6. Destino e linguaggio
p. 136-156
Texte intégral
Le aporie del linguaggio
1Destino e linguaggio. Questo il tema che dovremo trattare. Prima di entrare nel vivo dell’argomento occorrono alcune premesse. Innanzi tutto un riferimento bibliografico: relativamente al rapporto tra Destino e linguaggio penso sia opportuno un rinvio ai capitoli di Destino della necessità dove si considera la struttura delle lingue indoeuropee126. Detto ciò, alcune osservazioni preliminari. Innanzi tutto desidero sottolineare come un aspetto significativo del linguaggio sia la funzione determinante che esso esercita in relazione al tema dell’isolamento dalla Terra. Un ulteriore aspetto del problema del linguaggio è poi legato alla serie delle condizioni della coscienza e, quindi, della coscienza filosofica. Era una delle prime osservazioni che avevamo fatto, e cioè che la cultura attuale tende oggi a rilevare le condizioni originarie della pretesa autonomia del pensiero filosofico. Alcune di queste condizioni le avevamo enumerate incominciando dal riferimento a Marx: il lavoro, la produzione della ricchezza (come condizione dell’apertura delle cosiddette sovrastrutture), il condizionamento del lavoro, ma poi anche il condizionamento dell’inconscio, del linguaggio, della storia, della struttura della società e via dicendo.
2Per restare al tema della nostra discussione, osservo che il condizionamento del linguaggio dà luogo esso stesso a un significato: ogni significato appare nel linguaggio, quindi anche il significato in cui consiste il Destino appare nel linguaggio127. E la conclusione che si trae da questo legame tra Destino e linguaggio è apparentemente pregiudicante per quanto riguarda lo stare del Destino, e ciò in ragione del modo in cui le filosofie del linguaggio intendono il rapporto tra parola e cosa. In generale, infatti, esse non si limitano a indicare, come per esempio fa Humboldt128, che il linguaggio apre un mondo in quanto è determinante per il costituirsi del mondo dell’uomo, ma la filosofia del linguaggio procede oltre e rileva che la storicità del linguaggio implica la storicità del significato della cosa di cui la parola parla. Ma se questa è la situazione, la storicità della cosa implica allora il suo variare, il suo non-essere un che di stante (e tanto meno qualcosa di appartenente al Destino). Da questo punto di vista la filosofia del linguaggio sembra dunque costituire un’obiezione radicale alla verità del Destino.
3Direi di partire proprio da quest’ultima tematica, ricordando quanto diceva Platone nella distinzione tra λόγος (lógos) e διάνοια (diánoia). Διάνοια (diánoia), diceva Platone anche nel Sofista, è il dialogo della mente con se stessa; λόγος (lógos) è la corrente che vien su dall’anima e che si rapporta e parla agli altri. Il presupposto esplicito in Platone di questo rapporto tra διάνοια (diánoia) e λόγος (lógos) è che c’è un dialogo della mente con se stessa che non parla una lingua storica determinata. L’anima dialoga con se stessa, ma non parlando il greco o il latino. Essa è in silenzio, dice Platone. Non è più in silenzio, ma parla una lingua storica, quando diventa λόγος (lógos) e si fa comunicazione. Questo modo di intendere il dialogo interiore dell’anima con se stessa permane nei secoli fino al culmine dell’ἐπιστήμη (epistéme) e non solo. Per “culmine dell’ἐπιστήμη” intendo Hegel, ma poi tale prospettiva prosegue fino a Husserl (credo che tutti conoscano la critica che Derrida rivolge al modo in cui Husserl ha inteso il rapporto tra parola e significato).
4Il mio intento non sarà quello di risolvere il problema del linguaggio, ma di indicare alcuni sviluppi degli spunti che ho prima accennato, magari aggravando le conseguenze implicite in quel tipo di prospettiva, ovvero aggravando la situazione aporetica che nella filosofia contemporanea è sì presente, ma forse non è spinta fino alle ultime conseguenze.
5Tornando a Platone, egli rileva due cose: che la parola si rivolge alla cosa e che sussiste un dialogo dell’anima con se stessa al di fuori e prima di ogni lingua storica. Essenziale è quindi la distinzione tra parola storica e significato della parola storica. Sennonché questa distinzione platonica tra parola e cosa non regge – e alludendo a Platone risaliamo, come si è detto, su su fino a Husserl – perché la cosa a cui la parola si riferisce, si presenta, daccapo, nella forma della parola. In altre parole: la cosa distinta dalla parola è qualcosa che non appare.
6Noi stiamo utilizzando, per esempio, la lingua italiana. Parliamo, indichiamo le caratteristiche, le proprietà di un’aula e crediamo di poter distinguere la descrizione linguistica di essa – cioè il significato – dal linguaggio che ne parla129. Ma perché diciamo che Platone afferma qualcosa che non appare? Perché questa stanza, in quanto distinta dal linguaggio che ne parla, appare pur sempre come un suo essere “questa stanza”, e cioè appare pur sempre all’interno di quella che in questo momento è lingua italiana. Quando si distingue la parola, o l’insieme di parole che si riferiscono a questa stanza, presumendo l’apparire della cosa indipendentemente o distintamente dalla parola che ne parla, ecco che questo contenuto semantico, che crede di potersi presentare come così distinto, appare pur sempre come un qualcosa che, se chiudiamo gli occhi e riflettiamo su quello che quest’oggetto dovrebbe costituire, si presenta, daccapo, nel suo essere “questa stanza” e cioè nel suo essere collocato all’interno di una formazione linguistica che, in questo caso, è la formazione linguistica italiana. Noi distinguiamo la parola dalla cosa, ma la cosa, anche in quanto così distinta, si presenta all’interno di una parola che può essere o dello stesso tipo della parola che inizialmente indica la cosa, o una formazione linguistica più semplificata o addirittura un’altra lingua. Altro esempio: diciamo “sta venendo notte” – nox adveniens – ma la notte che viene, in quanto distinta dall’espressione linguistica, ci si presenta come notte che viene, ma “notte che viene” è sì un significato, ma è un significato che si presenta daccapo all’interno della parola.
7Se così stanno le cose, la storicità della parola cattura la dimensione semantica, la storicizza e le impedisce di costituirsi come un che di stante, sia come stante epistemico, sia come lo stare del Destino. Questa è un’aporia che si allinea a quelle che consideravamo ieri e ne condivide la natura. È un’aporia che certamente può essere risolta, ma anche se non fosse risolta sottostarebbe alle condizioni che abbiamo indicato per l’aporia in quanto tale, e cioè sarebbe un qualcosa che, se anche il linguaggio non fosse in grado di risolvere, sapremmo a priori essere un che di solo apparentemente costrittivo e vincolante.
