Violenza e linguaggio nelle strutture cliniche
p. 63-74
Texte intégral
Introduzione
1Proviamo a seguire la seguente ipotesi e vediamo dove ci porta: le nostre azioni sono sempre orientate da uno scopo, più o meno noto, diciamo conscio. Se accettiamo questa tesi potremmo supporre che l’insieme dei nostri scopi sia alla base della motivazione che orienta le nostre scelte. Per esempio, una persona che legge un libro potrebbe dire che sta studiando per superare un esame, perché vuole laurearsi. Potremmo definire come “scopo” una credenza fondata sull’attribuzione di valore positivo al raggiungimento di una certa condizione. Per esempio: «diventare ricchi è importante», «essere amati è necessario», oppure «laurearsi presto è fondamentale per essere una persona di valore». Potremmo inoltre affermare che gli scopi si strutturano in senso gerarchico: ci sono scopi parziali, che dipendono da quelli precedenti, e ogni passaggio intermedio è finalizzato al raggiungimento di uno scopo finale. Quindi la gerarchia degli scopi orienterebbe l’attribuzione di valore ai fatti del mondo e valuteremmo le situazioni, le persone, noi stessi, a partire dal livello con cui favorirebbero o ostacolerebbero il nostro scopo finale o parziale. Così i fatti del mondo non sarebbero né buoni né cattivi, lo diventerebbero a partire dagli scopi che definiscono la cornice di senso in un sistema di credenze e, in assenza di scopi, non avremmo neanche un sistema di valori, non avremmo, cioè, la possibilità di emettere giudizi. Tutto sarebbe indifferente. A partire da queste premesse, poniamoci la seguente domanda: quale scopo spingerebbe un soggetto a compiere un’azione violenta?
2Sui giornali viene dato sempre un particolare risalto alle azioni violente, in particolar modo a quelle prive di uno scopo evidente: normali padri o madri di famiglia che all’improvviso compiono gesti definiti folli perché immotivati, azioni che scuotono l’opinione pubblica perché aprono alla possibilità che chiunque di noi possa all’improvviso perdere il controllo.
3Perché compiamo azioni violente? Perché ci sentiamo frustrati nella realizzazione dei nostri scopi? Perché abbiamo paura e ci vogliamo difendere da alcuni segnali che interpretiamo come ostili? Perché vogliamo punire chi ci ha danneggiati, vendicandoci? A causa delle condizioni svantaggiate, delle ingiustizie strutturali del sistema sociale, delle esperienze famigliari negative? Perché la violenza è strumentale, cioè è mossa da un calcolo razionale benefici-costi?
4Una delle prime teorie, quella di Dollard et al. (1939)1, denominata «ipotesi frustrazione-aggressività» considera l’azione aggressiva come effetto di una condizione di frustrazione e il passaggio all’atto violento come una specie di catarsi, che aiuta a scaricare la spinta aggressiva. In questo caso, la violenza sarebbe un comportamento finalizzato a rimuovere l’ostacolo che ingenera la frustrazione e, quando questa rimozione non risulta possibile, allora si tentano altre vie d’uscita, che, se non trovate, portano a un senso di impotenza.
5Il film di Cronenberg, A History of Violence2, ci offre una visuale diversa. Tom, padre di famiglia, conduce la sua vita in una piccola cittadina di provincia. Un bel giorno è costretto a difendersi da due pericolosi criminali che uccide con destrezza; da lì un crescendo di violenza e colpi di scena fanno vacillare l’identità dell’uomo, spalancando le porte di un abisso nascosto sotto la superficie di una vita tranquilla. La storia sembra far luce sul male che abita ciascuno di noi: Tom si porta dentro quel codice della violenza iscritto nella filogenetica dell’uomo, un mostro pronto a risvegliarsi in certe condizioni. Quali? Quando il “discorso” corrente, quello della realtà che ci è comune, che ci fornisce la cornice di senso entro la quale viviamo, cornice fatta di un miscuglio di ideali appresi, diventa un discorso vuoto. Un discorso che può vacillare. Infatti, scrive Lacan:
[…] il discorso, molto spesso non passa affatto attraverso la catena significante, essendo il puro e semplice ron ron della ripetizione, una pura macina di parole che passa in corto circuito […]. Il discorso non dice assolutamente niente, se non segnalare che io sono un animale parlante. È il discorso comune, fatto di parole che non dicono niente, grazie al quale ci si assicura che non si ha a che fare con quel che l’uomo è al naturale, vale a dire una bestia feroce3.
