3. Destino e verità
p. 72-99
Texte intégral
Precisazioni preliminari
1Si tratta ora di insistere su quanto è stato indicato dal linguaggio e che adesso deve distendersi con una serie di precisazioni. Si è detto che il pensiero greco è il modello in cui si inscrivono le categorie di fondo della cultura e della prassi occidentale. Tra queste categorie, fondamentale è quella relativa al divenire – e, a tal proposito, avevamo citato quel passo del Convivio di Platone che definisce la ποἰησις (poíesis) come «causa che fa passare qualsiasi cosa ἐκ τοῦ μὴ όντος εἰς τὸ όν [ek toû mè óntos eis tò ón, dal non essere all’essere]». Qui è opportuno dissipare un possibile equivoco.
2Si è introdotto il concetto di nihil absolutum e s’è visto che, in riferimento al divenire, Platone parla dell’assolutamente niente: τὸ μεδαμῆ ὅν (tò medanê ón). Quando il greco afferma il divenire come processo dal non essere all’essere (ed è in questi termini che, ben presto, viene pensato il divenire delle cose), intende certamente riferirsi al non essere assoluto, ma non nel senso che, prima che compaia l’essente, non ci sia nulla, quasi che il divenire sia l’insorgere di qualcosa a partire dall’assolutamente vuoto. Quel processo viene inteso dal greco nel senso che l’essente incomincia a essere essendo stato esso un assolutamente nulla – che è cosa diversa dal dire che il punto di partenza del divenire è l’assolutamente nulla. Questa è dunque la prima precisazione: si parla dell’essere assolutamente nulla da parte dell’essente incominciante.
3La seconda precisazione riguarda il concetto di nichilismo. Potremmo dire che il nichilismo è il modo in cui si presenta, nella dimensione ontologica, la follia del diventar altro. Il nichilismo di cui qui stiamo parlando ha quindi un significato del tutto diverso da quello che esso ha nella storia del pensiero filosofico.
4Per Jacobi, nichilismo è l’idealismo perché, dal suo punto di vista, l’idealismo cancellerebbe la realtà vera e propria, negherebbe l’essere vero e proprio che esiste indipendentemente dalla dimensione umana. Non è certamente questo il senso di nichilismo al quale intendiamo riferirci.
5Per Nietzsche, nichilismo è il cristianesimo e ogni atteggiamento platonizzante che indichi il vero essere al di là della terra dimenticata e sottoposta a ciò che si ritiene il vero essere – ma che propriamente è nulla. Che sia nulla l’abbiamo visto indicando la struttura di fondo della Destruktion che il sottosuolo essenziale del pensiero degli ultimi due secoli compie. Ma non è nemmeno questo il senso di nichilismo che intendiamo mettere innanzi.
6Per Heidegger, nichilismo significa che dell’essere non ne è più niente. Ma già s’è detto che Heidegger parla dell’essere inteso come ciò che differisce dall’ente. Se si volesse una metafora per capire questa differenza, si potrebbe dire che, in Heidegger, la differenza tra l’“essere” e l’“ente” è la differenza che c’è tra la luce e i colori: i colori sono la dimensione ontica, la luce è la dimensione ontologica. Heidegger non si preoccupa dell’ontico e dà per scontato che l’ontico sia un diventar altro. Si preoccupa invece della luce – dell’essere come luce, come manifestazione – figura che è riconducibile al concetto di apparire. Quando Heidegger definisce il nichilismo come la situazione in cui dell’essere non ne è più niente, si accosta allora sostanzialmente al discorso del suo maestro Husserl il quale, nella Crisi delle scienze europee, rileva che, dal punto di vista della scienza, non ne è più niente del conoscere o dell’intuire perché la scienza è totalmente immersa nel proprio contenuto oggettivo, ontico, e con ciò si dimentica dello sguardo con cui si vede questo contenuto.
7Chi conosce un poco la filosofia italiana, sa che questo era proprio il discorso (il Leitmotiv) di Gentile per il quale il difetto del naturalismo, dell’intellettualismo ingenuo, del presupposto dualistico, è appunto quello di non aver occhi che per le cose, dimenticando lo sguardo con cui questi occhi si realizzano: il difetto è quello di pensare le cose, di perdersi nel pensiero delle cose, dimenticando il pensare. Quando Heidegger dice che nichilismo è la situazione in cui dell’essere non è più nulla, si muove dunque in questa prospettiva.
8Ma non è nemmeno questo il senso di nichilismo di cui stiamo parliamo. Il nichilismo al quale ci stiamo riferendo è invece ciò che da tutte queste prospettive, che in vari modi prendono le distanze dalla loro definizione di nichilismo, è tenuto fermo come indubitabile e cioè la storicità, la temporalità, la finitezza, la caducità, il diventar altro.