Sul rapporto tra parola e cosa
8La filosofia del linguaggio non può rinunciare alla concezione del linguaggio come relazione. Di fronte alle filosofie della coscienza, il linguaggio rivendica l’avvolgimento linguistico della coscienza. La coscienza non è mai pura, come vorrebbe esser puro il dialogo platonico dell’anima con se stessa, ma è avvolta dal linguaggio. Però, se le filosofie della svolta linguistica mettono tra parentesi, o mettessero tra parentesi (perché è chiaro che non possono pervenire a questo risultato) la relazione della parola alla cosa, se cioè dovessero mettere fuori campo la dimensione extralinguistica, allora rimarrebbero soltanto le cosiddette parole. Se non ci fosse l’extralinguistico rimarrebbero solo le parole. Ma le parole separate dalle cose diventano esse stesse quelle cose che mostrerebbero quella purezza semantica dalla quale le filosofie della svolta linguistica intendono prendere le distanze. Se la parola “aula” estromette dall’apparire l’aula, e quindi diventa parola di una parola (dove la parola detta è a sua volta rinviante ad altre parole), non è una pura parola che ha estromesso la propria relazione alla cosa; è una parola che in questo caso ha come cosa detta un’altra parola. Il che vuol dire che le filosofie della svolta linguistica – nel caso in cui intendono estromettere l’extralinguistico e dicono che il linguaggio parla sempre di un linguaggio e che il linguaggio parlato si riferisce ad altri linguaggi – terrebbero fermo quel concetto di relazione tra parola e cosa, senza di cui non ci sarebbe linguaggio.
9Sulla storia del rapporto tra parola e cosa possiamo stabilire un’analogia con quanto abbiamo detto a proposito della dialettica tra certezza e verità. Nella prospettiva dell’identità di certezza e verità, l’idea è id quo cognoscitur, cioè l’idea è il mezzo diafano per mezzo del quale viene conosciuta la cosa. Id quo: attraverso cui, mediante cui la cosa è conosciuta. Così è l’idea, o il concetto, nella prospettiva classica (per esempio di tipo aristotelico, tomistico, precartesiano). E quando, parlando di Descartes, si diceva che questi si rende conto che il mondo che sta dinanzi è un cogitatum, si stava proprio dicendo che il rapporto tra idea e cosa – espresso dall’idea come id quo cognoscitur, si rovescia, perché l’idea diventa id quod cognoscitur. Nella prospettiva precartesiana l’idea è il mezzo diafano, trasparente che lascia apparire e quindi la conoscenza non cade sull’idea, ma l’idea è il tramite che consente al conoscere di toccare la cosa. Ma quando Descartes si rende conto che il contenuto del pensiero non è il mondo in quanto mondo, ma è il cogitato, ripeto, l’idea cambia significato e il contenuto del cogitare diventa il cogitatum, cioè l’idea diventa ciò che è conosciuto: id quod cognoscitur. Donde il problema relativo alla corrispondenza tra l’idea in quanto id quod cognoscitur e l’essere fuori.
10Ebbene questo schema, che riguarda il conoscere, o la dialettica di certezza e verità, si presta anche a spiegare l’evoluzione del rapporto tra parola e cosa, descrivendo quanto è storicamente accaduto. Anche in questo caso, infatti, la parola è stata concepita, inizialmente, come id quo dicitur, cioè la parola è stata considerata come il mezzo diafano che consente il rivolgersi e il toccare ciò che è detto attraverso di essa. Ma, analogamente a quanto detto in rapporto al conoscere, anche qui accade che proprio per quel tipo di considerazione che abbiamo fatto prima (quando dicevamo che anche l’aula in quanto distinta dalla parola è esistente, ma come avvolta dal linguaggio), ecco che anche qui si procede a questa rotazione per cui la parola da id quo dicitur diventa id quod dicitur, e in questo modo il linguaggio cade non sulla cosa, ma sulla parola.
11Cosa dire per quanto riguarda le conseguenze che si vogliono trarre in base al rilevamento della storicità della parola? Cosa dire, cioè, delle conseguenze relative allo stare del contenuto indicato dalla parola rispetto allo stare del Destino? Lasciamo ancora la parola alle filosofie della svolta linguistica. Esse ci dicono, per esempio, che la parola “essere” è una parola delle lingue indoeuropee. Nella Introduzione alla metafisica Heidegger richiama – e non le ha certe inventate Heidegger – le radici principali della parola essere130. Per esempio la radice bhu131. E poi si prosegue su cosa vuol dire bhu. Qui il discorso incomincia a diventare oscillante: bhu starebbe a significare “manifestazione”, “fioritura”… ma “manifestazione” e “fioritura” sono a loro volta parole che vengono pronunciate all’interno delle lingue indoeuropee. E quindi parole rinviano a parole più antiche. Il significato della parola “essere” rinvia dunque ad altri significati sempre meno controllabili, sempre più indeterminati. Pretendere allora di costruire un’ontologia all’interno di un simile contesto significa voler costruire sulla sabbia, perché le parole “essere”, “non-essere”, “divenire”, ecc. rinviano a un fondo semantico che le indetermina. In proposito si può citare la Grammatologia di Derida a riguardo degli insegnamenti rilevanti a proposito di questo indeterminarsi del linguaggio filosofico132: un linguaggio che crede di potersi arroccare nella turris eburnea dei propri significati univoci, laddove tale turris eburnea affonda le proprie radici nella palude dell’infinito, ossia dell’indefinito rinvio storico ad altri significati, sempre più lontani e indeterminati.
12Che cosa dire allora di questa che è una delle obiezioni più rilevanti mosse, oggigiorno, alla pretesa di costruire, non dico una ἐπιστήμη (epistéme), ma addirittura quella forma di super ἐπιστήμη che intende essere il Destino? La risposta più semplice è che, così formulata, la tesi è una delle tante varianti dell’obiezione scettica: la tesi che afferma l’indeterminatezza crescente di ciò che sta alla radice delle parole apparentemente univoche nel discorso scientifico-filosofico è espressa, anch’essa, in parole che, quindi, per lo stesso motivo indicato da questa tesi, rendono la tesi stessa indeterminata. Ma se il linguaggio in quanto tale è indeterminato (poiché rinvia a dimensioni sempre più oscure, inafferrabili), allora anche questa formazione linguistica che è costituita dalla tesi tipica delle filosofie della svolta linguistica è ugualmente indeterminata (ossia si indetermina da sola). Per questo dicevamo che siamo di fronte a una diversa formulazione della tesi scettica alla quale è possibile ribattere nel modo tipico dell’ἔλεγχος (élenchos)133.
13Questa risposta è dunque “facile” nella misura in cui si limita a ricondurre la tesi della svolta linguistica (ossia la storicità del linguaggio) allo scetticismo, ma fatto ciò si deve poi prendere posizione rispetto all’impossibilità della contraddizione, perché l’obiezione contro lo scettico dice appunto: «Tu ti contraddici», dopo di che bisogna però vedere perché non ci si possa contraddire. E qui dobbiamo imboccare quel discorso che abbiamo invocato col riferimento, appunto, all’ἔλεγχος (élenchos).
14Ma un’osservazione più pertinente alla tesi in questione è la seguente: sostenendo la storicità del linguaggio si intende smentire l’incontrovertibile invocando un’ipotesi controvertibile. Intendo dire che la linguisticità dei contenuti che appaiono, appare. Ripensiamo all’esempio della stanza che, anche una volta che la si voglia distinguere dalle formazioni linguistiche che la indicano, appare pur sempre all’interno di una lingua. Quando dico: «La stanza come distinta dalle formazioni linguistiche», sono sempre di fronte a un significato che appare all’interno della lingua italiana. Dunque, affermando la storicità del linguaggio, si intende inficiare l’incontrovertibile con una tesi che è meramente ipotetica. Perché è vero che la cosa in quanto distinta dalla parola appare, daccapo, all’interno di una parola; sennonché il carattere storico della parola all’interno della quale la cosa appare è un’ipotesi ermeneutica che è tutt’altro che incontrovertibile.
