5. Il problema della libertà e la tecnica
p. 121-135
Texte intégral
Sul significato della parola “libertà”
1La libertà si presenta come un concetto estremamente variegato già dal punto di vista linguistico. Il linguaggio ci insegna parecchie cose: prima che il linguaggio costruisca un discorso è il modo stesso in cui le parole sono costruite a insegnarci qualcosa. Noi diciamo libertà: “libertà” è una parola di derivazione latina, liber, ma questa parola si trova in contrasto con un altro gruppo di parole di matrice o di ceppo anglosassone che suonano in modo completamente diverso, in tedesco frei in inglese free. Proprio dal punto di vista acustico avvertiamo una differenza tra liber e frei. Tale osservazione suscita in noi una domanda: come mai le lingue indoeuropee, che siamo abituati a considerare come risalenti a un ceppo comune, usano queste espressioni così diverse? Le cose si complicano ulteriormente se al latino liber affianchiamo l’antico greco ἐλεύθερος (eleútheros), dove quella “e” iniziale è dovuta a ragioni fonetiche, ma loro sentono che l’ἐλεύθερος (eleútheros) suona in modo notevolmente simile a liber (qui non consideriamo le complicazioni glottologiche secondo le quali il “th” corrisponde a “d”).
2La glottologia associa l’antica parola latina e l’antica parola greca facendole risalire a una radice indoeuropea, la cui pronuncia è sempre problematica, ma che comunque è scritta leuth. Con la radice leuth abbiamo una sonorità, certo mi ripeto, diversa da quella che abbiamo con le parole frei e free di ceppo altotedesco-gotico. Ora: che cosa dice la radice leuth, da cui liber e ἐλεύθερος (eleútheros) derivano? Stranamente allude a due concetti che a prima vista sembrano non aver nulla che fare l’uno con l’altro. Voglio dire che da questa radice provengono gruppi di parole che apparentemente non hanno che fare (o hanno poco a che fare) l’uno con l’altro. Un primo gruppo di parole riconducibile alla radice leuth si riferisce a “popolo” (in tedesco è Leute, gente). Un altro gruppo si riferisce però a “crescita”, soprattutto con riferimento alla vegetazione. Come mai “popolo” e “vegetazione”? La domanda non esige che si stia molto a riflettere, perché la risposta viene abbastanza naturale. Non è un problema difficile mettere insieme questi due concetti e mostrare la relazione tra “popolo” e “crescita”: dapprima l’uomo vede il fiorire della vegetazione, la sua capacità di uscire dalla terra, di espandersi nell’aria. Quando un gruppo sociale, riflettendo su di sé, vede la propria capacità di sopravvivere e, per così dire, di uscire dalla situazione chiusa e oscura imponendosi sul contesto in cui si trova, scorge un’affinità tra la libera espansione vegetale, arborea, e il proprio saper stare nell’aria, tenendo lontano ciò che impedisce il permanere nella vita (cioè uscendo dai vincoli che per la vegetazione sono i vincoli tellurici, mentre per il popolo sono i vincoli costituiti dai gruppi sociali antagonisti, dal pericolo della natura e via dicendo). Ecco allora che l’apparente discrasia tra la radice leuth in quanto genitrice di un gruppo di parole che significa popolo e la radice leuth in quanto genitrice di quel gruppo di parole che significa crescita, allude a un paradosso soltanto apparente. In realtà l’uomo si vede fiorire come vede fiorire la vegetazione: libera dai vincoli. “Vincolo” è un’altra parola latina che viene da vincio che significa “lego”, “costringo”. Ecco: tanto il vegetale quanto il gruppo umano sono liberi dai vincoli. Questo per quanto riguarda le parole latino-greche che abbiamo nominato prima (liber e ἐλεύθερος, eleútheros).
3Passiamo ora all’altro gruppo di parole: frei e free. In questo caso, apparentemente, la lontananza è ancora maggiore, però credo che si possa vedere senza eccessiva difficoltà in che cosa consista la congruenza tra questi due termini. Anche qui invochiamo la glottologia, perché prima di sentire il contenuto sapienziale espresso col linguaggio, è il linguaggio stesso che si costruisce esprimendo una sapienza. Basta scavare appena, o togliere la polvere di una parola, perché si veda subito come il linguaggio esprima una profonda sapienza. Ebbene, la glottologia fa risalire tutto un gruppo di parole anglosassoni, gotiche, slave a una formazione aggettivale che suona così: priaios, che vuol dire “caro”, “amato”, e anche in questo caso, apparentemente, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a un significato che non ha nulla che vedere con i concetti di “popolo” e di “crescita” di cui parlavamo prima. Eppure, basta riflettere sulla circostanza che ciò che appare caro è ciò rispetto a cui ci accingiamo a far sì che non sia ostacolato dall’ambiente, da avversari o da nemici. “Caro” è ciò che siamo disposti a lasciar essere nel suo espandersi e che, proprio perché ci sta a cuore, trova in noi dei difensori che ne custodiscono l’amabilità. Allora, da capo, ci troviamo di fronte a ciò che, in quanto caro, è lasciato libero da vincoli ed è favorito nel suo liberarsi.
