Una pratica di autolesionismo: il cutting
p. 101-108
Texte intégral
1Nelle nostre istituzioni con finalità educativo-riabilitative ci confrontiamo spesso con la violenza nelle sue varie forme: a volte sono agiti o passaggi all’atto senza un perché, pura espressione di un godimento, soddisfazione della pulsione di morte che se non imbrigliata diventa deflagrante. Anche noi adulti conosciamo ciò di cui si parla: è una pulsione che ci abita, utenti e operatori. È fondamentale il modo con cui l’Altro sociale riserva un posto al ragazzo violento, e nelle nostre comunità, analiticamente orientate dall’insegnamento di J. Lacan, tale posto viene offerto come una possibilità soggettiva. J.-A. Miller nel suo articolo Bambini violenti parla di «controviolenza simbolica»1: con i nostri ragazzi sperimentiamo come il dire, in quanto atto di parola, possa produrre degli effetti e portare a cercare delle invenzioni per gestire la violenza. Dobbiamo interrogarci, mettendo in parola questo puro desiderio di distruzione caso per caso, per non farci pietrificare, procedendo con dolcezza.
2In questo testo vorrei parlare della violenza dal lato del soggetto, quando viene rivolta contro se stesso, utilizzando delle pratiche di autolesionismo. Mi soffermerò su una in particolare, il cutting, in cui il corpo viene maltrattato con tagli o scarnificazioni, distinguendo, attraverso una diagnosi differenziale che indirizza la direzione della cura, quando si tratta di un’azione rivolta all’Altro o quando, al contrario, lo esclude.
3La psicoanalisi ci insegna che la violenza è una dimensione insita nell’essere umano. L’aggressività segna la nascita del soggetto, che si definisce nella differenza con l’altro nel quale si riconosce e al tempo stesso si aliena. Ci è noto l’esempio di Sant’Agostino e del bambino che vede il fratellino intento a bere il latte dal seno della madre. È una gelosia che nasce in un soggetto nel suo rapporto con un altro che gode di qualcosa da cui lui si sente privato. La gelosia è costitutiva del legame e ogni relazione porta con sé una dimensione di aggressività, che può tradursi in violenza. Semplicemente è la base di ogni forma di razzismo: ciò che per noi è insopportabile è il modo di godere dell’altro. È una invidia costitutiva che fa parte dell’essere umano, e proprio perché è una dimensione costitutiva, occorre sia trattata con la parola. La nostra epoca è segnata dal declino della funzione paterna e i soggetti si sentono sempre meno implicati a parlare, a entrare in relazione tra loro; quest’assenza di confronto permette che la violenza dilaghi. Il compito dell’individuo è trovare una soluzione singolare che permetta di circoscrivere la violenza e fare posto al desiderio, al legame. Solo attraverso un buon incontro sarà possibile promuovere la creatività dell’atto singolare. Ed è per questo che in diversi ambiti, sia pubblici che privati, e in risposta al reale dilagante di questo fenomeno, nascono luoghi e istituzioni per poter trattare o ascoltare chi subisce o agisce violenza. Siamo soggetti, ma anche oggetti di violenza. La violenza è un fenomeno che riscontriamo spesso nelle nostre istituzioni, agiti o passaggi all’atto che sorgono come una pura espressione della pulsione di morte e che in alcuni soggetti può sfociare in fenomeni di aggressività autodiretta.