15Che la lingua che investe la cosa, anche in quanto distinta dalla lingua, sia la lingua materna134, che le lingue siano formazioni storiche che si perdono nell’oscurità del passato: tutto questo non appartiene all’incontrovertibile. Fa parte di quel bagaglio ipotetico di regole senza di cui, senza dubbio, non si costituirebbe la linguistica. Ma la linguistica non può essere costituita da regole diverse da quelle che, per esempio, costituiscono la fisica delle altre scienze, ovvero regole ipotetiche. E allora, accade che sulla base di un’ipotesi linguistica si voglia smentire l’incontrovertibile; il quale, in relazione a questo punto, ribatte: «Sì la cosa appare nella parola (e quindi appare incontrovertibilmente in una parola), ma la storicità della parola non è un che di incontrovertibile, ma è appunto un’ipotesi ermeneutica, storica, culturale. E allora è impossibile smentire l’incontrovertibile in base a un’ipotesi (purché l’incontrovertibile abbia quei caratteri che abbiamo indicato in questi giorni), dove l’incontrovertibile è ciò la cui negazione è autonegazione».
16A questo punto si potrà obiettare: «Ma non abbiamo detto che la cosa appare nella parola?». Sì, l’eterno è la cosa nella parola. Gli enti eterni sono le cose che appaiono nella parola. In quanto le cose appaiono nella parola, si distinguono da quelle cose che appaiono in quella parola la cui negazione è autonegazione. C’è un nucleo linguistico il quale è appunto ciò che costituisce l’innegabile, l’incontrovertibile; proprio perché la negazione di questo nucleo linguistico è autonegazione. Se ci si mantiene su questo piano, questo nucleo linguistico incontrovertibile è in grado di liberarsi dalla capacità critica di ogni altra formazione linguistica, la quale non goda di questa proprietà, dove appunto il suddetto nucleo è ciò la cui negazione è autonegazione. E questa sarebbe una prima direzione di ricerca per quanto riguarda il rapporto tra linguaggio e Destino.
17Avevo accennato ad altre dimensioni tematiche, e in particolare non vorrei dimenticarmi di questa che è ampiamente sviluppata in Destino della necessità e che riguarda la presenza di due timbri nelle lingue indoeuropee. Il timbro che si può chiamare dell’inflessibile e il timbro della flessione135. Se si suppone che le radici fondamentali delle lingue indoeuropee siano poco meno di un migliaio, allora è possibile rilevare con alta percentuale che le radici e le parole costruite su formazioni linguistiche contenenti occlusive, esplosive, dentali, indicano ciò che si mostra resistente – e cioè più o meno definitivamente inflessibile – rispetto alla volontà di potenza dell’uomo di modificare l’inflessibile136.
18È chiaro che esiste una quantità enorme di casi in cui si apre il problema della violazione di questa regola. Ed esiste anche il problema costituito da parole (ne citerò una sola) che hanno lo stesso significato, ma sono strutturate foneticamente in modo diverso. Probabilmente l’antico latino non dice ignis, dice ighnis con la “g” velare. Al latino corrisponde il greco πῦρ (pŷr) – fuoco, appunto – dove c’è sì una formazione consonantica del tipo di quelle menzionate, ma c’è anche una formazione consonantica che prima non abbiamo considerato, ovvero quella della liquida. Se si legge il Cratilo di Platone, si trova questa formidabile intuizione ermeneutico-linguistica secondo la quale le liquide (ρ, λ) indicano la capacità dell’uomo di costruire mezzi capaci di raggiungere lo scopo che la gente si propone. Se così stanno le cose, il greco πῦρ (pŷr) ci insegna che ciò che per il latino inizialmente è “l’ostacolante” – ossia il fuoco inteso non come dono degli dei per la tecnica umana, ma come pericolo che non si è in grado di fronteggiare (ighnis, letto con la velare) – nella prospettiva linguistica greca viene visto invece come “ciò che si lascia addomesticare”, e dunque ciò che chiamavamo la προ-αἴρεσις (pro-aíresis), cioè il calcolo capace di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi. In questo senso, dunque, il fuoco diventa domestico e la sua domesticità è appunto espressa dalla liquida137.
19La linguistica contempla certamente l’esistenza della radice ar, da cui scaturisce tutta una serie di parole che indicano in vari modi la capacità di organizzare mezzi in vista della produzione di fini, ma la ridotta ampiezza della radice ar è inscritta in una più ampia radice, questa volta non considerata dalla glottologia (in quel mio libro ar è indicata con la lettera maiuscola), dove resta confermato un insieme di espressioni linguistiche (harmózo, harmótto, ecc.) che indicano appunto la capacità di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi. Occorre osservare che tra queste non c’è la parola greca che corrisponde ad ars, perché il greco dice τέχνη (téchne) e τέχνη non contiene una liquida, e questo è uno dei casi da studiare per capire come mai proprio la τέχνη non contiene la liquida. Tuttavia, si diceva, parole come harmózo, harmótto e via dicendo (un elenco non certo breve) indicano quello stesso che è indicato dalla parola latina ars ossia, ripeto, la capacità di organizzare mezzi in vista della realizzazione di scopi. E questo sarebbe un secondo aspetto da controllare per quanto riguarda il tema del linguaggio.
La grammatica del Destino
20In relazione a quanto stiamo dicendo, la dimensione che a mio avviso è decisiva riguarda la funzione del linguaggio, ossia il rapporto del linguaggio tra l’isolamento della Terra e l’apparire del Destino. Qui dobbiamo allora fermarci e sviluppare un punto che ci consentirà di riprendere poi il tema dell’apparire. Se ci domandiamo: dato un soggetto s e un predicato p, tale che s conviene necessariamente a p, se esiste una connessione necessaria tra s e p, che cosa accade quando s è pensato indipendentemente da p? Facciamo un esempio. Se fosse una verità necessaria che il lampo è seguito dal tuono, allora il lampo è s e s è seguita necessariamente da p (ossia dal tuono). Che cosa accade se l’apparire fosse contenente s ma non p? s sarebbe ancora s? In altre parole: se fosse una verità incontrovertibile che il lampo è tuonante, l’apparire di un lampo non tuonante sarebbe ancora l’apparire del lampo? Qualcuno potrebbe anche dire, in relazione al fatto che abbiamo usato s e p, che oggi la logica si è liberata da questa concentrazione di interesse sul rapporto tra s e p. Penso a Boole e a Frege quando analizzano affermazioni del tipo: “Cesare conquistò le Gallie”. La logica moderna, per esempio, accusa gli Analitici di Aristotele di considerare soltanto il caso limite in cui c’è un soggetto a cui viene riferito un predicato. Frege inventa il concetto di funzione linguistica proprio con l’intento di mostrare che lo schema s è p è un caso limite di una più ampia definizione di relazione o di predicazione (che è da lui espressa con il simbolo x R y). Nella frase citata, per esempio, i soggetti sono due: Cesare e le Gallie. Dunque, in generale, il rapporto s è p è solo un caso limite – quello appunto in cui c’è un solo soggetto – rispetto a un’infinità di casi, dove può accadere che non ci siano soltanto x e y come soggetti, ma che i soggetti siano tre, quattro, dieci collegati dal concetto di relazione. Tutto questo, mi chiedo, ci impedisce di parlare ancora di s è p?