4Da tutto ciò emerge che, se anche la formazione linguistica di questi due gruppi di parole suona, dal punto di vista fonetico, assai diversa, essi finiscono per indicare qualcosa di analogo, cioè la liberazione dal vincolo. In questo contesto “liberazione dal vincolo” vorrebbe dire che, innanzitutto, la parola “libertà” significa “liberazione da”. E qui ci troviamo tutti a casa nostra, in quanto sia il cosiddetto liberismo socialista, sia il liberalismo classico hanno sottolineato da tempo il concetto di “liberazione” come liberazione da e liberazione di (come libertà da e libertà di). Vista dalla prospettiva socialista la libertà viene infatti intesa come libertà da ogni oppressione di carattere politico o economico e quindi, da questo punto di vista, come libertà dalla ossessiva presenza dello Stato rispetto all’individuo vivente. Vista invece dal punto di vista liberale – e dato che siamo a Torino non possiamo non citare Norberto Bobbio – la libertà da non è ritenuta sufficiente e chiede di essere declinata anche secondo le forme della libertà di: se intendo fare qualcosa e non c’è alcun ostacolo ma, d’altra parte, non ho la potenza di fare ciò che mi propongo di fare, rimango impotente. Di qui l’esigenza della concezione liberale della società che la libertà da sia unita alla libertà di.
Elogio della tecnocrazia?
5Arrivati a questo punto ci troviamo soltanto alla superficie del problema ma, poiché avverto una sorta di sospensione, di pausa in relazione allo sviluppo del discorso, mi preme dire fin da subito che la mia conversazione potrà sembrare una sorta di elogio della tecnocrazia, ma non lo è. Perché a questo punto si parli di tecnocrazia non è chiaro e mi propongo di chiarirlo. Ma se il discorso nel suo insieme sembrerà un elogio della tecnocrazia, vorrei che si tenesse presente che il riconoscimento del peso decisivo della tecnica oggi non rappresenta l’ultima parola. Oggi il nostro è il tempo in cui la tecnica è destinata al dominio, ma arriverà anche il tempo nel quale la tecnica dovrà rendere conto della sua dominazione, e un discorso di questo genere non può essere inteso come tecnocratico. Certamente ora stiamo andando verso un tempo dove la forma suprema di libertà è la libertà della tecnica, e per questo mi propongo di far capire la logica di tale tendenza. Ma una volta che avrò sviluppato tale discorso non si pensi che si stia perorando una sorta di definitiva affermazione della tecnica sul pianeta1.
6Mi sia concessa ancora una piccola digressione: quando ci si rammarica che l’Unione Europea si è costruita sul fondamento di una concezione tecnocratica della società umana, credo che si sia fuori campo. È infatti auspicabile che il tempo in cui ci troviamo a vivere sia il tempo del prevalere della tecnica su quelle grandi forze che, tradizionalmente, siamo portati a considerare come paladine della libertà, ossia la democrazia piuttosto che il socialismo o la religione. Queste sono solo alcune delle voci che normalmente riconduciamo al concetto di libertà, ma ne potremmo nominare altre a esse collegate, per esempio la libertà di intrapresa (e quindi abbiamo che fare con la dimensione economica). Ora, tutte queste diverse forme di libertà – la libertà democratica, la libertà capitalistica, la libertà religiosa e poi anche quella forma di libertà tipica del socialismo liberale, ecc. – sono tra di loro conflittuali.
7Kant diceva che la libertà di un individuo non può spingersi fino a invadere il campo della libertà altrui, ma questo discorso non torna quando si ha che fare con le forme culturali della libertà. Dovremmo forse immaginare che la libertà democratica non debba spingersi fino a invadere la libertà capitalistica? Ma la democrazia vuole, propriamente, un tipo di società – e un tipo di libertà – che non solo è diverso ma che confligge con l’idea capitalistica di libertà. Ognuna di queste forze – democrazia, capitalismo, cristianesimo, socialismo reale, ma potrei parlare anche dell’Islam – vuole realizzare un tipo di mondo che è diverso e conflittuale col tipo di mondo che le altre forze intendono realizzare. E lo scopo che ognuna di queste forze intende realizzare guida e regola i mezzi che servono a realizzarlo, in modo tale che i mezzi che servono, per esempio, a realizzare una società capitalistica siano vincolati da tale scopo, dove dunque lo scopo è libero rispetto ai mezzi di cui si serve (laddove i mezzi sono invece vincolati allo scopo). Ecco perché ho parlato di libertà, perché lo scopo che ognuna di queste forze intende realizzare è libero rispetto ai mezzi di cui si serve per costituirsi, anche se è in conflitto con le forme alternative di libertà.
