4. Apparire, diventar altro, decidere
p. 100-120
Texte intégral
Sul tema dell’apparire
1Iniziando questo nostro incontro vorrei provare a colmare almeno qualche lacuna delle moltissime che resteranno aperte dopo le precedenti. Partirei dal tema dell’apparire. Un concetto di cui abbiamo già fatto importanti accenni richiamando le figure di Husserl, di Gentile e dello stesso Heidegger. Un concetto di cui la scienza farebbe volentieri a meno: dal suo punto di vista, infatti, ci sono i tavoli, gli atomi, i protoni, i neutroni; queste sono le cose reali. Invece, l’apparire che cos’è? Di qui la possibile domanda dello scettico: «Perché introdurre, nel discorso, il tema dell’apparire?». Rispondo: se ci chiedessimo per quale motivo stamattina siamo qui in questa stanza, e non in quella utilizzata ieri, come potremmo rispondere? Se ci tenessimo stretti a Kant, dovremmo dire che la nostra risposta non potrebbe che fondarsi su un giudizio sintetico a posteriori. E qual è il fondamento dei giudizi sintetici a posteriori, ossia qual è il fondamento di quei giudizi il cui predicato non è incluso nel concetto del soggetto? È, risponde Kant, l’unità dell’esperienza. Allora il soggetto (in questo caso noi che siamo qui in questa stanza) e il predicato (appunto il nostro essere qui), così come la connessione tra soggetto e predicato, tutti questi elementi del giudizio sono fondati sull’unità dell’esperienza, la quale mostra, appunto, l’attualità di questa connessione.
2Noi, dopo avere richiamato questa risposta di Kant, potremmo sostenere che il fondamento della condizione in base alla quale possiamo affermare il nostro essere qui – il nostro essere seduti e non in piedi – è l’apparire del nostro essere seduti, la manifestazione, l’esperienza, la sperimentabilità del nostro essere seduti. Solo che l’apparire non è – anche questo l’avevamo detto – la funzione di una mente concepita come cosa tra le cose (il lampo emanato da una mente concepita come cosa fra le cose). Anche rispetto al nostro io, possiamo infatti chiederci: «In base a che cosa ognuno di noi afferma io sono?». In realtà, ciò che va chiarito è come l’esser-io non include, non domina, non controlla il contenuto di ciò che appare, ma la stessa affermazione dell’esistenza (dell’esserci) di un io, la stessa fondazione di quest’affermazione, richiede che l’essere un io sia un contenuto dell’apparire (come questo tavolo, come il muro ecc.).
3Riproponiamo dunque la domanda: «In base a che cosa si afferma l’esistenza di qualcosa come un essere io?». Risposta: per lo stesso motivo per il quale si afferma esserci il tavolo. Questo, si badi bene, non significa affatto una cinica riduzione a tavolo dell’esser io: le differenze, al solito, rimangono nella loro concretezza. Qui si vuol dire che il fondamento dell’affermazione delle cose – tra cui c’è anche la dimensione antropologica (l’esser uomo, l’affermazione che esista l’esser uomo) – è costituito dall’apparire di ciò che chiamiamo, appunto, uomo. Detto ciò, il discorso deve poi proseguire, poiché ormai sappiamo che quanto siamo soliti chiamare uomo è, a sua volta, il contenuto della fede nell’esistenza dell’esser uomo. Fede che riguarda tanto il mio, personale, esser uomo, quanto l’altrui esser uomo.
4L’apparire, dicevamo anche, ha un carattere trascendentale e una volta stabilita l’impossibilità del divenir altro, si deve dire che l’apparire trascendentale – cioè la dimensione che non può essere scavalcata dicendo che c’è un aldilà, perché quell’aldilà rientra, esso stesso, nell’apparire che si vorrebbe scavalcare –, l’apparire trascendentale, dicevamo, non solo non è un divenir altro102, ma il divenire trascendentale non diviene neppure nel senso dell’incominciare ad apparire degli eterni (che dicevamo essere il senso autentico che il variare del mondo acquista una volta che si espunge il concetto di variazione come divenir altro). Cioè sappiamo che la critica al divenir altro – a quell’impossibile che è il divenir altro – non significa la negazione del variare del mondo, ma significa espungere quella fede originaria che sovrappone a ciò che autenticamente appare, il proprio (errato) interpretare tale variare nei termini di un divenir altro.
5Questa fede non mostra ciò che autenticamente appare, ma lo altera, interpretando per l’appunto il variare del contenuto dell’apparire come un divenir altro. Al contrario, qualora la variazione dell’apparire venga lasciata nella sua incontaminata significanza (cioè non alterata dall’interpretazione nichilistica o mortale), il variare del contenuto che appare si rivela per ciò che veramente è (e non può non essere), ovvero come il sopraggiungere degli essenti, e cioè degli eterni, all’interno dell’orizzonte trascendentale dell’apparire.
6Sempre in queste pagine ragionavamo sulla continua variazione degli stati del mondo: basta alzare un dito perché cambi anche il profilo di quell’abete là fuori; basta che io pensi a qualcosa d’altro perché l’abete stesso risenta, quanto al mostrare il proprio significato, di questa variazione che si è prodotta in me. Ebbene, il variare, anche in questo momento, è stato abbondante, e abbondante è stato dunque il sopraggiungere degli eterni. Ma, rispetto a tutto questo variare, ciò che non varia è l’apparire trascendentale. Esso non solo non può diventare nel senso di divenir altro, ma non può nemmeno diventare nel senso del sopraggiungere degli eterni.
7Per dirlo chiaramente: se l’essente in quanto essente è eterno, allora quell’essente che è l’apparire degli essenti è eterno. Ma si faccia attenzione: qui l’apparire di cui andiamo parlando non è l’apparire di un dio che sta là, o di un’anima nascosta. No, l’apparire qui nomina questo disvelamento di tutto ciò che appare. Se prima abbiamo accennato alla noncuranza scientistica per quanto concerne l’apparire, ora dobbiamo aggiungere che questa noncuranza deve essere messa da parte, poiché proprio l’apparire rappresenta il fondamento in base al quale è possibile affermare lo stesso essere uomo dell’uomo. L’apparire di cui andiamo parlando (e in cui consiste la verità autentica dell’essere uomo), l’apparire che diciamo essere apparire degli eterni è, esso stesso, eterno. E dicendo questo aggiungo poi che l’apparire eterno non è un trascendente apparire, ma è questo attuale apparire di cui affermo l’eternità.
8In quanto apparire intrascendibile l’apparire trascendentale non può diventare, nemmeno nel senso in cui diviene il bicchiere che è spostato dal punto A al punto B. Nell’esempio appena richiamato, infatti, si assiste al comparire di un eterno (il bicchiere nel punto B) che ha in comune col bicchiere nel punto A qualche cosa che non ha in comune, invece, col tavolo, col muro o con noi qui presenti. Come si è detto, degli essenti che sono il contenuto dell’apparire si deve dire che il loro variare è il sopraggiungere del loro essere essenti, cioè del loro essere eterni. Dell’apparire trascendentale, invece, non si può predicare neppure un simile variare.