21Alla domanda dobbiamo rispondere negativamente. No, perché quello che questi pur grandi logici e linguisti non tengono presente è che quando si dice che x è il soggetto Cesare, e che y è il soggetto logico (ossia le Gallie), e dunque quando si afferma che i soggetti sono due collegati da una relazione, non si sta affermando qualcosa che lo schema “s è p” già non tenga presente o non sia in grado di esprimere. Del resto, anche lo schema x R y è pur sempre suscettibile di essere considerato come avente x per soggetto il cui predicato è Ry (che tradotto in parole vuol dire: «Cesare è il conquistatore delle Gallie» o, rovesciato, «le Gallie sono il conquistato da Cesare»). Pur conoscendo le riserve che la logica moderna ha relativamente allo schema tradizionale s è p, continuiamo dunque il nostro discorso in termini s è p. Pertanto torno a parlare del lampo tuonante e mi pare ci si sia messi d’accordo sulla circostanza in cui, se c’è un nesso necessario tra s e p, allora un apparire di s che non sia un apparire di p non è l’apparire di s.
22Ho usato l’espressione “apparire di s che non sia l’apparire di p” e vorrei sottolineare con decisione la circostanza che qui ci si trova di fronte all’essenza della dialettica hegeliana (anche se certamente Boole, Frege e i logici contemporanei non sanno di trovarsi di fronte a quest’essenza). La dialettica hegeliana – mi riferisco a quanto esposto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche138 – dice che l’intelletto se ne sta dapprima alla determinazione rigida e alla sua separazione dalle altre. L’intelletto ha cioè questo modo di apparire: che se ne sta alla determinazione rigida. Che vuol dire la determinazione rigida? Significa il suo essere separata dalle altre determinazioni; nel nostro esempio, l’esser lampo separato dal suo esser tuonante. Tuttavia, prosegue Hegel, questa determinazione separata dalle altre si contraddice e passa in altro.
23Ma non è avvenuto proprio questo con il nostro esempio del lampo e del tuono? Abbiamo considerato il rapporto lampo-tuono, e poi abbiamo considerato la situazione in cui appaia soltanto il lampo (ovvero il lampo separato dal suo esser tuonante) e ci siamo chiesti se sia veramente lampo questo separato dal suo esser tuonante. E quel nostro aver detto no, vuol dire che l’intenzione che il lampo sia lampo si contraddice, perché ciò che in verità appare quando il lampo è separato dal suo esser tuonante è non lampo. Questo contraddirsi è il corrispettivo di ciò che, nell’enunciazione hegeliana del metodo dialettico, viene inteso come il secondo momento: il momento appunto dialettico o anche negativo razionale, per cui la determinazione isolata non è la determinazione in quanto unita.
24Per quanto riguarda Hegel il discorso si dovrebbe poi prolungare, perché siamo partiti dalla relazione necessaria tra soggetto e predicato, laddove nel discorso hegeliano la relazione necessaria è il risultato della contraddizione dialettica. Questo crea una complicazione che non è il caso di affrontare ora, poiché qui ci proponiamo di limitare il discorso al tema del linguaggio.
25Chiediamoci piuttosto: se il soggetto isolato dal predicato non è il soggetto o, meglio, se il contenuto semantico del soggetto isolato dal contenuto semantico del predicato è altro da ciò che intenderebbe essere (o da ciò che si intenderebbe che fosse), allora qual è il predicato di ogni essente? Dove il predicato deve essere inteso come l’esser sé dell’essente, e ciò sia detto per ogni essente139. Appare allora che il predicato necessario dell’essente è essere. Ma perché questo? Perché il predicato (necessario) dell’essente è l’esser sé. Quindi, incominciando a dire “essere”, si è sulla strada giusta; ma quando ci chiediamo qual è il predicato di ogni essente, dobbiamo chiederci anche se l’identità che si va predicando è intesa così come viene pensata da Aristotele – e quindi come la falsa identità del suo ταὐτότες (tautótes) – o in quanto esser sé del Destino. Ci sono infatti vari modi di intendere l’identità.
26Quando chiedo qual è il predicato di qualsiasi essente, non intendo chiedere quale sia il predicato opinabile, possibile, probabile, falso dell’essente. Ma intendo dire: qual è il predicato che è incontrovertibilmente il predicato di ogni essente? E rispondo: il predicato che è incontrovertibilmente tale di ogni essente è ciò che stiamo chiamando Destino, cioè l’esser sé dell’essente, che non è altro da sé, la cui negazione è autonegazione e che, dunque, è l’eterno.
27Prima si era fatto quell’esempio del lampo tuonante e si diceva che se appare il lampo e non il suo esser tuonante, ciò che appare non è lampo ma è altro. Ora ci stiamo riferendo all’exemplum princeps che ci dice qual è l’autentico incontrovertibile predicato di ogni essente e la cui risposta, mi ripeto, è ciò che abbiamo chiamato Destino. Dunque un essente che appaia se non appare il Destino non è quell’essente. Può essere un altro essente? L’isolamento dell’apparire di un qualsiasi essente dall’apparire del Destino non può avere come esito l’apparire di un qualche cosa d’altro, come potrebbe darsi nel caso di un lampo non tuonante. Ma se apparisse un qualsiasi essente e non apparisse il Destino dell’essente, non apparirebbe nulla. Eppure qualcosa appare. Anzi diciamo: il Destino è l’apparire degli essenti, del loro esser sé. Questo vuol dire che una qualsiasi configurazione del contenuto dell’apparire implica necessariamente l’apparire del Destino. Là dove appare un mondo, là appare il Destino. Se tu sei l’apparire di un mondo, tu sei l’apparire del Destino. Se l’abete è l’apparire di un mondo, l’abete è l’apparire del Destino. Nulla può apparire se non appare ciò che chiamiamo Destino. Da ultimo, dunque, se appare qualcosa appare il Destino.
28Ma non siamo ancora arrivati alla fine del discorso che deve puntare verso il linguaggio. Il Destino appare necessariamente, ma nelle pagine precedenti parlavamo del fatto che il mondo non sa nulla del Destino; e il mondo è il farsi innanzi della Terra140. Noi apparteniamo a un mondo il quale non vuol sentire nulla di ciò che chiamiamo Destino. È un mondo che esprime la propria essenza dicendo che ciò che sicuramente appare è il farsi innanzi degli eventi. Probabilmente questo mondo non usa la parola Terra così come noi la usiamo, ma traducendo il linguaggio del mondo nel linguaggio che abbiamo usato in questa nostra conversazione, il mondo afferma che tutto ciò che sicuramente appare – e con cui gli uomini hanno autenticamente che fare – non è quella certa cosa che noi chiamiamo Destino, ma sono le determinazioni della Terra (economiche, politiche, giuridiche, religiose, affettive, di rapporti interpersonali, la scienza, la tecnica). Questo è il modo in cui parla il mondo.
29Ci troviamo allora di fronte a questa situazione: da un lato è necessario che, là dove qualcosa appaia, appaia il Destino; dall’altro lato il mondo in cui noi crediamo di vivere è assolutamente disinteressato al Destino e afferma che ciò con cui abbiamo seriamente che fare non sono le astruserie sul Destino, ma sono i problemi reali dell’uomo. Tuttavia abbiamo visto che il Destino necessariamente appare là dove qualcosa appare. Questo vuol dire che l’esser-uomo significa essere una contraddizione. Richiamando la figura di Faust possiamo pertanto affermare che l’esser uomo è l’abitare di due anime nello stesso petto141: un’anima è l’apparire del Destino, l’altra anima è il mondo che dice che i problemi reali sono ben altri e che magari non si riferisce nemmeno al Destino. Però, se il Destino è l’apparire degli essenti e del loro esser sé, allora il contenuto del Destino include il mondo. Non viceversa.