8Il conflitto c’è, ed è inutile nasconderselo. Quello che vuole il capitalismo non è quello che vuole la democrazia, anche se in questi giorni sentiamo dei discorsi molto interessanti e sembra che gli economisti siano diventati tutti cattolici, rispettosi della Chiesa cattolica. Tremonti parla di una società in cui si tenga conto del bene comune, Monti fa un discorso analogo, ma è caratteristico come entrambi puntino su un tipo di capitalismo che non è il capitalismo quale resta definito dal proprio scopo. Visto che ho citato Tremonti e Monti, e visto che la Banca Intesa ha che fare con l’organizzazione che ci ospita, non dimentico l’amico Bazoli2, il quale ha scritto recentemente un libro nel quale si riferisce più o meno alla sostanza del discorso che sto facendo adesso. Quel suo pur interessante ragionamento, che riprende l’insegnamento della Chiesa per quanto concerne il rapporto tra cristianesimo e capitalismo, non è capitalismo. Ogni azione resta definita dal suo scopo e il capitalismo non è un’opera pia, non è no-profit; il capitalismo resta definito dal proprio fine, che consiste nell’incremento del capitale (pur tenendo conto di quel tentativo di deviare il concetto di scopo del capitalismo in direzione marginalistica).
9Il capitalismo, non volendo porgere anche l’altra guancia, ha come scopo l’incremento indefinito del profitto privato, non ha come scopo il bene comune della società. La libertà dell’intrapresa consiste nell’incremento indefinito del profitto privato e quando si comincia a dire che la libertà intesa in questo senso dev’essere associata all’eguaglianza si nega, di fatto, il capitalismo stesso. E questa, in fondo, è la sostanza implicita del discorso che la Chiesa cattolica fa quando afferma che la libertà di intrapresa dev’essere associata all’eguaglianza; anche se esplicitamente non lo dichiara, dice al capitalismo di non essere più capitalismo, poiché un agire è definito dal suo scopo e se si modifica lo scopo di un agire, l’agire cambia.
10L’esempio che mi piace fare per chiarire quest’ultima affermazione è il seguente: altro è farsi accompagnare da una signora in macchina per andare a sentire della musica a teatro, altro è andare a sentire musica a teatro per stare insieme alla signora in macchina. Sono due azioni apparentemente uguali, i due vanno a teatro, però la differenza dello scopo fa sì che siano essenzialmente diverse. Se lo scopo che definisce il capitalismo è l’incremento del profitto allora mettere insieme incremento del profitto ed eguaglianza significa costruire una terza via che non è più quella capitalistica.
11Il rapporto tra l’incremento del profitto e l’uguaglianza può essere però anche invertito, dove il primo si pone come scopo e si serve dell’eguaglianza. Un tempo Abete, presidente della Confindustria, diceva: «Abbiamo capito che per produrre ricchezza occorre che ci sia consenso nella produzione della ricchezza e il consenso richiede l’eguaglianza dei lavoratori». Questo vuol dire che l’eguaglianza serve alla buona salute dell’incremento del profitto. È chiaro che, come oggi si dice (ed è ormai un luogo comune), la moralità nell’impresa favorisce la fioritura economica dell’impresa stessa; quando si dice questo, si dice che bisogna essere buoni per essere ricchi. A questo punto, però, la morale protesta perché essere buoni per essere ricchi è cosa profondamente diversa da quanto insegnava già Aristotele, e che poi la Chiesa in qualche modo ha ripreso, ovvero la dottrina dell’essere ricchi per essere buoni. Quando Aristotele considera il rapporto tra bontà e ricchezza, intende la ricchezza come il mezzo che consente la vita buona di quell’uomo privilegiato che è il signore. Ma oggi, parlando di bene comune, la Chiesa intende che la ricchezza debba favorire la vita buona di tutti e inevitabilmente sollecita il capitalismo a cambiare natura.
12Potremmo continuare in questa elencazione di forme (miste) di libertà che apparentemente, almeno a leggere i mass media, esprime il cosiddetto “politicamente e moralmente corretto”; sembra che tutto sia un andare d’accordo (a parte le discrasie di tipo immediatamente politico, poniamo centrodestra/centrosinistra), ma, se si riflette meglio sulla cosa, è difficile mettere in discussione quanto stiamo delineando ora: tante sono le forme di volontà di organizzazione della società, tante sono le occasioni di conflitto.
13Restiamo sulla differenza tra democrazia e capitalismo. Rispetto al capitalismo si continua a deprecare la deregulation che, tempo fa, era stata il cavallo di battaglia degli economisti. Ai loro occhi, dopo le orge del Welfare State, quella deregulation rappresentava un buon modo di pensare a come produrre la ricchezza lasciando da parte le ubbie moralistiche. Questo modo di intendere il capitalismo oggi è in crisi. Si invoca nuovamente Keynes e Schumpeter e si considera tale deregulation come essenzialmente conflittuale rispetto a una volontà democratica che vuole che lo scopo di una società – e quindi che vuole un tipo di libertà di quella società – non sia l’incremento del profitto privato (profitto che poi i politici si impegnano a redistribuire), ma l’assenza di vincoli posti all’agire individuale, laddove la ricchezza di tipo capitalistico questi vincoli li pone. Anche in questo caso il diverso scopo modifica la natura dell’agire, che non è più espressione della forza capitalista, ma una sua forza antagonista. E un discorso analogo potrebbe essere sviluppato analizzando il rapporto tra altre forme di volontà di istituzione di un certo tipo di società, le quali rappresentano ciascuna altrettante forme conflittuali di libertà.