9Se il variare del contenuto è il sopraggiungere di una determinazione x – e cioè di un essente, e cioè di un eterno – allora, una volta escluso che il variare sia il divenir altro (e a maggior ragione sia il diventar nulla), una volta detto questo non si può pensare che l’apparire trascendentale possa variare nel senso in cui varia la determinazione finita x, perché il variare predicato di una qualsiasi determinazione (di un qualsiasi essente) è l’entrare nel cerchio dell’apparire. Ora, se il cerchio dell’apparire variasse in questo senso, dovrebbe esso stesso entrare in un più ampio cerchio e sarebbe dunque quest’ultimo l’autentico apparire trascendentale, mentre quello che presumevamo essere l’apparire trascendentale – se esso stesso sopraggiungesse – sopraggiungerebbe all’interno di ciò che è l’autentico apparire trascendentale. In questo caso, infatti, quello che credevamo essere l’apparire trascendentale sarebbe in realtà l’apparire di un certo numero finito di essenti, ma non della totalità dell’essente che appare.
10Quest’ultima distinzione è essenziale, perché individua la distinzione tra ciò che nei cosiddetti “miei scritti”103, viene chiamato apparire empirico (l’apparire di qualcosa, di una parte di ciò che appare, per esempio l’apparire di un abete104), rispetto a quanto viene detto invece apparire trascendentale (ossia l’apparire della totalità delle determinazioni che appaiono105). Ripeto: se anche di questo più ampio cerchio si dovesse poi dire che sopraggiunge nel senso in cui sopraggiunge x, allora l’autentico apparire trascendentale sarebbe quell’ancor più ampio cerchio che lo include.
11Perché ho affrontato la distinzione tra apparire empirico e apparire trascendentale? Perché può sembrare che una volta affermato che il divenir altro è impossibile, una volta dichiarato che il diventar nulla è impossibile, l’obiezione che l’intera cultura occidentale (e la stessa preistoria della cultura occidentale) immediatamente farebbe, se ascoltasse questo discorso, sarebbe che il divenir altro appare.
12A partire dai Greci il diventar nulla, così come l’uscire dal nulla, è ciò che non può essere posto in discussione. Quindi questo discorso che afferma l’impossibilità del divenir altro (del diventar nulla e dell’uscire dal nulla) sarebbe la più violenta delle negazioni di ciò che appare. Rispetto alla persuasione, propria dell’Occidente, dell’evidenza del divenire nichilisticamente inteso, dobbiamo allora domandarci se l’affermazione dell’impossibilità del divenir altro (e della forma ontologica del divenir altro, ossia del divenir nulla dell’essente) rappresenti una negazione di ciò che appare. Tale affermazione rappresenta una negazione dell’esperienza? La risposta è negativa: negazione di ciò che appare è, appunto, quella che abbiamo detto essere la radice di ogni forma di fede, cioè quella fede originaria che, isolando ciò che sopraggiunge (cioè isolando la Terra dal Destino) è costretta a interpretare la Terra come il luogo del divenir altro, del diventar nulla e del diventar essere a partire dal nulla.
13Prima di proseguire vorrei sviluppare rapidamente un breve inciso, richiamando una terminologia che è propria de La struttura originaria106. Mi riferisco ai concetti di f-immediatezza e di l-immediatezza (che poi vuol dire l’apparire e la struttura della persintassi). Non vorrei infatti che si pensasse che la struttura originaria del Destino sia la giustapposizione di fenomenologia più logica107.
14Se stiamo al discorso fenomenologico di Husserl – e specificatamente a quanto dice a proposito del tema che ci sta interessando adesso – egli parla della sperimentabilità del divenir altro. Il suo discorso è questo: di ciò che esce dall’esperienza non possiamo dire né che sia né che non sia. C’è anche qui una ἐποχή (epoché). A questo punto dobbiamo toglierci il cappello di fronte al solito Aristotele, il quale aveva già detto questo, sostenendo che di ciò che non è contenuto del θεωρεῖν (theoreîn) epistemico (di ciò che non è ἐπιστημωνικόν – epistemonikón), quando esso si sottrae all’orizzonte della θεωρία (theoría) – un modo di nominare l’apparire –, non possiamo dire né che sia né che non sia. Husserl non cita questa straordinaria affermazione aristotelica, ma Aristotele anticipa la sostanza del discorso fenomenologico su questo punto (anche su questo punto)108.
15Ora, il discorso fenomenologico, affermando la possibilità che ciò che esce dall’apparire sia oppure rimanga nulla, ammette la possibilità che l’essente sia nulla. E ammettere la possibilità che l’essente sia nulla, significa appunto ammettere come possibile quell’impossibile identificazione dell’essente col nulla di cui abbiamo parlato. Se è impossibile che l’essente sia nulla, allora è inammissibile la precauzione fenomenologica, la quale dice: «Di ciò che esce dall’esperienza si può sì affermare che continui a esistere, ma si può anche affermare che non esista più». Ripeto: affermare la possibilità che l’essente, non apparendo, non esista più, significa affermare la possibilità dell’impossibile, giacché il non esister più e l’esser nulla è l’identificazione dell’essente e del nulla. Chiudo questa parentesi sollecitata dall’introduzione del termine “fenomenologico” e riprendo il filo del ragionamento.
Sul presunto apparire del divenir altro
16Si parlava della persuasione dell’Occidente circa l’evidenza del divenir altro. Proviamo allora a metterci nei panni del discorso fenomenologico, e di quella fenomenologia che, essendo separata dalla persintassi del Destino, non solo afferma la possibilità che ciò che esce dall’apparire sia nulla, ma afferma anche la necessità che il divenir altro appaia come emergere dell’essere dal nulla, così come ricadere dell’essere nel nulla. Cosa c’è, per esempio, di più evidente del cadavere? Il cadavere dell’uomo sembra la prova vivente dell’annientamento della vita.
17Ci sono poi anche i modi in cui ciò che prima appariva, poi esce dall’orizzonte dell’apparire, e anche tali modi inducono ad affermare, addizionalmente, l’esperienza dell’annullamento (questa volta quanto all’apparire di ciò che più non appare). Altro è che uno si alzi ed esca dalla porta: diciamo che è uscito dall’esperienza attuale, anche se permane come ricordo109, come attesa, ecc. Altro che un corpo umano sia spezzato, bruciato, frantumato, squartato, che divenga cosa che non reagisce più alla volontà altrui e di cui gli altri fanno quello che vogliono; e questo è certamente un diverso modo di uscire dall’apparire. Poi c’è un ulteriore elemento: che certi eventi (e qui è soprattutto l’uomo che interessa, cioè il nostro credere di avere che fare con l’umano) escano dall’esperienza, ma, a memoria d’uomo, non siano più ritornati. Allora, e per il modo in cui si esce dall’esperienza, e per la presunta definitività dell’assenza, cioè del non ritorno, per tutti questi motivi, si afferma la sperimentabilità dell’annientamento e se ne inferisce la necessità.
18Certo i miti parlano della resurrezione, ma intanto ne parlano in relazione a certe forme specifiche; inoltre, se si afferma che la morte è l’uscire definitivamente dall’esperienza, allora chi ritorna non è il morto, il risorto non è un morto. È chiaro che sul fenomeno dell’esser risorto si tenta di ricostruire il concetto di morte in un modo non facile perché da un lato deve essere affermata la definitività dell’assenza, dall’altro lato deve essere affermata la possibilità del ritorno. Tutti noi conosciamo quelle pagine interessanti di Paolo, il quale critica coloro che negano la risurrezione dei morti e dove afferma che se negassimo la resurrezione dei morti non potremmo accettare il fondamento della nostra fede, che è appunto la resurrezione di Cristo. Però lo stesso concetto di una resurrezione riferito a ciò che è definitivamente morto, suscita problemi. Tuttavia non è mia intenzione affrontarli qui, perché la mia intenzione è quella di indicare che non solo c’è la persuasione della sperimentabilità dell’annientamento, ma che tale persuasione è dovuta al modo in cui gli essenti escono dall’apparire e alla presunta definitività della loro assenza. Ripeto dunque la domanda avanzata poco fa: è sperimentabile l’annientamento? E non intendo solo quel tipo di annientamento che ha il carattere dell’annientamento radicale, ossia della morte. Per questo ricorro spesso alla metafora legna-cenere, la uso intenzionalmente (ed era usata anche da Derrida110).