6Dopo che Tom ha ucciso tutti i suoi nemici che premevano dal passato per entrare nel suo presente, fa rientro a casa. Appare come un guerriero sconvolto, quasi pentito per quello che ha fatto. La moglie e i due figli sono a tavola, sembrano rancorosi, ma poi apparecchiano anche per lui, lo assolvono per le sue azioni e la famiglia si ricompone, e con essa la cornice di senso che si era frantumata.
Fenomenologia della violenza
7Nella mia pratica clinica con adolescenti ho potuto isolare certi tratti che ricorrono con frequenza nelle situazioni di violenza. Spesso, chi aggredisce è sfiduciato nei confronti dell’adulto, non si sente capito e difficilmente si lascia aiutare. L’altro non è affidabile. Ho potuto osservare in modo molto chiaro questo aspetto: temono di poter diventare oggetto di scherno da parte dell’adulto e questa credenza fa alzare una corazza molto difficile da penetrare, una protezione che serve per affrontare l’adulto incapace di sostenerli nelle loro fragilità. L’adulto, l’altro, si innervosirebbe, si preoccuperebbe, si annoierebbe, l’altro sarebbe disattento, ambiguo, contraddittorio e insensibile.
8A questo si aggiunge il fatto che spesso l’adolescente che aggredisce tende a smentire il peso delle proprie azioni, minimizza il loro valore: «non è successo niente di grave in fondo», mi è capitato spesso di sentir dire. Non ci sono sensi di colpa o dispiacere, o se ci sono, risultano passeggeri.
9Chi è la vera vittima delle loro aggressioni? L’ipotesi che propongo è questa: l’agito violento ha come bersaglio quei tratti di fragilità che il soggetto riconosce di avere lui stesso e che rinnega con tutta la sua forza, ritenendoli inaccettabili: la debolezza va eliminata per fare posto al trionfante monumento all’invincibilità costruito sulle ceneri della propria debolezza.
10Freud negli ultimi suoi scritti, in particolare nell’ottava e ultima parte di Analisi terminabile e interminabile4, ci parla di ciò che fa da principale ostacolo al lavoro psicoanalitico: è qualcosa che nella donna si concretizza nel Penisneid, la nostalgia di avere il pene, e nell’uomo nel das Sträuben, nella ribellione verso la passività, il rifiuto della femminilità, della castrazione. Miller fa notare che il verbo “sträuben” è usato quando si parla del riccio che drizza gli aculei: sträubt. L’immagine è ben scelta, perché l’uomo si irrita quando sospetta che un altro voglia passivizzarlo, è l’aspirazione alla virilità,
uno sforzo verso la virilità come valore. […] Lacan mostra che das Streben nach Männlichkeit, l’aspirazione alla virilità […] è di ordine fantasmatico. […] cioè riposa sul tentativo di colmare la castrazione fondamentale di ogni essere parlante. […] È da questo bisogna guarire le persone, riconciliandole con la mancanza, ossia con la castrazione simbolica5.
11Dietro ciò che possiamo osservare in un adolescente violento, c’è un soggetto e, seguendo l’insegnamento di Lacan, quando parliamo di soggetto parliamo di struttura6. Una struttura è un sistema dove tutti gli elementi sono collegati tra loro e dove il valore di un singolo elemento si forma a partire dai rapporti che esso intrattiene con gli altri elementi.
12Lacan aveva trovato così una prima risposta possibile alla questione della causalità psichica: ciò che è reale in quanto causa è proprio la struttura del linguaggio. L’inconscio è strutturato come un linguaggio ed è la potenza combinatoria degli elementi significanti a essere la vera causa dei fenomeni inconsci alla base delle nostre azioni.
13Il soggetto umano è «preso e torturato dal linguaggio»7, è marcato dalla lingua, dalla contingenza degli enunciati che incontra lungo il cammino della sua storia. Gli affetti-effetti di questo incontro diventano le tracce di questa marcatura e così le parole creano tracciati attraverso i quali i moti pulsionali, anche quelli aggressivi, fanno eco nel corpo, un corpo che appartiene al linguaggio.