9Noi abbiamo continuato a usare la formula del diventar altro, che racchiude in sé tutte quelle categorie che sono forse le più usate e che costituiscono il tessuto reggente della cultura contemporanea non solo filosofica. Risentiamole: finitezza, contingenza, temporalità, carattere effimero, precario e casuale degli eventi. Nella lezione di ieri dicevamo appunto che, se qualcosa viene dal nulla, è casuale perché, essendo un nulla, non può essere anticipato.
10La terza precisazione è, a mio avviso, più determinante (ma si capisce che, se non ci si intende su queste precisazioni, non andiamo per la stessa strada) e riguarda il modo in cui ho presentato la follia del diventar altro. Quanti conoscono il contenuto dei cosiddetti “miei scritti” si saranno accorti che la presentazione che ho dato della follia del diventar altro è diversa da quella che è presente, per esempio, in Essenza del nichilismo, dove c’è un saggio intitolato Ritornare a Parmenide. È su questo versante che oggi vorrei richiamare l’attenzione65. Nelle pagine precedenti si faceva l’esempio della legna e si diceva che, alla luce della riflessione ontologica, la legna si presenta come un dover diventare nulla per poter diventare cenere. E precisavamo: è la specificità della legna che deve diventare nulla per diventare cenere. L’ἐπαμϕοτερἰζειν (epamphoterízein), l’oscillazione delle cose, è l’oscillazione tra l’essere e il non essere, dove, ripeto, il non essere va qui inteso come il non essere assoluto di ciò che è così oscillante. Si parla di temporalità dell’essere. Heidegger scrive Essere e tempo. Qui ci stiamo invece avviando in una direzione in cui si dice che l’essere non è tempo, intendendo per tempo ciò che presuppone l’ἐπαμϕοτερἰζειν (epamphoterízein) ontologico delle cose. Eravamo arrivati ad affermare questo e cioè che l’essente in quanto essente non è altro da sé, cioè non può diventare altro da sé, cioè è eterno perché il non poter diventare altro, e dunque il non poter diventare nulla, è l’eternità dell’essente.
Il tempo dell’assurdo
11Porre l’essente nel tempo significa, innanzi tutto, rivolgere l’attenzione all’essente. Ho già rievocato quella mia conversazione con Gadamer a proposito del fatto che, se l’essere di Heidegger non vuol essere nulla, rientra in quel più ampio concetto di essente che non si riduce alla dimensione ontica. Heidegger parla della differenza ontologica, ma essa non è la differenza tra l’essente e il nihil absolutum. In effetti Heidegger continua ad affermare che il proprio “essere” non è il nihil absolutum. Ma se non è il nihil absolutum, allora il pensiero greco (qui possiamo dire definitivamente) è in grado di recuperare, all’interno del concetto di essente, anche ciò che per Heidegger differisce dall’essente e si pone come dimensione ontologica – come “luce” che però, essendo la manifestazione, il ϕαἰνεσθαι (phaínesthai) delle cose, non è un nulla e quindi rientra, in quanto non nulla, nell’autentica dimensione totale dell’essente.
12Porre l’essente nel tempo significa allora pensare le cose in quanto essenti e ormai, anche se non lo si dice, le cose sono pensate come essenti che oscillano tra l’essere e il non essere. Anche la scienza continua a parlare del non essere ancora della cosa e del suo non essere più: se tiriamo via questo non essere dalle scienze fisiche, naturali, biologiche, storiche… non rimane più in piedi la dimensione diacronica e quindi la stessa dimensione scientifica.
13Quando si parla del non essere degli essenti, si pensa un tempo in cui l’essente non è. Ciò di cui noi tutti, in quanto abitatori dell’Occidente, siamo convinti è che il tempo porta con sé cose nuove, cose che prima non erano e lascia che si perdano le cose vecchie che erano sopraggiunte. Quindi il tempo è il luogo in cui l’essente, prima di essere e dopo essere stato, non è: il tempo è cioè la dimensione in cui l’essente, essendo ancora un niente o non essendo più, è, esso stesso, un nihil absolutum – il che, ripetiamolo ancora una volta, non vuol dire che non ci sia più nulla, ma che non c’è più nulla di quell’essente che provvisoriamente è emerso dalla propria nullità.