L’annullamento appare?
19Arriviamo dunque al punto e mettiamoci nei panni di chi sostiene l’apparire dell’annientamento (che, dicevamo, è pensato dall’uomo occidentale come un divenir altro e un diventar nulla111). Per parlare di chi crede nell’annientamento dell’essente – rendendo macroscopica la situazione – amo parlare dell’annientamento, per esempio, di una città come Hiroshima, andata distrutta, e dunque annientata, a seguito dello scoppio nucleare (ma potremmo anche parlare del semplice pezzo di legna che è diventato cenere). Allora chi crede nell’annientamento di quell’essente che era la città di Hiroshima, chi crede nella visibilità dell’annientamento dell’essente, come può credere che tale essente continui ad apparire così come appariva prima di essere diventato niente? Come può credere che Hiroshima, pur essendo annientata, continui ad apparire con le sue case, piazze, abitanti? Se si crede, se si ha fede nell’annientamento, come si può credere che l’annientato continui ad apparire come appariva prima dell’annientamento? Questa è la domanda.
20Ora il silenzio che normalmente segue questa domanda si può interpretare in due modi: o che è così evidente che non vale la pena di rispondere, poiché se credo che qualcosa è andato nel niente, e se credo nella visibilità dell’annientamento di qualcosa, non posso credere che quel qualcosa continui ad apparire così come appariva prima di essersi annientato. Oppure si è persuasi che necessariamente anche ciò che pare essersi annientato continui in verità ad apparire. Ma chi –ossia l’intero Occidente – afferma che l’annientamento è addirittura visibile, è convinto che quanto è uscito dall’apparire (dalla sua sperimentabilità) è altresì uscito dall’essere (è stato annientato).
21Qui sto invitando a mettersi nei panni che sono vestiti da tutti i protagonisti della storia dell’Occidente. Che panni sono? Quelli di quanti sostengono che il divenir altro è visibile, e quindi considerano questo discorso circa l’impossibilità di divenir altro come una pazzia, in quanto nega ciò che è sperimentabile, che è visibile, ossia, appunto, il diventar niente. Allora, mettendosi nei panni di questa fede – che poi è tutto l’Occidente – chi pensa che l’annientamento sia visibile, non può certo pensare che l’annientantesi (o l’annientatosi), una volta annientatosi continui per altro verso a esser qui visibile nell’esperienza. Continuando a lasciar parlare questi panni, e i corpi che sono da questi panni vestiti (cioè l’uomo occidentale, il mortale), chiediamoci ancora una volta: chi è persuaso che l’annientamento degli essenti sia visibile può accettare che quanto più non appare continui in realtà ad apparire? Chiediamo dunque a costui: «Tu che sostieni la visibilità dell’annientamento, puoi credere che ciò che va nel nulla, l’annientatosi, continui tuttavia ad apparire qui, nell’esperienza, con quella forma che esso aveva prima di annientarsi?». Ovviamente no! Se si crede che qualcosa si sia annientato non si può credere nel contempo che continui ad apparire. Davanti a Hiroshima annientatasi non si può credere che Hiroshima continui a mostrare le sue piazze, le sue case, i suoi uomini. E, sia chiaro, non stiamo parlando di un permanere dell’Hiroshima antecedente alla sua distruzione che può permanere integra nel ricordo dei sopravvissuti. No, stiamo chiedendo se sia possibile che ciò che è distrutto, ciò che è annientato, possa, ciononostante, continuare ad apparire nella forma in cui appariva prima dell’annientamento.
22Se qualcuno provasse a percorrere la strada che afferma che, in verità, non c’è annientamento – e fa questo in quanto ormai persuaso dell’impossibilità del divenir altro – costui inizierebbe a prendere le distanze da quanto creduto dalla totalità dei mortali (dai protagonisti della storia del mortale). Costui verrebbe però considerato un pazzo dai mortali, in quanto nega ciò che appare (o, meglio, che sembra apparire) e, infatti, noi stiamo qui considerando proprio coloro che non la pensano in questo modo. Noi stiamo ora vestendo i panni di coloro che dicono: «Ma no, l’annientamento è evidente!». Siamo quindi ancora lontani dalle complicazioni del linguaggio (di cui però tratteremo) e dalle distinzioni introdotte in precedenza tra apparire empirico e apparire trascendentale. Siamo cioè a un livello molto più elementare, quello in cui, ripeto ancora una volta, i protagonisti dell’Occidente dicono: «Il divenir niente appare». Anzi, quelli che dicono: «Ma non raccontiamo storie, il divenire – inteso come divenir altro – innegabilmente appare». In tutte le espressioni della cultura occidentale (filosofica, letteraria, scientifica ecc.) si afferma l’apparire dell’annientamento, l’evidenza indubitabile del divenir altro (abbiamo parlato nelle pagine precedenti anche delle antiche cosmogonie, cosmologie ecc.).
23Fino a ora siamo rimasti nei panni di questo modo di pensare, ma il discorso non è ancora finito. Al mortale stiamo chiedendo: «Tu che credi questo, puoi credere che l’essente, annientatosi, continui ad apparire?». La risposta, è chiaro, è un no deciso. Ma, a questo punto, possiamo ulteriormente interrogarlo e chiedere: «Benissimo, tu che credi nell’annientamento, credi che la cosa, nonostante il suo essersi annientata, continui ad apparire?». E anche qui la risposta sarà negativa. Ma ancora non è finito il discorso; il discorso si conclude in questo modo: siccome è inevitabile che l’uomo dell’Occidente – e della preistoria dell’Occidente – risponda che no, nella misura in cui qualcosa si annienta, in quella misura non appare più come appariva prima, allora vuol dire che l’apparire come tale non dice nulla intorno alla sorte di ciò che è uscito dall’apparire.
24Cerchiamo, dopo aver sottolineato quest’ultima frase112, di mostrare in che senso l’apparire non possa dire nulla di ciò che più non appare. Per chiarire questo punto, soprattutto quando parlo a un pubblico non di specialisti (ma credo che la cosa possa essere utile anche in questa sede) ricorro alla seguente immagine: c’è il cielo e, anche se oggi non si vede, c’è il sole. Se voglio sapere la posizione del sole interrogo il cielo e gli chiedo: «dimmi dov’è il sole». E il cielo me lo fa vedere: prima è là, poi è là, poi è là… Ma se quando il sole tramonta chiedo al cielo: «Dov’è il sole? Fammi vedere la sua posizione», il cielo tace e, al più, può replicare ammettendo: «Non lo contengo più». Qui il sole corrisponde a qualsiasi essente che si crede sia annientato, mentre il cielo corrisponde all’apparire. Come il cielo tace intorno alla sorte del sole ormai tramontato (poiché non lo mostra più), così l’apparire tace intorno alla sorte di ciò che il mortale crede annientato in ragione del non esser più manifesto. Il che vuol dire che la totalità della presenza non dice nulla di ciò che si è assentato; mentre per l’uomo occidentale devono stare insieme queste due cose: la fede nell’annientamento e la convinzione che l’annientamento appare.