4Negli ultimi anni gli adolescenti sono diventati per me, come madre e come professionista, un enigma, un pianeta da esplorare perdendo la mia libbra di carne per poterli avvicinare timidamente e spesso con timore. Nell’istituzione presso la quale lavoro mi confronto con adolescenti che hanno sperimentato la sofferenza in modo cruento (penso a soggetti adottati anche in tenera età, ma che sono stati marchiati a fuoco dal trauma dell’abbandono). Essi cercano di appropriarsi del loro corpo che sta cambiando, lasciando, come sottolineava Françoise Dolto nella metafora del gambero2, il proprio involucro, rimanendo senza guscio, nudi, esposti alla vita. Sono alla ricerca di un nuovo abito, che potrebbe rivelarsi stretto o eccessivamente largo, con l’aggiunta delle difficoltà che spesso li accompagnano, dovute alla struttura psichica che li caratterizza e con alle spalle dolori che urlano quotidianamente. In piena pubertà fanno i conti con un corpo diverso, che faticano a riconoscere, in quanto luogo di sensazioni nuove, e in genere, per la prima volta, anche con quello dell’altro sesso, spesso in maniera prematura e turbolenta. J. Lacan ci insegna che, poiché siamo immersi nel linguaggio, il corpo prende forma nell’incontro con la parola e con il desiderio dell’Altro; ci appropriamo del nostro corpo solo successivamente, grazie alla possibilità di un’iscrizione simbolica, e prima di questo evento siamo in presenza solo di un organismo. La pubertà quindi porta alla ribalta un corpo nuovo, che il ragazzo o la ragazza deve fare proprio a partire dalle coordinate della sua storia personale e che talvolta può far emergere un senso di disgusto e il desiderio di maltrattarlo. Molti dei sintomi che si manifestano nell’adolescenza sono la conseguenza del fatto che non esiste un sapere che dica come fare con l’altro sesso, come fare con il proprio corpo. Questo lo ritroviamo anche ai giorni nostri, nonostante i “libretti di istruzioni” che offrono un sapere tecnico sulla sessualità o sul corpo da un punto di vista biologico siano prêt à porter e possano essere rintracciati ovunque, internet in primis.
5In ogni epoca e in culture diverse sono esistiti dei riti di passaggio che hanno messo in gioco il corpo; al giorno d’oggi, come pratiche simboliche, troviamo piercing e tatuaggi, forme di modificazione o manipolazione corporea approvate dalla collettività e molto in voga nella società moderna. Possono essere effettuati per ricordare in maniera indelebile particolari ricordi di eventi significativi, o possono esibire sulla pelle i propri ideali, o i patti di amicizia, o amore, o fedeltà a una causa. Annoveriamo anche chi si sottopone a numerosi interventi di chirurgia estetica, o artisti contemporanei il cui lavoro è incentrato sull’attacco al proprio corpo, prodotto però di un vero e proprio progetto artistico e di una strategia comunicativa pensata nei dettagli.
6Nella nostra contemporaneità notiamo come gli agiti sostituiscano il pensare, il riflettere, il verbalizzare, portando all’emergere di nuovi sintomi, rispetto ai quali, nelle forme più gravi, la dinamica autoaggressiva assume un’importanza preponderante. Anche se ogni caso è diverso da un altro, possiamo dire che la manifestazione dell’ansia, dell’angoscia e degli attacchi di panico si presenta ogni volta che c’è un troppo, un eccesso di godere. In questo senso, sono dei segnali che, come diceva J. Lacan rispetto all’angoscia, indicano che «la mancanza viene a mancare»3 e possono sfociare in condotte che possiamo racchiudere nella categoria di “autolesionismo”.
7Il termine “autolesionismo” deriva dal greco αὐτός (sé) e dal verbo latino laedo (danneggiare), letteralmente “danneggiare se stessi”. L’atto più comune con cui si presenta l’autolesionismo è l’incisione, il taglio della pelle (cutting), ma esso comprende anche il bruciarsi con le sigarette (burning) o marchiarsi a fuoco la pelle con un laser o un ferro rovente (branding). Cutting, burning e branding sono comportamenti particolarmente frequenti durante l’adolescenza. E non è un caso se, come sottolineavo prima, il corpo che cambia diventa il campo di battaglia di ogni adolescente. Il suicidio spesso non è il fine dell’autolesionismo, ma il rapporto tra suicidio e autolesionismo è piuttosto complesso poiché, talvolta, un comportamento autolesionista può essere pericoloso per la vita del soggetto. Parliamo anche di “autoferimento”, in inglese self-injury, per indicare quei «comportamenti socialmente non accettati che implicano l’alterazione deliberata e diretta della superfice corporea senza un intento suicidario cosciente»4.