30Giunti a questo punto la situazione sembra ancora più aporetica: il Destino include il mondo, ma il mondo non sa nulla del Destino. E allora? Intanto è chiaro che il mondo, in quanto isolamento della Terra dal Destino, contende al Destino i significati della Terra142. Per esempio: altro è il microfono in quanto appare come fede nell’esser microfono di questo oggetto, la quale fede appare all’interno del Destino; altro è questo microfono in quanto appare in una coscienza mondana, la quale non sa nulla dell’appartenenza di questo microfono al Destino, e tratta questo microfono come oggetto di un apparato tecnologico-sociale, sicché in questo diverso contesto la consistenza semantica di questo microfono è diversa dalla consistenza semantica di questo microfono in quanto appare nel Destino. In generale: ogni significato che sta dinanzi all’esser-uomo è conteso – si sdoppia – nel suo essere appartenente alla dimensione del Destino e nel suo essere appartenente alle cose serie di questo mondo, dove le cose serie di questo mondo sono le cose che avevo enumerato prima. Oggi la tendenza è di considerare l’intera filosofia come cosa non seria. Le cose serie sono quelle che occupano i popoli, di cui i mass media parlano. Quindi c’è innanzitutto questa conflittualità tragica tra la Terra che appare nello sguardo del Destino e la Terra isolata dal Destino.
31A questo punto chiunque potrebbe dire: «Beh! Questa conflittualità tragica non la vedo. Non vedo questo conflitto tra Destino e Terra isolata». Rispondo: certo che non la vedi – e qui siamo al linguaggio – perché la storia del mortale e la storia dell’Occidente indicano proprio che il linguaggio serba ogni propria parola per nominare la Terra isolata. Questo dare spicco alla Terra fa sì che ognuno di noi dica: «Non vedo il conflitto, non vedo le due anime nello stesso petto»; è questa appunto la conseguenza del prevaricare della Terra isolata incoronata dal linguaggio, cioè parlata dal linguaggio, il quale dà spicco alla Terra isolata. E lo spicco è ciò per cui noi crediamo di non avere dinanzi nient’altro che le cose serie di questo mondo e non “le nuvole del Destino”. Questo è un ulteriore, fondamentale, aspetto della decisività del linguaggio nel rapporto tra verità e non verità.
Sulla trinità dell’apparire
32Introduco qualche ulteriore elemento rispetto alla tematica relativa all’apparire dell’apparire. C’è un’antica tradizione filosofica – che possiamo esporre ricorrendo al linguaggio della scolastica – la quale distingue tra operatio prima intellectus e operatio secunda intellectus143. Non è nulla di nuovo perché corrisponde al “semantico non apofantico” la prima (e qui usiamo un’espressione aristotelica) e al “semantico apofantico” la seconda.
33Operatio prima intellectus è appunto la conoscenza dei significati pre-predicativi, cioè considerati non nel loro nesso predicativo, e tutti questi significati sono subordinati al significato princeps, che è l’essere (id quod primum cognoscitur). Allora è possibile la conoscenza del significato nell’operatio prima intellectus indipendentemente dalla conoscenza del nesso predicativo a cui il significato è sottoposto. La prima operatio della secunda operatio intellectus – cioè l’operazione prima della seconda operazione dell’intelletto – è, nella prospettiva scolastica, il principio di non contraddizione. Tutti gli altri giudizi sono ulteriori rispetto a questo, primario. Dobbiamo qui sottolineare la circostanza dell’autonomia semantica dell’operatio prima, che sottintende un modo di considerare le cose che ha una lunga storia, non solo lungo la vicenda dell’ἐπιστήμη (epistéme), ma anche lungo la vicenda che accompagna l’ἐπιστήμη (anche prima degli ultimi due secoli dell’età moderna) in dimensione empiristica. Autonomia in base alla quale la coscienza dapprima vede la cosa e solo alla fine vede il vedere (ricordiamo al riguardo l’espressione di Tommaso secondo la quale l’occhio vede i colori e non vede se stesso). La coscienza sarebbe allora progressivamente riempita a partire da una situazione in cui essa è coscienza del significato puro. Poi – e lo sviluppo grandioso di questo modo di concepire le cose è la logica hegeliana – a partire dalla considerazione del significato puro la coscienza si riempie via via di significati più complessi fino al sapere assoluto, che è la totalità dei significati.
34Queste notazioni ci servono per esporre un’ulteriore situazione aporetica, relativa alla struttura originaria del Destino. Si era detto a proposito della tesi kantiana sul fondamento di giudizi sintetici a posteriori, che se la proposizione sintetica a posteriori è espressa dalla formula “s è p”, allora si afferma “s è p” sul fondamento dell’unità dell’esperienza. In questo caso voi siete seduti e l’affermazione che esprime questo vostro essere seduti è fondata sull’unità tra la stanza, il tavolo, la seggiola, il vostro star seduti sulla seggiola. Quindi l’esperienza è il fondamento dei giudizi sintetici a posteriori.
35Nel linguaggio che abbiamo usato, il fondamento dell’affermazione “s è p” è l’apparire del nesso tra s e p. Ma a questo punto ci si può chiedere: «In base a che cosa è affermato l’apparire di “s è p”?». Se stiamo al discorso kantiano – ma anche alla trascrizione che ne abbiamo dato – l’affermazione che “s è p” è fondata sull’apparire dell’apparire di “s è p”144. Se noi indichiamo con α' l’apparire di “s è p”, possiamo chiederci allora in base a che cosa è affermato α', e il discorso esige che si dica che anche α' è fondato su un α'', et sic in indefinitum. In questo senso il risultato è dunque aporetico, perché se la verità di “s è p”, è data dall’apparire (sia α tale apparire), e se la verità di α è rinviata all’infinito, allora vuol dire che “s è p” non ha quella verità che si sarebbe voluta fondare. Questa è una situazione aporetica perché stiamo dicendo che il Destino è l’apparire dell’esser sé dell’essente; se al posto di “s è p”, si mette Destino, e se Destino (sia δ il suddetto Destino) è l’apparire degli essenti, allora in base a che cosa è affermato il Destino? In base all’apparire (ad α), et sic in indefinitum. Occorre tener presente questa struttura proprio quando si affronta il problema del sopraggiungere della parte nella totalità dell’apparire trascendentale.
36Come si esce da quest’aporia? Mettendo in questione quello schema che distingue operatio prima intellectus e operatio secunda intellectus, cioè quello schema che considera innanzitutto il significato e poi le connessioni predicazionali del significato. Anzitutto, perché si costituisce l’aporia? Perché i termini sono separati gli uni dagli altri. Se sono separati gli uni dagli altri, e quindi successivi (così come in Hegel lo sviluppo del contenuto della fenomenologia è successivo), allora l’aporia è insuperabile. Ma la separazione dev’essere oltrepassata; e perché dev’essere oltrepassata? Perché δ (ossia il Destino) è ciò la cui negazione è autonegazione, anche se c’è il rinvio all’infinito. E quindi è necessario che l’aporetica sia oltrepassata; è necessario che, a priori, ci sia l’oltrepassamento vero, anche se, come stiamo dicendo, il linguaggio non è in grado di reperire l’oltrepassamento vero. Poiché la separazione determina il rinvio all’infinito, allora l’oltrepassamento dell’aporia sta nella sintesi originaria tra il contenuto dell’apparire e l’apparire. Solo se questa sintesi è originaria non si produce quella separazione che rende impossibile quell’incontrovertibilità del Destino, che d’altra parte è assicurata dall’ἔλεγχος (élenchos).