14Supponiamo che io dica: «Esiste un tempo in cui il cerchio è quadrato» e che usi quest’espressione nell’ipotesi che qui si sia tutti degli euclidei che credono nella impossibilità della quadratura del cerchio (e quindi degli euclidei che affermano l’incontrovertibilità del non esser cerchio da parte del quadrato). Se dunque dicessi: «Quando, in passato, il cerchio era quadrato, eccetera, eccetera», oppure: «Ora il cerchio non è quadrato. Poi ci sarà un tempo in cui il cerchio sarà daccapo quadrato…», sarei subito fermato. Mi si direbbe: «No! Non ci può essere un tempo, passato, presente o futuro, in cui il cerchio sia quadrato», a meno che, ripeto, non si sia più euclidei e si ammetta la possibilità della quadratura del cerchio. Vorrei portare l’attenzione sulla situazione in cui noi siamo così pronti a escludere un tempo in cui il cerchio sia quadrato – questo viene immediatamente escluso. In questo caso la nostra sensibilità è pronta, non abbiamo troppa difficoltà a escludere questo tempo così come siamo pronti a escludere il tempo in cui l’uno sia due. Posto che si sia peaniani, cioè matematici che ritengono il valore assoluto della matematica, non siamo disposti a dire: «Quando l’uno era due…», oppure: «Quando l’uno sarà due…». Né siamo disposti a dire, per usare un esempio del Teeteto di Platone: «Quando il bove era cavallo…» o «Quando il bove sarà cavallo…» o ancora: «Quando il giusto sarà sbagliato…» o «Quando il giusto era sbagliato…»66. Noi siamo immediatamente pronti a recepire quest’assurdità e cioè a qualificare come assurdità questo modo di pensare. Ma non siamo altrettanto pronti – e questa è la caratteristica del “mortale” – a percepire l’assurdità di un tempo in cui l’essente è niente: di un tempo futuro in cui l’essente ancora è niente e di un tempo passato in cui l’essente non è più niente. Cerchiamo allora di mostrare come qui l’assurdità è ancora più radicale perché si riferisce a ogni essente, mentre l’esempio relativo al quadrato, all’uno, al bove, al giusto, si riferiva solo a certi essenti.
15La fede nel divenire presuppone un tempo futuro in cui l’essente ancora è niente e un tempo passato in cui l’essente ormai è niente. Questa convinzione sta alla base anche di quelle formidabili pagine della Dialettica trascendentale di Kant in cui si trova uno dei modi più rigorosi di affermare il carattere sintetico del giudizio esistenziale, dell’Existenzialsatz. Mi riferisco a quelle pagine sull’impossibilità di argomentare l’esistenza di Dio laddove Kant afferma che l’essere non è un predicato reale67. Che cosa vuol dire Kant? Non che l’essere non sia un predicato, ma che l’essere non è un predicato che aggiunga qualcosa a ciò di cui esso è predicato. Se si dice: «Questa stanza è» si dice qualcosa di diverso dal giudizio in cui si afferma: «Questa stanza è rettangolare». Ma la rettangolarità è un predicato reale che si aggiunge al soggetto “questa stanza”, mentre “essere” non è un predicato reale nel senso che non aggiunge alcunché al concetto del soggetto di cui l’essere si predica. Si badi che Kant non dice nulla di nuovo rispetto a quanto dice Platone quando afferma l’ἐπαμϕοτερἰζειν (epamphoterízein) dell’ente. Dire infatti che la cosa oscilla tra l’essere e il nulla vuol dire che la cosa si scioglie dalla sua connessione con l’essere e col nulla. È chiaro che la terminologia kantiana (“giudizio sintetico”) non è presente in Platone, ma egli intendeva dire proprio questo e cioè che l’affermazione dell’essere, per cui si dice che l’oscillante “è”, è una connessione sintetica non necessaria, un giudizio sintetico.
16Quando Tommaso d’Aquino afferma la distinzione tra essenza ed esistenza e afferma che, dunque, possiamo sapere che cos’è “uomo” anche senza sapere se sia o non sia68, dice quello stesso che poi dirà Kant – si capisce, in modo più articolato e anche più suggestivo in relazione al contesto storico in cui lui parla. Ma quando Tommaso d’Aquino dice che l’essenza non implica necessariamente l’esistenza vuol dire, appunto, che il giudizio d’esistenza è un giudizio sintetico ossia è un giudizio non necessario69.
17Ebbene, stiamo mettendo in questione questa tradizione straordinaria del carattere sintetico dei giudizi esistenziali – tradizione che parte dai Greci e che oggi ha grande fortuna nell’ambito della cultura filosofica analitica. Il sottinteso è che non c’è connessione necessaria tra la determinazione e l’essere – e questo è un equivalente del dire che le cose sono un diventar altro. Se, infatti, non c’è connessione necessaria tra la determinazione – tra quella che Tommaso chiamava essenza – e l’essere, allora la cosa è un diventar altro nel senso che lascia il proprio sodalizio con l’essere e ne instaura uno col nulla: oscilla, è appunto un ἐπαμϕοτερἰζειν (epamphoterízein) tra l’essere e il nulla.