25Questa, dunque, la tesi dell’uomo occidentale; ed è a partire da questo punto che incomincia il discorso, perché chi afferma l’assenza di ciò che prima era presente, non può affermare di vedere l’annientamento di ciò che si è assentato. Se lo si afferma, è perché si fa una certa inferenza che non è fondata sull’apparire. Quello che continuavo a dire al mio amatissimo maestro Bontadini è che, ragionando su questo punto, stiamo considerando il problema se l’apparire in quanto apparire mostri o meno l’annientamento. Dopodiché si può anche – e Bontadini tentò di farlo – provare a costruire tutta una serie di argomentazioni per dire qualcosa circa la sorte di ciò che più non appare. Ma allora è un altro discorso, diverso da quello che sostiene l’apparire (l’evidenza) del divenire; è diverso dal discorso che afferma la capacità dell’esperienza di mostrare l’annientamento dell’essente. Se fosse possibile mostrare l’evidenza del divenire ci troveremmo infatti di fronte a un discorso forte che dice: «Tu sei un pazzo a negare ciò che si mostra». Ma se l’obiezione si fonda invece su un’argomentazione le cose cambiano, perché l’argomentazione non può infrangere la verità del λόγος (la quale afferma l’eternità dell’essente)113.
Sul rapporto tra volontà e libertà
26Si è parlato della volontà di affermare l’evidenza del divenir altro. Riflettiamo allora su tale concetto, ovvero sulla volontà. Un primo punto da rilevare è che, se per “volontà” si intende la volontà libera, e per “volontà libera” si intende la possibilità di decidere, avendo avuto la possibilità di decidere diversamente114, allora il concetto di libertà libera appartiene al nichilismo, perché la decisione presa implica la nullità della decisione non presa (e che si sarebbe potuta non prendere). Quindi il nichilismo investe anche il concetto di “possibile”. Il possibile, secondo l’ontologia dell’Occidente, è ciò che potrebbe essere, ma che non è (o che intanto non è). Ma questo vuol dire che ciò che potrebbe essere – un essente – intanto è niente. Dunque, ripeto, il nichilismo include anche il concetto di contingenza, e di quella forma di contingenza che è la volontà libera. Contingente è infatti un essente che può essere come non-essere.
27Anche qui si può fare un discorso analogo a quanto abbiamo già sviluppato a proposito del non apparire dell’annientamento di ciò che più non appare. Ho detto “analogo”. Potrei dire identico se assimilassimo la decisione al qualsiasi essente, e allora si tratterebbe di riferire alla decisione ciò che abbiamo detto del qualsiasi essente che esce dall’essere e insieme dall’apparire. Ma c’è anche l’analogia, perché l’alternativa – il fare A ma altresì B – non può apparire. Perché quando muovo il braccio e sposto il pennarello dal punto A al punto B, il pennarello nel punto B non è ciò che sarebbe potuto essere se fosse rimasto nel punto A, ma è ciò che sta nel punto B dopo essere stato nel punto A. Quindi, se dovesse apparire qualcosa come la decisione libera, dovrebbe apparire il contraddittorio, cioè il pennarello che, nello stesso tempo, sta nel punto A e nel punto B115. Anche qui si tratta di prendere coscienza che il concetto di volontà libera – e questo Kant lo sapeva molto bene, benché senza collegare questa sua consapevolezza al tema del nichilismo – non ha un contenuto empirico. Descartes affermava che nulla è più certo della libertà, e dopo lui si sono incamminati per questa strada molti autori, specie di ispirazione cristiana, ma qui il grande Descartes non teneva presente quello che invece ha tenuto presente Kant, ossia l’impossibilità di esperire la libertà. Descartes si dava un gran da fare con le mani per dimostrare la libertà del loro movimento, ma così facendo non riusciva a dimostrare che, per esempio, nello spostamento di una penna, la penna spostata in un dato punto era la stessa che avrebbe potuto stare in un punto A piuttosto che in un punto B. Poteva soltanto mostrare che non c’erano ostacoli al fatto che, dopo aver messo la penna nel punto A, questa venisse spostata nel punto B.
28Se e poiché il divenir altro è impossibile – ed è impossibile quella radicalizzazione del divenir altro che è l’uscire dal nulla e il tornare al nulla dell’essente – allora la volontà è, anche qui, da sempre (dalla fase prefilosofica e mitica) volontà che qualcosa divenga altro. Non c’è volontà che non sia un voler far diventar altro le cose. E siccome l’esser uomo è strettamente connesso al concetto di volontà, allora qui viene messo in discussione anche l’esser uomo. Se il divenir altro è impossibile e se la volontà vuole il divenir altro, allora la volontà vuole l’impossibile. Ma questo significa che l’uomo incardinato in un simile concetto di volontà diventa a sua volta qualcosa di impossibile e che ciò che chiamiamo uomo è, in senso forte, il contenuto (o il prodotto) di una fede che crede nella possibilità (impossibile ) del divenir altro. Detto ciò i problemi continuano a farsi sentire, così come si sono fatti sentire nel momento in cui si è affermato il non-apparire del divenir altro.
29Concordo con quanti ritengono che, sul tema della libertà, Aristotele ha detto tutto l’essenziale. E facendo proprio riferimento ad Aristotele, ricordo come egli definisse la deliberazione προ-αἴρεσις (pro-aíresis). Aἴρεσις (aíresis) è la sostantivizzazione del verbo αἰρέω (airéo), che significa “prendo”, “mi impadronisco”. Quindi προ-αἴρεσις (pro-aíresis) significa: mi impadronisco anticipatamente; ma di che cosa? Di ciò che è ottenuto da quella che Aristotele chiama la ὄρεξις (órexis), che è poi la βούλησις (boúlesis, ossia la volontà). La deliberazione è un pre-catturare – un catturare anticipatamente – ciò che si intende ottenere con la propria decisione, e Aristotele indica la decisione con due parole: o δίωξις (díoxis, che indica il volere positivamente), oppure ϕυγή (phyghé, che significa fuga, il rifiutare di contro all’accogliere). In questa prospettiva, dunque, la decisione è il frutto di una προ-αἴρεσις (pro-aíresis, di una deliberazione); dove per decisione non si intende, per esempio, la casuale e meccanica reazione pavloviana, inconscia, che si ottiene quando si batte il ginocchio e il ginocchio salta per aria, bensì il calcolo razionale (quello che Aristotele chiama λογιστικόν, logistikón) che coordina mezzi in vista della produzione di uno scopo. Quindi prima c’è il calcolo che stabilisce quali siano i mezzi più adatti per raggiungere un certo scopo. Una volta che è stato effettuato il calcolo, allora avviene la decisione116. Per completare il quadro ricordiamo come questi termini che ora abbiamo richiamato sono riferiti da Aristotele all’anima (ψυχή, psyché), la quale ha una parte razionale (l’anima razionale, appunto), una parte totalmente irrazionale (l’anima vegetativa) e poi una terza parte che è ἄλογον (álogon), ma un ᾄλογον (álogon) che però si lascia persuadere dal logo o che oppone resistenza al logo117. Quest’ultima è quella parte dell’anima per cui il calcolo riesce a imporsi sull’istintualità propria di questa dimensione della psiche (e qualora non vi riuscisse avremo invece un fallimento del calcolo razionale, un fallimento della αἴρεσις, aíresis).
