavorare alla sperimentazione di un approccio integrato (approccio di genere e psicoanalisi applicata). Per questo motivo si è progettato fin dall’inizio uno spazio dedicato solo ai minori. Questa decisione si è rivelata poi “pionieristica” nel panorama dei centri antiviolenza: la Ginestra è stato infatti l’unico centro della rete nazionale ad aver creato e mantenuto un lavoro specifico dedicato ai bambini e alle bambine vittime e/o testimoni di violenza e l’unico in Italia ad aver ammesso un operatore maschio all’interno dell’équipe.

2Dal 2006 mi sono occupato, insieme a una collega, Antonella Loriga, del lavoro con i minori e con le mamme (e, quando possibile, con i papà); la collega Laura Storti ha sempre coordinato e supervisionato il nostro lavoro attraverso le riunioni d’équipe.

La violenza, il trauma e l’istituzione

3Subire violenza o essere spettatori di atti di violenza produce un trauma che spesso può rimanere velato anche per molto tempo, ma i cui segni restano indelebili. Il trauma è un evento che crea un taglio, un buco, nella vita psichica di un soggetto. Determina un prima e un dopo, è un qualcosa che marchia il soggetto per sempre. Spesso si osserva che, al di là del resoconto dell’evento traumatico, il soggetto non riesce a dire di più, anche se, nello stesso tempo, appare soddisfarsi del trauma a livello pulsionale, per esempio eccitandosi nel racconto particolareggiato di un dettaglio o ripetendo un comportamento legato al trauma, con il quale tuttavia misconosce il legame. La soddisfazione pulsionale sembra legata al ricordo del trauma. Impossibile pensare alla cancellazione del trauma in quanto, come statuto logico, è di per sé un evento non rimovibile.

4«Freud pensava che un ricordo traumatico non poteva essere assimilabile tramite delle associazioni e che per ciò acquisiva lo statuto di corpo estraneo. Lui ha saputo far notare il carattere sessuale legato al sussulto che costituiva la componente non metabolizzabile tramite la parola. […] Inoltre, cadeva sotto la repressione. È nella sua svolta del 1920 che Freud constata nei malati di guerra che la ripetizione della scena traumatica nel sogno è da collocare al di là del principio di piacere, è questa una molla della sua tesi della pulsione di morte»1. Irriducibilità e intrattabilità sembrano essere caratteristiche fondamentali del trauma, dunque un possibile intervento è sostenere il soggetto nel suo lavoro di rielaborazione: permettergli di spostare il trauma da evento che fa buco di sapere a “costruzione” da cui ripartire.

5Nella pratica con i minori questo si traduce nel fatto di non puntare direttamente al trauma, ma di creare le condizioni ambientali in cui il bambino possa portare la propria questione, essendo certo di incontrare qualcuno in grado di sostenere il suo lavoro. Pensiamo che i minori che hanno attraversato la violenza debbano ricostruire un rapporto di fiducia, non soltanto verso coloro che l’hanno esercitata, laddove possibile, ma anche nei confronti del mondo. «[… ] non si può arrivare a definire l’Altro senza avvenire come soggetto. […] Dopo un trauma è necessario re-inventare l’Altro»2. Per questo è necessario che si crei intorno ai bambini un’atmosfera dove ciascuno è regolato e dove la parola è il principale motore. Antonio Di Ciaccia ha definito «atmosfera terapeutica» la particolare modalità di costruire un’istituzione a misura dei bambini, in cui è la quotidianità che è terapeutica, soprattutto laddove è impossibile, o quasi, praticare una vera psicoterapia, cioè quando non c’è una domanda di cura. Il concetto di atmosfera terapeutica è una delle idee portanti della pratique à plusieurs.

6L’atmosfera terapeutica non si riferisce all’ambiente, al contesto, al luogo fisico, ma alla posizione degli operatori, la posizione «davanti» ai bambini3. Attraverso la strutturazione delle attività e la regolamentazione della vita quotidiana, si è costruito un ambiente protetto (in cui è la parola, non il comportamento, a essere messa in rilievo), che da una parte pacifica i bambini al momento del loro ingresso e successivamente produce una spinta per ognuno a scegliere e occupare una posizione soggettiva, che lasci spazio al desiderio di ciascuno. Creiamo un luogo la cui condizione è che i minori possano “enunciare”, lasciando spazio a ogni possibile enunciato.