18Stiamo dunque mettendo in questione questa formidabile tradizione dove, voglio ripetere, il discorso di Kant sul carattere sintetico dei giudizi esistenziali è il più frequentato anche nel campo della logica formale, della logica simbolica; è il più sfruttato senza per altro sapere, da parte dei logici, che questa riverenza fatta a Kant è una riverenza fatta a tutta la tradizione filosofica dell’Occidente, secondo l’esemplificazione che ho dato prima parlando, per esempio, di Platone. Noi stiamo invece dicendo che il giudizio esistenziale è analitico70, è necessario perché, se si afferma che la connessione tra il qualcosa e il proprio essere è sintetica quindi non incontrovertibile, non necessaria, allora si ha un tempo in cui l’essente non è: un tempo futuro in cui l’essente non è ancora e un tempo passato in cui non è più, e cioè si ha un tempo in cui l’essente è niente, in cui il non niente è niente – con ciò affermando proprio quell’assurdo che, come già dicevamo, l’intera tradizione occidentale intende evitare per lo meno per il fatto che, affermando il divenire, il divenir altro, deve distinguere l’altro dall’inizio del processo del divenir altro.
19Di Silvia, Leopardi dice: «Ahi come passata sei…». Quando dice “passata sei” vuol dire: «Sei diventata niente». Consideriamo adesso queste due proposizioni: [I] “Quando il niente è niente” e [II] “Quando Silvia è niente” o, se proviamo a dilatare il discorso, “Quando l’essente è niente”. Sono identiche queste due proposizioni? Pensare il tempo in cui il niente è niente è lo stesso che pensare il tempo in cui l’essente è niente? Se si dicesse che queste proposizioni sono identiche, si affermerebbe che l’essente è niente. Ci si trova d’accordo dunque nel vedere la differenza tra il tempo in cui il niente è niente e il tempo in cui l’essente è niente. Ma il punto è che, pensando il tempo in cui l’essente è niente, si viene a pensare il luogo della follia estrema in cui si identifica l’essente, cioè il non niente, con il niente.
20Quando dico follia estrema, non mi riferisco però alla semplice constatazione dell’identificazione di quei non identici che sono l’essente e il niente, perché la semplice deprecazione dell’identità dei non identici è un dogma: la semplice enunciazione del cosiddetto principio di non contraddizione, che è la negazione dell’identità dei non identici, è un dogma. Ci siamo infatti chiesti: «E perché i non identici non possono essere identici?».
21Ciò che abbiamo incominciato a chiamare Destino non coincide quindi col dogma che afferma la non identità dei non identici, cioè col dogma in cui consiste, per lo più, il principio di non contraddizione come si presenta nella storia dell’Occidente. Ciò che abbiamo chiamato Destino non coincide neppure col dogma che afferma l’esistenza del mondo. S’è detto infatti: «Sì, il mondo appare. Ma perché dobbiamo affermare ciò che appare?». E abbiamo aggiunto che non è una semplice questione teorica perché ogni violenza ha alla propria base la nullificazione di qualche cosa che appare, nullificazione che produce poi i campi di concentramento: ti distruggo perché non ci sei, quindi il distruggerti è una conferma del tuo essere originariamente nulla, del tuo essere originariamente distrutto.
22È quindi necessario andare oltre il dogma del principio di non contraddizione, oltre il dogma dell’affermazione dell’apparire, ma anche oltre il dogma dell’esistenza del linguaggio. In base a che cosa affermiamo quella dimensione del mondo che si chiama linguaggio?
23Se adesso il discorso procede, procede con questo grosso debito da parte di chi parla, nel senso che si deve dare a Cesare quel che è di Cesare, dove Cesare, in questo caso, è il Destino. E il Destino è ciò che è in grado di rispondere a queste domande.
Il primo principio e l’ἔλεγχος (élenchos) nella trattazione aristotelica
24Proviamo a ricordare come Aristotele nel Libro quarto della Metafisica71 prende posizione contro i negatori della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) con una radicalità che raramente è stata raggiunta in seguito. Il principium firmissimum viene enunciato da Aristotele così: è impossibile, ἀδύνατον (adýnaton), che allo stesso convenga e non convenga lo stesso secondo lo stesso rispetto, κατά τό αὐτό (katà tó autó). Dire secondo lo stesso rispetto è essenziale perché di questo tavolo, per esempio, posso dire che è piccolo e grande ma piccolo rispetto alla stanza, grande rispetto alla biro. Anche se in questa formulazione del principio di non contraddizione non compare la categoria del tempo, essa è però inclusa nel κατά τό αὐτό (katà tó autó) che dunque significa anche: «relativamente allo stesso tempo». Aristotele dice che questo principio è il più saldo di tutti e che quindi, rispetto a esso, è impossibile essere in errore, διαψεύδεσθαι (diapseýdesthai). Mi prendo la responsabilità di dire che non si è pressoché mai capita la densità di quel passo che apre il discorso sulla βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) – passo scandito in tre tempi che vengono intesi, purtroppo, come l’introduzione di varie formulazioni del principio di non contraddizione da parte chi, Aristotele, non saprebbe controllarne la definizione univoca. Nulla di tutto questo! Aristotele è capace di controllare quello che ha scritto72.