30Quando si parla di volontà si parla pertanto di una potenza capace di produrre una variazione nella realtà; potenza capace di far divenir altro le cose. Dove c’è un duplice effetto ugualmente traumatico da un punto di vista teoretico: il primo è quello che conosciamo del divenir altro, e lungo questa direzione la volontà è volontà che vuole l’impossibile. Ma l’altro aspetto riguarda il fatto che in questa prospettiva la volontà assume i tratti di una forma di causalità. Per sviluppare quest’ultimo aspetto devo però aprire una parentesi su un aspetto essenziale che non abbiamo ancora affrontato in modo adeguato.
31La distruzione dell’ἐπιστήμε (epistéme) operata dal sottosuolo essenziale del discorso filosofico degli ultimi due secoli conduce alla distruzione di ogni nesso epistemico, di ogni nesso necessario; e il nesso di causalità è un nesso necessario. Ecco perché parlo di profilo traumatico a proposito della volontà come forza causale, perché la causa è morta con la morte dell’ἐπιστήμε (epistéme). Lungo questa decisione si capisce come non si possa parlare di nesso causale tra la decisione e la modificazione del mondo, bensì, al più, di un parallelismo tra la decisione e ciò che accade quando la decisione si produce.
32Quando Aristotele parla di volontà sottointende dunque tutta una serie di convinzioni, cioè di fedi (che però non sono vissute come tali da coloro che a esse credono – gli agenti – e da coloro che riflettono sull’agire): in primo luogo la convinzione che ci sono dei mezzi più idonei di altri per conseguire determinati scopi e, quindi, la scelta di questi mezzi si configura come una scelta vera nella misura in cui individua mezzi più idonei di altri118. Di qui la convinzione che la προ-αἴρεσις (pro-aíresis) si arresti quando la sequenza dei mezzi viene ricondotta a noi, ovvero quando la sequenza si conclude con l’ἄνθρωπος (ánthropos) che è generatore di decisioni (così come è generatore dei propri figli). Queste sono le due convinzioni senza le quali non c’è ὄρεξις (órexis), cioè decisione, atto volontario.
33Ma se noi stiamo dicendo che la volontà vuole il diventar altro – e cioè vuole l’impossibile – allora, pur essendo vero che la prospettiva aristotelica sia stata recepita pressoché da tutti quelli che hanno riflettuto sul senso del volere, ciononostante dovremo dire che tale prospettiva non può essere tenuta ferma nei termini in cui è tenuta ferma da Aristotele (o da Schopenhauer, perché anche Schopenhauer, quando parla del volere, benché in una prospettiva diversa, tiene ferme queste determinazioni).
34Innanzi tutto si presenta questo problema: un atto di volontà, si dice, produce un certo effetto. Per esempio voglio spostare il bicchiere ed, ecco, l’ho fatto. E lo stesso dicasi per la volontà di lanciare un satellite o di far scoppiare la Seconda guerra mondiale. Allora se, come si è detto, la volontà vuole l’impossibile, che cosa accade quando si vuole ciò che si vuole? Non ci troviamo qui di fronte a una smentita della verità del Destino? La risposta dice che volere l’impossibile significa che ciò che accade quando si vuole non è ciò che autenticamente si vuole; tanto è vero che tutto ciò che si ottiene quando si vuole è sempre rimesso in discussione da un ulteriore volere che non si accontenta di quanto ottenuto119.
35Si prenda per esempio l’Olocausto. Che cosa accade quando la volontà crede di far diventar altro le cose? È qualcosa che appare. E che cosa appare, una volta che si tenga fermo che la volontà vuole l’impossibile? Appare qualcosa che non può essere l’impossibile (che non solo non è, ma che non può nemmeno apparire); quando la volontà vuole qualcosa appare una risposta del Tutto dell’essente che consiste nel farsi innanzi nell’orizzonte dell’apparire di certi spettacoli che sono gli spettacoli dell’orrore, ma che non possono essere l’impossibile ottenimento di ciò che la volontà vuole e crede di poter ottenere. C’è un insieme di decisioni, che possiamo considerare come lo stato maggiore del nazismo, che non possono ottenere l’impossibile. Ciò che si presenta sono appunto gli spettacoli dell’orrore che accadono quando si vuole l’impossibile. Sicché la volontà non ottiene ciò che vuole, ma è in relazione a un tipo di risposta in cui l’essente si fa innanzi; e si fa innanzi quel tipo di essente che non si sarebbe fatto innanzi, se invece di volere l’Olocausto si fosse voluta la salvezza del popolo ebraico.
36Come a proposito della variazione si è detto ch’essa non può significare il divenir altro, ma il sopraggiungere degli eterni, allo stesso modo dobbiamo dire ora, per le stesse ragioni, che ciò che si presenta quando vogliamo l’impossibile non può essere l’impossibile, ma quel tipo di contenuto che appare solo in relazione alla volontà, la quale è sempre un volere l’impossibile, sia che sia volontà buona, sia che sia volontà cattiva. E questo è uno dei punti più decisivi sia per quanto riguarda il rapporto col modo tradizionale di considerare l’uomo, sia per quanto riguarda il rapporto tra il linguaggio che testimonia il Destino e la morale. Perché certamente noi distinguiamo la volontà buona dalla cattiva, la buona fede dalla cattiva fede; tuttavia, quando diciamo che la volontà vuole l’impossibile, non ci riferiamo alla cattiva volontà, ma alla volontà in quanto tale. E dunque, quanto si diceva prima rispetto a teismo e ateismo, ossia la necessità di metterli entrambi in discussione in ragione del loro essere due espressioni della stessa anima (cioè modi opposti di vivere la stessa anima), così ora dobbiamo mettere in questione sia la volontà buona che la volontà cattiva (in quanto due modi opposti di volere, cioè due modi opposti di volere l’impossibile).
Volontà e violenza
37Volere l’impossibile significa volere la violenza. È questo un punto su cui occorre riflettere.
38Esiste la morale e la morale dice ciò che si deve e ciò che non si deve fare. Esiste cioè il comandamento che può essere propositivo o proibitivo: «tu devi», «tu non devi». Ora la filosofia ha questo di straordinario, di non arretrare di fronte a nulla. Essa ha dunque l’ardire di chiedere: «Perché non devo, se posso?». La morale, per esempio, dice: «Tu non devi uccidere». Ma perché non devo, se posso? Qui stiamo parlando di ciò che da sempre è accaduto tra gli uomini: le morali hanno parlato, ma gli uomini hanno sempre ucciso. Di modo che la domanda che chiede: «Sì, d’accordo, io non devo uccidere, ma perché non devo uccidere se posso farlo?» non è una domanda retorica, ma è una domanda che ha sempre avuto risposte tragiche, sin dal tempo di Caino (e anzi da Adamo, perché Adamo, in fondo, vuole uccidere Dio). Se dunque l’uomo, l’uomo forte, può uccidere l’uomo debole, perché non deve ucciderlo, se riesce a ucciderlo? La risposta epistemica – e per questo il discorso epistemico, in quanto preambolo della fede, è decisivo – è che, appunto, non si deve perché vi sono dei limiti che non sono valicabili. Si badi che quando sussiste quella situazione culturale per la quale la morale dice «Tu devi!», questo «tu devi» si traduce, alla fine in un «tu non puoi». Perché? Perché in realtà puoi solo provvisoriamente, solo apparentemente.