Pratique à plusieurs e Laboratorio

7Pratique à plusieurs è il nome che Jacques-Alain Miller ha dato alla pratica istituzionale “inventata” da Antonio Di Ciaccia. Psicoanalista allievo di Lacan, Di Ciaccia ha fondato nel 1974 un’istituzione residenziale per bambini autistici e psicotici in Belgio, l’Antenne 110. Questo modello è stato ripreso in istituzioni di altri paesi, europei e non, e tutte queste istituzioni si coordinano nel Champ Freudien, istituzione fondata nel 1979 da Lacan per orientare gli operatori della salute mentale che si rivolgono alla psicoanalisi, senza però essere necessariamente psicoanalisti. La pratica nasce come applicazione della teoria di Freud e di Lacan alla clinica istituzionale con i bambini gravemente disturbati, ma da diversi anni orienta il lavoro in molte altre “situazioni” cliniche, in generale laddove non c’è una domanda di cura. Il nome, pratique à plusieurs, si può tradurre come “pratica in diversi”.

8Il lavoro del Laboratorio si è strutturato intorno agli assi della pratique à plusieurs tentando di applicarla in un contesto diverso. La nostra “invenzione” è stata quella di praticare “in diversi” con bambini e bambine che avevano attraversato e subito violenza e che non domandavano nulla all’équipe del Centro che li ospitava. «Solo con queste condizioni è forse possibile che cambi qualcosa del reale tramite una certa operatività del simbolico»4.

9Abbiamo appreso che ciascun soggetto sottoposto a violenza fisica, verbale, psicologica o di altra natura, reagisce in modo assolutamente unico: per questo nel nostro lavoro cerchiamo di dare spazio a questa unicità, a farci guidare dal bambino stesso, e solo nel momento che egli ritiene più opportuno.

10Non si tratta di insegnare, non si tratta di rieducare, non si tratta di interpretare. Gli operatori devono farsi trovare all’appuntamento, testimoni, affinché il bambino o la bambina possano dire. Essi devono poter raccogliere quel dire, affinché se ne possa fare qualcosa.

11È stato proficuo poter disporre di operatori di entrambi i sessi per poter giocare, nella relazione con i minori, i ruoli genitoriali e le prerogative di genere, per sovvertirle, o comunque per permettere che i minori si interrogassero su questi temi. Di solito i minori, fin dal loro arrivo al Laboratorio, portano le loro singolarità – i loro sintomi. L’approccio psicoanalitico, se da una parte considera ciascun soggetto come assolutamente singolare e irripetibile, dall’altra pone che non possa esistere un essere parlante senza il proprio sintomo.

12Nel Laboratorio non si curano i sintomi, poiché non si attuano cure analitiche in senso stretto, ma si lavora affinché qualcosa del sintomo di ciascuno si “addomestichi”.

13Il lavoro è quello di mettere in discussione il processo di ripetizione che fissa il minore alla necessità di reiterare, nella propria esistenza, la posizione di vittima o di carnefice. «Il sintomo del bambino è nella posizione di poter rispondere a quanto c’è di sintomatico nella struttura familiare. Il sintomo – sta qui il fatto fondamentale dell’esperienza analitica – si definisce in tal contesto come rappresentante della verità. Il sintomo può rappresentare la verità della coppia familiare. È questo il caso più complesso, ma anche il più aperto ai nostri interventi»5. Nella pratica del Laboratorio non interveniamo con atti di correzione del comportamento o di rieducazione, ma pensiamo che il modo di intervenire debba partire proprio dalle scelte di “cura” – i sintomi appunto – che i bambini hanno trovato fino a quel momento.

14Punto di partenza del lavoro è stato raccogliere come materiale prezioso le “produzioni” che i minori ci portavano in quel momento, anche quelle più problematiche; ci siamo interessati a esse, provando, dove possibile, a domandare, per capire cosa fosse accaduto, non dando per scontate le spiegazioni.

15Spesso sono stati gli stessi bambini ad aver supplicato le madri di andare via di casa perché «quello che fa papà non si fa», eppure sono proprio loro che poi, una volta arrivati al Laboratorio, assumono lo stesso comportamento violento, mostrando di essere alle prese con qualcosa (Lacan lo chiama godimento) che si ripete al di là della loro idea di sé. Ciò che li rende assoggettati ai comportamenti violenti subiti è ciò che Freud chiama la «coazione a ripetere». Ciò che fa trauma e che quindi non ha trovato una via di elaborazione, tende a riproporsi al soggetto in modo coercitivo, attraverso la pulsione che dà forma al sintomo, generando un godimento che poi diventa ingombro alla vita.

16Il nostro lavoro con i bambini non cerca di ottenere la guarigione dal trauma, offre piuttosto un trattamento del trauma.

17In ogni caso, questo modo di lavorare non esclude il riferimento alle regole. Il regolamento è parte importante della vita del Laboratorio, per i minori, ma soprattutto per operatrici, operatori, responsabili, psicologi e psicoterapeuti.