8Analizzando più da vicino il fenomeno del cutting, ovvero tagliarsi con oggetti appuntiti come coltelli, lamette, pezzi di vetro, chiodi, fino a scarnificarsi il corpo, si può sottolineare come si possa presentare in soggetti che sono attraversati da una sofferenza che non riescono a esprimere: mancano loro le parole per descriverla, e quando sono “sotto pressione” possono incidere i propri arti con una lametta facendo fuoriuscire il sangue. Nel cutting il corpo è preso fino in fondo: i tagli seguono delle specifiche linee studiate appositamente così da evitare il ricovero ospedaliero. Questa pratica spesso viene attuata in rigoroso segreto e le parti lesionate sono frequentemente nascoste da indumenti. Successivamente a questo preciso rituale, i soggetti si disinfettano e ripuliscono tutto il materiale utilizzato. È un taglio fisico, nel reale, che produce una sensazione di dolore fisico, che pare sopraffare il dolore mentale. I segni e le cicatrici lasciati da questi gesti autodistruttivi raccontano una sofferenza di cui ancora il soggetto non può dire nulla.
9Il cutting sta diventando un fenomeno sempre più diffuso tra gli adolescenti grazie alla divulgazione di una serie di video sui social, dove si vedono immagini di ragazzi che mettono in atto pratiche di autolesionismo. La difficoltà degli adolescenti nativi digitali5 a esprimere le loro emozioni è una delle conseguenze di una sorta di analfabetismo emotivo, che si riscontra nelle difficoltà che caratterizzano le giovani generazioni, come il bullismo, la tossicodipendenza o l’alcolismo. Si concretizza in una mancanza di consapevolezza e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti a esse associate, e in un’incapacità di relazionarsi con le emozioni degli altri, che non vengono riconosciute e comprese. Ecco allora che un dolore insopportabile, una delusione, ma anche talvolta l’incapacità a gestire la noia, porta i soggetti a segnare il proprio corpo con tagli, segni da nascondere agli occhi dei genitori, che tuttavia, nelle immagini postate sui social network, assicurano l’appartenenza a un gruppo specifico e l’appropriazione di un segno d’identità: per esempio le “ragazze cutter”. I selfie vengono condivisi in siti specifici, dove si istituisce una specie di autocura, simile a quella Pro Ana per quanto riguarda l’anoressia, e si rafforza l’esigenza di appartenere a un gruppo compatto in cui predomina un godimento che si manifesta nel corpo e che i soggetti sono in difficoltà a trattare e a mettere a una certa distanza. Le ragioni per cui una persona pratica il cutting, ovviamente, sono varie, in quanto esso serve per soddisfare funzioni diverse. Come ci insegna la psicoanalisi, si cerca la logica sottesa caso per caso e il modo singolare del soggetto di stare in relazione con se stesso e col mondo. Ci sono delle differenze nei vari modi in cui ciascun individuo si taglia, e delle differenze rispetto ai vari significati che vengono attribuiti a questa pratica. È sempre importante da un punto di vista clinico definire il meglio possibile ciò che osserviamo: per alcuni tagliarsi fornisce un temporaneo sollievo da stress, ansia, depressione, senso di fallimento e disgusto per se stessi. Altre volte però i motivi per cui si pratica il cutting diventano un modo per poter esercitare un controllo sul corpo.
10In molti casi i cutters sono consapevoli delle proprie ferite e cicatrici e cercano di nasconderle agli occhi degli altri, in altre situazioni vengono esposte allo sguardo senza alcun sentimento di vergogna o senso di colpa.
