La violenza dell’insulto
p. 115-118
Texte intégral
1Emerge periodicamente dalle cronache una realtà silente che colpisce i giovani, una forma di violenza che arriva a essere colta solo quando il malessere dei ragazzi li porta a compiere atti estremi, come per esempio il suicidio.
2La violenza verbale viene spesso sottovalutata, viene data per scontata, poiché si considera che chiunque, almeno una volta nella vita, si sia trovato a essere vittima di insulti.
3Si finisce così per attribuire in maniera semplicistica e grossolana a quei ragazzi che scelgono la via del suicidio, una sorta di “indole debole”, una predisposizione che li porterebbe a non essere abbastanza resistenti alle difficoltà della vita. Inoltre, nel cercare di spiegare questo gesto estremo, spesso si ricerca un movente in un’ipotetica falla del sistema educativo-familiare.
4Ovviamente quello del suicidio è un gesto estremo, ma la violenza verbale può portare a svariate forme di malessere, e la clinica con i ragazzi adolescenti può offrire una testimonianza delle infinite declinazioni sintomatiche che possono scaturire dall’incontro con una parola offensiva.
5Infine, se la violenza che può esercitare un insulto è evidente a tutti, grazie alla teoria che ha elaborato Lacan possiamo dire che il semplice incontro con il linguaggio ha un carattere traumatico per ogni soggetto, e dunque anche un discorso che non abbia un’esplicita intenzione offensiva, può diventare tale.
6Si può dunque partire da una domanda: qual è l’effetto dell’incontro con il linguaggio per il soggetto?
7La risposta a questa domanda è complessa, ma per chiarire come una parola possa ferire al punto di rendere l’esistenza insopportabile, utilizzeremo una metafora mitologica. Si tratta del mito di Achille, che si presta a descrivere bene la doppia natura dell’effetto del linguaggio sul soggetto.
8Infatti, la forma più conosciuta del mito della nascita di Achille racconta di come Teti, la madre del neonato, lo avesse immerso completamente nelle acque del fiume Stige, tranne una piccola parte, ovvero il tallone per il quale lo reggeva. Il corpo così immerso divenne dunque invulnerabile, fatta eccezione per il tallone.
9In questa prima versione del mito possiamo trovare un paragone del modo in cui il linguaggio “affetta” il corpo, significantizzandolo, rendendolo cioè immortale, non più semplicemente assoggettato alla sua natura biologica, facendolo diventare qualcosa che il soggetto possiede. Già in questa prima parte del mito, però, un piccolo pezzo di corpo resta fuori dalle cure del linguaggio, un resto vivo, se non addirittura vitale.
10La versione meno nota del mito, contenuta ne Le Argonautiche1, vede sempre come soggetto delle cure materne il piccolo Achille, ma in questo caso la pratica messa in atto da Teti è molto più cruenta.
11La madre usava ungere durante il giorno il bambino con l’ambrosia, mentre la sera ne bruciava la carne con il fuoco, per poi sostituire le parti bruciate con un corpo divino. Fu grazie all’intervento del padre di Achille, Peleo, che questa pratica venne interrotta, poiché, sentendo le urla strazianti, accorse in soccorso del bambino, facendo fuggire per sempre la madre. Questo lasciò un buco al posto del tallone del bambino, che venne sostituito con quello del gigante Damisio, conferendogli così una velocità soprannaturale.
12Questa versione del mito chiarisce un altro effetto del linguaggio sul corpo del soggetto: a prezzo dell’immortalità significante viene strappata sostanza viva, godente, lasciando così un vuoto, un resto che viene riempito con l’oggetto del godimento.
13Quindi, se da una parte il linguaggio permette al soggetto di divenire un essere di parola, dall’altra lo fa al prezzo di sottrarre godimento.
14Ne resterà però una parte, sotto la forma che Lacan ha chiamato oggetto a, ovvero l’oggetto del desiderio, attorno al quale ruoterà inconsciamente il discorso del soggetto.
15E come viene ben figurato dal mito, è sempre l’Altro a bordare con il suo trattamento quell’oggetto, che diventa sia punto cieco sia tesoro: il trattamento che il neonato riceve è chiaramente un bagno di linguaggio.