39Che cosa voglio dire? Che gli uomini si scannano, però dal punto di vista epistemico-religioso – e teniamo ferma soprattutto l’esperienza cristiana – la violazione dei limiti produce, per esempio, l’Olocausto, ma se stiamo al discorso evangelico, che poi si impianta sul discorso epistemico, chi ha perpetrato il male è riuscito solo provvisoriamente a perpetrarlo, dopo di che arriva la punizione, arriva la condanna, arriva il giudizio divino. Il che vuol dire che colui che ha infranto i limiti della morale è riuscito provvisoriamente, apparentemente a violare il «Tu devi!» o il «Tu non devi!», ma sostanzialmente il suo agire si configura come un «Tu non puoi». Questo perché, tirate le somme, il soggetto che viola le norme si illude di poter fare ciò che vuole, avrà magari anche successo in questo mondo, ma in realtà, da ultimo, nella totalità del conteggio, la sua volontà ha fallito. In questo senso ho detto che il «tu devi» si traduce, alla fine, in un «tu non puoi». A tal proposito ricordo come Platone, nel Protagora, introduca un’espressione straordinaria quando parla di μετρητική ἐπιστήμε (metretiké epistéme). La μετρητική ἐπιστήμε è una forma di ἐπιστήμε (epistéme), nel senso che noi abbiamo indicato in precedenza, e indica la misura della quantità di vantaggi e la quantità di svantaggi che si ottengono facendo una certa cosa (Platone non aveva certo paura di passare per un utilitarista). La decisione segue quindi il risultato di un simile computo. Ma questo non deve essere un computo ipotetico, dev’essere una misurazione epistemica. Tuttavia, se l’ἐπιστήμε (epistéme) tramonta – e abbiamo detto tramonta necessariamente – allora tramonta pure la μετρητική ἐπιστήμε (metretiké epistéme). Quindi il discorso secondo cui la violazione dei limiti, nella prospettiva cristiano-epistemica, implica una violazione provvisoria e apparente, cade, in quanto manca la misurazione epistemica. O, se si vuole, la misura epistemica viene sostituita dalla fede, dalla promessa divina, cioè da quella fede che dice: «Guarda, tu sarai punito se non pratichi l’εὐπραξία [eupraxía]», ovvero il ben agire. Ma questa è appunto una fede; con tutti i limiti che sono propri della fede.
40Se si tiene conto di questo si può capire allora perché Nietzsche possa lodare la superficialità. Perché la superficialità è la situazione in cui non c’è il successo apparente di un’azione che viene poi smentito dalla punizione dell’azione compiuta. Se posso fare quello che non devo fare, la situazione attuale è la situazione definitiva. Non c’è allora un Dio che punisca la violazione della legge. Perché non c’è legge. Di qui l’elogio nietzschiano della superficie, che è un elogio tutt’altro che superficiale, in quanto è il risultato della crisi dell’ἐπιστήμε (epistéme). Per questo ho introdotto il concetto di “violenza”. Che cosa, infatti, può essere la violenza? Se l’uomo può fare ciò che non deve fare, se riesce davvero a farlo e se non c’è una μετρητική ἐπιστήμε (metretiké epistéme) – e dunque ciò che fa, lo fa veramente – allora la violazione del «Tu devi!» non solo è un fatto praticato dalla storia dell’umanità, ma esprime la necessità del mio poter fare ciò che una volontà di potenza perdente mi dice di non fare. La condanna morale della violenza è una condanna che si regge su quella prospettiva epistemica che cade con la messa in discussione dell’ἐπιστήμε (epistéme). Ogni condanna morale esprime dunque il lamento di una forma perdente di volontà di potenza rispetto a chi riesce a prevalere sull’avversario, o riesce a uccidere Dio. Perché non devo uccidere Dio se posso, se ne sono capace? Soprattutto se ritengo utile l’uccisione del Dio o delle forme che il Dio manifesta in coloro che credono in lui. Se posso, lo faccio.
41Volere l’impossibile, allora, è violenza solo se si riesce a superare questa impasse. Se posso fare ciò che è proibito, allora tutto ciò che faccio è innocente, perché il nocumento scaturisce dall’esistenza di un inviolabile. Ma l’inviolabile è legato o alla fede o all’ἐπιστήμε (epistéme) o all’unione delle due. Se l’uomo riesce a fare – e qui si pensi anche a quel fare che è proprio della civiltà della tecnica che si propone la trasformazione dell’uomo e il superamento di ogni limite imposto dalle varie forme di religione – allora dove sta la violenza? Se realmente posso fare, e non come accadeva apparentemente nella situazione epistemico-religiosa di cui abbiamo parlato prima, se realmente l’uomo forte riesce a imporsi sull’uomo debole e riesce a cancellare ogni vestigia del divino, allora dov’è la violenza? La volontà può essere volontà violenta solo se vuole l’impossibile, non se vuole il possibile. Se vuole ciò che può essere fatto non c’è violenza. Ma l’impossibile in circolazione è ciò che è portato al tramonto.
42Non c’è nessun altro impossibile? Torna qui il discorso sul Destino, perché l’autentico impossibile dopo la morte dell’ἐπιστήμε (epistéme), cioè dopo la morte di Dio, è la negazione del Destino. In questo contesto, allora, la volontà acquista un significato inedito, così come noi diciamo che il significato dell’esser uomo acquista un significato del tutto diverso all’interno del linguaggio che indica il Destino. Si ritorna allora al discorso aristotelico, a proposito del quale si diceva che egli considera queste due convinzioni: la convinzione “proairetica”, cioè il calcolo dei mezzi idonei al raggiungimento di un dato scopo, e poi la convinzione che aggancia la serie dei mezzi all’uomo in quanto è causa delle proprie decisioni (così come è causa e generatore dei propri figli). Due convinzioni che Aristotele non considera come fedi, perché, che una certa struttura di mezzi sia più idonea per il raggiungimento di un dato scopo, è appunto un’ipotesi. Magari ampiamente riconosciuta come valida dal sapere scientifico, ma pur sempre un’ipotesi. Più difficile a smuoversi è la convinzione di essere la causa di quella sequenza di mezzi capaci di perseguire quello scopo120.
43Vorrei infine introdurre l’essenziale per quanto concerne il concetto di volontà: cioè quando decidiamo qualcosa, il requisito della decisione è la προ-αἴρεσις (pro-aíresis), ma intesa da una luce che non poteva illuminare il discorso aristotelico: noi decidiamo se separiamo! Decido di prendere in mano un oggetto solo se sono convinto che quell’oggetto si lascia prendere in mano e si lascia staccare dal luogo in cui si trova, solo se è separabile dal contesto cosmico in cui è inserito. Se tutte le cose fossero necessariamente connesse, non decideremmo nulla. Quindi la condizione essenziale per decidere è la separazione degli essenti. Tanto più sono separati, tanto più il decidere diventa potente. La potenza diventa massima quando la separazione è massima e ciò accade quando gli oggetti escono dal nulla e ritornano nel nulla, perché se un essente esce dal nulla non vi può essere un’intesa preliminare tra ciò che esce dal nulla e il già esistente che stabilisca una sorta di relazione tra l’ancor nulla e il già essente. La separazione è massima proprio con l’ontologia. Proprio quel pensiero ontologico che ha portato alla luce il concetto dell’“identità delle differenze”, proprio quel pensiero ontologico ha stabilito la separazione massima tra le differenze; l’inizio del pensiero filosofico è quindi un inizio tragico, poiché porta alla luce, insieme, l’identità delle differenze e la condizione sotto la quale non ci può essere alcuna identità. Ciò che emerge dal nulla è l’assolutamente imprevedibile, l’assolutamente separato. Che legame può esserci tra il nulla e il già essente?