37Cosa vuol dire che l’apparire è originario? Che l’apparire del Destino, o l’apparire di qualsiasi contenuto semantico-apofantico, non è un’ulteriorità che si aggiunga via via a un contenuto che va allargandosi, ma è originariamente appartenente a δ (se δ è appunto la dimensione semantica di cui l’apparire è apparire). Allora, solo in quanto α appartiene originariamente a δ si evita il regressus in indefinitum. In altre parole: poiché α è incluso in δ come apparire del proprio contenuto, allora chiedere in base a che cosa è affermato α, significa chiedere ciò a cui si è già dato una risposta, in quanto la risposta è l’inclusione originaria (in δ) dell’apparire del Destino in quanto apparire del contenuto.
38In conclusione, dopo aver detto tutto ciò che si è detto rispetto alla verità del Destino, possiamo allora porci la grande domanda: «Chi siamo noi? Chi è l’uomo?». E a tale domanda possiamo a ragione rispondere: «Noi siamo l’apparire del Destino. Noi siamo degli dèi che credono di essere dei mortali». E cos’è il Destino? È l’apparire della Terra e, per ora, la Terra appare isolata. Per questo ci crediamo mortali, perché all’interno dell’isolamento della Terra non possiamo stabilire l’eccellenza dell’umano. Ma anche l’isolamento della Terra è destinato a tramontare; e il tramonto della Terra sancirà il tramonto della sofferenza del mortale, la destinazione beata degli eterni.
L’autocoscienza dell’apparire
39Guardiamo ora la cosa dalla prospettiva della “autocoscienza dell’apparire”. Appare lo spostamento di questo gruppo di libri. Ma, mi chiedo, incomincia ad apparire soltanto l’oggetto spostato o incomincia ad apparire l’apparire dell’oggetto spostato? Quando sopraggiunge qualcosa nel cerchio dell’apparire, non sopraggiunge soltanto il qualcosa in quanto qualcosa, ma sopraggiunge anche l’apparire di quel qualcosa, giacché prima del sopraggiungere del qualcosa il qualcosa non appariva. Quindi il sopraggiungere della parte è insieme il sopraggiungere dell’apparire della parte.
40È palese l’affinità tra questo discorso, in cui l’apparire della parte è originariamente appartenente a ciò che sopraggiunge, rispetto a quanto siamo andati dicendo poco fa; dove si esce dall’aporia tenendo presente l’appartenenza originaria dell’apparire al Destino, ossia al contenuto semantico di cui l’apparire è apparire. Se così stanno le cose, allora anche qui ciò che sopraggiunge non è semplicemente la parte, ma l’apparire di quella parte è l’apparire di qualcosa che appare. Quindi non solo va detto che il sopraggiungere della parte è il sopraggiungere dell’apparire della parte, ma va detto anche che il sopraggiungere della parte è insieme il sopraggiungere dell’apparire dell’apparire della parte. Sicché anche qui, in modo analogo a quello del discorso aporetico di cui sopra, quando, affermando il sopraggiungere della parte, si chiede poi che cos’è il sopraggiungere dell’apparire della parte, si chiede in realtà qualche cosa che è già stato oggetto di risposta nell’atto in cui si dice che la parte, sopraggiungendo, è il sopraggiungere non solo dell’apparire della parte, ma anche dell’apparire di se stessa (ossia dell’apparire dell’apparire della parte). E questo è ciò che possiamo definire anche come l’autocoscienza dell’apparire145.
41A questo punto un ulteriore elemento da tener presente nella discussione sull’aporia dell’apparire è il grande tema del non-divenire dell’apparire del divenire. Soffermiamoci su questo concetto che era già stato intravisto dal grande Kant. Consideriamo un qualsiasi divenire. Il divenire in cui prima appare a, poi appare b. Innanzi tutto si osservi: ormai non possiamo più parlare del divenire in cui incomincia a esistere a e poi incomincia a esistere b. Questo, data l’economia generale del discorso che abbiamo sviluppato è un’eventualità che già abbiamo lasciata da parte, riconoscendo la contraddittorietà di una lettura in termini ontologici del divenire (nel senso, cioè, di divenir altro come implicante l’annullamento dell’essente). Consideriamo il sopraggiungere di b in relazione all’essere sopraggiunto di a. Prima appare a, poi appare b. Se questo discorso viene lasciato sibi permissus (cioè preso alla lettera e lasciato a se stesso in questo suo essere preso alla lettera), ci troveremmo di fronte a due apparire: prima l’apparire di a e poi l’apparire di b. Ma l’apparire di a, in quanto così isolato, non è l’apparire del sopraggiungere di b rispetto ad a. L’apparire di a è l’apparire di a. E se, daccapo, lasciamo sibi permissa questa espressione “prima appare a e poi appare b”, una volta detto che dapprima appare a, se poi si avesse da dire che successivamente appare b, daccapo l’apparire di b non sarebbe l’apparire del sopraggiungere di b rispetto ad a; sarebbe un semplice apparire di b. E invece stiamo parlando dell’apparire del sopraggiungere di b rispetto ad a; allora non possiamo lasciare sibi permissa questa espressione “prima appare a e poi appare b”, ma dobbiamo intenderla nel senso che l’apparire della successione è possibile solo in quanto l’apparire della successione non è una successione. Solo in quanto l’apparire del divenire non è un divenire. E, per essere più esatti, solo in quanto l’apparire del divenire non diviene secondo il divenire di cui tale apparire è apparire.
42Questa precisazione è opportuna perché l’apparire empirico può essere l’apparire di una successione, ma l’apparire empirico stesso può essere un sopraggiungente (anzi è un sopraggiungente). E dunque, se l’apparire empirico di una successione non si sviluppa secondo il tipo di successione di cui è apparire, d’altra parte l’apparire empirico può essere esso stesso un che di sopraggiungente, e quindi di diveniente. Ma, allora, esso sopraggiunge rispetto a una più ampia forma di apparire che è, da ultima, l’apparire trascendentale (il quale, come apparire della totalità del divenire, non diviene146).
43Alla luce di quanto sin qui esposto, inviterei allora a discutere l’aporia del sopraggiungere dell’apparire tenendo conto di quanto detto finora, ovvero che non si tratta semplicemente del sopraggiungere di una parte, ma dell’apparire di quella parte e del sopraggiungere dell’apparire dell’apparire di quella parte147. Se si tiene presente questo ci si rende conto che quando si afferma che l’apparire della parte “si aggiunge” e si chiede conto di ciò, si sta chiedendo in realtà qualcosa che ha già avuto risposta, affermando appunto che ciò che sopraggiunge non è semplicemente la parte, ma l’apparire della parte e cioè l’apparire dell’apparire della parte148.
