3. L’estraneo, il terzo, la sostituzione
p. 59-90
Texte intégral
Estraneità relativa ed estraneità radicale
1Dopo quanto detto a proposito di páthos, risposta e diastasi come momenti fondamentali all’interno dell’esperienza dell’altro, vorrei analizzare ora la concezione dell’estraneo in tutte le sue sfaccettature. Ma non solo quella dell’estraneo, poiché anche il “terzo” sullo sfondo ha un ruolo non meno fondamentale, in quanto interviene tra me e l’altro; allo stesso modo la sostituzione (Stellvertretung) costituisce una questione specifica rispetto a come e dove l’inframezzo si articola. Prenderemo quindi in considerazione l’estraneo, poi il terzo e infine la sostituzione.
2Vorrei innanzitutto offrire un breve schizzo del problema dell’estraneità nella storia della filosofia, che possa fungere come mappa orientativa. Il concetto di estraneo (Fremd) è un concetto che si trova abbondantemente nell’uso quotidiano di tutte le culture e tutte le lingue, ha un significato culturale che è ampiamente diffuso. Menziono solo alcuni contesti al di fuori della filosofia in cui il motivo dell’estraneo svolge un ruolo:
il diritto d’ospitalità
la lingua straniera
la parola Entfremdung in tedesco, alienazione in italiano, aliénation in francese (che ha un significato precipuo in campo sociale e medico-psichiatrico)
la parola Verfremdung (straniamento6), che ha un senso particolare nell’ambito delle arti e del teatro, ad esempio in Bertolt Brecht.
3Riguardo a quest’ultimo termine vorrei sottolineare che Brecht desume tale concetto dai formalisti russi, che a loro volta si rifanno ad Aristotele, il quale nella Retorica parla di xevnon (xénon) in riferimento a espressioni rare e strane che vengono usate, per esempio, nella poesia. Si tratta di uno dei pochi casi in cui l’estraneo svolge un ruolo considerevole all’interno della filosofia greca classica, forse l’unico nella filosofia dello stesso Aristotele. Ma esso ha poi avuto una notevole fortuna, fino ad arrivare appunto alla teoria brechtiana dello straniamento. Un altro passaggio che vorrei ricordare viene dalla tradizione ebraica, all’interno della quale l’estraneità riveste effettivamente grande importanza: «Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto» (Es 22,21). Si tratta di un passo che si connette a un’altra esperienza decisiva, quella dell’esilio, che segna la tradizione ebraica fino a oggi. Non è dunque un caso se molti autori ebraici si sono confrontati con la filosofia dell’estraneo. Anche presso i greci troviamo una figura esemplare: Zeus ξένιοσ (xénios), il dio dell’ospitalità e degli stranieri.
4Nella filosofia, invece, l’estraneità per lungo tempo non ha costituito un concetto fondamentale (in molti casi è così ancora oggi). Con concetto fondamentale intendo un concetto che non viene trattato accidentalmente, o come uno fra i tanti, ma che occupa un posto centrale all’interno di un pensiero e ha una valenza sistematica. Perché nella tradizione l’estraneità viene quasi sempre pensata come relativa? Relativa significa che è dipendente da un certa situazione del sapere e del potere. Per dirla con il linguaggio di Aristotele: c’è un estraneo per noi, sempre in relazione a un certo gruppo, una certa persona, un certo processo. Questo estraneo-per-noi contraddistingue ciò di cui non ci si è ancora appropriati, ciò che non è ancora stato conosciuto, studiato, esaminato. Si tratta pertanto di qualcosa che può essere conosciuto, reso proprio, esaminato, e che solo temporaneamente non lo è.
5Nella grande tradizione filosofica troviamo due pilastri su cui si regge questo tipo di elaborazione dell’estraneo e che lo rendono superfluo, non necessario:
1. il comune. Si tratta di ciò che comprende il proprio e l’estraneo. Può apparire in diversi modi: come ordine globale, come ragione, come kósmos. Aristotele afferma che il cosmo è «ciò di cui non c’è un fuori». Visto dal punto di vista del cosmo l’estraneo sarebbe solo il caotico, ciò che disturba, il perverso, anche se, in quanto ordine, il cosmo racchiude tutto. In Kant troviamo una formula che va nella stessa direzione; egli non parla di cosmo, bensì di un ordine fondamentale (razionale), di condizioni trascendentali che devono valere per ogni essere razionale: «Si dice pura ogni conoscenza che non si mescola a niente di estraneo»7. La ragione pura sarebbe dunque al di là della differenza tra proprio ed estraneo. Analogo discorso vale per l’imperativo categorico: fa lo stesso che sia un sistema di pensiero rivolto a me o all’estraneo. Si tratta in questi casi di un tentativo di togliere l’estraneo, in cui il proprio e l’estraneo vengono rinchiusi in un ordine comune.
2. il proprio. Penso in particolare a Descartes. L’ego cogito sarebbe tale per cui io ho un accesso diretto a me, mentre quello all’altro sarebbe sempre indiretto. In relazione a questa “fissazione” sul proprio vorrei citare anche Pascal, il quale dipinge l’ego come tirannico: anche in Pascal troviamo dunque una forma di egocentrismo. Pascal, sebbene appaia spesso in posizione antitetica rispetto a Descartes, rappresenta in realtà il versante pratico dell’egocentrismo, in perfetta complementarità con quello teoretico di Descartes, in cui l’ego funge da fulcro della certezza. Questa concezione si ritrova in modo molto evidente anche in Hobbes: lo stato di natura inizia con la situazione secondo la quale ognuno è nemico a ciascuno, homo homini lupus. Qui l’estraneo svolge un ruolo notevole, ma in quanto nemico, colui che minaccia la mia vita, la mia autonomia. Anche qui troviamo sullo sfondo che ognuno è per se stesso il centro.
6Questa forma di centramento sull’io rispetto all’altro giunge fino al xix e al xx secolo. Carnap, che distingue tra psichico proprio e psichico estraneo, si situa pienamente sulla linea tracciata da Descartes. Così si può dire di molte teorie dell’empatia, viziate dall’idea cartesiana che io sia “dentro”, “in me stesso”, mentre l’altro sta “là fuori” e io mi devo porre emotivamente al suo posto o, come si dice nella tradizione ermeneutica diltheiana, mi devo immedesimare in lui, mi devo mettere dal punto di vista dell’altro. Tutto ciò presuppone un io che si traspone in un luogo estraneo. Husserl, che pure ha usato spesso la parola empatia, ha cercato di correggere questa concezione attraverso l’idea dell’appresentazione.
7Infine, per quanto riguarda il comune e il proprio, occorre notare la posizione particolare di Hegel, che tenta di riunire il comune, la ragione e il proprio, l’io. Nella Fenomenologia dello spirito l’estraneo appare ripetutamente come l’oggetto che mi è estraneo, ma in quanto non ancora afferrato, in cui ancora non mi ritrovo. L’estraneo compare qui come una forma dell’estraniazione, concepita come un passaggio verso la ragione o spirito che si trova in tutti. Hegel si trova dunque in una posizione ambigua: appartiene ai pochi che prendono in seria considerazione il problema dell’estraneità, ma la concepisce poi come passaggio. Ricordiamo il famoso passo della Fenomenologia dello spirito: «io sono tu, tu sei io». Sullo sfondo c’è comunque un noi e tutto rientra in un’unica logica omnicomprensiva. Qui si deve allora parlare di estraneo nel senso dell’estraniazione e, in ultima istanza, come toglimento dell’estraneità. In uno dei rari passi in cui Marx parla di estraneità (in realtà nei suoi scritti tale termine non compare così spesso quanto si è portati a credere), essa viene concepita come qualcosa da superare. Anche in Marx il regno della libertà è in effetti dove noi tutti siamo presso noi stessi e l’estraneità non riveste più alcun ruolo.
8Ciò che io chiamo estraneità radicale, come l’aggettivo radicale chiaramente suggerisce, è qualcosa che non può essere ricondotto o ridotto ad altro: né a qualcosa di comune, né al proprio. In tal modo i due succitati pilastri della tradizione filosofica vacillano: la ragione, intesa come ragione “una” che comprende tutto, si frammenta e diviene plurale; il soggetto si trova decentrato, non si trova più al centro (si pensi all’affermazione di Freud, per cui l’uomo non è padrone in casa sua).
9Per quanto sono riuscito a vedere – e finora nessuno mi ha dimostrato il contrario, anche se magari accadrà –, questa revisione dei concetti fondamentali della tradizione filosofica e la seria presa in considerazione dell’estraneo inizia dopo Hegel, con Feuerbach, Kierkegaard, Nietzsche, quindi con l’interrogazione radicale di Husserl, con la sociologia di Simmel e in diversi altri autori, ma solo relativamente tardi. Un esempio paradigmatico ci viene offerto dall’Historisches Wörterbuch, che ho già citato rispetto alla questione della risposta. Con estraneo va ancora peggio. Non posso evitare un moto di riso quando ci penso, la definizione è così breve che posso citarla per intero: «estranei sono due insiemi che non hanno elementi comuni». Tutto qui. Si tratta di un volume uscito negli anni Settanta ed è un chiaro segno del ruolo che ancora allora veniva ascritto all’estraneo: praticamente nessuno. In uno degli aggiornamenti gli editori hanno mostrato un po’ di ravvedimento, tanto che hanno chiesto a me di scrivere l’articolo “xenologia”. Probabilmente perché la x viene ben in fondo, senza disturbare troppo!
10Riguardo al comune, alla ragione e al soggetto, ricordo ancora due espressioni che ho già spesso citato:
in riferimento alla ragione: «Il y a de l’ordre», l’affermazione di Foucault, molto vicina a quella utilizzata da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione, «il y a de la rationalité». Tutto ciò sta a indicare che c’è ragione, c’è ordine, ma non l’ordine, la ragione, l’ordine razionale uno.
per quanto concerne l’io: «Je est un autre», la celebre frase di Rimbaud, una frase molto raffinata, che grammaticalmente non sarebbe possibile. Si dovrebbe infatti dire o “Je suis un autre” o “Moi c’est un autre”, ma Rimbaud incrocia entrambe, così da ottenere un io che parla di se stesso, trovandosi in prima e terza persona allo stesso tempo. La raffinatezza di quest’affermazione consiste proprio in tale incrocio. Sarebbe infatti banale dire semplicemente che io parlo di me stesso, sappiamo benissimo che posso parlare di me e dire, per esempio, il mio nome. Ma dire che “io è un altro” esprime in modo magnifico che l’io, nel momento stesso in cui dice “io”, include già sempre un’estraneità.