11Sotto lo stesso nome o la stessa manifestazione si possono celare motivazioni, dinamiche e strutture cliniche molto differenti. La psicoanalisi inquadra il sintomo come un tentativo di trattamento, come una soluzione che il soggetto mette in atto per far fronte a un reale insopportabile nella sua esistenza, un’azione che assume per il soggetto la funzione di catalizzatore di godimento. Un modo per evitare la divisione soggettiva del nevrotico e compensare la frammentazione costitutiva dello psicotico.
12Praticare questa forma di autolesionismo può significare per alcuni pensare a quello che possono ottenere in seguito, per esempio angosciando l’altro; per altri farsi del male è nello stesso tempo provare piacere, e il senso di sollievo sperimentato è generato, seguendo una lettura organicistica, da endorfine beta rilasciate nel cervello, che agiscono come un antidolorifico naturale, inducendo piacere e riducendo lo stress emotivo e la tensione.
13Secondo l’orientamento psicoanalitico sotto la lente d’ingrandimento è necessario posizionare il marchio di godimento particolare di ciascun soggetto. Alcuni “autolesionisti” dicono di non provare nessun dolore mentre si feriscono; altri, invece, lo usano, come decritto, per provare piacere. Per altri farsi del male significa provare qualcosa, anche se la sensazione è dolorosa e per niente piacevole. Queste persone manifestano sensazioni di vuoto e intorpidimento (anedonia), e il dolore fisico può essere un modo per sperimentare una sensazione, o per trasformare in attive esperienze che vengono vissute passivamente, subite o imposte: un modo per ribaltare un senso di impotenza traumatico in un “trauma” autoprovocato, del quale ci si può sentire autori. Qualunque condotta autolesionistica consente di spostare la propria attenzione sul dolore fisico, non occupandosi di quello emotivo, da cui, alla fine, ha origine questa pratica. Di conseguenza, grazie al corpo lesionato si è in grado di comunicare quello che non è possibile dire attraverso le parole.
14Trattare il proprio corpo imponendo dei tagli o delle lesioni permette al soggetto di sentirlo, di possederlo, anche solo per pochi momenti, e ciò induce la persona a ferirsi nuovamente. Si installa, in questo modo, un circolo vizioso simile a quello della dipendenza.
15Come sempre accade nella clinica, tanti dunque, sembrano essere i significati che si possono attribuire a un gesto come il tagliarsi, gesto che però racconta una storia diversa, singolare per ogni soggetto, che si delineerà nella cura.
16L’équipe di cui faccio parte, all’interno di un’istituzione che lavora orientata analiticamente, si ritrova a interrogarsi partendo dai dettagli che porta il soggetto che soffre: ognuno ha un proprio bagaglio, a volte doloroso, qualcuno ha una modalità di approcciarsi alla vita totalmente particolare. Nell’insegnamento di J. Lacan, per cui il desiderio è sempre il desiderio dell’Altro, dobbiamo incarnare, per questi ragazzi, un soggetto che si apra al desiderio e metta un freno alla pulsione di morte. Come ha spiegato in un incontro a Padova Paola Bolgiani: «È in gioco il desiderio dello psicoanalista che è desiderio di essere al servizio del soggetto, non di curarlo […] enunciando un “sì” che metta in rilievo un punto in cui il soggetto si percepisce degno dell’amore dell’altro al di là di ogni comportamento che può mettere in pratica. Il nostro obiettivo è far sorgere la parola in quel soggetto, anche se la parola secondo il suo modo personale può anche non piacerci. L’obiettivo è aiutare il soggetto a rendersi responsabile delle sue azioni e delle conseguenze dei suoi atti»6.