14Ora, l’esperienza clinica ci mostra che alcuni soggetti si lasciano rappresentare in modo più duttile dalle reti simboliche del linguaggio, ovvero la funzione di rappresentabilità è mobile, non rigida; altri, invece, fanno più fatica, ovvero in loro la funzione di farsi rappresentare da un significante (per un altro significante) è inoperante, cioè si fanno rappresentare in modo rigido, immobile; in altri ancora questa funzione è fortemente perturbata. Abbiamo così le tre diverse strutture cliniche (freudo-lacaniane): nevrosi, psicosi e perversione.
15In tutte e tre le strutture possiamo riscontrare la fenomenologia della violenza, ma con logiche diverse, logiche che proverò ad articolare brevemente. È fondamentale riconoscere o almeno fare qualche ipotesi circa la struttura, per cogliere quale sia la ratio che spinge un soggetto a compiere un atto di violenza e per comprendere se e come questa può aiutarci a capire qualcosa in più, al di là del mero fatto in sé, che, nella sua apparenza, può essere analogo nei diversi casi.
Violenza e nevrosi
16Il nevrotico si difende dalla spinta pulsionale rimuovendo qualcosa di inaccettabile, che tuttavia si aggancia a una rappresentazione sostitutiva: il sintomo. Un intruso contro il quale ingaggia una lotta estenuante con l’intento di proteggersi proprio dal moto pulsionale. Ora, quest’ultimo trova una prima fissazione nell’immagine del corpo, creando un primo quadro di riferimento in grado di dare una forma alla pulsione, che altrimenti circolerebbe slegata e incontrollabile.
17Ne Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io8, Lacan ci dice che l’immagine del corpo è un-di-più rispetto al corpo-in-frammenti (disarticolato, in preda ai moti pulsionali), ed è per questo che essa esercita sul soggetto un potere di fascinazione fin da subito. Al di qua dello specchio il bambino si trova in una fase di incoordinazione motoria che gli procura disagio e frustrazione. Il riconoscimento di sé, un primo abbozzo di identità, si realizza nel rapporto che il soggetto stabilisce con l’immagine riflessa nello specchio, riconoscendo la quale è possibile una prima individuazione: forma primordiale nella quale il soggetto si “virtualizza”: è la lettura lacaniana dell’Io. Tale forma primordiale di «Io» si produce nell’istante in cui il soggetto si lascia catturare dall’immagine che lo costituisce, attraverso una linea di finzione, una traiettoria illusoria la cui natura è assolutamente narcisistica: la forma ideale del riflesso speculare sembra sostituirsi alla frammentazione originaria. Il potere incantatorio dell’immagine consente al soggetto di poter affrontare la condizione segnata dall’onnipotenza dell’altro e dall’impotenza costitutiva del soggetto (ancora troppo immaturo per essere autonomo). Attraverso la rappresentazione narcisistica di sé, il soggetto riequilibra questa discordanza, compensando in qualche modo la mancanza fondamentale che lo avvilisce: l’immagine di sé si configura come sostituto narcisistico alla frammentazione reale del soggetto.
18L’Io così si mostra come costitutivamente alienato, cristallizzato in un’immagine ideale che non corrisponde a quella del soggetto: l’Io, dice Lacan, emerge come una «organizzazione passionale»9, che tende ad avvicinarsi all’ideale senza riuscirci mai, e proprio per questa irrealizzabilità si trova gettato in un rapporto di perenne rivalità con quell’ideale che l’inganno dello specchio alimenta.
19La lacerazione originale che separa l’essere del soggetto dalla sua proiezione ideale si produrrà con più forza proprio laddove l’immagine riflessa nello specchio rimanda al soggetto l’unità ideale, come una «unità alienata»10: «l’essere umano non vede la sua forma realizzata, totale, il miraggio di se stesso, se non fuori di se stesso»11.
20Questa forma idealizzata in quanto irraggiungibile, diventa in qualche modo persecutoria e oggetto di aggressività.
21La gelosia con la quale il bambino osserva il suo simile succhiare dal seno di sua madre, è l’esempio che Lacan riprende da Sant’Agostino che «anticipa la psicoanalisi dandoci un’immagine esemplare di un tale comportamento in questi termini: […] ho visto con i miei occhi e ho ben conosciuto un bambino piccolo in preda alla gelosia. Non parlava ancora e già contemplava, pallido e con uno sguardo torvo, il fratello di latte»12. L’altro, il simile, è oggetto d’aggressività in quanto rappresenta l’io ideale del soggetto, ma è anche colui che possiede l’oggetto del desiderio.