25Ma lasciamo da parte questa scansione relativa alla formulazione del principio. Stiamo dicendo che il Destino non è il dogma che enuncia il principio di non contraddizione – mentre anche là dove, sia pure ad altissima quota, si tenta di sottrarlo alla dogmaticità dell’affermazione, anche lì si fallisce. Aristotele rileva che il principio di non contraddizione non può essere dimostrato perché tale principio è quello più saldo di tutti e la dimostrazione procede a partire dal più saldo. Dimostrare un teorema T significa mostrare che la negazione di esso implica la negazione dei postulati e degli assiomi. Soltanto che i postulati e gli assiomi, anche agli occhi di Aristotele, appaiono come ipotesi, mentre il principio più saldo di tutti è ἀνυπόθετον (anypótheton) e cioè non è ipotetico.
26Il primo principio non può dunque essere dimostrato. Però, dice Aristotele, lo si può dimostrare ἐλεγκτικῶς (elencticôs), in modo elenctico e cioè si può mostrare che, chi lo nega, lo afferma e che quindi esso è l’innegabile perché, persino chi lo nega, si appoggia su di esso. Sono poche le righe che Aristotele dedica alla ἀπόδεῖξις ἐλεγκτικῶς (apódeixis elencticôs), cioè alla dimostrazione elenctica. Essa consiste nel rilevare che la negazione della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) è un ὁρισμένον (horisménon), ossia un che di determinato. Ma dire che è impossibile che lo stesso convenga e non convenga allo stesso, è un affermare appunto la determinatezza dell’essente, il quale essente, se fosse ciò a cui conviene e non conviene lo stesso, sarebbe indeterminato. Il principio afferma la determinatezza dell’essente. La negazione del principio – e cioè la negazione del determinato – è anch’essa un che di determinato.
27Aristotele non dice che il non determinato è un determinato: questa sarebbe una contraddizione. Qui l’attenzione deve essere massima. Altro è dire che il non determinato è determinato – questa è una negazione della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) –, altro è dire ciò che afferma Aristotele e cioè che la negazione del determinato è un determinato, il che significa che la sequenza linguistico/concettuale in cui consiste la negazione del determinato è un determinato. Se infatti chiedessimo a “chi” intende negare il principio – e avremo modo di tornare su questo “chi” che è il negatore della πρώτη ϕιλοσοϕία (próte philosophía), l’interlocutore del ϕιλόσοϕος (philósophos) – se la sua negazione è disposta a lasciarsi trattare come non negazione, e il negatore rispondesse di sì, allora egli non sarebbe il negatore del primo principio. Il negatore è negatore se intende tener fermo il carattere di negazione della propria negazione e cioè se intende tenere presso di sé l’esser negazione: se intende tenere ferma la determinatezza della negazione. L’ἔλεγχος (élenchos) consiste nel rilevare proprio questo e cioè che la volontà di tener ferma la determinatezza della negazione è il primo principio – che è l’affermazione della determinatezza dell’essente.
28La riflessione aristotelica su questo gesto grandioso che è l’ἔλεγχος (élenchos), che alla lettera vuol dire confutazione (ἔλεγχος è anche la punta della lancia), è ondeggiante. Negli Analitici, per esempio, Aristotele considera l’ἔλεγχος (élenchos) come appartenente alla “dialettica” che non è la πρώτη ϕιλοσοϕία (próte philosophía), ma quella considerazione della concettualità in cui si sviluppano conseguenze necessarie senza che sia necessario partire da premesse necessarie73. La dialettica è cioè, per Aristotele, lo sviluppo della consequenzialità a partire da premesse vere o false che siano: è l’inizio di quell’atteggiamento che poi sarà imboccato dalla logica formale per cui, date certe regole di trasformazione, queste consentono, anche a partire da premesse false, di arrivare a conclusioni corrette, ma corrette nel senso della loro necessaria implicazione. Ebbene, se stiamo a questa valenza dell’ἔλεγχος (élenchos) quale è presentata negli Analitici – cioè dell’ἔλεγχος (élenchos) come appartenente alla dialettica – allora l’ἔλεγχος (élenchos) è un che di accidentale. C’è bisogno di un ἔλεγχος (élenchos) se compare il negatore del principio di non contraddizione perché, di per se stesso, il primo principio non avrebbe bisogno di difesa alcuna: è di per se stesso evidente, ϕανερόν (phanerón).
29Qui c’è una prima difficoltà di grande rilievo che però non viene percepita come tale se ci poniamo sul versante della contemporaneità. Un filosofo come Habermas, per esempio, parla delle regole a cui deve sottostare chi vuol partecipare al dialogo. Ma in base a che cosa si afferma l’esistenza del dialogo? Perché esiste un dialogo? L’esistenza di una situazione intersoggettiva/dialogica è un’interpretazione: che esista un avversario del principio di non contraddizione, uno che pensi l’opposto del principio di non contraddizione, è un’interpretazione.