11Da questo spunto segue che l’estraneità radicale, per quanto sembri qualcosa di ovvio, non è affatto così ovvia, se viene svolta metodicamente fino in fondo: l’estraneo c’è solo nel momento in cui noi iniziamo con l’estraneo, in modo analogo a quanto abbiamo visto accadere rispetto al binomio páthos/risposta. Se non ne parliamo in modo adeguato, se iniziamo col proprio o con un modo di parlare che presuppone il proprio, che lo pone, magari anche solo implicitamente, come base o punto di partenza, si finisce sempre per perdere il fenomeno dell’estraneo. Se inizio con la domanda metafisica “che cos’è l’estraneo?”, pongo già un ordine di discorso e di pensiero (e conseguentemente d’azione), in cui io sono colui (o il mio discorso è ciò che) determina l’estraneo: non parto dunque dall’estraneo come qualcosa che pone me in movimento. Così come con lo stupore, in cui non si dovrebbe propriamente dire che io mi meraviglio di qualcosa, bensì che qualcosa mi meraviglia, mi stupisce. Insomma l’estraneo mi spiazza ed è solo in conseguenza di quest’affezione che io posso, eventualmente, parlarne e prendere posizione rispetto a esso. La mia parola, la parola propria, non è dunque ciò che si trova all’inizio.
12Ho detto che l’estraneo per lungo tempo non ha ricevuto una particolare attenzione e un posto centrale nella tradizione filosofica. Se però guardiamo ad altri settori della cultura, come la poesia, la letteratura e la religione, vediamo che l’estraneo e la sua funzione hanno avuto un riconoscimento costante, tanto da risultare un’ovvietà. Omero, i cui testi, come noto, funsero come una sorta di Bibbia per i Greci, inizia con “ditemi, Muse”, dunque con un’invocazione alle Muse. La struttura linguistica mostra che egli ha già un destinatario quando inizia a parlare, e non dice “io, Omero, vi dico questo e quest’altro”, né “vi rivelo questo e quest’altro che ho sentito”. Dunque nella poesia, nella letteratura, nella religione, l’estraneità è un motivo antico. Nella filosofia, invece, dove spesso s’inizia da sé, è difficile rendere giustizia all’estraneo.
13Un’ulteriore osservazione riguardo alla terminologia: io parlo di estraneità radicale e mai di estraneità assoluta, nel senso del totalmente altro, come a volte accade nella teologia. Ciò che è radicalmente estraneo non è assolutamente estraneo, qualcosa di totalmente diverso; radicale significa invece ciò che non può essere ricondotto ad altro. A questo proposito un piccolo appunto riguardo a Donatella Di Cesare che, in un pregevole libro su Gadamer, dice che Waldenfels parla di un estraneo radicale, assoluto. Per questo le ho scritto una lettera in cui la rinvio a Topologie des Fremden8, dove molto chiaramente dico, così come ho sempre detto, che l’estraneità radicale e assoluta non devono essere confuse o considerate come sinonimi. Recentemente, in un intervento sulla rivista Iride9, Di Cesare si è conseguentemente espressa in modo più cauto, ma ancora commette qualche imprecisione: scrive infatti che, nella mia teoria, l’estraneo starebbe pericolosamente all’origine. Si tratta forse di un fraintendimento linguistico: quando dico che l’estraneo è originario (originär), non voglio dire che è l’origine. Mi attengo piuttosto all’uso che già Husserl faceva di tale aggettivo, quando parlava di un’intenzione originaria pratica. Con ciò egli intendeva che una certa intenzione non è derivabile/deducibile da un’altra. Così come radicale, originario non significa che ci sia un qualcosa che è l’origine assoluta, bensì semplicemente che non può essere ricondotto/ridotto ad altro. È lo stesso discorso che si può fare per il passato: il ricordo è originario in quanto non può essere sostituito. È solo grazie al ricordo, infatti, che il passato ci si dischiude come passato. Eliminare il ricordo, sostituirlo con qualcosa che non è ricordo, significherebbe dunque eliminare il passato stesso in quanto passato. Spero che ora sia divenuto chiaro che per me parlare di qualcosa di originario non ha nulla che vedere con una ricerca dell’origine. Così come spero sia chiaro che per me non si tratta di sostituire l’estraneo all’io, come spesso mi si vuole imputare: ecco, ora non inizia più con l’io e al suo posto ci mette l’estraneo, attribuendogli il primato. Per me non si tratta di un primato dell’estraneo sull’io; è in questione una struttura molto più complessa. L’estraneo radicale non è assoluto, non è qualcosa che non ha nulla che fare con me.
14Un concetto affine e che uso spesso è quello di relazionale, da non confondersi con relativo. Estraneo è evidentemente un predicato relazionale, come dicono i logici un predicato binario. Quando dico “estraneo” non posso dire “sì o no”: se chiedo, per esempio, se un cinese è estraneo, è necessario dire rispetto a chi, se rispetto a un cinese o rispetto a noi europei. Si tratta quindi di un predicato relazionale al modo di destra e sinistra: non c’è nulla che sia di per sé a sinistra o a destra. Destra e sinistra ci sono sempre e solo in relazione l’una all’altra. In quanto relazionale, l’estraneo è dunque sempre riferito a un proprio, e pertanto non è assimilabile a una qualche forma di nuovo assoluto. Per determinarsi, l’estraneo è sempre vincolato a un proprio. Pensiamo a una lingua straniera: cos’è lingua straniera? Possiamo rispondere che una lingua è straniera sempre e solo in rapporto ad altre lingue.
15Vorrei citare qui Karl Valentin, un umorista e comico bavarese, uno dei più grandi della storia del cabaret tedesco, che rielabora scene e linguaggi della vita quotidiana portandole a incepparsi, a inciampare, a formare un guazzabuglio. Da lui viene la frase “Fremd ist der Fremde nur in der Fremde” (solo nell’estraneità l’estraneo è estraneo). In fondo, la domanda è: chi è estraneo? È l’altro o no? E qui la domanda si fa interessante. Se emigrate in un paese, chi è estraneo? Voi siete stranieri, perché la lingua viene determinata dal paese stesso. In tal senso “chi è straniero?” “chi ha la parola (das Sagen)?” sono domande in cui già si palesa la politica dell’estraneità. Nell’estraneità si è sempre come minimo in due.
16In Kristeva c’è un affinamento di questo pensiero, che trovo però un po’ fuorviante. Ella scrive: «Siamo tutti stranieri/estranei». È come dire: “siamo tutti Io”. Ciò è corretto, certamente. Ognuno è un io. Ma in questo modo io parlo dell’Io, mentre quando lo uso, e per esempio dico “io intendo così”, non si può dire “tutti siamo Io”, perché io intendo così. L’Io viene dunque riferito contingentemente al parlante, e asserire che tutti siamo stranieri/estranei non esclude il fatto che l’estraneità si concretizza sempre in relazione a situazioni di determinate persone, gruppi, culture, dunque in modo relazionale.
17Anche nella teoria dei sistemi si trovano espressioni simili, come “tutto è estraneo/straniero”, perché si ritiene che ciò consista in una differenza che può essere descritta da entrambe le parti. Io ritengo, invece, che nell’esperienza d’estraneità ci sia un’asimmetria: si comincia nel proprio prendendo le mosse dall’estraneo, si prendono qui le mosse a partire dall’estraneo, si è sempre in relazione a un estraneo senza che questa differenza possa essere ridotta a una delle due parti.
Alterità ed estraneità
18Abbiamo qui una distinzione categoriale. Iniziamo con l’alterità. A differenza dell’estraneità, l’alterità è una categoria antica, anche in greco ben esprimibile: ἕτερότης (héterotes), o ἕτερον (heterón); sono categorie che hanno un ruolo fondamentale già in Platone, ad esempio nel Sofista, tutto incentrato sul rapporto tra ταὐτόν (tautón) e héteron. L’altro appartiene dunque al più antico patrimonio della logica e dell’ontologia. “Ogni ente è altro rispetto all’altro” non è dunque nulla di nuovo. Ora però vorrei fare una distinzione tra due coppie di opposti: “lo stesso e l’altro” da una parte, che io distinguo da “il sé, o proprio, e l’estraneo”, dall’altra.
19Lo stesso (auto, idem) e l’altro (héteron, aliud): quando operiamo questa distinzione, abbiamo che fare con un processo di delimitazione/demarcazione. In realtà l’uno viene differenziato dall’altro sempre dal punto di vista di un intermediario. Se dico “le mele non sono pere”, posso sempre dire che entrambe sono frutta, ma di specie diverse. Il terzo sarebbe dunque “frutta”, che entrambe sono. Avremmo così un genere comune che funge da congiunzione tra le due specie. Si potrebbero fare moltissimi esempi dello stesso tipo: i tedeschi non sono italiani, le donne non sono uomini, dove sempre, nel momento in cui differenzio, pongo un terzo che accomuna ciò che distinguo (in questi casi essere umano – Mensch). Per questo nella tradizione, in cui per lo più si ragiona sullo sfondo di un terzo comune, la differenza sessuale ha raramente ricevuto l’attenzione che merita. Si presuppone sempre che entrambi i generi siano esseri umani (Menschen) e che ci sia una ragione all’interno della quale rientrano, salvo eventualmente aggiungere che le donne ne partecipano in modo inferiore, così che si afferma e impone una conseguente gerarchia. Viene qui a galla il vecchio maschilismo. Ma in fondo la differenza sarebbe insignificante, perché ciò che importa è che tutti sono animal rationale, un essere vivente razionale, e ciò vale tanto per gli uomini che per le donne. Lo stesso dicasi riguardo alle culture e alle lingue: se siamo tutti esseri razionali non ha molta importanza che si sia italiani o tedeschi, perché tutti abbiamo la ragione, così come tutte le lingue hanno una struttura razionale.
20Quando si prendono le mosse da questo genere di differenziazioni (l’uno e l’altro) è sempre in gioco un terzo che media. Per questo motivo si può anche sempre ribaltare la determinazione: “l’italiano non è un tedesco”; posso dire “il tedesco non è un italiano”, non cambia molto. “A non è B”, “B non è A”. Sono determinazioni simmetriche, reversibili, leggibili in entrambe le direzioni, perché il punto di vista del terzo sta sopra la differenza. L’alterità in questa tradizione significa diversità e si adottano determinate caratteristiche o criteri per stabilirla. Ciò non ha assolutamente nulla che fare con l’estraneità! Si tratta di una distinzione senza la quale non ci sarebbe alcuna articolazione dell’esperienza. Parlare di qualcosa significa sempre che esso si differenzia da altro, altrimenti non parleremmo affatto di qualcosa. Ho già citato il Sofista di Platone, dove l’héteron risulta come uno dei generi maggiori. È interessante notare che nell’apertura di questo dialogo compare lo ξένος (xénos), lo straniero, che è uno degli interlocutori del dialogo. Egli viene introdotto proprio come xénos, come lo straniero di Elea che, come Zeus, guarda tra le mura per vedere se si parla in modo razionale. Si tratta però solo dell’inizio, Zeus infatti non appare poi più come interlocutore e l’estraneo non è una categoria nel dialogo: dopo l’introduzione la parola “estraneo” non compare più per tutto il corso del dialogo. Si tratta dell’ἕν (hén) e dell’héteron, della menzogna presso i sofisti e di tutte queste cose, del non-essere. L’estraneo insomma appartiene alla cornice ma non al tema di questo dialogo. In Platone ci sono comunque altri passi in cui l’estraneo riveste un ruolo non tanto secondario: nel Simposio, dove Socrate chiama Diotima ὦ Ξένη (ô Xéne), o straniera. Diotima è, infatti, una sacerdotessa di Mantinea, viene dunque da fuori Atene. Viene appellata come straniera, ma la cosa interessante è che non è un interlocutore tra altri, bensì viene introdotta e Socrate ascolta (è un caso raro che ascolti e non discuta egli stesso). Il concetto ξένη (xéne) appare qui come una voce che viene da altrove e questo significa anche che il tema dell’ἔρος (éros) non è semplicemente un oggetto su cui dibattiamo, ma che con esso è in gioco qualcosa come un’iniziazione. Si tratta, dunque, di un uso non banale di questo termine. Un altro passo si può trovare nell’Apologia, proprio all’inizio, dove Socrate afferma di parlare, comportarsi e sentirsi come uno straniero all’interno del tribunale: «Sono quassù in tribunale per la prima volta a settant’anni, e perciò sono del tutto estraneo a questo modo di esprimersi» (Apologia, 17 d). Qui viene dunque alla luce l’estraneità in rapporto alle istituzioni.