44Concludendo: la condizione per poter compiere anche il più semplice dei gesti è che si veda il mondo come un aggregato casuale di oggetti. Qui il linguaggio ci viene in aiuto perché parla di de-cisione. In vari miei testi ho sottolineato il carattere separante del de-cidere, del de-caedere. Se pronunciamo “alla vecchia” caedere e non leggiamo il dittongo, caedere significa “spezzare”. Quello spezzare che è presente anche nell’uc-cidere, ob-caedere. Di qui la preoccupante vicinanza tra il de-cidere e l’uc-cidere. In entrambi i casi si tratta di un separare, di un frantumare. Quindi, tanto più la separazione è radicale, tanto più la potenza crede di riuscire. Anche in questo caso, però, la separazione è l’impossibile. È la fede nella separazione, dove separazione significa uscire dal nulla e tornare nel nulla; ma noi stiamo evocando l’impossibilità di un simile uscire dal nulla e tornare nel nulla, e dunque l’impossibilità del separare. Di qui anche l’impossibilità della potenza capace di approfittare della separazione e di essere tanto più potente quanto più la separazione è radicale. La condizione preliminare dell’atto di volontà (della decisione) è dunque la separazione.
45La volontà non può però essere nemmeno quella potenza capace di far essere qualcosa. Non può essere potenza creatrice, cioè produttrice di un essente. Che cosa accade, dunque, quando decido di prendere in mano un oggetto? È un discorso formalmente analogo a quanto si andava facendo quando ci si metteva nei panni di chi sostiene l’evidenza del divenir altro (dell’annullamento). Mettiamoci ora nei panni di chi decide, fermo restando che la coscienza della follia del decidere non ci porta fuori da tale follia. Siamo gettati nel decidere. Il linguaggio che parla la verità del Destino può evocare l’erroneità, la follia di ciò che siamo costretti a praticare, però quando avremo finito il discorso sul decidere, decideremo di andare a pranzo, di continuare a vivere, ecc.
46Che cosa accade, dunque, quando si decide qualcosa? Non la forza capace di trasformare l’oggetto; accade un’ulteriore convinzione, la fede nell’essere capaci di trasformare un oggetto. Decido, per esempio, di accendere il fuoco. Posso decidere di accendere il fuoco non solo se sono convinto di ciò che Aristotele indica come contenuti di cui si deve essere convinti – cioè la pro-ai[resi" (pro-aíresis), la disponibilità della legna in legnaia, il mio essere capace di dare inizio alla serie di mezzi che conducono a quel risultato – ma devo anche essere convinto che sta incominciando quel processo che conduce all’accensione della legna. Se decido di accendere la legna significa che sono convinto che quel processo dell’accensione della legna sta iniziando. Se non fossi persuaso dell’inizio di un tale processo, se pensassi: «Forse il processo non sta iniziando», quest’atteggiamento dubitativo non sarebbe la decisione di accendere la legna. Ma non decido neanche se sono nella condizione di chi è nella stanza fredda e pensa: «Mah, chissà se sarò in grado di accendere il fuoco?». Si decide soltanto se si è convinti che il fuoco sarà acceso; che il fuoco si accenderà. Prendo tale decisione se sono convinto che il fuoco sta per accendersi. Intendo dire che quella struttura complessa della volontà, che per Aristotele (e non solo) include una dimensione di convinzioni oltre la dimensione dell’ὄρεξις (órexis), come potenza capace di trasformare il mondo, è a sua volta una struttura di convinzioni, non potendoci essere tutto ciò che il divenir altro, il poter far divenir altro implica. Quindi io decido solo se non ho dubbi sulla realizzazione di ciò che sto per decidere, perché, se li avessi, non starei decidendo.
Notes de bas de page
102 Dove “divenir altro” è qui inteso nel senso che, dovrebbe essere chiaro, va chiamato nichilistico, ossia il divenir altro che si potenzia nel pensiero occidentale come diventar nulla uscendo dal nulla.
103 Anche il soggetto storico “Emanuele Severino”, autore dei propri libri (come dei propri pensieri) è un mero contenuto di fede iscritto all’interno della follia del mortale.
104 L’apparire empirico è ciò che, ne La struttura originaria, ho chiamato “iposintassi”, termine col quale si indica appunto il contenuto empirico variante.
105 Qui sarebbe utile, ma non abbiamo il tempo di farlo, un’ulteriore distinzione tra apparire trascendentale e apparire infinito. Basti quindi la segnalazione della cosa e l’indicazione, che nelle pagine a seguire verrà in parte chiarendosi, che l’apparire infinito indica il toglimento totale di ogni forma di contraddizione (il pieno dispiegamento del Destino).
106 E. Severino, La struttura originaria, cit.
107 F-verità (ovvero verità fenomenologica) e l-verità (verità logica) vengono nel mio discorso distinti, ma non separati. Questo implica che non si può far dire all’una ciò che l’altra nega. Si tenga presente questo quando, a breve, parleremo del presunto apparire del divenire. Dunque, non si può far dire al distinto A quello che è proprio del distinto B, ma guai a separare il distinto A dal distinto B, poiché la dimostrazione di B non potrebbe accadere senza A, né la dimostrazione di A senza B. Di qui la mia critica alla fenomenologia di Husserl, che separa A (la f-verità) da B (quella verità del logos che Husserl neppure conosce). La distinzione non è separazione ma non è neppure identificazione. Se c’è distinzione tra apparire e logo, non posso far dire all’apparire ciò che concerne il logo.
108 Aristotele, Etica nicomachea, 1139 b 20 sgg.
109 Se è vera la prospettiva del mortale e dell’Occidente per cui il passato è l’annientato, allora come si fa a ricordare il nulla? Eppure il ricordo appare. Dunque il ricordato non può essere l’annientato. Il contenuto del ricordo non è un nulla. Quindi anche qui l’ontologia è chiamata a rispondere all’aporia di un ricordo che è ricordo di nulla (in quanto ricordo di ciò che ormai è annullato). Per sciogliere l’aporia bisogna ripensare il senso del ricordo (come prima siamo stati costretti a ripensare il senso della volontà e dell’essere uomo). Il ricordo non può essere ciò che si crede che sia. Esso è invece la relazione con una presenza, e non con qualcosa di annullato, in quanto relazione con ciò che è eterno. È chiaro, dunque, che ciò cambia completamente il significato del rapporto con l’assente e tesse una relazione con ciò che permane eterno nel seno dell’essere. E questo anche in relazione alla persona cara che è ormai morta. In La gloria e in Oltrepassare si mostra non solo che il ricordo indica qualcosa che c’è, benché assente, e ciò non di meno eterno in quanto essente, ma si mostra altresì la necessità che giunga un tempo in cui le esperienze di tutti si raccolgano in un’unica esperienza, dove viene mantenuta tutta la specificità delle esperienze di ciascuno. La necessità che si manifesti un qualche cosa per cui nell’apparire di ciascuno sia contenuto l’apparire di tutti gli infiniti cerchi finiti dell’apparire (dunque in ogni cerchio appare l’infinità degli altri cerchi e la totalità dell’umano).