30Il modo in cui nel libro quarto della Metafisica Aristotele presenta l’ἔλεγχος (élenchos) è compromesso dall’impostazione intersoggettiva del rapporto tra affermatore e negatore del principio di non contraddizione. Se c’è il negatore, allora si mette in moto l’ἔλεγχος (élenchos) e la ἀπόδεῖξις ἐλεγκτικῶς (apódeixis elencticôs) riesce a far vedere che la negazione del determinato è un determinato – e che, quindi, anche il negatore si fonda su ciò che egli intende negare. Ma, se il negatore non c’è, non c’è bisogno di ἔλεγχος (élenchos).
31Questo ha delle ripercussioni anche sul pensiero, sul ϕαἰνεσται (phaínestai) in quanto tale: dal punto di vista aristotelico, la negazione del principio di non contraddizione non è un che di necessario, non è un qualcosa che si presenti necessariamente, con cui necessariamente si debba aver che fare quando si tiene ferma la βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché). In altri termini: se c’è la negazione, allora si può far vedere che il principio è capace di toglierla di mezzo, ma, se la negazione non c’è, non c’è neppure bisogno che il principio si scomodi.
32È quell’atteggiamento che abbiamo già indicato quando dicevamo che, a dimenticarsi dell’errore, ci si dimentica della verità. Se la verità è annientamento dell’errore – e poi va a finire che è anche annientamento dell’errante –, la verità non è verità, è una situazione apofantica (predicativa, asseverativa) che, non essendo in relazione alla propria negazione, ammette la possibilità della propria negazione. Se la verità non è essenzialmente in relazione all’errore (se cioè si pensa la verità indipendentemente dalla sua relazione all’errore), essa è errore in quanto aperta alla possibilità che sia affermato l’opposto di ciò che essa afferma.
33Nella difesa aristotelica del principio di non contraddizione, della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché), c’è dunque questo atteggiamento: se c’è il negatore e se questi non dice nulla, allora è simile a un tronco, όμοίος ϕυτῶ (homoìos phytô); se dice, se vuol dire qualcosa, allora, negando il principio, non è che possa dire: «La mia negazione è uguale al dire che fuori c’è la nebbia». Negando il principio egli intende dire: «La mia negazione è negazione del principio, della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché)». Se esiste il negatore, se esiste la negazione, allora si attiva l’ἔλεγχος (élenchos). Ma che il rapporto tra il principio e la negazione del principio sia essenziale, questo è ciò che va allontanandosi sempre di più nel discorso aristotelico. Se il principio è impostato dal punto di vista intersoggettivo, come appunto Habermas, Apel e anche altri intendono fare – non in relazione al principio di non contraddizione ma in relazione alle regole del dialogo –, allora l’incontrovertibilità del principio è pregiudicata dall’ipoteticità della situazione intersoggettiva74.
34Ma c’è una seconda difficoltà ancora più radicale. Proviamo a considerare il rapporto tra la βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) in quanto tale (intesa cioè non in quanto prodotto teorico di un individuo, di un ἄνθρωπος, ánthropos, ma come contenuto semantico/apofantico) e la propria negazione, prescindendo dalla contestualizzazione intersoggettiva del rapporto tra principio e negazione.
35Se le cose sono messe in questi termini – se dunque prendiamo le distanze anche da quell’affermazione del carattere dialettico dell’ἔλεγχος (élenchos) per cui l’ἔλεγχος (élenchos) appartiene a quella disciplina in cui si può partire da premesse false –, allora appare che il principio di non contraddizione è essenzialmente legato all’ἔλεγχος (élenchos). Sennonché il principio è la βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché), è cioè un che di originario: è ciò che deve essere conosciuto per poter conoscere qualsiasi altra cosa. Aristotele rileva il carattere basale del primo principio rispetto a ogni ulteriore conoscenza. Dunque, da un lato il principio è originario, dall’altro lato è tenuto fermo in quanto sta in relazione all’ἔλεγχος (élenchos). Ma allora – ecco la difficoltà – l’ἔλεγχος (élenchos) non si presenta come fondazione di ciò che, in quanto originario, è il fondamento di tutto?75.