21Il sé/proprio e l’estraneo: il linguaggio è qui un altro. Il greco αὐτός (autós), molto vicino al tedesco Selbst, trova in latino due possibili corrispondenti: idem e ipse. Selbst è l’ipse, in contrapposizione all’idem. Per l’estraneo c’è un ancor maggiore molteplicità di termini. L’importante è: come sorge questa differenza? Non quando parlo sul proprio e l’estraneo, perché questa sarebbe già una forma secondaria, dove la differenza è già presupposta. La differenziazione tra proprio ed estraneo avviene invece in un processo di inclusione ed esclusione. Il sé/proprio è un campo interno in contrapposizione a uno esterno ed è il campo in cui si trova anche colui che parla su questa differenza. A questo riguardo non si parla come un terzo; ad esempio, io parlo come tedesco della differenza tra tedeschi e italiani, così come voi parlate come italiani della differenza tra italiani e tedeschi, se prendete effettivamente le mosse dall’estraneità. Se prescindete da ciò, allora siete già sul terreno di un confronto, e lo stato d’estraneità viene relativizzato. Bisogna invece sottolineare e tener ferma un’imprescindibile asimmetricità: quando parlo io della differenza tra italiani e tedeschi non posso che farlo in quanto tedesco, così come voi non potete parlarne che in quanto italiani. Non posso fare come se fossi un italiano, me lo posso immaginare, ma il proprio, il proprio corpo, la propria lingua, il proprio nome, è qualcosa che è sempre presupposto quando ci si relaziona all’estraneo. Si tratta di un rapporto asimmetrico, come quello tra Heimatland (patria) e Ausland (terra straniera) o tra civiltà e stato selvaggio. Questa differenza fra proprio ed estraneo si trova anche in molte esperienze quotidiane, come lo svegliarsi e l’addormentarsi, esperienze nelle quali si passa da un territorio a un altro e non si può stare “al di sopra”, come al di fuori da entrambe le situazioni. Certo, come già si è detto, è del tutto possibile, e anzi quotidiana esperienza, che da svegli ci si interroghi su quanto differenzia la veglia dal sonno, ma lo si fa da svegli. È dunque sempre data la possibilità del confronto, ma il punto di partenza è: in quanto desto mi riferisco al sonno, così come nel sonno possono comparire bastioni della veglia. Si tratta dunque di un commercio, di un traffico attraverso una soglia, ma le due esperienze non possono essere portate ad alcuna sintesi.
22Ho chiamato tutto questo, appunto, Schwellenerfahrungen, esperienze di soglia, richiamandomi a Benjamin, che nel Passagenwerk dice che la soglia non è una linea, bensì una zona, una zona di passaggio. Si tratta di esperienze come quelle dei cosiddetti riti di passaggio: riti d’ingresso nella maturità, riti mortuari eccetera. Si tratta di esperienze di soglia nelle quali io passo da una parte all’altra e non posso mai essere da entrambe le parti contemporaneamente. Un altro esempio a questo proposito sarebbe quello della differenza di genere tra maschile e femminile. Come dice Freud, ci sono elementi maschili nel femminile e viceversa, ma, esclusi casi limite come quello degli ermafroditi, stiamo sempre da una parte. Questo è il limite di ogni gender-philosophy: io posso parlare della differenza uomo/donna solo in quanto uomo o, viceversa, in quanto donna. Si tratta di una differenza che non si può eliminare. Lo stesso vale per il rapporto tra bambini e adulti, anche questa una relazione d’estraneità. Mentre nel caso uomo/donna la differenza scompare quando si ragiona a partire dalla costituzione razionale, in base alla quale la differenza rimane come qualcosa di puramente empirico e secondario, nel caso bambino/adulto si perde la differenza sottoponendo il rapporto a un modello teleologico: il bambino è un non-ancora adulto, è ancora non-completo, è un essere incompleto. In Aristotele si dice che il bambino è in attesa, in vista del futuro. Rousseau è stato probabilmente il primo a opporsi a questa concezione e a rivendicare l’estraneità del bambino, in quanto ha un’esperienza che l’adulto non può più riprodurre. Anche il rapporto bambino/adulto è, dunque, un rapporto di estraneità irreversibile e asimmetrico. Un bambino non è, ad esempio, infantile. Un adulto può essere infantile, si tratta di processi regressivi, che non tolgono la differenza. Naturalmente l’esperienza di estraneità è anche da parte del bambino nei confronti dell’adulto. Ho già rimandato all’apprendimento di una lingua da parte di un bambino, che deve trovarsi in una situazione molto singolare: sente che ci sono persone che fanno rumori con la bocca, non sa ancora cosa significhi parlare, ma sente e nota che tornano sempre di nuovo, e che sono accompagnati da determinati gesti, finché non comprende di aver appreso una lingua. Costituisce una sorta di miracolo che riesca a giungere a questo punto, e si deve notare che non è la stessa cosa di quando un adulto impara una lingua straniera, perché il bambino apprende una lingua in una situazione di totale estraneità rispetto a ciò che una lingua in generale è.
23Un altro esempio di esperienza di soglia è quello di salute e malattia. La patologia è una particolare esperienza d’estraneità rispetto ai cosiddetti normali. Si possono certo trovare momenti di permeabilità tra normalità e anormalità, tra patologico e normale, ma si tratta anche qui di un’esperienza rispetto alla quale non ci si può trovare “sopra”. Si è da una parte o dall’altra: come sano ci si riferisce allo stato di malattia e viceversa. Abbiamo qui un’insuperabile asimmetria. Come Levinas ha notato, spesso si tende a volersi distanziare dall’asimmetria, ma qui si sta trattando di esperienze che non possono essere sottoposte a un processo di “democratizzazione”. Qui stiamo parlando di esperienze elementari che riguardano il divenire-sé a livello sia individuale sia collettivo, in cui, pertanto, il proprio e l’estraneo configurano una differenza nell’esperienza stessa che non possono essere superate con teorie o regole istituzionali.
24Spero sia così divenuto chiaro perché distinguo alterità ed estraneità. Una sola ultima notazione terminologica: Donatella Di Cesare mi accusa nonostante tutto di un certo inguaribile etnocentrismo, solo perché dico che in tedesco la parola estraneo (Fremd) è molto più ricca che in qualunque altra lingua. In inglese si trovano stranger, alien, foreign, mentre das Fremde è una parola sola che contiene molti aspetti, ma che allo stesso tempo permette di distinguere chiaramente tra altro ed estraneo. In inglese si dovrebbe parlare di alienness, ma è una parola piuttosto inconsueta, mentre Fremdheit non suona altrettanto strana in tedesco. D’altronde, se in inglese utilizzassi otherness si penserebbe sempre a un’altra persona, mentre l’estraneità non deve essere né ridotta né confusa con la relazione interpersonale. Allo stesso modo l’estraneità dev’essere distinta dalla diversità: si fa confusione quando si dice che l’estraneo radicale è il diverso, si tratta di tutt’altra categoria; così come quando si parla della question de l’autre, o della question of the other, si deve tener presente che si tratta di espressioni ambigue. I miei colleghi classicisti direbbero che non c’è nulla di nuovo nel parlare di alterità, essendo un tema ricorrente in tutta la storia della filosofia, da Platone a Hegel e oltre. Per questo tengo a prediligere il termine estraneità, che dovrebbe parzialmente impedire tali fraintendimenti e confusioni, così come la riduzione all’alterità interpersonale. “Estraneo” lascia aperta la questione se si tratti di un altro individuo umano, di un altro soggetto, o della natura, o di un oggetto.
Estraneità come assenza, distanza e sottrazione
25La domanda di fondo è questa: come si può concepire l’estraneità in quanto tale? Cosa significa l’estraneità? Come viene esperita l’estraneità in quanto tale? Innanzitutto vorrei dire, a mo’ di tesi, che l’estraneità non è un deficit.
26Sembra necessario insistere su questo punto, perché si parte sempre dall’idea che occorra capire tutto, conoscere tutte le lingue, e che, dunque, ciò che è estraneo costituisca un limite a questo nostro desiderio. L’estraneità radicale non deve, però, essere intesa in questo modo. Non è una mancanza, bensì una qualità positiva, a sé stante e originaria (nel senso sopra chiarito), che non dev’essere superata o tolta, né che possa essere ricavata, dedotta da altro. Per questo è necessario anche parlare di assenza. L’estraneo è assente in quanto tale. Con ciò voglio dire che l’assenza dell’estraneo non è una caratteristica temporanea, non è che ci si debba dar da fare per riuscire a vedere l’estraneo oltre questa sua presente assenza. Si tratta, infatti, di un’assenza nella presenza, così come la morte, che è qualcosa di presente nella vita ma sempre nella forma di un’assenza. Lo stesso si può dire in relazione alla distanza, che non significa che qualcosa è diverso, bensì che si allontana. Un altro concetto è quello di sottrazione, che viene utilizzato in molteplici modi. La sottrazione è qualcosa che è lì nel momento in cui si sottrae. Pensiamo allo sguardo dell’estraneo, che mi si sottrae: ciò non significa che non c’è, che non è lì, che è celato da qualche parte, poiché lo sguardo dell’altro c’è nel momento in cui io non posso tramutarlo in qualcosa di visibile. È anche il pensiero di Sartre: lo sguardo dell’altro non è qualcosa di visibile nel mio mondo, come il tavolo che vedo o come la mia mano che descrivo, bensì lo sguardo dell’altro mi si sottrae in quanto io sono nello sguardo dell’altro. Ricordiamo, infine, un’altra caratteristica dell’estraneità: l’inaccessibilità. Di nuovo non si deve pensare a una formulazione negativa, ma a una caratteristica dell’estraneità in quanto tale, dunque un tratto che ne costituisce “positivamente” l’esperienza.