22In questa prospettiva l’aggressività si rivela per struttura suicidaria, in quanto fenomeno integralmente narcisistico. L’identificazione con l’immagine idealizzata di sé genera un senso di inettitudine, continui autorimproveri, che si ritrovano spesso nei soggetti nevrotici.
23Odio l’altro che in fondo amo perché incarna il mio ideale esteriorizzato. La polarità amore-odio può torcersi trasformando “‘io odio” in “l’Altro mi odia”, ambivalenza che Lacan declina con l’espressione “odioinnamoramento” (hainamoration)13: odio e amore sono due facce della stessa medaglia, l’uno non è senza l’altro.
24Potremmo dunque ipotizzare che l’agito aggressivo non sia una reazione disfunzionale di fronte ai limiti imposti dal principio di realtà (frustrazione), ma piuttosto il conflitto generato dall’immagine idealizzata, con la quale il soggetto instaura una lotta in quanto essa costituisce quell’io ideale che non riesce a realizzare, e che dunque deve essere eliminato, distrutto.
25A tal proposito Lacan considera il gesto di Caino come paradigmatico: Caino colpisce la sua immagine ideale, il proprio io ideale rappresentato dal fratello onesto e gentile. L’aggressività tendente alla distruzione dell’altro esprime «la struttura più fondamentale dell’essere umano sul piano immaginario: distruggere chi è la sede dell’alienazione»14.
26L’immaginario è rappresentato da Lacan come un «chiuso mondo a due»15, dove il desiderio porta il soggetto a fare da spola tra la fascinazione erotizzata per la sua immagine ideale e la spinta verso la sua distruzione, perché il soggetto trova nell’altro le «alienazioni del suo desiderio»16.
Violenza e psicosi
27Se nella nevrosi il conflitto di base riguarda il rapporto che l’Io ha con i moti pulsionali e l’immagine idealizzata, nella psicosi abbiamo l’Io che, lasciandosi soggiogare da questi, produce uno strappo con la realtà, realtà nel senso di rete simbolica in grado di rappresentarci, di sostenerci al di là della mera spinta pulsionale17. Lo psicotico rinnega la realtà e cerca allo stesso tempo di sostituirla con qualcos’altro, il delirio, che funge da rattoppo alla lacerazione stabilita con il mondo esterno, anche se ciò implica un rinnegamento più profondo, un rifiuto estremo, che Lacan chiama Verwerfung, preclusione: rinnegamento del significante, del linguaggio, in quanto strumento di rappresentabilità del soggetto18.
28Nella nevrosi, abbiamo visto come il conflitto tra l’Io e la pulsione convogli in un compromesso, il sintomo, e in psicoanalisi, quando si parla di sintomo, si parla appunto di spostamento della pulsione.
29Miller, nel suo articolo Bambini violenti19 sostiene che la violenza si produce quando questo spostamento, questa sostituzione, questo Ersatz non è avvenuto. Cioè, la spinta pulsionale non ha trovato un suo sostituto, un suo spostamento nel sintomo, che possiamo considerare quindi come il segno di una soddisfazione pulsionale mancata. Il sintomo si produce se il godimento viene rifiutato e, come ci ricorda Lacan, «bisogna che il godimento sia rifiutato perché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della Legge del desiderio»20. Quindi il godimento, per essere raggiunto sotto l’egida della legge, deve essere stato inizialmente rifiutato. In fondo, per poter desiderare qualcosa è necessaria una distanza, è la legge del desiderio: il godimento deve passare sotto la modulazione della legge. È quella che Lacan chiama la funzione del Nome-del-Padre.
30Con queste premesse Miller può concludere che la violenza di per sé non è un sintomo, anzi, è il contrario di un sintomo, è la pulsione, è la pulsione di morte. Amore e pulsione di morte rappresentano l’Eros che si oppone a Thanatos. Qui non è in gioco l’odio, infatti ciò che è oggetto di odio è sempre anche oggetto di ammirazione, invidia, come abbiamo potuto sottolineare quando abbiamo parlato delle nevrosi. Qui questa dinamica è assente.
31L’adolescente violento di struttura psicotica trova la sua soddisfazione aggredendo, spaccando, distruggendo, spesso senza un vero motivo, è un puro godimento di distruzione.