18Il regolamento è la Legge che è al di sopra di tutti e che a tutti impedisce le stesse cose: è un «terzo simbolico», diremmo con Lacan. Nel lavoro con i bambini si fa spesso appello al regolamento: come garante e regolatore del rapporto con gli altri. Davanti alle loro trasgressioni, gli operatori fanno appello al regolamento come luogo terzo, e questo serve a spostarci da un rapporto duale e simmetrico, come un braccio di ferro, a un piano in cui qualcosa s’interpone tra il minore e l’adulto che si prende cura di lui: un qualcosa che, in sostanza, fa da argine. Attraverso la costruzione degli argini è possibile orientarsi, e quindi muoversi per scegliere qualcosa di diverso, di più creativo e di inedito rispetto alla ripetizione di comportamenti violenti. Questo passaggio dall’agire al parlare è un movimento prezioso, che segnala l’interruzione di una strada che sembrava inevitabilmente segnata dalla ripetizione.

Un gioco del Laboratorio

19Tiziano ha sei anni, ha frequentato il Centro per tre anni come “esterno”, poi le discussioni tra i suoi genitori si sono aggravate e la madre ha deciso di separarsi dal marito. Tiziano, il suo fratellino Michelangelo e la madre sono stati quindi ospiti del Centro.

20Il nucleo familiare è multiproblematico, vivono in campagna in una casa senza riscaldamento e senza telefono, una casa molto sporca e disordinata, pericolosa per i bambini, ci dicono gli assistenti sociali.

21Il padre di Tiziano è un uomo che attraversa fasi di grande attività e periodi in cui non riesce ad alzarsi dal letto, è un uomo intelligente, dal carattere sanguigno, diventa facilmente aggressivo. Spesso dice molte parolacce e bestemmie. Ha picchiato la mamma di Tiziano alcune volte.

22Tiziano ama molto suo padre: «Papà è il più forte di tutti».

23Da qualche tempo Tiziano bestemmia e dice parolacce, dapprima solo quando si arrabbia, poi la cosa deborda e le parolacce si concatenano con le bestemmie. È palese che questo dire è qualcosa che Tiziano prende dal padre come un tratto protettivo, usa ciò che il padre usa, parla come papà. Come salvare allora il “Padre” per Tiziano, senza privare il bambino delle “sue” parolacce? Come trasformare le parolacce del padre, ormai diventate litania per Tiziano, in un qualcosa che ha valore, qualcosa di prezioso? Osserviamo, tra l’altro, che il dire “non si fa!” non produce alcun risultato, cioè la regola pura e semplice non passa.

24Gli propongo un gioco con la scrittura, che giocheremo due volte, nel tentativo di far passare nello scritto qualcosa dell’agito. Divido un foglio in due parti: da una parte intitolo «parolacce che si possono dire» e dall’altra «quelle che non si possono dire»; a turno, dobbiamo dire una parolaccia e io la scrivo. Lui ne dice molte e ride ma io rimango serio: «Ah, bene! Dove la devo scrivere? Di qua o di là?». Dopo le risate iniziali, Tiziano si fa serio, e comincia a dividere quelle che lui decide che si possono dire da quelle che non si possono dire. In breve, ci accorgiamo che le parolacce e le bestemmie sono più regolate, meno esibite da Tiziano, anche se ancora, quando proprio perde la pazienza, bestemmia.

25Gli propongo un secondo gioco: «Ti ricordi il gioco delle parolacce? Oggi le mettiamo in ordine!». Tiziano acconsente a giocare e quindi stavolta chiedo di mettere in ordine le parolacce; non deve dire tutte quelle che sa, come la scorsa volta, stavolta deve dire l’ordine di importanza: «quali sono le parolacce più importanti per te? E le bestemmie?». Scriviamo una top ten delle parolacce e delle bestemmie e conserviamo con cura i fogli. L’aver individuato le migliori sembra aver prodotto, come effetto, lo scarto di tutte le altre; succede infatti che negli ultimi giorni Tiziano non dice parolacce o quasi: bestemmia un paio di volte nell’arco di dieci giorni.

26Tiziano ha giocato molti altri giochi al Laboratorio e questo sta permettendo una graduale regolazione della sua aggressività in una forma che lui stesso ha deciso, sotto la guida degli operatori. Gli operatori cercano sì di tenere con Tiziano una posizione di “guida”, ma quella di una strana guida: «una guida che lo segua»6.

Notes de bas de page

1 G. Dargenton, Trauma, in AMP – Scilicet del Nome-del-Padre, Testi preparatori al Convegno Amp Dei nomi del padre, Roma, 2006, http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/psiche/scilicet.pdf.

2 É. Laurent, Fils du tauma, “Preliminaire”, 8, 1996, p. 51, trad. nostra.

3 Cfr. M. Egge, La cura del bambino autistico, Roma, Astrolabio, 2006.

4 A. Di Ciaccia, Una pratica al rovescio, in Quaderni Veneziani: Autismo e Psicosi infantile. Clinica in Istituzione, Roma, Borla, 2001, pp. 23-43.

5 J. Lacan, Nota sul bambino [1969], in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, p. 367.

6 L’espressione è di Donna Williams, spesso citata da Virginio Baio, cui questo testo è dedicato.

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