16Data questa premessa si può cogliere come l’ingiuria possa in alcuni casi diventare letale per un ragazzo, poiché ciò a cui mira è proprio il godimento dell’altro: chi offende entra in una dinamica speculare nella quale il diritto a godere dell’altro viene schiacciato dal proprio. L’offesa proietta i due soggetti in una contesa immaginaria nella quale si instaura una logica del “o io o tu”, con la conseguente messa in gioco dell’aggressività nelle sue varie forme.
17Non è quindi casuale che le offese siano per lo più parole che richiamano quegli oggetti a che Lacan e Freud hanno da tempo indicato.
18Viola per esempio scrive e posta foto molto esplicite sui social, dandosi in pasto a chiunque si presti. Ciò che le ritorna è sempre la stessa parola: «Troia». Questa è una cosa che la fa soffrire, ma dalla quale non riesce a prendere distanza. Quel «troia» sottolinea bene come questa giovane ragazza non riesca a sottrarsi dall’essere per l’altro un oggetto di godimento e come, nel suo modo di porsi in relazione, si offre a essere divorata.
19Questo esempio esplicita molto chiaramente come certe parole mirino esattamente al cuore del soggetto, e in un’età come quella della pubertà, nella quale ci si inizia a confrontare con la propria sessualità, è chiaro che non occorre scomodare “un’indole debole” o chissà quali mancanze nel nucleo famigliare, per capire che qualsiasi soggetto è più esposto che mai con il suo tallone d’Achille bene in vista.
20Se da una parte dunque l’insulto mira all’oggetto di godimento, esiste un’altra modalità in cui il linguaggio può mortificare il soggetto: parlando, l’Altro ci definisce, e definendoci descrive e delinea quello che può diventare un modo di godimento.
21Luca è un ragazzo cresciuto in un contesto familiare che non l’ha mai sostenuto. La sua vita si riduce a fumare canne al parco sotto casa, passando così il tempo. Il padre dice di lui: «non ha voglia di fare niente, è uno sfaticato». Queste parole si fissano nel ragazzo come un imperat, tant’è che quando le difficoltà emergono, si chiude in camera e dorme. Nel dialogare con il ragazzo emerge come il detto paterno lo abbia da sempre influenzato nel suo modo di essere.
22Le parole dell’Altro posizionano il soggetto in un posto: ovviamente la cosa non è automatica e la risposta al dire dell’altro è singolare, al punto che due persone alle quali venisse rivolto lo stesso discorso, potrebbero avere delle risposte completamente diverse, se non addirittura opposte.
23Andrea è un ragazzo sovrappeso, ma in questa sua grossezza trova una certa sicurezza, al punto che con affetto si fa chiamare «ciccione». La stessa parola, «cicciona», è una persecuzione per Costanza, una ragazza ossessionata dal suo peso, che usa questa parola scrivendola ripetutamente in un diario come un’ingiuria rivolta a se stessa, al fine di motivarsi in tal modo per lunghi periodi di digiuno, diete estreme che culminano in atti di autolesionismo.
24Quindi non esiste un effetto univoco della parola, ma questa deve confrontarsi con il singolare modo di godere che ha ogni individuo e con la costruzione della sua catena simbolica.
25Tutte queste considerazioni ci spingono a riflettere sul fatto che qualcosa che appare tanto automatico come parlare, non è privo di conseguenze. A partire da ciò, soprattutto chi ha a che fare con bambini e adolescenti sa quanto sia fondamentale tenere conto di ciò che si dice, di ciò che ci viene detto, ma anche dell’al di là a cui mira la parola.
26Per concludere, in un’epoca in cui proliferano a dismisura le etichette diagnostiche, bisognerebbe cominciare a considerare seriamente gli effetti clinici di questa pratica sui bambini e sui soggetti adolescenti: se la parola posiziona il soggetto e in una certa misura lo mortifica, fissando la sua immagine in un ideale, va da sé che certe etichette diagnostiche hanno lo stesso effetto di quelle trappole per pesci nelle quali, una volta che si entra, non c’è più modo di uscirne.
Notes de bas de page
1 A. Rodio, Le Argonautiche [III secolo a. C.].
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Adoviolenza
Ce livre est cité par
- Pietralunga, Susanna. Salvioli, Claudia. (2023) Il Male nella Relazione. Minori autori di reati violenti contro i genitori. RIVISTA SPERIMENTALE DI FRENIATRIA, 147. DOI: 10.3280/RSF2023-001005
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