La natura della tecnica
14Ancora non è venuto fuori il convitato di pietra di questa nostra riflessione, cioè la tecnica. Prima avevo detto che saremmo arrivati a parlare della tecnica. Anche qui va precisato che, contrariamente a quanto molti a tutt’oggi sostengono, la tecnica non è il capitalismo. Accenno solo a un motivo di questa separazione-opposizione di tecnica e capitalismo. Per tecnica intendo l’insieme di strumentalizzazioni approntate sotto la guida della scienza moderna. Affinché il capitalismo viva, è necessaria la perpetuazione di una scarsità media delle merci. Se una merce portata sul mercato c’è, ma si dà in modo tale che è a disposizione di tutti anche se non fosse portata sul mercato, allora non esiste intrapresa capitalistica. Se il capitalismo volesse produrre l’aria – per ora, almeno, l’aria è a disposizione di tutti – non ci sarebbe alcuna convenienza a costruire un’impresa che venda aria. Questa sarebbe la scarsità totale della merce. Ma non c’è neanche impresa se la merce che si intende vendere è totalmente assente, non c’è mercato e quindi occorre che la merce portata sul mercato sia mediamente scarsa. Di qui l’interesse dell’intrapresa capitalistica a mantenere la scarsità media della merce. Di qui, anche, quegli episodi estremamente interessanti per cui il sistema capitalistico, che, ripeto, non è un’opera pia (e dal suo punto di vista fa bene a non essere un’opera pia), rallenta la produzione di quel tipo di merci che non hanno compratori e incrementa quel tipo di merci che invece hanno compratori. Questo bilanciamento operato dal capitalismo è quello che consente la perpetuazione di ciò che ho chiamato scarsità media di merce portata sul mercato. E oggi il capitalismo come produce la merce? Certamente servendosi della tecnica guidata dalla scienza moderna.
15È interessante rilevare che quando il capitalismo nasce non si serve di strumenti diversi da quelli dell’economia feudale. Chi ha studiato la nascita delle forme di produzione capitalistica sa che gli strumenti, le tecniche usate dalle prime forme di capitalismo sono pressappoco le stesse tecniche usate dall’economia feudale. Dove sta la differenza? Nello scopo, perché nell’economia feudale la produzione della ricchezza ha come scopo il buon vivere del signore, nell’economia capitalistica l’incremento del profitto ha come scopo la saldatura del circolo per cui il capitale, inizialmente impiegato e aumentato, alla fine di quel circolo viene reimpiegato nuovamente nel medesimo circolo economico. Quindi è lo scopo a determinare inizialmente la differenza tra produzione economica della ricchezza e produzione capitalistica della ricchezza.
16Oggi invece, ciò che determina la differenza tra produzione capitalistica e non capitalistica è la tecnica guidata dalla scienza moderna. Ma anche tra tecnica e capitalismo sorge inevitabilmente un conflitto (qui potremmo parlare di capitalismo nel suo insieme planetario e di tecnica nel suo insieme planetario). Da un lato il capitalismo è interessato a promuovere quel tipo di libertà che si regge sulla perpetuazione della scarsità media della merce; dall’altro lato la tecnica – ovvero l’apparato tecnologico di cui l’intrapresa capitalistica si serve – ha un altro scopo. E dire che la tecnica ha un altro scopo vuol dire che la tecnica propone un altro tipo di libertà. Se proviamo a interrogare l’amico tecnico su cosa vuol fare da ultimo, la risposta del tecnico, dopo un periodo di incomprensioni linguistiche, sarà più o meno la seguente: «Voglio aumentare la capacità dell’uomo di produrre mezzi, di conseguire scopi. Mi propongo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi». Questo discorso intende dire: «Mi propongo un aumento indefinito della potenza dell’uomo». Ma proporsi un aumento indefinito della potenza dell’uomo ha come sottoprodotto la volontà di eliminare ogni forma di scarsità e quindi anche quella forma di scarsità media che è la condizione per la sopravvivenza del capitalismo. Quindi lo scopo, la forma di libertà che il capitalismo vuole raggiungere è contrastato dai mezzi di cui il capitalismo si serve, cioè è contrastato dalla volontà della tecnica di eliminare ciò per cui il capitalismo sopravvive.
17La tecnica, dunque, si definisce in base al suo proposito di incrementare all’infinito la potenza a disposizione dell’uomo. Si badi, tale incremento infinito della potenza non è un cieco voler fare, come qualcuno mi obietta. Rendere sempre più potente l’azione dell’uomo non è un agire a vanvera. È un agire che mira al potenziamento indefinito, producendo ricadute sul modo in cui l’uomo vive, sulla società che costruisce. Il capitalismo si serve pertanto di uno strumento che mira alla distruzione del capitalismo stesso.
18Questo conflitto, che abbiamo constatato più da vicino tra libertà della tecnica e libertà del capitalismo lo ritroviamo anche tra le altre grandi forme della libertà promosse dalla tradizione occidentale. Oggi ci troviamo in una situazione nella quale le grandi forme della tradizione occidentale continuano a credere di potersi servire della tecnica per la produzione dei loro scopi, cioè per la promozione del loro tipo di libertà. La democrazia, per esempio: anche la democrazia, infatti, intende servirsi della tecnica, così come ieri il socialismo reale intendeva servirsi della tecnica al pari, l’abbiamo appena visto, del capitalismo. Il cristianesimo non fa eccezione: oggi non è più perseguibile da parte della carità cristiana l’atteggiamento del “non sappia la mano destra quello che fa la mano sinistra”, perché oggi la carità cristiana (e la Chiesa su questo punto parla molto intelligentemente) non può più essere una faccenda privata. Si tratta di salvare i popoli poveri, di liberarli. E la salvazione dei popoli poveri richiede che la mano destra sappia molto bene quello che fa la sinistra, cioè richiede l’organizzazione tecnologica della carità.