36Qualora si prescinda dalla letterarietà dell’esposizione aristotelica, viene fuori la relazione necessaria tra principio ed ἔλεγχος (élenchos) per cui l’ἔλεγχος è ciò che mostra l’impossibilità di negare il principio. Dire “principio senza e[legco" (élenchos)” vuol dunque dire “non principio”. D’altra parte, se teniamo fermo il nesso “principio unito all’ἔλεγχος (élenchos)”, non dobbiamo allora concludere che l’ἔλεγχος (élenchos) è la fondazione dell’infondabile, di ciò che è il fondamento di tutto, di ciò che è l’originario rispetto a cui non ci si può trovare in errore? Qui si fa presente una dimensione aporetica nella quale il grande pensiero di Aristotele si arena. Se però vogliamo parlare di Destino, non possiamo accompagnare Aristotele in questo naufragio. Il Destino deve essere in grado di rispondere a quest’insieme di difficoltà che accompagnano il modo dogmatico in cui viene affermato il principio di non contraddizione perfino là dove, con Aristotele, questo principio mostra la propria potenza.
Il primo principio e l’élenchos nello sguardo del Destino
37Possiamo dunque procedere accentuando la situazione aporetica per quanto riguarda la posizione di Aristotele, che qui prendiamo in considerazione perché è la più potente relativamente alla presa di posizione rispetto alla βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché).
38Si è detto che l’ἔλεγχος (élenchos) aristotelico mostra che la negazione del determinato è un determinato, con quella precisazione che si è fatta per cui “negazione del determinato” non vuol dire “non determinato”. Se dunque vuol essere negazione, la negazione del determinato deve tener ferma se stessa ed essere un che di determinato. Come s’è detto, il negatore del principio di non contraddizione non è disposto a sentirsi dire: «Per te negare il principio e dire che fuori c’è nebbia è la stessa cosa». Egli dice: «No! Io voglio negare il principio» e quindi tiene ferma la determinatezza della negazione. Una volta che la dimensione positiva del principio rileva questo, la negazione può però ribattere dicendo76: «Io, negazione, sono determinata come negazione – e cioè quel determinato che è la negazione è certo un determinato. Ma che ne è di tutte le altre cose? Perché non possono essere indeterminate?». Qui Aristotele non risponde. Ma è qui che prende forma la possibilità di una negazione parziale del principio di non contraddizione secondo quelle logiche paraconsistenti a cui ho già fatto cenno. Ma non soltanto quelle: in ambito sociologico, per esempio, anche Luhmann sostiene la possibilità di violare, nella trattazione della società, il principio del terzo escluso, che è connesso al principio di non contraddizione. Cito le logiche paraconsistenti, ma potremmo fare altri esempi come il cattivo modo di intendere il rapporto tra l’hegelismo e il principio di non contraddizione.
39Formuliamo ancora una volta la difficoltà. La negazione del principio è un che di determinato – questo rileva l’ἔλεγχος (élenchos). Ma la negazione può ribattere dicendo che, se essa è certo un che di determinato per quanto riguarda la consistenza semantica che la costituisce, tutte le altre cose possono però essere indeterminate, cioè possono essere contraddittorie. Come risponde l’ἔλεγχος (élenchos) aristotelico a quest’affermazione che dunque introduce una contraddittorietà parziale dell’essere? L’essere è, in parte, incontraddittorio e in questa dimensione parziale rientra la negazione del principio di non contraddizione che è un determinato. Ma tutto ciò che sta al di là? C’è la dimensione dell’essere, che è maggioritaria, rispetto alla quale la negazione dice: «Perché quest’ulteriore dimensione non può essere contraddittoria?». Qui Aristotele né prende in considerazione questa replica dell’obbiezione né tanto meno risponde alla replica.
40Possiamo adesso fare un passo oltre l’aporetica dove il passo innanzi è il passo del linguaggio. Se infatti il risolvimento dell’aporetica fosse concettuale, allora si produrrebbe proprio quella situazione per cui dalla non verità si va alla verità, quel divenir altro per cui la non verità diventa verità.
41La motivazione della divaricazione, o almeno della differenza, tra linguaggio e cosa – dove la “cosa”, in questo caso, è il fondamento o, meglio, il Destino –, incomincia a presentarsi a questo punto: la parola certo si sviluppa e mostra il risolvimento dell’aporeticità relativa alla “cosa”, ma la “cosa” deve essere già questo risolvimento perché altrimenti si darebbe il transito, che non può mai condurre in porto, dalla non verità alla verità77. Mettiamo dunque in atto la negazione la quale dice: «I differenti sono identici», il microfono è la bottiglia. Non basta dire: «No, questo nega il principio di non contraddizione». Il punto è: «Perché non lo si può negare?». Ecco il microfono. La negazione dice: «Il microfono è la bottiglia». Il tipo di esemplificazione, a questo punto, riguarda un qualsiasi determinato perché potremo dire che “il tavolo è il soffitto” o che “Torino è Milano”; riguarda quindi qualsiasi determinatezza, mentre prima il discorso giocava su quella determinatezza che è la determinatezza della negazione della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché). In relazione a quest’identificazione si tratta allora di stabilire se i due – per esempio il microfono e la bottiglia – siano due, cioè appaiano come due oppure no.