27Prendiamo ora alcune citazioni per meglio illustrare queste caratterizzazioni dell’estraneità. Un primo riferimento, quasi d’obbligo, è alle Meditazioni Cartesiane di Husserl (un passo che ho citato così spesso che ormai lo conosco come un verso d’amore), dove Husserl si chiede che cosa significhi “esperienza dell’estraneo” e la definisce «l’accessibilità dell’originariamente inaccessibile»10. In questo modo egli intende che l’estraneo è ovviamente accessibile: parlo dell’estraneo, mi riferisco all’estraneo, mi comporto rispetto all’estraneo. In questo senso è dunque accessibile, ma in se stesso è inaccessibile, in quanto non posso assumere il luogo dell’estraneo, non posso mettermi al suo posto, non mi ci posso collocare. Si tratta dunque di un’espressione paradossale, l’originariamente inaccessibile non può essere mutato in qualcosa di accessibile al modo in cui qualcosa di oscuro può essere reso chiaro, poiché l’originariamente inaccessibile rimane inaccessibile. Anche in rapporto alla questione ermeneutica Husserl ha un’espressione simile alla precedente: l’incomprensibile nel comprensibile. Con ciò non intende parlare dell’incomprensibile in opposizione al comprensibile, ma vuole indicare che nel comprensibile c’è qualcosa d’incomprensibile. Un esempio ci viene dalla lingua straniera: anche quando non capisco una lingua, sento, odo che si tratta di una lingua, e se non percepissi che è una lingua, o se non assumessi che si tratta di una lingua, allora non avrei neppure l’impressione, l’esperienza dell’incomprensibilità. Anche qui, dunque, c’è un’esperienza di ciò che è originariamente inaccessibile. Sartre ha sviluppato questo pensiero. Nel libro Le mots egli scrive che l’estraneo è un’«assenza in carne e ossa». Riprendendo dunque una terminologia husserliana egli descrive un’esperienza in cui l’altro c’è nel modo del non-esserci (Der Andere ist da, in der Weise dass er nicht da ist). Già ne L’essere e il nulla Sartre aveva offerto una meravigliosa descrizione fenomenologica di quest’esperienza: racconta una situazione in cui egli entra in un caffè, guarda i diversi tavoli e constata che Pierre non c’è. Se si riflette ci si rende conto che la constatazione è tutt’altro che banale. Si potrebbe dire, in un tale caso, che molta gente non c’è, per esempio che anche mia nonna non è lì, che Glenn Gould non c’è; ma Sartre sottolinea che tale esperienza è in relazione a un luogo specifico, quello in cui usualmente siede Pierre, e dove dunque mi aspetto di trovarlo, ma egli non c’è e, in questo senso, ho un’esperienza di assenza in carne e ossa. Anche un vecchio rito in base al quale a un tavolo si tiene un posto libero per il morto è un esempio in cui qualcuno è presente in quanto assente. L’esperienza dell’assenza non è dunque da equipararsi a un nulla, come accadrebbe qualora si ritenesse che ciò che è assente non esiste, bensì qualcosa è esperito come assente, come sottraentesi o come qualcosa di cui si sente la mancanza. Levinas dice qualcosa di simile, quando afferma che l’esperienza dell’Altro è un’esperienza dell’assenza in quanto assenza; l’assenza viene esperita come assenza, non dunque nel senso dell’inesistenza, come determinazione negativa, ma nel senso che qualcuno c’è non essendoci. La decisiva determinazione della sottrazione è contenuta per essenza nell’esperienza dell’altro. Il termine sottrazione (Entzug) si ritrova spesso anche nel tardo Heidegger. Nella sot-trazione (Ent-zug) si cela una figura del trarre; essa indica che qualcosa è lì nel momento in cui si ri-trae, si sot-trae. Questa sottrazione riguarda anche la già citata infanzia, che rimane per me come necessariamente irrecuperabile, ma non per questo inesistente.
28Al fine di evitare fraintendimenti, si noti bene che l’estraneo presuppone naturalmente il proprio: non posso parlare solo dell’estraneo, o dire che questo è il proprio, l’autentico (das Eigentliche). Quando qualcosa si sottrae, si sottrae a me. Senza proprietà (Eigenheit) non ci sarebbe alcuna estraneità. In questo senso un po’ di Descartes è necessario riguardo al problema dell’estraneo, è parte anzi essenziale della dinamica esperienziale dell’estraneità. Ciò che si sottrae lo fa rispetto a me che sono qui, altrimenti anche l’estraneità non potrebbe avere quei caratteri di assenza e di sottrazione che abbiamo visto. Si avrebbe un totale fraintendimento qualora si comprendesse la fenomenologia dell’estraneo come rivolta contro il proprio o l’altro contro l’io. Allo stesso modo si cadrebbe in un madornale errore qualora si attribuisse a Levinas l’idea che primo è l’altro, non l’io. Se si vuole parlare di un primato, allora si dovrebbe dire che nessuno dei due è il primo assoluto. Se si volesse stabilire un ordine gerarchico, non vi si potrebbe porre al vertice l’altro o il prossimo. Come ho cercato di mostrare anche nell’esposizione della struttura temporale, si tratta di un’esperienza che ha luogo nell’inframezzo: la risposta non viene dopo che il páthos è già accaduto, il páthos stesso emerge solo nella risposta che esso provoca. Allo stesso modo non si può far giocare l’altro contro il proprio, altrimenti si ricadrebbe in un dibattito molto in voga nel xviii secolo, vale a dire quello riguardo a egoismo e altruismo, concepiti come due opposti nei quali, al centro, viene posto rispettivamente l’io o l’altro. In entrambi i casi si trova, comunque, una struttura di pensiero simile. La fenomenologia dell’estraneo non vuole sostituire la centralità dell’io con quella dell’estraneo. In tal caso la struttura di pensiero resterebbe la stessa. La fenomenologia dell’estraneo non mostra una centralità dell’estraneo al posto di quella dell’io, bensì che l’io sorge nella risposta all’estraneo: io sono nello slittamento tra i due ambiti, tra il páthos e la risposta.
29Devo dirlo chiaramente perché ripetutamente mi è capitato di sentirmi dire che voglio sostituire il proprio con l’estraneo, o l’io con qualcos’altro. In realtà non si tratta di sostituire. Ogni inversione, come ha efficacemente mostrato e costantemente ricordato Derrida, è alquanto discutibile, in quanto in fondo non cambia granché; le coordinate rimangono le stesse, così come i fattori, seppur in costellazioni diverse. Dalla fenomenologia dell’estraneo emerge, piuttosto, uno slittamento dell’esperienza, in cui il primato, il primo e l’ultimo, ricevono un carattere diverso.
Dimensioni dell’estraneo
30Sarò qui piuttosto breve, in quanto si tratta di questioni che in parte ho già toccato e in parte toccherò ancora successivamente.
311. L’estraneità di me stesso. Comincio da questa perché è la meno evidente. La mia tesi è che l’estraneità dell’altro assume rilievo solo allorché viene a contatto con un’estraneità in me stesso. Quest’estraneità – il già citato «Je est un autre» di Rimbaud – si mostra, prendendo la categoria della sottrazione, come autosottrazione, in quanto mi sono vicino essendomi lontano. Prendiamo l’esempio lacaniano dello stadio dello specchio, dove il bambino si vede nel riflesso. Si tratta di un’autopercezione, una percezione di sé, una conoscenza di sé, la quale, passando per la mediazione dello specchio, risulta però intrecciata con una prospettiva estranea, con uno sguardo estraneo, ed è dunque scissa. Lo stesso avviene nell’esperienza quotidiana della fotografia, dove mi vedo, mi riconosco in una distanza, che è però anche auto-riconoscimento. Accade la stessa cosa nei nomi e nei racconti, nelle autobiografie, nell’udire la propria voce incisa su nastro: è sempre presupposta una divisione. L’esempio dello specchio è paradigmatico, in quanto mostra che non c’è prima una conoscenza di me e poi un ritrovamento della stessa nell’immagine allo specchio, non c’è lo “stesso” prima e dopo, lo “stesso” si costituisce nell’esperienza dello specchio e non è qualcosa che si possa presupporre come già costituito prima di tale esperienza. È questo che Lacan ha in mente: io mi scopro come me stesso nello specchio. È un enorme fraintendimento credere che nella conoscenza di sé il sé sia al contempo soggetto e oggetto. È da questo fraintendimento che, non a caso, nascono tutte le note aporie che ritroviamo a partire dall’idealismo tedesco fino ai nostri giorni, e segnatamente in Henrich: se mi vedo come oggetto, devo già essere soggetto, altrimenti non potrebbe esserci autentica auto-conoscenza; da qui un regresso all’infinito. Si tratta di aporie che nascono in quanto si mira a un’identità all’interno della dinamica dell’autocoscienza e dell’autoconoscenza, un’identità tra me come soggetto e me come oggetto. Esperienza di sé, invece, non significa semplicemente che io sono soggetto e oggetto in uno, bensì che io torno a me in uno slittamento temporale e non senza un certo ritardo.
32Alla lingua ho fatto già ampiamente accenno. La lingua madre è per gran parte una lingua straniera, una lingua estranea; imparo a conoscere l’estraneità della lingua innanzitutto nella lingua madre e non nella lingua straniera. In modo analogo, la nascita è sempre un evento di estraneità: la sua sistemazione nei calendari, nella storia eccetera, è sempre qualcosa di secondario, mentre la nascita in quanto vissuta accade come un trauma che c’è prima di venire ordinato in un sistema spazio-temporale oggettivo.
33Chiudo l’esposizione dell’estraneità del proprio con la teoria dell’inconscio e dell’involontario di Freud. Si tratta di un tema enorme, cui qui posso solo accennare. In modo molto pregnante Freud definisce l’inconscio come una «terra straniera interiore» (ein inneres Ausland). L’involontario e l’inconscio sarebbero in tal senso da interpretare come una forma molto intensa di esperienza d’estraneità. Inconscio non significa che c’è qualcosa in cantina, che c’è ancora qualcosa di cui io non so, come spesso viene invece interpretato Freud, con una dose massiccia di incomprensione. Anche in Gadamer, ad esempio, l’inconscio risulta sempre come distorsione della comunicazione, come una comunicazione impropria. Ciò deriva dalla comprensione dell’inconscio come di un concetto negativo: noi sappiamo cos’è la coscienza e l’inconscio è la negazione della coscienza, o l’involontario è la negazione del volontario. L’inconscio risulta così sempre come un’enclave all’interno della teoria della coscienza. In modo simile ha argomentato Eugen Fink in una celebre appendice alla Krisis.