17Come ci implichiamo di fronte a questi agiti? J. Lacan ci insegna che ciò che non è trattato nel simbolico ritorna nel reale; il trattamento ha come finalità preliminare di costruire una relazione transferale di fiducia, grazie alla quale il soggetto si appoggia all’operatore, per esempio verbalizzando il preciso istante in cui sente la voglia di tagliarsi. Il sintomo può essere una soluzione che il soggetto ha messo in atto per calmare la sua angoscia o per separarsi dall’altro, è sempre una risposta, anche se disfunzionale, a un suo disagio o a una sua difficoltà, è la sua risposta soggettiva. Quindi ci dice qualcosa di quell’individuo, e proprio per questo va rispettato, non si può pensare di eliminarlo, ma è indispensabile rivolgersi al soggetto.
18Attraverso gli atelier che vengono istituiti nella quotidianità, aiutiamo i nostri ragazzi a inventare un modo per introdurre delle scansioni nel tempo e nello spazio, ed esprimere liberamente secondo la modalità a loro più consona ciò che li fa soffrire. In questo modo, si aiuta il ragazzo o la ragazza a rielaborare ciò che ha fatto trauma, a creare un rammendo, una storia che abbia un senso o che veli comunque il reale del trauma. Un buon incontro nelle nostre istituzioni può essere l’occasione per alcuni dei nostri ragazzi anche di incontrare o rimettere in moto un desiderio, o avvicinarsi a delle passioni che non sapevano di avere, dandosi l’opportunità così che la vita ricominci. Talvolta non c’è una logica reperibile nell’atto di tagliarsi, il soggetto non sa dire nulla di quanto ha commesso, ma anche il non sapere ha bisogno di essere condiviso. Ho imparato come sia importante entrare in contatto con molto tatto in queste situazioni, con un certo stile, con gentilezza: il soggetto può imparare a dare un nome alle sue emozioni che spesso non sa pronunciare.
19Anche l’équipe è sempre attraversata dalla pulsione di morte e ogni volta va rifondata, mettendo in campo le difficoltà del singolo operatore, che deve sapere nominare qualcosa della propria angoscia nella riunione generale, angoscia che deve trovare un contenimento, soprattutto in momenti in cui nell’istituzione è presente un soggetto che, con le sue pratiche, angoscia tutti coloro che lavorano con lui. Dal lato dell’operatore è difficile sentirsi il destinatario di un messaggio, di un appello, talvolta angosciante, da parte di un giovane: ma quanto accade in quel momento, in quella scena, è lì per noi, è un modo che il soggetto ha scelto per esprimere qualcosa di sé, e noi dobbiamo essere all’appuntamento, pronti per accoglierlo. In alcuni casi parliamo di passaggio all’atto, ed è necessario che l’équipe ne individui la differenza, perché se nell’acting out il soggetto implica l’Altro, nel passaggio all’atto il soggetto lo esclude e mira a uscire di scena. Sono dettagli importanti nella scelta della direzione della cura e nell’individuazione di una possibile struttura nevrotica o psicotica. In entrambe le situazioni, il nostro compito resterà quello di restituire al singolo soggetto la possibilità di trasformare le ferite in parole.
Notes de bas de page
1 J.-A Miller, Bambini violenti, in questo volume.
2 F. Dolto, I problemi degli adolescenti [1988], Milano, Tea Pratica, 1998, p. 8.
3 J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia [1962-1963], Torino, Einaudi, 2007, p. 47.
4 I. Sarno, Autoferimento. Teorie e modelli, Roma, Aracne, 2008, p. 15.
5 G. Riva, Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media, Bologna, il Mulino, 2019.
6 P. Bolgiani, Mutismo, violenza, urlo. I giovani di fronte alla difficoltà di vivere, conferenza tenuta a Padova l’11 maggio 2019, nell’ambito del ciclo di conferenze “Disagio giovanile. L’ incontro con l’impossibile”, organizzate dalla Segreteria di Padova della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, inedito.
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Adoviolenza
Ce livre est cité par
- Pietralunga, Susanna. Salvioli, Claudia. (2023) Il Male nella Relazione. Minori autori di reati violenti contro i genitori. RIVISTA SPERIMENTALE DI FRENIATRIA, 147. DOI: 10.3280/RSF2023-001005
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