110 Nonostante la varietà di tutte le cose difficili e anche interessanti scritte da Derrida alla fin fine il problema per lui decisivo era questo: quando si muore non c’è più speranza e i conti sono definitivamente chiusi. Talvolta viene da chiedersi: ma perché c’era bisogno di scrivere tutte quelle complicazioni di cui Derrida ha dato esempi insigni, tutto quel complicato modo di scrivere e di parlare se poi il problema è questo. In uno degli ultimi scritti di Derrida – e su questo punto Maurizio Ferraris ha avuto il merito di sottolineare la cosa con parole semplici – Derrida esprime un concetto molto chiaro: quando si muore non c’è più speranza, non c’è risurrezione, i conti sono definitivamente chiusi. Derrida, come sempre succede, non cita Leopardi, ma le pagine di Leopardi sul “mai più” sono insuperabili e irraggiungibili da qualsiasi Derrida (con tutto il rispetto per il suo rilievo filosofico-scientifico).
111 Che ne è del nostro essere insieme di cinque secondi fa? che ne è ora? è ancora? La persuasione del mortale (e in particolare del mortale dell’Occidente) è che ogni istante che passa implica l’annientamento dell’istante precedente; che il passare implichi l’annientamento.
112 Quest’ultima frase vuol dire: se tu non credi nel continuare ad apparire di ciò che si è annientato, allora non invocare l’esperienza contro il linguaggio del Destino (che afferma l’eternità di ogni ente, compreso quell’ente costituito dall’apparire che più non appare). Non invocare l’esperienza per dire al linguaggio del Destino: «Tu sei pazzo perché stai negando l’esperienza», poiché l’esperienza, in realtà, tace rispetto a ciò che più non appare.
113 Richiamiamo la distinzione introdotta in precedenza circa la distinzione tra f-verità e l-verità. Quando si afferma la realtà del divenire, non lo si sta facendo sulla base dell’evidenza fenomenologica, sulla verità affermata dall’apparire (f-verità), ma sulla base di un’inferenza, di una teoria. E fondiamo le nostre teorie, affinché possano essere dette vere, sulla verità del λόγος (sulla l-verità). Il Destino torna così nel linguaggio, perché ogni teoria o è ipotetica o è incontrovertibile e, se è incontrovertibile, allora si fonda su quell’esser sé dell’essente che è la verità del Destino, ossia, concretamente, l’eternità dell’essente. Ergo, qualsiasi dimostrazione si faccia non sulla base dell’apparire (di f-verità), ma sulla base di una teoria che si pretende vera (e quindi fondata su l-verità), qualora questa (presunta) dimostrazione affermasse l’esistenza del divenir altro, essa sarebbe necessariamente falsa, in quanto smentirebbe quell’esser sé dell’essente che deve invece essere accettato se non si vuole che una teoria sia ipotetica o falsa. Ogni inferenza che muova dall’apparire per dire ciò che esso, in quanto tale, non registra (e non può registrare), se vuole essere vera (incontrovertibile), deve rispettare l’incontrovertibilità dell’originario che afferma l’eternità dell’essente. Quindi ogni tentativo di inferenza che voglia affermare la verità dell’apparire, per quanto ingegnoso o convincente possa sembrare, in quanto nega la verità dell’originario, deve essere (a priori) necessariamente falso. Toccherà poi mostrare nel dettaglio le ragioni dell’errore. Ma anche qualora non si fosse in grado di farlo, in quanto la conseguenza di tale inferenza nega quanto affermato dall’incontrovertibilità dell’originario, tale conseguenza, per quanto apparentemente persuasiva, deve daccapo essere falsa. A questa, che è la struttura dell’aporetica, purtroppo Bontadini non rispose. Coloro che sostengano l’annullamento dell’ente o, quanto meno, dell’apparire di quell’ente che più non appare, sostengono le loro argomentazioni sull’inferenza (e non sull’apparire), e l’inferenza, per essere vera, deve essere coerente con l’affermazione dell’eternità dell’ente. Se così non accade, la sua eventuale persuasività è meramente apparente.
114 Adamo pecca, ma avrebbe potuto non peccare.
115 Cfr. E. Severino, Studi di filosofia della prassi, cit., secondo studio, capp. I-III.
116 Sempre nell’Etica Nicomachea Aristotele dice che il calcolo può essere o ϕρόνησις (phrónesis - saggezza) o τέχνη (téchne - capacità produttiva), quindi, qui sta considerando la volontà in quanto tale, fermo restando che poi la volontà deve fare i conti col bene. Ma la προ-αἴρεσις (pro-aíresis, volontà) si distingue, in quanto tale, in ϕρόνησις (phrónesis) e τέχνη (téchne); ed è certamente la ϕρόνησις (phrónesis) che si pone in relazione al τέλος (télos) inteso come bene. Tuttavia, nonostante quest’evidente rilevanza del tema del bene all’interno del discorso aristotelico sulla volontà, io continuo a chiamare “volontà di potenza” anche la volontà aristotelica in quanto volontà, ossia in quanto volontà che vuole l’impossibile. Anche volere il bene, in quanto volere, è infatti espressione della volontà di potenza. Aggiungo un dato ulteriore: è chiaro che per la prospettiva epistemica la volontà non vuole produrre Dio, perché Dio è considerato come quel limite che sfugge alla capacità di far divenir altro le cose. Lo stesso Aristotele, del resto, afferma che non c’è προ-αἴρεσις (pro-aíresis) intorno alle cose eterne. In ogni caso la volontà è considerata come produttrice – tanto da Aristotele quanto da Tommaso e su su fino a Hegel – nella misura in cui produce i mezzi adatti al conseguimento dei propri scopi. Invece, in questo rovesciamento del senso della volontà che oggi siamo andati descrivendo, il Destino si rivela come l’autentica volontà in quanto è volere le cose eterne. Ma volerle non nel senso di farle diventar altro. L’autentica forma del volere è l’apparire dell’eterno.
117 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, libro I.
118 Aristotele le chiama “certezze”, non fedi, e arriva a parlare di una προ-αἴρεσις, per quanto il testo aristotelico sia difficilmente esplorabile in quanto non si capisce se la verità predicata della προ-αἴρεσις sia verità epistemica o meno. È vero che Aristotele nega che lo sia, in quanto non è una verità necessaria di ciò che non può essere diversamente – perché ciò che si decide lo si sarebbe potuto non decidere – e pur tuttavia Aristotele la dice vera nella misura in cui è capace di indicare i mezzi più idonei rispetto ad altri per conseguire un determinato scopo. Vera in quanto permette di raggiungere lo scopo, falsa se fallisce.
119 C’è differenza tra Destino e fato. Il destino visto nella prospettiva del mortale e dell’occidentale è il già scritto che si impone sul divenire, di modo che il divenire deve seguire la legge del destino. Ma è proprio questa divaricazione tra il sovrastante e il sottostante che è messa in questione dalla parola Destino così come usata nei così detti “miei scritti”. Il fatalismo – e quindi il senso di costrizione rispetto al fato – c’è solo se si pensa che sopra ci sia un dio e sotto ci sia il mondo più o meno libero. Ma proprio questo dislivello viene messo in questione dall’affermazione dell’eternità di ogni ente. Poi resta il dislivello tra apparire finito e apparire infinito, ma questa differenza si colloca su un altro piano. Nel Destino non c’è costrizione perché non c’è un padrone, come invece avviene nella concezione fatalista del mortale, dove il Destino detta la sua legge al divenire.
120 Il Destino attesta come ogni forma di causalità rappresenti l’illusione di aver potenza sul mondo, in quanto la causalità sottende la possibilità di far essere ciò che non è.
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