34La prima rettifica consiste nel non intendere l’“in-” (un-) dell’inconscio come una negazione, bensì come sottrazione: qualcosa appartiene a me come atto mancato, lapsus. Sbagliare o inciampare nel parlare, fare una papera, sono riferiti a me in quanto parlante. Quanto accade non è mia intenzione, non lo tengo nelle mie mani, eppure mi accade come mio. Anche qui vediamo qualcosa di radicalmente patico che mi accade. In me accade dunque qualcos’altro rispetto ai miei piani e alle mie intenzioni, mi accade come mio e al contempo si sottrae al mio controllo, pur imponendosi come azione mia. L’intero inconscio è dunque un campo, come il desiderio, che partecipa a ogni mia azione e anche conoscenza, ma che non può essere ricondotto alla mia iniziativa. Il desiderio non può essere attribuito a una mia iniziativa allo stesso modo in cui può esserlo il guardare, bensì mi accade. Per questo l’intero ambito dell’inconscio dev’essere interpretato come una forma dell’estraneità. Richiamandosi a E.T.A. Hoffmann, Freud parla del perturbante e gioca col doppio senso contenuto nella parola “unheimlich”: nello stesso Heim, cioè nella propria casa, accade originariamente qualcosa che non vi appartiene. Estraneità, dunque, in casa propria. Il perturbante è qualcosa che sfonda la sfera dell’intimità. Anche quanto detto riguardo al páthos s’incrocia in molti casi con le osservazioni e le teorie di Freud, per esempio riguardo alle trovate (Einfälle) e alle associazioni libere, forme di un parlare che sta prima delle condizioni di verità e delle intenzioni di verità.
352. L’estraneità dell’altro. Si tratta di una dimensione dell’estraneità apparentemente più ovvia. È però importante concentrarsi su come viene concepita. Non significherebbe granché qualora si presupponesse che si parte sempre da un “noi”, dove, però, non ci sarebbe più alcuna estraneità: siamo tutti italiani, siamo tutti tedeschi, siamo tutti filosofi eccetera. In una comunità così intesa non c’è nulla di estraneo, tutto è compreso in base al comune. Allo stesso modo perderemmo il fenomeno dell’estraneità se ci si volesse semplicemente limitare a constatare empiricamente che ci sono altri oltre a me: c’è un io e c’è un altro io. Avremmo in tal modo una mera moltiplicazione di io, di sé, che non sarebbe di per sé in grado di dar luogo ad alcuna effettiva estraneità. Non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante se si trattasse unicamente di questo: dire che ci sono più io, o più uomini, sarebbe lo stesso che dire che ci sono molte bottiglie. La cosa importante è quale ruolo svolgano gli altri, a che esperienza dia luogo questa molteplicità. L’estraneità presuppone che vengo incontrato da qualcuno nell’esperienza secondo la già descritta struttura di presenza/assenza, qualcuno o qualcosa, dunque, che si mostra sottraendosi. L’estraneo compare come ciò che non può essere integrato nell’intero. Riprendo ancora l’esempio sartriano dello sguardo estraneo: questo non può significare che guardiamo assieme, come possiamo guardare assieme un quadro, dove io e l’altro sono come accomunati da una direzione di sguardo. Non è così che lo sguardo dell’altro viene innanzitutto esperito come estraneo. Questo accade quando lo sguardo coglie me, quasi come un pugno. Sartre giustamente dice che lo sguardo dell’altro non è qualcosa che io vedo, qualcosa che giace nel mio campo visivo e che potrei vedere meglio o da cui potrei distogliere lo sguardo. Se così fosse, la mia iniziativa non risulterebbe interrotta, scissa, sarebbe come quando guardo un libro e sta a me prendere posizione nei suoi confronti. Lo sguardo dell’altro è ciò che mi rivela come esposto al suo sguardo, dunque disappropriato e inappropriabile. Se ci si allontana un po’ da Sartre, che riduce lo sguardo unicamente a una relazione soggetto-oggetto, si possono ritrovare diverse forme dello sguardo, che può essere, oltre che aggressivo, anche accogliente, partecipante, solidale, rassicurante eccetera. Si tratta comunque di qualcosa che mi coglie e mi riguarda nel profondo: io mi vedo visto, e in me c’è qualcosa che corrisponde a quanto vede l’altro e non io. Ciò presuppone un intreccio di proprio ed estraneo. Il primo che, ai margini della filosofia accademica, ha efficacemente scritto a questo proposito è stato Paul Valéry, che parla di un «chiasmo dello sguardo»: io mi vedo nell’altro e l’altro in me. Si tratta di un intreccio che non può significare né fusione, né coincidenza, né può essere ricondotto a un “noi” o a una comunità armoniosa. Merleau-Ponty ha ripreso le descrizioni di Valéry e l’espressione “chiasmo” è diventata, come noto, una delle figure-chiave della sua filosofia. Il chiasmo tra proprio ed estraneo, in particolare, significa che io non posso liberarmi dell’estraneo, questo mi accompagna come la mia ombra. Dell’estraneo sono tanto certo quanto di me, è un’esperienza che non posso annullare, così come non posso annullare quella di me. La dose di certezza che ho rispetto a me non è superiore a quella che ho dell’estraneo, così che ogni solipsismo cartesiano è eliminato alla radice.
36Qualcosa di simile può essere detto riguardo alla voce, alla voce estranea. Una delle domande principali in rapporto alla voce riguarda la sua produzione: chi produce la voce? La voce non è solo e innanzitutto qualcosa che si produce, bensì qualcosa che si ode. Questo vale anche per la propria voce. La voce è sempre contemporaneamente vicina e lontana, viene da altrove e non si lascia mai pienamente appropriare. Ciò vale anche per il mio nome: inizialmente un bambino si sente chiamato come tu, e solo in seguito giunge a dirsi come io. Si pensi anche alla Bibbia, all’inizio della Genesi, dove Dio chiama Adamo e chiede «Adamo, dove sei?» e Adamo si vergogna. La dinamica io/estraneo è dunque già presente in testi religiosi molto antichi.
37Un paio di annotazioni terminologiche: chiamo l’estraneità di me stesso estraneità estatica, in quanto io “esco” da me, dal mio terreno proprio, dal consueto; l’estraneità dell’altro, invece, estraneità duplicativa, riprendendo così un’interpretazione secondo la quale l’altro è una sorta di sosia (Doppelgänger): io ancora una volta, una seconda volta, ma scisso da me. Io non coincido, dunque, con l’altro, ma, allo stesso tempo, non sono nulla senza l’altro, e non siamo neppure tutti riassumibili e riducibili a un noi. Goethe, osservando una foglia di ginko biloba e pensando all’amore, dice di scoprire di essere uno e doppio. Nell’amore, infatti, non mi fondo nell’altro, altrimenti svanirebbe l’amore stesso.
383. L’estraneità di un altro ordine. Si tratta di un’estraneità straordinaria, in quanto extra-ordinaria. Di ciò ho parlato ampiamente nella prima lezione. Come nel caso della cultura o della lingua straniera, non si tratta di qualcosa che sta là fuori, mentre io sto qui dentro, bensì di un ordine che si oltrepassa, nell’ordine stesso diviene visibile o udibile qualcosa di virulento che si sottrae all’ordine. Così io sento all’interno della mia lingua una lingua straniera come sottraentesi alla mia comprensione. Lo stesso dicasi della cultura estranea, il che indica un intreccio tra le culture, perché l’estranea non può esserci senza la propria, e ciò che viene chiamato esotismo può considerarsi il tentativo di passare nella cultura estranea abbandonando la propria. Se l’esperienza culturale deve avere un significato anche interculturale, questo può realizzarsi solo nel momento in cui il proprio si muta. Un’esperienza che lasci immodificato il proprio non può considerarsi un’esperienza d’estraneità; pertanto un incontro è autenticamente interculturale (dunque tra culture “estranee”), solo se nell’incontro qualcosa varia, senza per questo risolversi in un’unione o in un abbandono del proprio a favore dell’estraneo. Pensate a quanta gente torna dai suoi viaggi con nulla di modificato se non il colore della pelle, un po’ più abbronzata. Ciò significa che non c’è stato un autentico incontro con un altro paese e un’altra cultura, che, in fondo, non si è mai lasciata casa propria. Solo se si modifica qualcosa nella propria cultura, senza per questo cancellarla, si può dire che un incontro interculturale ha avuto luogo.
39Parlare dell’estraneità di un altro ordine significa anche che non c’è l’estraneità. L’estraneità, così come l’io, è non solo un concetto relazionale, che dunque non può esserci se non rispetto a un proprio che viene presupposto, bensì anche occasionale, dal momento che non posso parlare di un’estraneità per eccellenza nel mondo, poiché ogni estraneo accade in relazione a un ordine e, come uso dire, ci sono tanti ordini quante estraneità. L’estraneità dunque dev’essere sempre puntualmente analizzata: nell’economia, nella politica, nell’arte, nella lingua, nella percezione eccetera. L’estraneo è di volta in volta qualcosa di specifico, che non può essere considerato che in rapporto a un ordine determinato, come ciò che travalica tale ordine e i suoi limiti. Per questo si può dire che la ricerca dell’estraneo è una sorta di programma infinito, che nessuno può esaurire da solo. Non si deve tentare di ridurre l’estraneo a una categoria. “C’è dell’estraneo” significa, dunque, che c’è solo in modo plurale.
404. L’estraneità al di sotto della soglia dell’ordine. Chiamo questo tipo di estraneità anche estraneità liminale. Essa è riferibile, per esempio, al sogno, che non costituisce sfondamento di un ambito, ma rappresenta piuttosto una forma di sprofondamento in un mondo di estraneità che non si domina. Ciò si ricollega al mitico che abita la nostra vita di tutti i giorni e che Freud ha così acutamente saputo evidenziare.
41Come si articola l’estraneità liminale? Si tratta di un campo scandito secondo le parole dei miti. Pensiamo in particolare al caos, il non-ordinato da cui sorge l’ordine, da non intendersi come la materia da cui si produce qualcosa, bensì come uno sfondo da cui qualcosa emerge. L’altra figura mitica che ci permette di comprendere l’articolazione dell’estraneità liminale è la confusione (il tohu wa-bohu della Bibbia, cfr. Ge 1,2), un’altra forma del non-razionale, dove tutto si confonde con tutto, e le differenze svaniscono. Si tratta di qualcosa di analogo al coacervo delle sensazioni (Gewühl von Empfindungen) di cui parla Kant, che non dev’essere interpretato solo come ciò che le categorie permettono di ordinare, ma anche come qualcosa che c’è, qualcosa che non si può definire, ma di cui pure si dà esperienza. Per esso Castoriadis ha utilizzato il termine magma, la lava fluida da cui si costituiscono le forme, un’informe e al contempo formabile massa. Un’altra figura è quella dell’amorfo, del senza-forma, che si ritrova in Plotino. Non si tratta solo di qualcosa di negativo, bensì di ciò che ha la potenza della forma. Penso alla pittura, in cui questi motivi rivestono un ruolo fondamentale, ai più tardi dipinti di ninfee realizzati da Monet, dove c’è un emergere di forme da magmi di colori e dove lo sfondo e le forme fluiscono l’uno nelle altre e viceversa. Riguardo a questa dimensione dell’esperienza d’estraneità, quella appunto dell’estraneità liminale, è opportuno notare che i miti hanno una funzione illustrativa rilevante e che in questo senso il mito diviene qualcosa di irrazionale solo allorché lo s’intenda come principio per spiegare le cose e si pretenda di sostituirlo alla ragione, attribuendo ai miti la funzione di quest’ultima. Si tratta, invece, di dare un giusto rilievo ai miti, come ha fatto magistralmente Freud, in quanto aiutano a evitare un’assoluta razionalizzazione del caos e dei fenomeni qui sopra accennati, una razionalizzazione che pretenderebbe di ricondurre a principi razionali ciò che non è a questi riducibile.