19La tecnica, però, non accetta questo ruolo subalterno. Pensiamo al socialismo reale. Esso non poteva non servirsi della tecnica, ma proprio l’espansione della tecnica ne ha decretato la fine. Si osservi: quelle diagnosi per cui il socialismo reale sarebbe andato all’altro mondo perché stava per diventare capitalismo, oppure quelle interpretazioni per le quali il crollo del socialismo reale sarebbe dovuto all’azione encomiabile di Giovanni Paolo II (il quale avrebbe favorito il diffondersi del cristianesimo in Russia), non colgono il vero motivo del crollo. Il motivo del crollo lo aveva invece intravisto con assoluta chiarezza Solženicyn, grande scrittore e ingegnere, il quale diceva ai dirigenti sovietici: «Badate che la vostra prospettiva filosofico-ideologico-marxista mette il bastone tra le ruote della tecnica e non riuscite più a essere concorrenziali rispetto alla tecnologia americana. Liberatevi dunque dal marxismo. Lasciate pure che lo Stato russo sia uno Stato totalitario, ma liberatevi dalla filosofia, da quella forza che alimenta tutte le tradizioni del passato e che impedisce la concorrenzialità della tecnologia sovietica rispetto a quella americana». È stato cioè per stare al passo della tecnologia americana che in Russia è crollato il socialismo reale, e i fatti lo stanno sempre più dimostrando. Permettetemi un piccolo peccato d’orgoglio. Io lo dicevo già alla fine degli anni ottanta: è per liberarsi da questo inceppamento che l’Unione Sovietica ha lasciato andare nell’Ade il materialismo dialettico marxista.
20Tornando al nostro discorso possiamo riassumere la situazione attuale in questo modo: ci sono in circolazione una molteplicità di concetti di libertà tra di loro antitetici, ma tutti d’accordo nel volersi servire della tecnica per realizzare i loro scopi, e cioè per realizzare la propria forma di libertà. Sennonché è proprio questa conflittualità a determinare il rovesciamento del rapporto tra mezzo e scopo. Intendo dire che una situazione conflittuale dove gli elementi, le forze antagoniste si servono tutte di una frazione dell’apparato scientifico-tecnologico planetario, rappresenta una conflittualità instabile, tale per cui una forza a un certo momento si trova ad avere più spazio di un’altra, ad avere più libertà di un’altra. È inevitabile che in una simile situazione – oggi resa ancor più drammatica dalla presenza dell’Islam, della Cina (dove si sta combinando in un modo straordinariamente inedito il capitalismo con il comunismo) e di nuove forze economiche emergenti (si pensi al Brasile) – prevalga chi meno ostacola la tecnica. Infatti, le forze confliggenti si trovano a un certo momento in uno stato di inferiorità (l’Europa sta correndo questo rischio) e vengono pertanto sopravanzate da chi gestisce la tecnica in modo da non ostacolarla. A loro volta, per non soccombere, anche le forze che hanno patito tale inferiorità si trovano costrette a non mettere il bastone tra le ruote nel funzionamento ottimale dello strumento tecnologico; facendo cioè quello che hanno fatto il marxismo e, in qualche modo, il nazionalsocialismo, il quale avrebbe avuto una forza di resistenza maggiore alla tecnica rispetto alle democrazie occidentali se non si fosse impantanato in quell’atteggiamento antiebraico, in quella apologia stantia di carattere ideologico che l’ha invece caratterizzato (se fosse stato quello che Heidegger credeva che fosse, cioè l’autentica emancipazione della tecnica che non si lascia arrestare dalle forze tradizionali). A ogni modo anche il nazionalsocialismo ha avuto la sorte che ha avuto, perché in modo analogo al marxismo ha messo il bastone tra le ruote della pur formidabile frazione di tecnicità di cui disponeva.
21Se la situazione è mobile, se il rapporto di forze oggi esistente è variante, ogni forza è impegnata a far sì che il funzionamento della frazione di apparato tecnologico di cui si serve sia il più ottimale possibile. Facendo questo è chiaro che si va rinunciando progressivamente a realizzare quella specificità ideologica che caratterizza le diverse forze in campo. Io capitalista, per batterti, sono costretto a rinunciare a qualcosa del mio capitalismo e tu sostenitore della democrazia, per battermi, sei costretto a rinunciare a qualcosa della tua democraticità. Ma quando la forza che si serve della tecnica si propone di non essere qualcosa che ostacola il funzionamento della tecnica, allora accade che la tecnica da mezzo divenga scopo. Cioè, lo scopo dichiarato resta quello di disporre di ciò che consente a quella determinata forza di realizzare i propri fini ideologici, ma, a questo punto, l’originario scopo ideologico diviene di fatto un mezzo per realizzare l’incremento della potenza.