44L’apparire trascendentale non diviene nemmeno nel senso non nichilistico dell’iniziare ad apparire dell’apparire e dell’uscire dall’orizzonte dell’apparire. E in quanto non diviene in alcun senso, esso è eterno e onnipresente (sì che anche i fenomeni del sonno, della perdita di coscienza, vanno interpretati alla luce di questa permanenza assoluta dell’apparire). In quanto l’apparire trascendentale non sopraggiunge, non ha più senso affermare l’aggiungersi di un apparire a ciò che sopraggiunge. Ricordo che, discutendo con Bontadini, questi osservava che la relazione tra la parte che sopraggiunge e il Tutto è un sopraggiungente; e io gli rispondevo che la relazione che il Tutto che appare ha con la parte sopraggiungente è essa stessa sopraggiungente nell’apparire trascendentale. L’apparire della relazione tra il Tutto e una parte non è il Tutto, perché se fosse il Tutto, la relazione del Tutto con altre parti sarebbe inesistente149. Questi, ripeto, sono elementi da tenere presenti nella risoluzione dell’aporia dell’apparire, fermo restando, però, quanto dicevamo a proposito della necessità che ogni aporia è a priori risolta. Non solo, ma in questo caso eravamo arrivati all’accertamento, a mio avviso, che il fenomenologico in quanto tale, anche se è in sinergia con il logico, non mostra l’evidenza del divenire.
Risposte allo scettico
45Prendiamo infine in considerazione l’obiezione che chiede: «Come può non esserci un residuo di divenire almeno per quanto riguarda la relazione in atto tra orizzonte trascendentale dell’apparire e l’apparire della parte sopraggiungente?». Sembra infatti che tale relazione prima non ci fosse, altrimenti la parte sarebbe da sempre all’interno di tale orizzonte, e inizierebbe poi a costituirsi col sopraggiungere della parte.
46A rischio di ripetermi provo a ripercorrere la soluzione. Supponiamo che indichi il contenuto che incomincia a entrare nel contenuto dell’apparire. Quando comincia ad apparire, per esempio, la giornata allora incomincia ad apparire anche l’apparire della giornata. Vuol dire che k incomincia ad apparire nell’apparire trascendentale insieme al proprio contenuto empirico, in modo tale che, essendo k ciò che appare, l’apparire di k è originariamente incluso in k secondo lo schema che prima abbiamo illustrato a proposito dell’aporetica. Se non si tiene presente questo, è chiaro che quando k entra nell’apparire trascendentale – qui la distinzione tra apparire empirico e trascendentale è essenziale – ci si chieda quando k incominci ad apparire; e che si pensi a tale inizio come un’innovazione (poiché rappresenterebbe qualche cosa che prima non era e ora è). Queste perplessità sono consentite solo laddove non si tiene presente l’originaria appartenenza dell’apparire di k al contenuto di k. Se non lo si tiene presente, allora la domanda investe l’apparire stesso (α) e si immagina che esso sia qualcosa che incomincia a essere. Ma questo è proprio ciò che va negato in ragione dell’ἔλεγχος (élenchos). Dicendo che k incomincia ad apparire diciamo che a k appartiene originariamente quell’apparire incominciante di k, quindi l’obiezione ontologica chiede la ripetizione di ciò che in termini non nichilistico-ontologici è già stato dato.
47Si è già detto che l’apparire di k appartiene a k che incomincia a entrare nel cerchio trascendentale. E parlare di un suo incominciare ad apparire significa dimenticare che si è posto che a appartiene al contenuto incominciante ad apparire k (al contenuto k incominciante ad apparire nel cerchio trascendentale). Facciamo un ulteriore esempio: io ho cominciato ad apparire in piedi, ma che cosa comincia ad apparire oltre a me in piedi? Incomincia ad apparire il mio essere in piedi, ma questo incominciante apparire non è l’apparire trascendentale, è l’apparire di k, cioè è l’apparire empirico. Quell’apparire empirico che, d’altra parte, appartiene da sempre al contenuto che incomincia ad apparire (e vi appartiene, perché se non gli appartenesse allora scatterebbe l’aporia). Quindi: quando qualcosa comincia ad apparire, comincia ad apparire anche l’apparire di quel qualcosa che inizia ad apparire. Il qualcosa che appare include il proprio apparire e, dunque, l’apparire del qualcosa è l’apparire dell’apparire del qualcosa; dove “gli apparire” non sono due, ma è lo stesso che include se stesso. A questo punto, reiterare la domanda accusando l’apparire incominciante di essere un incominciare a essere è qualcosa che non è più lecito fare.
48Un’ulteriore obiezione potrebbe a questo punto chiedere come pensare un apparire che non appare. L’apparire empirico, essendo ciò che entra nell’apparire trascendentale, è infatti affermato come un apparire che non appare (prima di sopraggiungere). Orbene, chiede il nostro critico, un apparire che non appare non rappresenta una palese contraddizione? A una simile obiezione risponderei così: sarebbe una contraddizione se l’apparire fosse univocamente determinato, ma è (appunto) l’apparire empirico che non appare come contenuto dell’apparire trascendentale. Certo, un apparire che non appare è una formula contraddittoria, ma a rigore non stiamo dicendo questo. Stiamo dicendo che l’apparire empirico non appare nel senso che non appartiene al contenuto trascendentale. La stessa relazione tra l’apparire empirico e l’apparire trascendentale non è il Tutto. È un contenuto che appare e allora, come si concede che il divenire sia il sopraggiungere di un eterno (per esempio del libro che prima non appariva), così la stessa relazione tra l’apparire empirico e l’apparire trascendentale è una parte di cui va detto quello di cui si dice di tutte le parti, perché il modo più semplice di affrontare l’aporia sarebbe questa.
49Una volta che si è d’accordo sull’eternità dell’essente, che cos’è il variare? Risposta: è il sopraggiungere degli eterni. Riflettiamo: gli eterni che sopraggiungono sono le parti o la totalità del contenuto trascendentale? Chiaramente sono le parti. E la relazione tra il Tutto e ciò che incomincia ad apparire è una parte o è il Tutto? Anche in questo caso bisogna riconoscere che è una parte. Ma il Tutto in relazione a una parte, non è il Tutto (l’avevamo già concesso). Se dunque il Tutto in relazione a una parte fosse il Tutto simpliciter, il Tutto in relazione a un’altra parte sarebbe il nulla.
Notes de bas de page
126 E. Severino, Destino della necessità, cit., cap. IX, X.
127 Il linguaggio si trova di fronte alla struttura originaria del Destino, ma nel senso che indica via via. Se indichiamo questa struttura come un cerchio pieno, il linguaggio va via via indicando le parti e allora è necessario che il linguaggio che parla del Destino sia controverso, sia messo in questione perché porta alla luce solo alcune parti che, in quanto isolate dalla struttura originaria, sono negabili. L’intenzione del linguaggio è di indicare la struttura originaria della verità, ma non riesce a restituire, nel via via delle parole, quella concretezza dell’originario che è essa ciò la cui negazione è autonegazione. Quindi il linguaggio stesso invita ad andare oltre il linguaggio (cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit.).
128 Cfr. W. von Humboldt, Scritti filosofici, a cura di G. Moretto e F. Tessitore, Torino, Utet, 2007.
129 Ma poi aula vuol dire il contesto, i monti, gli alberi, il cielo e poi il mondo; ma limitiamoci per semplificare il discorso a una stanza determinata.
130 Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 2000, cap. II, par. 2.
131 Anche in questo caso la pronuncia è indeterminata, non sappiamo come potesse essere pronunciata questa formazione linguistica, ma sappiamo che il passato remoto del verbo latino esse (cioè fui, fuisti, fuit…) è costruito sulla radice bhu.