32Mi capita sempre più spesso di lavorare con giovani pazienti violenti, incapaci di raccontare qualcosa di quella distruttività che li domina.
33Gli agiti violenti a volte sono anticipati da atteggiamenti provocatori, altre volte no, e spesso sono immotivati. La furia sfocia alcune volte in un sollievo e in uno strano rimorso, come se chi ha compiuto l’azione fosse qualcun altro.
34Negli atti violenti si mostra qualcosa di indescrivibile, qualcosa di indicibile prende forma sotto gli occhi dei presenti, qualcosa di intimo e privato diventa pubblico, e quando la furia si spegne c’è un breve istante in cui il soggetto si vede visto dagli altri. Ma poi, senza un motivo apparente, il ciclo riprende, e quel rimorso abbozzato non apre a nessuna messa in questione o elaborazione possibile, come se il soggetto non riuscisse ad avere un posto nelle reti simboliche che ordinano il mondo e fosse in preda a quelle forze brutali che lo fanno sentire follemente invincibile. Qualcosa del genere l’ho potuto osservare in un giovane paziente inserito in una comunità terapeutica che, dopo aver distrutto la stanza, demolito le porte, aggredito i presenti, con una surreale freddezza si è fatto da mangiare mettendosi di lì a poco a divorare avidamente il suo pasto, per poi andarsene a letto come se niente fosse accaduto.
35Viene meno in questi casi l’iscrizione nelle reti simboliche, e non è possibile «un sapere e un ordine del mondo»21; i soggetti diventano preda di impulsi distruttivi, amorfi, sganciati dall’odio o dall’ostilità verso qualcuno o qualcosa in particolare. I moti pulsionali sono slegati da qualunque coordinamento simbolico, da qualunque cornice di senso e irrompono nell’individuo che non può fare altro che tradurli in agiti distruttivi. Manca una vera e propria intenzionalità devastatrice o spinta a procurare un danno all’altro. È una distruttività volta a scavare nell’altro uno spazio da poter abitare, come se nella distruzione dell’altro (persone o oggetti) ci fosse il miraggio della possibilità di annientare il moto pulsionale stesso.
Violenza e perversione
36Sant’Agostino parla di perversione per indicare quell’atteggiamento umano che spinge all’imitazione perversa di Dio: è il peccato d’orgoglio che fa girare su sé stessi piuttosto che orientare la propria strada verso Dio, cosa che porta alla negazione dei propri limiti. È la superbia che perverte i fini22.
37Ciò che possiamo osservare, in alcuni soggetti violenti, è proprio la “negazione” di qualcosa che porta a una perdita, a una caduta che umilia, che fa vergogna, che passivizza. La negazione non è presente solo nella perversione, ma la si ritrova anche nella nevrosi. È la negazione del terrore che accompagna la «castrazione», che secondo Freud si palesa in tutti gli esseri maschili dinnanzi alla visione dell’organo femminile. È l’effetto prodotto da questo rinnegamento a segnare una differenza tra la struttura nevrotica e quella perversa:
Si sa, esso [rinnegamento] è mantenuto nella perversione: l’erezione di un feticcio in età adulta ne è la prova inconfutabile. Nella nevrosi la posta in gioco del rinnegamento è ripresa e lavorata, come questione cifrata, attraverso il sintomo e il fantasma. Vi è dunque un uso perverso e un uso nevrotico del rinnegamento. Nella perversione esso continua a occupare un posto determinante […]. Il nevrotico supera questo terrore23.
38Quindi, la risposta del perverso si caratterizzata per ciò che Freud aveva espresso con il concetto di Verleugnung, «rinnegamento» o «disconoscimento». Lo incontriamo per la prima volta in Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi: «[…] quando, analogamente, il maschietto scopre per la prima volta la regione genitale della bambina, rimane titubante, sembra essere dapprima poco interessato; non ha visto niente, oppure rinnega quel che ha visto»24.
39In fondo, la supremazia violenta sull’altro e la soddisfazione che ne consegue, rappresentano una sorta di feticcio, di segno della vittoria trionfante sulla minaccia di evirazione, una protezione contro quella minaccia.