22Torniamo al capitalismo da cui abbiamo preso le mosse: oggi si crede (e accadrà ancora per molto) che il capitale si serve della tecnica e che quindi la tecnica serve per realizzare quella forma di libertà che è l’incremento del profitto ma, in realtà, stiamo andando verso una situazione in cui sarà il capitale a servire l’incremento della potenza3. Credo che se discutessimo un poco, vedremmo già le anticipazioni di questa situazione. Per esempio nella stessa politica americana: crediamo proprio che la potenza americana abbia fatto quello che ha fatto, mettendo le mani sul Medio Oriente, sull’Iraq, sull’Afghanistan, per favorire gli interessi delle Sette Sorelle? Oppure non pensiamo piuttosto che gli Stati Uniti capiscano la necessità di affermarsi come potenza, servendosi della ricchezza delle compagnie petrolifere?
23Dunque, stiamo andando verso una situazione in cui sarà la tecnica a servirsi del capitale. Analogamente sarà quella forma di libertà in cui la tecnica consiste non a eliminare, ma a servirsi della religione, della democrazia e del capitalismo. Ma, in fondo, non sta già accadendo adesso? Pensiamo a quello che si diceva poco fa relativamente all’intrapresa economica che vuol servirsi della morale. Si dice infatti: «Siate onesti perché così farete più soldi», che è cosa ben diversa dal dire «Fate soldi perché così potrete essere onesti». Quindi, questo rovesciamento che varia il senso dell’esistenza umana è già in atto.
Dominare la tecnica: la grande illusione
24Abbiamo accennato all’inevitabilità del conflitto tra le diverse forze che si contendono il primato quanto al modello di libertà che deve informare la società. In realtà, però, le lotte che oggi occupano i mass-media – quella tra capitalismo e democrazia, quella tra laicismo e religiosità, ecc. – sono lotte di retroguardia rispetto alla lotta vera e propria che non è tra le diverse concezioni di giustizia, ma vede le diverse concezioni di giustizia come ostacolanti l’affermazione dell’incremento della potenza. Da questo punto di vista, per esempio, la giustizia cristiana e la giustizia islamica, che pure sono differenti, non stanno una da una parte e l’altra dall’altra parte della barricata. Il vero problema, oggi, nonostante quello che dicono certi grandi e molto nominati interpreti della situazione contemporanea, quali per esempio Huntington, non è che ci sia uno scontro di civiltà in atto per cui la giustizia cristiana si contrappone alla giustizia islamica4. Cristianesimo e islamismo stanno dalla stessa parte della barricata, perché dall’altra parte c’è una tecnica che spinge per oltrepassare ogni limite ideologico. A questo punto, però, occorre forse chiarire cosa intendo con la parola “tecnica” in questo contesto. Qui la “tecnica” di cui parlo non è la tecnica quale è concepita dalla scienza, cioè non ha nulla che fare con il significato tecnicistico-scientistico-fisicalistico-riduttivistico. La tecnica che si esprime nell’apparato tecnologico-scientifico, infatti, non riesce, di per sé, a svincolarsi dai limiti imposti dai diversi criteri di giustizia (dalle diverse forze ideologiche). E infatti da più parti si dice alla scienza che vi sono limiti che non possono essere superati. Questo avviene nel caso del cristianesimo rispetto a determinati ambiti della ricerca (dove si dice, essendo persuasi della verità di ciò che si va affermando, che per essere giusti occorre rinunciare all’incremento indefinito della potenza); ma analogamente avveniva in Unione Sovietica, dove si riteneva giusto continuare a essere marxisti, rinunciando al dispiegamento illimitato della tecnica; e questo era possibile perché si credeva nella verità di un progetto di società senza classi.
25Quando però il concetto di verità tramonta, allora la volontà di realizzare una società senza classi resta esposta alla volontà di potenza. Ecco allora che viene chiarendosi quella mia affermazione secondo la quale la “tecnica” a cui alludo in quanto antagonista alle diverse idee di giustizia non è la tecnica ingenuamente intesa: perché la tecnica di cui parlo è data dalla sintesi di due forze emergenti. Da un lato il dispiegarsi dell’apparato scientifico tecnologico che però, da solo, non è in grado di opporsi a quelle forme (pur nobili) della tradizione (pensiamo al cristianesimo) che gli impongono dei limiti inoltrepassabili in quanto la natura umana non può essere violata. In questo senso la tecnica ingenuamente intesa è un colosso incapace di rispondere alla volontà di giustizia che rivendica la superiorità della propria verità. Sennonché, dall’altro lato, c’è un altro protagonista che dà voce alla tecnica, ovvero la critica che il pensiero filosofico muove alla tradizione. Tale protagonista è ciò che io amo definire il sottosuolo essenziale del pensiero filosofico degli ultimi due secoli, e tale protagonista afferma in modo perentorio che non vi sono limiti inviolabili. Ora: quando l’ammonimento tragico della morte di Dio (cioè la morte della verità stabile e delle norme inviolabili) si incontra con l’apparato scientifico-tecnologico, ecco che la filosofia, contrariamente a quanto si crede, mostra il suo lato “pratico”, la sua concreta efficacia sul mondo, in quanto dà potenza alla tecnica, la rende capace di fare, cioè di non arrestarsi di fronte ad alcun limite. La tecnica – sempre intesa nel senso ingenuo – è come un uomo che ha le gambe ma che non sa di averle. La filosofia, o meglio, il sottosuolo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo dice allora alla tecnica «tu hai gambe tali che ti possono far saltare al di là di ogni limite». Qui si decide tutto! Il problema vero è se vi sono o meno dei limiti alla volontà tecnologica di ampliare indefinitamente la propria potenza.