Tra gli ordini
42Già precedentemente ho parlato dell’inframezzo e ora vorrei analizzarlo in rapporto all’esperienza d’estraneità. In questo caso sta a significare che non si può tracciare nessuna netta divisione tra proprio ed estraneo al modo in cui si potrebbero differenziare nitidamente due concetti. Non si tratta, infatti, di due concetti in senso proprio, bensì di due topoi, due luoghi con confini aperti, che permettono transiti. Ho già fatto riferimento al Passagenwerk di Benjamin e alla sua caratterizzazione dell’esperienza della soglia. Si tratta di transiti che contengono una certa forma di indeterminatezza produttiva. Svegliarsi e addormentarsi, segnano soglie tra ambiti che non sono rigidamente distinti, tanto che nel sonno si continuano a elaborare cose vissute durante la veglia, così come quando si è svegli emergono tracce di quanto si è sognato, fino ad arrivare a fenomeni molto particolari come quello del sogno a occhi aperti e dei “sogni lucidi”. Anche Husserl, quando nel primo volume delle Idee parla di orizzonti del senso, sottolinea che abbiamo che fare con qualcosa di nebuloso; l’orizzonte visivo non è distinto in modo netto dal non-visibile. I transiti riguardano sempre qualcosa come uno stato crepuscolare, ambiguo. L’estraneo non è dunque semplicemente estraneo, è sempre più o meno estraneo, ovvero ci sono gradualità non puntualmente determinabili. Si pensi anche alle lingue, che sono più o meno imparentate, più o meno vicine o lontane tra loro, e sono quindi tra loro più o meno estranee. Il termine molto usato per descrivere questo tipo di fenomeni è quello di intreccio (Verflechtung, entrelacs), o chiasmo, che Merleau-Ponty ha reso particolarmente celebre e caratteristico della propria filosofia, riprendendolo a sua volta, come già ricordato, da Valéry. Norbert Elias, sociologo tedesco, nella sua critica alla concezione cartesiana della società, asserisce che la società è un plesso (Geflecht) tra proprio ed estraneo, senza divisione piena, mentre Husserl utilizza la semplice espressione ineinander: l’estraneo è nel proprio e il proprio è nell’estraneo. Esempi di ciò sono già stati fatti in abbondanza (i sogni a occhi aperti, la presenza del bambino nell’adulto). Si pensi anche all’Ulisse di Joyce: «Jewgreek is greekjew. Extremes meet», da cui emerge l’idea di un intreccio di culture. A questo ineinander appartengono anche figure marginali e meticce, che si ritrovano in tutte le culture, si pensi alle chimere, agli ermafroditi, alle streghe, ai nani, e così via. Allo stesso modo nelle scienze della cultura un ruolo notevole è rivestito dai cosiddetti ibridi, che possono essere sia lingue sia tradizioni, usanze, simboli. Io stesso in un mio saggio, intitolato Hybride Formen der Rede11, ho analizzato il fenomeno della citazione, che porta qualcosa di estraneo nel corpo di un testo, pur appartenendo, in pratica, al testo stesso. È parte di un testo, ma segna un rinvio all’estraneo, tanto da portarlo all’interno del proprio testo. Si trovano citazioni sia esplicite che implicite, attraverso le quali si fa venire alla parola nel proprio discorso, nella propria lingua, qualcosa di estraneo, come tante parole straniere che entrano a far parte di una lingua, senza tuttavia rientrare pienamente e originariamente nel suo ordine, nella sua struttura.
43Vorrei anche, a proposito della figura del transito, escludere due estremi. Da una parte la totale congruenza tra proprio ed estraneo, a cui in fondo fanno riferimento tutte le culture della purezza, siano esse della lingua, della razza o della cultura. Si tratta in tutti questi casi di fantasmi che implicano sempre una violenza, in quanto si pretende di ripulire il proprio dall’estraneo e si è vittima di un delirio di purezza. La purezza è sempre un tentativo violento di escludere e finanche eliminare l’estraneo. Dall’altra parte si ha l’estremo di un’assoluta estraneità, la quale, come ho già accennato, corrisponde a una pura assurdità, in quanto, se così fosse, non si percepirebbe neppure più qualcosa come estraneo.
44Infine la figura dell’inframezzo e del transito è declinabile anche in senso geografico. Mi limito qui, a titolo di esempio, all’Europa, dove pure troviamo zone di confine all’interno delle quali lingue e culture interferiscono l’una nell’altra: l’Alsazia, incrocio tra tedesco e francese con una propria lingua, che per altro è molto vicina al dialetto di Basilea; la Galizia orientale, dove troviamo tedesco, polacco e russo; la Lituania, dove convivevano lituano, russo, tedesco e anche ebraico, come nel caso di Levinas. Da tutto ciò risulta evidente che i confini hanno qualcosa di artificiale. Ci sono regioni più omogenee, ma all’Europa appartiene senz’altro una certa eterogeneità, testimoniata da diverse zone di confine che hanno quasi sempre una loro fecondità. Anche in senso politico, così come Goethe ha parlato di affinità elettive – si noti bene, non “affinità di sangue”! – si deve parlare di un certo tipo di “estraneità elettive”. Questo appartiene all’Europa, dove si può notare che alcuni sono francofili, altri italofili, altri anglofili; da ciò emergono certe vicinanze rispetto a determinate estraneità, che stanno anche a dimostrare che proprio ed estraneo non possono essere separati da linee nette, poiché ci sono molteplici passaggi, transiti. L’Europa è inoltre caratterizzata da una certa plurivocità, il che, banalmente, si mostra nel fatto che non si parla “europeo” (si potrebbe al limite parlare tutti inglese, se ciò non costituisse una sorta di incubo). Ciò significa che all’Europa appartiene una certo multilinguismo, e questo dovrebbe anche comportare la disponibilità a imparare altre lingue. Si tratta veramente di un grandissimo capitale dell’Europa, un’enorme ricchezza che non si trova in altri continenti, molto più omogenei, e che non dovrebbe essere sprecato.
L’estraneo e il terzo
45Si tratta di una problematica molto complessa, che potrò qui solo brevemente tratteggiare. Il pensiero di fondo è il seguente: ammesso che abbiamo l’estraneo e il proprio e che l’estraneità sia qualcosa di radicale, che giace nel cuore dello stesso proprio, come giungiamo a capirci con l’estraneo? È qui che entra in gioco il terzo, che io intendo in modo molto ampio: può essere più o meno anonimo o più o meno frutto di istanze personali; esso è sempre in gioco allorché pronunciamo anche una sola parola all’interno della nostra lingua, o quando compiamo un gesto che risulti più o meno estraneo, più o meno proprio rispetto a una certa tradizione o cultura. È comunque qualcosa di terzo che permette il transito tra culture. Non solo la lingua, dunque, ma anche i gesti costituiscono sempre una sfera del terzo che non può essere ricondotto semplicemente e univocamente al proprio o all’estraneo. Il terzo vale dunque per tutti gli ordini, le regole, le leggi, di cui nelle precedenti lezioni ho già detto qualcosa parlandone nel senso di ordini generali, strutture di senso comuni, che portano alla percezione di qualcosa in quanto qualcosa, e dunque come sempre ripetibile e mai riducibile né al proprio, né all’estraneo. Già nella semplice percezione, per esempio di una bottiglia, sono in gioco forme culturali che io eredito e assumo, e ciò significa anche che l’altro compare sempre come “qualcuno”. Quando Levinas dice che l’altro appare come staccato da tutto il mondo, non si deve intendere che il volto dell’altro non sia il volto di qualcuno, un volto che tradisce una certa età, che ha un certo colore della pelle, una certa connotazione di genere sessuale. Tutto ciò appartiene sempre al volto, il quale è determinato da qualcosa che non può essere meramente ricondotto alla differenza tra proprio ed estraneo, qualcosa che sempre di nuovo irrompe e senza il quale non si potrebbe avere qualcosa o qualcuno di ripetibile.
46Seguendo le trattazioni di diversi autori, come Simmel, che affronta la questione del terzo nella sua sociologia delle relazioni, o Sartre, che ne parla in riferimento alla costituzione di gruppi e società, o Levinas, che nelle sue indagini lo chiama sempre in causa, spesso sembra che prima venga l’altro, poi l’io e quindi il terzo. Ma questo è un assoluto non senso. Non si tratta di una sequenza cronologica. Si dovrebbe poter scrivere come un pittore, ovvero mostrare più cose contemporaneamente sul foglio. Il terzo infatti non giunge “dopo”, semplicemente nella trattazione si sceglie una certa sequenza espositiva. Si potrebbe però anche iniziare col terzo, con la constatazione che ci comprendiamo, e quindi nella comprensione reciproca mostrare i momenti di appartenenza e non appartenenza, vale a dire la presenza dell’estraneità nella comprensione stessa. In altre parole, il terzo non è qualcosa di secondario, bensì, da un punto di vista strutturale, è co-originario rispetto all’estraneo e al proprio. La questione è però come si pensa questo terzo, e qui la fenomenologia dell’estraneo ha qualcosa di molto serio da dire. Spesso il terzo viene considerato come terzo mediatore, qualcosa che sta nel mezzo tra estremi, e che, attraverso questa sua posizione mediana, tendenzialmente toglie l’estraneità. Si pensi al mediatore nella contrattazione di cui parla Aristotele, o allo Spirito che in Hegel toglie ogni estraneità in quanto permea e attraversa tutto, così che in questo essere mediano tutto viene unificato e tolto. Il terzo che viene posto in campo dalla fenomenologia dell’estraneo è, vorrei dire, un terzo che interviene (ein intervenierendes Dritte), nel senso più letterale di questa parola, dunque che inter-viene, giunge in mezzo, che irrompe tra, che determina me e l’altro in quanto qualcuno o qualcosa, ci pone in un ruolo all’interno di un sistema che non elimina, che non risolve in un’indifferenziata unità il proprio e l’estraneo. Questo è un punto decisivo, in base al quale diviene possibile pensare assieme l’ordine e lo straordinario. Ciò senza ridurre tutto a un ordine onnicomprensivo, dove ogni cosa ha il suo posto grazie a leggi che comprendono tutto, poiché le leggi intervengono relativizzando determinate differenze.
47Alcune forme principali del terzo sono:
il terzo partecipante, come l’ascoltatore che esprime approvazione o disapprovazione, applaudendo o fischiando
il terzo testimone, che compare portando alla parola determinati eventi a cui ha assistito
il terzo osservatore, che è disinteressato e racconta semplicemente ciò che accade, come uno storico che, secondo Tacito, deve descrivere le cose sine ira et studio.
48Si tratta di forme del terzo che devono essere distinte, ma in cui il terzo interviene sempre tramite la parola, attraverso lo sguardo o attraverso criteri di misura. Il terzo può, inoltre, apparire in diverse funzioni d’ordine:
come comandante, che coordina azioni
come giudice, che dirime un conflitto
come interprete, che media tra lingua propria e lingua straniera.