132 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, Milano, Jaca Book, 1998.
133 Cfr. Aristotele, Metafisica, libro Γ, capp. 4-6.
134 Cioè appartenente a un popolo (in questo caso parlante la lingua italiana) che si distingue da altri popoli (che parlano altre lingue).
135 Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., cap. IX-X.
136 L’alta precisione a cui facciamo cenno è di circa il 60-70 per cento, e dunque è chiaro che stiamo parlando di un’ipotesi ermeneutica.
137 Segnalo la lettura quei capitoli di Destino della necessità – e si tratta di calcolare qualche centinaio di formazioni linguistiche – dove appare costantemente che la presenza della liquida indica appunto il rapporto mezzo-fine, cioè indica l’arte, l’ars.
138 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, a cura di V. Cicero, Milano, Rusconi, 1996, parr. 79-82.
139 Esempio: il predicato (necessario) del microfono è essere.
140 Inclusi i celesti, incluso il divino, perché anche il divino si fa innanzi nel rapporto tra un individuo e, innanzitutto, la propria madre, la propria famiglia, la propria società; anche il divino appartiene a ciò che si fa innanzi, anche il divino appartiene alla terra.
141 J.W. Goethe, Faust, 1112.
142 Osservo a tal proposito che si può parlare di una fede originaria (trascendentale), che è appunto l’isolamento della Terra, di cui le fedi particolari sono forme empiriche (in analogia a quanto avviene nel caso dell’apparire trascendentale, rispetto a cui l’apparire empirico rappresenta una determinazione particolare). Fermo restando che le fedi sono errori, ma che anche gli errori (in quanto essenti) sono eterni.
143 Intellectus è genitivo. Prima operazione dell’intelletto, seconda operazione dell’intelletto, dunque. Cfr. Tommaso, In duodecim libros metaphysicorum Aristotelis expositio, 605.
144 In base a che cosa diciamo che siamo seduti? In base al fatto che questo nostro essere seduti appare. E in base a cosa affermiamo "appare”? In base all’apparire.
145 Si faccia attenzione: l’aver come contenuto se stesso non è, di per sé, l’apparire trascendentale; infatti, l’apparire empirico include il proprio apparire, ma ciò non fa dell’apparire empirico un apparire trascendentale. L’apparire trascendentale è l’apparire della totalità formale dell’essente, dove “formale” sottolinea il fatto che i sopraggiungenti continuano a sopraggiungere nell’orizzonte infinito dell’apparire, e dunque la totalità di essi (la totalità del sopraggiungente) che appariva prima del cominciare a sopraggiungere di nuovi essenti era una totalità formale (pena considerare la totalità come qualcosa che sta accanto a qualcosa d’altro, ovvero i nuovi essenti sopraggiungenti; ma la totalità è ciò che include tutte le parti). Appaiono gli essenti, e gli essenti appaiono all’interno di una dimensione che non è intaccata dal sopraggiungere di tali essenti e che è, appunto, l’apparire trascendentale non sopraggiungente.
146 L’apparire trascendentale è l’apparire del sopraggiungere ma, al tempo stesso, è il non sopraggiungente apparire dei sopraggiungenti, e perciò non è un diventar altro per il fatto che qualcosa sopraggiunge, a meno che non si voglia insistere sul concetto improprio che l’apparire del divenire è frazionato nell’apparire dei singoli momenti dell’apparire. Nel dire questo è chiaro che bisogna andare contro la teoria russelliana dei tipi, secondo la quale una classe non può avere come contenuto se stessa. Qui, infatti, stiamo dicendo esattamente che la classe dell’apparire trascendentale ha come contenuto se stessa che include le forme particolari che appaiono.
147 Ciò che può sopraggiungere può essere solo una parte. Ora, non è che quando qualcosa comincia ad apparire, al qualcosa che prima era spoglio della luce dell’apparire si aggiunge la luce dell’apparire, ma poiché la parte illuminata dalla luce è essa stessa una parte, allora è questa parte illuminata che inizia a entrare nell’apparire trascendentale. E se si proseguisse il discorso si vedrebbe che il rinvio ad indefinitum va escluso. L’essente che entra nel cerchio dell’apparire non è l’ente a cui, nell’entrare, si aggiunge la luce dell’apparire. Questo è quello che mi obiettava Bontadini. Ma non è così. Qui si tratta di capire che a entrare nel cerchio dell’apparire è l’essente illuminato (senza rinvio ad indefinitum). La parte illuminata è l’apparire empirico che entra nell’apparire trascendentale. La relazione del tutto a una parte è una parte di cui si deve dire ciò che si dice di ogni parte.
148 Quando si dice: «allora appare e quindi c’è qualcosa che si aggiunge», si fa quel discorso in cui si concepisce la separazione tra la determinazione e il proprio apparire, e concependo questa separazione si crede di dover render conto dell’apparire di ciò che incomincia ad apparire. Detto in altri termini: incomincia ad apparire a, ma incomincia ad apparire anche l’apparire dell’apparire di a. Allora, si dice, quando a comincia ad apparire, almeno questo apparire dev’essere stato nulla, perché il Tutto prima non lo conteneva. Ma quando si dice questo, si chiede conto dell’apparire di a, ovvero di ciò a cui si è già dato risposta dicendo che a incomincia a portarsi nel cerchio dell’apparire non solo insieme al proprio apparire, ma anche insieme all’apparire dell’apparire del proprio apparire. L’obiezione, dunque, chiede ciò a cui è già stata data risposta. Quando a comincia ad apparire, non comincia semplicemente ad apparire a, ma incomincia ad apparire quell’apparire di a che, essendo a qualcosa che appare, appare necessariamente quell’apparire che è apparire di se stesso; sicché, ripeto, quando si chiede conto all’apparire di a si vuole ottenere una risposta che è già stata data: quando a incomincia ad apparire, incomincia ad apparire l’autocoscienza, l’autoriflessività dell’apparire. Comincia ad apparire il libro, ma non è che incominci semplicemente ad apparire il libro qui, incomincia ad apparire quell’apparire del libro che essendo un qualche cosa che appare, fa sì che l’apparire di questo libro sia apparire di se stesso. Il libro che incomincia ad apparire, include originariamente l’apparire di se stesso; il contenuto che appare include l’apparire stesso di cui tale contenuto è contenuto.
149 La stessa appartenenza del sopraggiungente al Tutto, dunque, è un eterno che sopraggiunge, e questo discorso dà significato all’apparire come ciò che non può aggiungere nulla. Quando Aristotele dice che l’anima non ha natura, perché se l’anima avesse una natura, la natura dell’anima altererebbe ciò che appare, ha una formidabile intuizione di ciò di cui, però, Aristotele non riesce a dar conto. Laddove qui si sta proprio deducendo la natura dell’apparire, perché è chiaro che l’anima di cui sta parlando in questo caso Aristotele è l’apparire. Laddove il discorso che dice la stessa appartenenza della parte al Tutto non è qualcosa che rimpiazza un Tutto privo di questo suo essere appartenente a questa parte, ma la stessa appartenenza attuale della parte al Tutto è l’eterno che sopraggiunge. Se si vuole un esempio che può valere per la coscienza teologico-cristiano-metafisica: il mondo (la Terra) sopraggiunge, ma in Dio non c’è un sopraggiungere (nella coscienza divina non c’è un sopraggiungere).
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