26La critica degli immutabili dice alla tecnica che può violare ogni limite perché non vi è alcun limite veramente inviolabile, tranne forse il limite della fisicità dell’uomo, tolto il quale verrebbe meno la tecnica stessa e noi sappiamo che la tecnica potrebbe anche giungere a distruggere l’uomo, negando così se stessa (così come rischia di fare il capitalismo in quanto distruttore della terra).
27Alla luce di quanto stiamo dicendo, si capisce come alla fin fine il desiderio di dominare la tecnica si rivela un’illusione. E tale rimane anche qualora si costituisse una élite tecnocratica che provasse a usare le proprie competenze tecniche per imporsi sulle masse. Anche in questo caso l’uso della tecnica rappresenterebbe un limite al pieno dispiegamento della volontà di potenza e anche un simile limite verrebbe inevitabilmente oltrepassato. Chi crede di poter usare sarà in realtà usato. In questo senso il capitalismo, la democrazia, la religione diventeranno strumenti della tecnica e, in quanto tali, verranno trasfigurati. Da scopo a mezzo, dunque, e mezzo al servizio di quello che io chiamo il realizzarsi del paradiso della tecnica, nel quale almeno i bisogni primari dell’uomo vengono soddisfatti. Tale paradiso, e questo è l’ultimo passaggio, ha però un lato oscuro. Il paradiso della tecnica, quel paradiso in cui sembra potersi realizzare la felicità dell’uomo, si raggiunge sulla base del sapere scientifico, il quale è strutturalmente un sapere ipotetico. Ma tanto più si è felici tanto più si ha paura di poter perdere la felicità che si possiede. Col crescere della felicità cresce dunque anche il timore di perderla e qui il paradiso della tecnica mostra il suo lato infernale perché è una felicità costruita sulla non-verità. In questo senso la tecnica dovrà render conto di sé e per questo dicevo che il mio discorso non deve venir inteso come un elogio della tecnocrazia. Verrà un giorno (magari tra un secolo o più) in cui la tecnica dovrà rispondere del proprio dominio. Ma per ora tutto ciò è prematuro. Noi siamo appena in cammino verso il paradiso della tecnica.
Il volto nichilistico della libertà
28Concludendo, voglio alludere ad alcuni tratti riguardanti il significato ultimo della libertà. La potenza della tecnica realizza la forma suprema di libertà e coloro che si rammaricano che la tecnica sia disumana, non tengono conto della circostanza che l’uomo è sempre stato definito come un “essere tecnico”, e questo anche da parte di coloro che hanno inteso enfatizzare l’uomo mistico. Che cos’è infatti l’uomo in tutta la tradizione occidentale, e quindi compreso il mistico che lascia che Dio lo invada e lo salvi? Anche l’uomo mistico è un uomo tecnico perché sa che, aprendo le braccia e non facendo nulla (a differenza e differentemente dall’uomo faber), lasciando cioè che Dio entri in lui, il mistico realizza una potenza infinitamente superiore a quella dell’uomo faber, il quale sarà potente in questo mondo, ma non certo nella gloria dei Cieli. Attenzione, però: in questo modo si va profilando una situazione in cui dapprima l’uomo dice a Dio «Salvami!», dove lo scopo è la salvezza e la salvezza è la libertà suprema dell’uomo. Poi l’uomo inizia a rendersi conto che se Dio è lo strumento che deve servire alla produzione della sua salvezza, allora la presunzione dell’uomo di tenere nelle proprie mani il Dio salvatore è fallimentare, perché proprio il fatto che un Dio stia nelle mani dell’uomo che ha bisogno di essere salvato è un Dio debole, è un Dio inefficace. Allora, quando l’uomo matura tale consapevolezza, non dice più «Dio salvami», cioè «Fa la mia volontà», ma dice «Sia fatta la Tua volontà», perché capisce che facendo la volontà di Dio, la salvezza ricadrà su di lui; perché se Dio serve a soddisfare la mia volontà di salvezza io non sarò mai salvo in quanto, ripeto, ciò che sta nelle mie mani non può che essere debole.