40Il perverso rifiuta il dolore di esistere, il dolore di essere soggetto parlante, è questo dolore che rigetta. Nel suo fantasma inconscio è ridotto a oggetto, strumento che mette in scena nel suo “teatrino”: una truffa, una buffonata. Egli si traveste, vuole essere amato come si ama Dio. Vuole essere amato in modo idolatrico. Dio gode perché è amato, questa è la teoria del perverso. Dio gode dell’amore che i credenti provano verso di lui, e lui cerca di “rapire” questo “amore” per convogliarlo su se stesso. Il sadico si identifica con l’oggetto, rendendosi strumento di sofferenza per l’altro. La violenza che impone alle sue vittime si fonda sulla credenza che sia possibile rigettare «nell’Altro il dolore di esistere, ma senza vedere che per questa via egli si muta in un “oggetto eterno”»25, e questo genera nella vittima angoscia. È l’effetto prodotto dalla scena silenziosa, la matta bestialità delle azioni, il puro silenzio, l’assenza di parola, solo segni, segni di barbarie, non c’è più bisogno di parlare. C’è la presenza del segno sul corpo; la logica del segno in quanto logica di una crudeltà silente: non si deve più parlare. C’è chi parla per tutti, il più forte, il dio venuto sulla terra come oggetto, come scultura commemorativa del rinnegamento della castrazione.
41In fondo, nella struttura perversa le torture a cui sono sottoposte le vittime hanno la funzione di riempire la mancanza nell’altro, con l’intento di smentire la sua castrazione, per far esistere un pieno, invincibile, perfetto, un Dio. Nella struttura nevrotica invece il godimento si è condensato in quello che Lacan chiama oggetto piccolo a, e il corpo si svuota di godimento. Il perverso, dal canto suo, intende restituire il godimento al corpo, la “crociata” del perverso è questa: il godimento deve essere rimesso nel corpo, va restituito al corpo. Ecco perché il perverso punta ad angosciare l’altro, perché il suo obiettivo è il godimento dell’altro.
42Il Dio del perverso è Essere-supremo-in-cattiveria26, è il Dio del male che richiede il godimento del corpo, intende cioè attraverso di esso far svanire ciò che manca nell’Altro: ovvero la verità su ciò che sono (fornendo la risposta alla domanda «chi sono?»). Vuole cioè annullare la mancanza a livello simbolico: «Ecco cosa sei: sei questa angoscia che ti attanaglia», sembra voler dire alle sue vittime il soggetto violento, e così facendo sembra voler dire: «Ecco la risposta che tanto attendevi, la risposta alla domanda che ti poni, “chi sono?”».
43In conclusione, per i soggetti violenti di struttura perversa possiamo ipotizzare che la loro violenza sia diretta a voler ergere a mo’ di feticcio la potenza, la prepotenza, la forza bruta, la supremazia sull’altro, per poter ribadire che l’altro non è castrato, che la castrazione non esiste, che ciò che noi pretendiamo, le nostre pretese di virilità, la nostra pretesa di onnipotenza, è in qualche modo giustificata.
Conclusioni
44Per concludere, possiamo affermare che alla violenza nelle sue diverse forme si può rispondere, dal punto di vista clinico, in diversi modi, ma innanzitutto introducendo qualcosa in grado di sorprendere il soggetto, in grado cioè di rompere lo “schema azionale” che la struttura impone, per introdurre del “nuovo” nell’automatismo che la governa. Alla violenza possiamo rispondere con una non-violenza in grado di sostenere il soggetto in un lavoro di sostituzione e dunque di spostamento: dall’azione distruttiva a qualcosa di più vivibile, di meno “immediato”, che aiuti a mettere in parola qualcosa dell’inesprimibile della pulsione, nominandola, dandogli un nome, traducendola dalla non-lingua indicibile della brutalità in una “lingua” meno devastatrice. Questo è possibile se si offre al soggetto uno “spazio” dove poter prendere parola e così l’atto violento che di per sé sembra non dire niente, non domandare a nessuno, può diventare una pseudo-domanda, proprio perché qualcuno risponde offrendo un ascolto. Può essere questo un primo passo per spezzare la gabbia invisibile dello “schema azionale” che attanaglia il soggetto. Da questo punto di vista, anche se non è del terapeuta il compito di intervenire sugli agiti violenti in sé o proteggere l’ordine sociale, la creazione di uno spazio di ascolto, come atto terapeutico, può elicitare l’interrogazione sul mistero che abita il soggetto (quella ingovernabile forza che spinge a compiere agiti violenti): pertanto questo atto assume inevitabilmente una valenza anche sociale.