49Anche qui abbiamo sempre che fare con figure che intervengono e che non sono mai puramente neutrali. Il traduttore non è uno che sta al di sopra delle lingue o che le parla tutte, bensì colui che è di casa in una lingua e media tra lingue diverse a partire anche sempre dalla sua lingua madre, che cerca di operare una connessione senza peraltro eliminare le differenze in una qualche immaginifica sovralingua. (Si pensi all’esperanto, una costruzione artificiosa che portava un nome promettente, ma allo stesso tempo sintomo di un’infondata e ingenua illusione, mirante all’appiattimento della diversità linguistica).
Al posto dell’altro: la sostituzione
50Innanzitutto un problema particolare: il mio ingresso al posto dell’altro. A questo proposito è inevitabile un rinvio al capitolo quarto di Autrement qu’être di Levinas, il cui titolo è proprio “La sostituzione”. La domanda è, anche qui, come si debba intendere ciò. Tradizionalmente sembra che questo non costituisca un grande problema. L’enigma della sostituzione sarebbe: come posso stare al posto dell’altro?
51Anzitutto, sembra, prendendo il posto dell’altro: mi metto nel posto dove sta l’altro. Questo tipo di sostituzione presuppone un luogo privilegiato, qui dove sono io, e poi il posto dell’altro, e l’enigma consiste in ciò: come posso essere al posto dell’altro, per di più nello stesso tempo? Nel momento in cui sono contemporaneamente qui e al posto dell’altro, emerge una sorta di raddoppiamento del luogo; in questo consisterebbe la sostituzione in senso proprio, che è dunque una sostituzione radicale. Ciò sembra di primo acchito impossibile. Prendo alcuni autori dalla tradizione per illustrare la questione. Hobbes nel De cive scrive di potersi immaginare di essere al posto dell’altro, ma si tratta di semplice immaginazione, appunto, che parte sempre da un luogo definito come il proprio. In Theodor Lipps l’empatia (Einfühlung) contiene un momento chiaramente topologico: io mi pongo emotivamente nel posto dove sta l’altro. In Heidegger infine troviamo il prendersi-cura (Fürsorge), che è legato a un “saltar dentro” (einspringen) e a un “saltare più avanti” (vorspringen), e anche qui c’è una preminenza dell’io: io balzo al posto dell’altro. Tutte queste teorie non riescono a districare l’enigma in base al quale io sono contemporaneamente qui e al posto dell’altro.
52L’estraneità radicale permette, invece, di uscire da una tale impasse. Innanzitutto è necessario liberarsi da un principio d’individuazione che Locke ha esemplarmente espresso e che determina la logica del proprio e dell’estraneo anche in relazione al problema della sostituzione: «is Existence itself, which determines a Being of any sort to a particular time and place incommunicable to two Beings of the same kind»12. Questo luogo individuale non è dunque condivisibile con altri; l’individualità consiste proprio nel fatto che io ho questo posto e non un altro, così che una sostituzione in senso radicale è esclusa già a livello terminologico. Per superare quest’impostazione propongo di distinguere due tipi di sostituzione: secondaria e originaria. La sostituzione secondaria è molto nota, ed è il modo in cui la sostitituzione viene normalmente intesa: io sono primariamente al mio posto e secondariamente al posto dell’altro. Si tratta di una sostituzione che non sottrae nulla alla mia autosufficienza: sono qui e vado eventualmente anche in un altro posto, senza perdere il mio posto. Si tratta di una forma di sostituzione che svolge un ruolo particolarmente in certe fasi della vita: quando un tutore parla in vece del minorenne; quando un esecutore testamentario parla per colui che ha lasciato l’eredità e che non vive più; quando qualcuno entra in coma e qualcun altro deve parlare per lui. Si tratta sempre di sostituzioni provvisorie o posteriori.
53Compiamo un passo oltre quando parliamo di istituzioni. In questo caso abbiamo qualcosa che, in modo molto generico, si può chiamare delega. Si tratta di una forma istituzionale della rappresentanza, nella quale qualcuno viene delegato a parlare per me. Si tratta di una forma di rappresentanza sostitutiva che acquisisce un carattere semiautonomo. La delega consiste in questo: io trasferisco a qualcun altro certi diritti, o doveri, o competenze che io possiedo e che spettano a me. Anche in questo caso il proprio non viene ridotto, perché sono io stesso colui che trasferisce, demanda e conferisce certi diritti. Pensate alle prime teorie del contratto sociale, a come in Hobbes la sovranità sorga attraverso la rinuncia e la consegna del proprio potere al sovrano. Si tratta di una forma di delega in cui ciò che viene ceduto sono funzioni e che si ritrova soprattutto in ambito giuridico e politico. La democrazia rappresentativa, a sua volta, consiste nell’elezione di certe persone che poi parlano in nome di certi gruppi di uomini e, in certa misura, di tutto un popolo. Ci sono stati, come noto, tentativi di democrazia diretta, come nell’antica Atene, non è quindi scontato che una democrazia debba essere rappresentativa. Quest’ultima non significa, comunque, che l’autonomia del singolo venga messa in questione; piuttosto la sua voce viene trasferita a un altro da lui stesso eletto, qualcuno che può anche non essere rieletto, o addirittura, almeno fino a che c’è democrazia, può essere sfiduciato. Forme simili le troviamo in ambito giuridico, come nel caso della scelta di un avvocato che rappresenta il nostro diritto in tribunale. Si tratta in tutti questi casi di forme di sostituzione secondaria, che non toccano, comunque, il cuore del sé.
54Se lasciamo da parte diritto e politica e prendiamo il dialogo classico, vediamo che la rappresentanza non vi compare affatto. Prendiamo un qualunque dialogo platonico: Socrate non permette mai a qualcuno di rispondere al posto di qualcun altro, ognuno deve parlare per sé, con la propria voce. Nel dialogo risulterebbe così costitutivamente esclusa la rappresentanza. Nel dialogo, in fondo, a parlare è il lógos universale, quindi da una parte è indifferente chi parla, dall’altra non è possibile che qualcuno parli per qualcun altro. Non a caso, fatto salvo per le istituzioni giuridiche e politiche, nelle teorie del dialogo il problema della sostituzione e della rappresentanza non viene mai contemplato.
55I tipi di sostituzione visti finora sono tutti classificabili come casi di sostituzione secondaria. Da questa io distinguo un tipo di sostituzione originaria, una sostituzione che non è derivata, in quanto implica che io sin dall’inizio sia qui e allo stesso tempo al posto di un altro. Io parlo contemporaneamente dal posto dell’altro in quanto il mio proprio discorso ha la struttura della risposta, e questo vuol dire non tanto che si parla dell’altro o con l’altro, bensì a partire dall’altro. Abbiamo qui qualcosa di simile a ciò che Derrida in relazione alla scrittura ha chiamato “supplemento d’origine”: in questo caso l’altro viene rappresentato dal mio discorso, ma non in modo secondario, bensì in quanto io parlo per lui e rispondo a lui.
56Ciò significa che l’estraneo non è là solo qualora io parli di lui o con lui, bensì c’è sempre, in quanto parla in me, attraverso di me. Si tratta di una forma di sostituzione che prende le mosse dall’altro. In Levinas, come noto e come già ricordato, troviamo un discorso molto simile, che non mi è tuttavia possibile affrontare in dettaglio. Vorrei solo notare che egli parla di un intrico, un essere impigliati in una sostituzione originaria, in quanto io parlo sempre a partire dall’altro. A questo proposito egli utilizza la parola ostaggio: io sono ostaggio dell’altro, sono posseduto dall’altro. Si tratta di un modo di presentare la questione che mi lascia molto perplesso e rispetto al quale ho serie difficoltà, perché il problema del rispondere, della contingenza e dell’essere-sé risultano sottovalutati. Ritengo, piuttosto, che l’ostaggio corrisponda a una forma particolare di sequestro dell’altro che non si può utilizzare come descrizione per normali rapporti con l’altro. Per questo mi sono limitato a riprendere l’idea della sostituzione come un originario parlare a partire dall’altro. Sostituzione, dunque, al posto di costituzione: come notava Sartre, l’altro non può essere costituito; proprio per questo, cogliendo lo spunto di Levinas, io direi che è piuttosto sostituito. Sostituito originariamente, in quanto per avere un mio luogo io parto sempre dall’altro e, quindi, non c’è prima un posto proprio e poi uno altrui, invece essi sono co-originari e hanno luogo a partire dalla dinamica responsiva enucleata nella lezione precedente.
Figure di transito
57Si tratta di figure che mediano tra un ordine, ciò che sta al suo interno, ciò che è ordinato e le sue istituzioni e l’estraneo. Uso il termine figure di transito in modo simile a quello di oggetti transizionali (transitional objects) di cui parla lo psicanalista Winnicot: egli pensa allo sviluppo infantile, in particolare a quando il bambino gioca con animali di pezza, cuscini o stoffe e tra questi oggetti ce ne sono alcuni che servono a fargli apprendere l’assenza della madre e a convivere con tale assenza. Si tratta, dunque, di oggetti con cui superare l’assenza, ma attraverso un transito e una mediazione. Si pensi anche alle celebri analisi freudiane del gioco infantile “fort-da”.
58Le figure di transito sono dunque quelle che non funzionano semplicemente all’interno di un ordine, ma che vanno al di là delle soglie dell’ordine. Per meglio comprendere di cosa parlo, prenderò tre figure che trovo esemplari. La prima è quella dell’avvocato, che è quasi un prototipo della sostituzione. L’avvocato parla per un querelante o per un accusato. Qual è il luogo dell’avvocato? Inizialmente si sarebbe portati a dire che egli ha il suo luogo in tribunale, dove fa la sua parte. Non a caso, tradizionalmente, mette anche un’apposita veste che indossa per esercitare la sua particolare funzione e che toglie al termine di tale funzione. Se però si guarda più a fondo a un processo e non lo si riduce a un puro procedimento formale, allora si scopre che un processo giuridico, poniamo il caso di un crimine, consiste di più parti: una vittima; un’offesa che, come ogni violazione, è inizialmente qualcosa di singolare e riguarda una determinata persona o un determinato gruppo di persone; il caso giuridico nel quale l’offesa viene compresa come oltraggio morale, come lesione dell’integrità fisica o, addirittura, come assassinio. Accade, dunque, una trasformazione: la vittima non è parte del tribunale, ma la sua esperienza viene trasformata in un caso giuridico. Rimane dunque sempre un’eccedenza di giustizia, in quanto l’offesa di un altro è più che la sola infrazione di una legge. Si pensi alle forme di risarcimento che sono state istituite (anche rispetto alle vittime dell’Olocausto); è palese che esse possono avere unicamente un significato simbolico, perché la ferita resta e non è rimarginabile. Tutto ciò sta a indicare che il giudice e gli avvocati, che parlano all’interno dell’ordine processuale, non parlano solamente per sé, ma parlano sempre al posto di un altro, di una vittima o di un accusato, e a partire dalle istanze della legge. Se si volesse semplificare questa prospettiva, dicendo che si tratta di qualcosa puramente interno al processo e all’ordine processuale, si ridurrebbe il diritto a una macchina giuridica, a qualcosa che potrebbe anche essere lasciato a un computer che si limitasse a considerare i fatti e a cercare i paragrafi della legge di volta in volta corrispondenti al fine di produrre la sentenza. Quest’ultima, però, non può in realtà essere limitata a risultato di un procedimento puramente meccanico; una sentenza ha un destinatario, la vittima o il colpevole, che sono più di semplici fattori all’interno di un processo. Per questo motivo anche il giudice è una figura transizionale, parla all’interno dell’ordine giuridico e contemporaneamente dal di fuori di questo, alla soglia tra i due, come ha efficacemente notato anche Levinas.