29Oggi l’uomo dice alla tecnica «Salvami!», cioè si riproduce nei confronti della tecnica il rapporto dell’uomo rispetto a Dio. E l’uomo sta capendo, da capo, che se la tecnica è una sorta di demone nelle mani dell’uomo, è un demone inceppato, limitato da quei vincoli di cui parlavamo prima. La tecnica è impotente se deve a sua volta servire a salvare l’uomo. E così andiamo verso il tempo in cui l’uomo si renderà conto che anche alla tecnica va detto quello che, un tempo e ancora oggi, qualcuno dice a Dio: «Sia fatta la tua volontà, non la mia volontà». Pensiamo nuovamente al mistico: egli è forse il più saggio di tutti, perché non sta a fabbricare i mezzi, ma lascia o vuole essere invaso dalla potenza suprema del Divino, perché sa che solo facendo in questo modo potrà raggiungere quella felicità che altrimenti gli sarebbe preclusa.
30Alla luce di quanto sin qui accennato si capisce allora come, da questo punto di vista, la tecnica sia disumana rispetto alle concezioni ideologiche dell’uomo. È disumana rispetto alla concezione cristiana dell’uomo, rispetto alla concezione democratica dell’uomo, rispetto alla concezione comunista dell’uomo. Ora, tutte queste varie forme di concezione dell’uomo, che sono forme di volontà di libertà specifica, hanno nel loro fondamento un comune denominatore, cioè tutte intendono l’uomo come forza cosciente, capace di organizzare mezzi in vista di una produzione di scopi. Ma l’uomo definito così è tecnica e se ci mettiamo in questa prospettiva il trionfo della tecnica rappresenta allora l’umanizzazione piena dell’uomo. Per tali ragioni, oggi che si stanno prendendo le distanze (e questo è l’aspetto tragico della nostra civiltà) dal passato, l’uomo autentico capace di adeguarsi alla tecnica non potrà sentirsi limitato dalla tecnica. Questo per quanto riguarda la disumanità della tecnica, la quale porta all’estremo quella capacità di produrre le cose che dapprima era propria di Dio.
31Dato che siamo a Torino, dove lo studio di Dostoevskij è stato particolarmente curato, chiudo richiamando la leggenda del grande inquisitore5: Gesù torna sulla terra a Siviglia e fa rinascere una morta. Il grande inquisitore lo fa allora arrestare e rinchiudere in carcere. Lì avviene quel colloquio straordinario in cui il grande inquisitore dice a Gesù: «Io non sono più con te, sono con lui». E chi è lui? Dostoevskij, o meglio Ivan che sta parlando, spiega: «È lo spirito della distruzione, è lo spirito del non-essere, è lo spirito del nulla». Il grande inquisitore dice dunque a Gesù: «Tu sei venuto a portare il disordine perché vuoi la libertà, tu vuoi che gli uomini siano liberi, ma il peso maggiore per l’uomo è proprio la libertà. Io amo gli uomini più di te, perché con la morte non c’è più nulla, ma almeno li lascio sperare». Qui Dostoevskij non ha citato (forse è questione di buon gusto) quella gran persona di Eschilo, dove Prometeo afferma di aver portato agli uomini cieche speranze.
32Ma io mi chiedo: è proprio vero che lui, lo spirito delle tenebre, lo spirito della distruzione, è poi così lontano da Gesù? Chiudo sollevando il problema – e sollevare il problema vuol dire che abbiamo fatto soltanto tre passi nella direzione del problema autentico circa il senso della libertà – perché lo spirito della distruzione della morte è lo spirito che, in quanto è spirito della distruzione, è anche spirito della costruzione. Si distrugge in quanto di costruisce. Si costruisce in quanto si distrugge. Ogni distruttore è un costruttore e viceversa. Se non altro il distruttore stabilisce una spianata che era inedita quando fiorivano le cose che egli ha distrutto. Lo spirito negativo, lo spirito della distruzione è cioè lo spirito che conduce le cose dal non-essere all’essere e l’essere al non-essere.
33Gesù rappresenta una delle più formidabili concezioni della produzione e distruzione delle cose. In questo produrre e distruggere le cose, queste ultime sono intese come libere dall’essere e dal non-essere; questa è la forma superiore di libertà che include anche la tecnica. Oggi la tecnica è il modo più radicale di intendere questa più profonda libertà ontologica per cui l’agire dell’uomo libera le cose dal loro nulla facendole essere e libera le cose dal loro essere annientandole.
34Ma se così stanno le cose lui, lo spirito della distruzione, è troppo vicino a Gesù, che esprime quella produzione distruttiva che è espressa innanzitutto dal concetto di creazione. In fondo il primo tecnico è proprio Dio creatore.
35Il mio invito allora sarebbe quello di avere molti sospetti in relazione a quel buon senso politico-economico per il quale uno dice libertà e tutti battono le mani. Cerchiamo di vedere cosa sta sotto il concetto di libertà e cerchiamo di mantenere aperto il problema di libertà prima di aver fretta di indicare le soluzione e di dire come il problema si risolve.
Notes de bas de page
1 Per un più ampio confronto col tema della tecnica si veda: E. Severino, Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rusconi, 1979; Id., Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998 e Id., Tecnica e architettura, Milano, Cortina, 2003.
2 E.W. Böckenförde e G. Bazoli, Chiesa e capitalismo, Brescia, Morcelliana, 2010.
3 Cfr. E. Severino, Il declino del capitalismo, Milano, Rizzoli, 1993.
4 Cfr. S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Milano, Garzanti, 2000.
5 Cfr. F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Milano, Garzanti, 1979, vol. I, pp. 263-282.
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