Notes de bas de page
1 J. Dollard, L.W. Doob, N.E. Miller, O.H. Mowrer, R.R. Sears, Frustration and Aggression, New Haven, Yale University Press, 1939.
2 D. Cronenberg, A History of Violence, 2005, film tratto dall’omonimo romanzo a fumetti scritto da John Wagner e illustrato da Vince Locke, tradotto in italiano col titolo Una storia violenta, Roma, Magic Press, 1997.
3 J. Lacan, Il Seminario, Libro VI, Il desiderio e la sua interpretazione [1958-1959], Torino, Einaudi, 2016, p. 14.
4 S. Freud, Analisi terminabile e interminabile [1937], in Opere, Torino, 1979, Bollati Boringhieri, vol. 11, pp. 497-535.
5 J. A. Miller, A. Di Ciaccia L’uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano, Roma, Astrolabio, 2018, pp. 56-57.
6 Tralasciamo in questa sede il cambio di marcia che possiamo leggere nell’insegnamento di Lacan quando passa dal ça parle, ovvero dall’idea del sintomo strutturato come un linguaggio (parola inconscia misconosciuta, rifiutata), all’idea della cosa che non parla, ovvero all’idea della scissione tra Es e inconscio. Infatti, inizialmente, Lacan aveva trovato nella struttura una prima risposta possibile alla questione del reale: ciò che è reale è proprio la struttura del linguaggio, è un reale strutturato (l’inconscio è strutturato come un linguaggio). Quindi, «la struttura per Lacan è uno dei nomi del reale» (J.-A. Miller, L’Essere e l’Uno, “La Psicoanalisi”, 51, 2012, p. 240), e lo si vede bene nello scritto Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, pp. 230-316, dove è la potenza combinatoria degli elementi della struttura la vera causa dei fenomeni inconsci, è lì che si gioca la partita e non ancora, come sarà più avanti nel suo insegnamento, nel reale della pulsione.
7 J. Lacan, Il Seminario, Libro III, Le psicosi [1955-1956], Torino, Einaudi, 2010, p. 279.
8 Id., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io [1936], in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, pp. 87-94.
9 Id., L’aggressività in psicoanalisi [1948], in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p. 107.
10 Id., Il Seminario II, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi [1954-1955], Torino, Einaudi, 2006, p. 63.
11 Id., Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud [1953-54], Torino, Einaudi, 2014, p. 175.
12 Id., L’aggressività in psicoanalisi [1948] cit., pp. 108-109.
13 Id., Il Seminario, Libro XX; Ancora [1972-1973], Torino, Einaudi, 2011, pp. 85-86.
14 Id., Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud cit., p. 214.
15 Ivi, p. 172.
16 Ivi, p. 185.
17 Per Freud, se il principio di piacere va verso la ricerca di un soddisfacimento immediato, per vie le più brevi possibili (allucinazioni, deliri, azioni impulsive…), il principio di realtà fa sì che questa ricerca sia più regolata, consentendo quegli opportuni spostamenti senza i quali la vita del soggetto sarebbe invivibile. È in questo senso che intendo la parola “realtà”.
18 Cfr. A. Di Ciaccia, Sulla cura psicoanalitica delle nevrosi e delle psicosi, “La psicoanalisi”, 6, 1989, p. 145.
19 Cfr. J.-A. Miller, Bambini violenti, in questo volume.
20 J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano [1974], in Scritti, Torino, Einaudi, 2002, p. 830.
21 J.-A. Miller, Nota sulla vergogna, “La Psicoanalisi”, 46, 2009, p. 32.
22 Cfr. Agostino, La città di Dio [1467], Roma, Città Nuova, 2006, pp. 714-715 (XIV, 13.2).
23 H. Castanet, La perversion, Paris, Anthropos [1999] cit. in AA.VV. La cura della malattia mentale, Milano, Bruno Mondadori, 2001, vol. 2, pp. 128-129.
24 S. Freud, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi [1925], in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, vol. 10, p. 211.
25 J. Lacan, Kant con Sade [1966], in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, vol. 2, p. 778.
26 Ivi, p. 772.
Auteur
Psicologo, psicoterapeuta, membro Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e Associazione Mondiale di Psicoanalisi; già responsabile coordinatore clinico e organizzativo di centri clinici semiresidenziali e residenziali in ambito di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza; docente incaricato Istituto Freudiano per la Clinica la Terapia e la Scienza
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