59Un secondo esempio di figura transizionale è quello del medico o terapeuta. Il punto di partenza per un tentativo di guarigione o terapia è la sofferenza di un paziente, che è qualcosa di singolare. Il processo medico o terapeutico consiste anche qui nella trasformazione di tale sofferenza in un caso di malattia. Un certo malessere o irrequietudine viene diagnosticato come stress e si dà luogo alla cura prevista in tali casi dalla teoria medica. La sofferenza individuale, singolare, viene dunque tramutata in un caso generale di malattia, che viene diagnosticato anche tramite macchine apposite e trattato attraverso medicinali di vario genere (senza dimenticare che anche l’assicurazione sanitaria ricopre un ruolo non secondario nella gestione del processo di cura). Tutto ciò è quanto corrisponde al processo di medicalizzazione. Non c’è niente di male in tutto ciò; a meno che ci si dimentichi che la sofferenza del paziente è sempre più di un caso di malattia. Se ce lo si dimentica, si finisce in una totale medicalizzazione della vita, una vera e propria metamorfosi attraverso cui la clinica diviene una macchina guaritrice, processi ottimamente descritti da Foucault e prima ancora da Viktor von Weizsäcker. Quest’ultimo differenzia tra malattia e malato e osserva che la guarigione inizia con un dialogo che ha luogo su una soglia, in quanto il dialogo medico/paziente è il luogo attraverso cui il paziente malato diviene un caso di malattia. Il colloquio avviene, non a caso, non ancora all’interno della clinica, ma in una specie di stanza di passaggio, all’interno della quale si ha la mutazione da malato a caso medico. Se ci si dimentica dell’eccesso della sofferenza vissuta rispetto al puro caso medico, la terapia diviene un insensato processo che gira su se stesso. Si arriva, in tal modo, alla cinica definizione secondo cui la malattia è ciò per cui le assicurazioni sanitarie pagano. È un rischio connesso a pressoché tutte le istituzioni, le quali, quando divengono dimentiche di ciò che ha dato occasione alla loro stessa nascita e non sono più in grado di considerare l’eccesso irriducibile dell’istanza da cui vengono originate, finiscono per essere semplici macchine, automi insensati.
60Un terzo esempio è quello del traduttore. Si pensi, a questo proposito, al doppio senso con cui gioca Heidegger nella sua Heraklit-Vorlesung: übersetzen significa tradurre, über-setzen significa condurre sull’altra riva. In quest’ultimo senso, possiamo dire che ci sono due lingue e il traduttore è colui che sta tra le due sponde e compie il processo di trasporto tra l’una e l’altra. La traduzione, dunque, ha luogo tra due lingue; il traduttore parla in modo sostitutivo per l’originale, al posto della lingua di partenza. Come noto, questo diviene particolarmente problematico e al tempo stesso consistente nel caso della poesia. Walter Benjamin diceva a questo proposito che una buona traduzione deve essere trasparente, così che la lingua di partenza non venga totalmente coperta e nascosta dalla propria lingua. In tedesco abbiamo alcuni casi particolarmente felici, come le traduzioni dei dialoghi platonici di Schleiermacher e quelle delle tragedie sofoclee di Hölderlin. In sostanza si può dire che la traduzione si muove tra due sponde e deve mantenere la rotta mediana tra due estremi: non deve essere né troppo esatta, né troppo disinvolta. Soprattutto, il traduttore non deve voler cambiare il testo originale, soppiantarlo, non deve volerlo migliorare, o verrà meno al suo compito di traduttore.
61L’ultima figura che vorrei evocare è quella del testimone. Si può ridurre la funzione del testimone a ciò che dice, come uno che rediga una relazione all’interno della quale si dice semplicemente quello che un altro ha detto o quello che a un altro è accaduto. Se si riduce la testimonianza a questo, si è allora ancora nell’ambito di una sostituzione secondaria. Il testimone e la testimonianza sono, però, qualcosa di più, che può essere segnalato attraverso alcuni momenti fondamentali. Si noti, innanzitutto, che c’è un’esperienza del testimone che consiste nello stesso divenire testimone, che lo si voglia o no. Un esempio banale: camminate per strada e accade un atto di violenza. Voi divenite testimoni di tale atto, che lo vogliate o meno, tanto che da quel momento potete essere chiamati in tribunale. Si noti che non si diviene testimone in quanto osservatori o reporter, bensì in quanto “si era lì”. I cosiddetti “testimoni del tempo” sono quelli che hanno vissuto in un certo periodo, non come osservatori, bensì come quelli che erano, in modi diversi, partecipi di quel periodo, immersi in esso. In questo senso, un testimone è anche sempre in una certa misura implicato in quanto accade e in ciò di cui diviene testimone, tanto che può essere condannato in tribunale in caso di omissione di soccorso qualora sia testimone di un incidente e non presti aiuto. Quando si è, per così dire, chiamati a essere testimoni da quanto ci accade accanto, ogni tentativo di non vedere, di distogliere lo sguardo è sempre successivo e può avvenire solo perché, innanzitutto, si è divenuti testimoni. E proprio per il fatto di essere coinvolto in ciò che accade il testimone non si limita a riportare ciò che ha visto o udito. Al testimone compete una certa credibilità13. Deve rispondere di quanto racconta. Questo differenzia un testimone da un semplice monitor e può arrivare fino ai cosiddetti martiri, coloro che testimoniano col proprio sangue. In tedesco, infatti, martire si dice anche Blutzeuge: testimone di/col sangue. È importante sottolineare di cosa sono testimoni i martiri: non, è bene sottolinearlo, della verità di qualcosa, bensì della loro convinzione in qualcosa, di quanto qualcosa sia importante per loro e quale valore abbia. Per questo i martiri possono definirsi portatori del convincimento (Überzeugungstäter). Dimostrano, quindi, la propria credibilità, e non la verità di quanto sostengono. Gli attentatori-suicidi, di cui negli ultimi anni si parla tanto, che cosa dimostrano? Senz’altro qualcosa che risulta comunque sempre stupefacente e per noi europei assume una forma estrema d’estraneità: al di là di come la si voglia o possa giudicare, è indiscutibile che abbiamo che fare con un’etica fortemente estranea rispetto alla nostra, un’etica che implica e presuppone un profondo lavoro di manipolazione, per così dire, sociale, molto distante dall’individualismo che, sebbene in modi diversi, pure sembra regnare nelle nostre culture. Si pensi a Hobbes, che, per quanto sia stato il grande teorico del Leviatano e di uno stato sovrano, pure ha parlato del diritto del soldato a scappare quando la sua vita è in pericolo, non ritenendo, dunque, che l’individuo debba sacrificarsi per lo stato. Nel caso degli attentatori suicidi abbiamo una forma di capacità di pressoché totale rinuncia a sé, che non è ora mio interesse valutare, ma che si tratta innanzitutto di capire nella sua particolarità e anche estraneità. La loro azione è un segno non della verità di ciò in cui credono, bensì del valore che vi attribuiscono.
62Riguardo ai kamikaze aggiungerei una sola ultima notazione polemica: i martiri sono qualcosa che concerne anche la politica; quasi tutte le forme di sovranità tendono a “ordinare” martiri, a decretare e preparare persone come martiri e ad appropriarsene. Anche qui a Torino ho visto moltissimi monumenti dedicati a martiri della patria, dove sta sempre scritto che “si sono sacrificati” in nome del popolo o della nazione, così come in passato si sarebbe detto in nome del Führer o del duce. Ritengo che in questi casi le vittime vengano strumentalizzate per uno scopo politico, si deve dire quindi che tanto i Blutzeuge quanto i martiri sono sempre una figura alquanto ambigua e sospetta.
Notes de bas de page
6 Il termine Verfremdung può anche essere tradotto con estraniazione, come fa Menga nella traduzione di Verfremdung der Moderne, Göttingen, Wallstein, 2001, trad. it. F. Menga, Estraniazione della modernità, Troina, Città aperta, 2005. Sulle problematiche relative alla traduzione di tale termine, si veda la postfazione dello stesso Menga a tale volume. Nel presente contesto, si è però preferito tradurre con il termine straniamento, divenuto ormai il termine canonico in riferimento alla tecnica brechtiana, cui qui Waldenfels specificamente si riferisce [N.d.T.].
7 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Akademie Ausgabe, vol. iv, p. 22.
8 B. Waldenfels, Topologie des Fremden, in Studien zur Phänomenologie des Fremden 1, Frankfurt/M., Suhrkamp, 1997.
9 Si tratta del numero 1 del 2010, dove tre autori italiani, Gabriella Baptist, Donatella Di Cesare e Chiara Colombo, discutono la mia fenomenologia dell’estraneo. Al saggio di Donatella Di Cesare (pp. 197-202), che presenta un confronto critico col mio pensiero dal punto di vista dell’ermeneutica, tornerò di tanto in tanto durante la lezione, per meglio fugare alcuni profondi fraintendimenti rispetto alla mia proposta di fenomenologia dell’estraneità che da esso emergono.
10 E. Husserl, Husserliana I, Dordrecht-Boston-London, Nijhoff, 1950, p.144.
11 B. Waldenfels, Hybride Formen der Rede, in Vielstimmigkeit der Rede. Studien zur Phänomenologie des Fremden, Frankfurt/M., Suhrkamp, 1999.
12 J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, Book II, ch. xxvii.
13 È fondamentale che chi è chiamato a testimoniare non solo dica qualcosa che ritiene vero, ma anche si prenda la responsabilità di quanto dice. Qui è in gioco quella che Kant chiamava la forma più bassa del sapere: il credere. Se c’è un testimone originario, si deve allora riconoscere che c’è una dipendenza dalla testimonianza che non può essere trasformata in sapere. Si pensi anche semplicemente alla storia: qualunque tradizione storica dipende dalla credibilità dei testimoni. Credibilità e fiducia sono forme originarie di rapporto con l’altro, che in molti ambiti della vita non possono essere eliminate o tolte. Si tratta, inoltre, di fenomeni connessi a quello del dono: si dà fiducia, ma in modo gratuito, immotivato. Se fosse totalmente motivata, giustificata, dimostrata, totalmente fondata, la fiducia non sarebbe più tale. Come nel dono, c’è sempre un momento di asimmetria, di rischio e di differimento.
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