42Consideriamo il secondo caso. Non appare la differenza tra microfono e bottiglia. In questo caso, dire che “il microfono è la bottiglia” non è una negazione dell’identità degli identici. Se non appare la differenza tra il microfono e la bottiglia, affermare l’identità dei due è soltanto rilevare la presenza di due parole (microfono e bottiglia) per indicare lo stesso. In questo caso la negazione non è negazione del principio di non contraddizione, non è negazione di ciò che, uscendo dalla terminologia aristotelica, in tutti i “miei scritti” chiamo opposizione del positivo e del negativo, dove il positivo è un qualsiasi essente e il negativo è l’altro rispetto al qualsiasi essente considerato.
43Chiediamoci dunque: «Appare la differenza?». Se la differenza tra microfono e bottiglia non appare, allora dire che “il microfono è la bottiglia” significa dire: «Lo stesso è indicato da due nomi diversi». Ma dire che “lo stesso è indicato da due nomi diversi” non significa negare l’opposizione del positivo e del negativo. Perché si neghi tale opposizione è necessario che appaia ciò che si nega. Se non appare ciò che si nega, la negazione non è negazione dell’identità degli identici. Ma, se la differenza appare, allora la negazione, per potersi costituire come negazione, si fonda sull’apparire della differenza.
44Questo discorso si fa innanzi in relazione all’insufficienza della risposta aristotelica al negatore del primo principio perché (sto ripetendo) l’ἔλεγχος (élenchos) aristotelico mostra sì la determinatezza della negazione – mostra infatti che la negazione del determinato è un determinato – ma la negazione può replicare dicendo che, tutto ciò che non è essa stessa, può essere un indeterminato, sicché tutto, fuorché la negazione, può essere contraddittorio. Si costituisce così una frattura nell’essere per cui si viene a dire che la negazione soggiace certo alla determinatezza, ma tutto il resto è caotico. E allora, s’è detto, il discorso aristotelico non solo non prende in considerazione questa replica della negazione ma, a maggior ragione, a questa replica non risponde.
45Il discorso positivo ha l’intento di mostrare che la totalità dell’essente è determinata e quindi prende in considerazione un qualsiasi essente. Ho fatto l’esempio del microfono e del suo rapporto con la bottiglia, ma potevamo prendere in considerazione un qualsiasi altro essente. Abbiamo detto che, se non appare la differenza tra questo microfono e la bottiglia, affermare che “il microfono è la bottiglia” non significa negare l’opposizione di positivo e negativo o, in termini aristotelici, non significa negare la βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché).
46La negazione intende essere negazione della differenza: non intende essere affermazione della differenza dei differenti, intende affermare l’identità dei differenti. Ma perché possa essere negata, è necessario che la differenza appaia. Se la differenza appare, allora la negazione si costituisce come negazione soltanto sul fondamento dell’apparire della differenza e cioè sul fondamento dell’apparire di ciò che essa nega. Dicendo che non esiste la differenza, la negazione nega quindi se medesima e dice: «Io non ci sono; io nego me stessa». In questo caso non è più possibile che la negazione replichi dicendo: «C’è una zona dell’essente che è contraddittoria». Non può replicare così perché qui abbiamo detto che di qualsiasi essente possiamo dire quello che abbiamo detto del rapporto tra questo essente che è il microfono e quest’altro essente che è la bottiglia78.
47Si incomincia così a profilare un tratto positivo del Destino. Un tratto positivo del Destino era quello emerso quando s’è detto che, affermare il divenir altro e affermare un tempo in cui l’essere è niente, significa affermare l’identità dei diversi. Ma si era anche detto: «Perché non si può affermare l’identità dei diversi?». Ora abbiamo incominciato a rispondere. Non si può affermare l’identità dei diversi perché, se la negazione della diversità dei diversi non è l’apparire della diversità, non è negazione: se non appare la differenza tra microfono e bottiglia, dire che “il microfono è la bottiglia” significa usare due parole per indicare lo stesso79. È allora necessario che appaia quella differenza che costituisce la negazione, senza di cui non c’è negazione della differenza80.
Aporetica del fondamento e sua risoluzione
48Ciò che sta dinanzi è l’apparire dell’opposizione di positivo e di negativo. Il discorso che intendo fare si riferisce a ciò che abbiamo lasciato in sospeso. L’ἔλεγχος (élenchos) che mostra l’innegabilità del principio non si presenta forse – si è detto – come fondazione del fondamento? Da questa situazione aporetica si esce considerando il senso dell’opposizione del positivo e del negativo, che può avere il carattere dell’opposizione di un certo positivo e di un certo negativo – il microfono e la bottiglia –, ma può anche significare l’opposizione del positivo considerato in quanto positivo nel suo rapporto col negativo considerato in quanto negativo.
49Se la prima opposizione – microfono e bottiglia – è rapportata all’opposizione tra il positivo in quanto positivo nel suo rapporto col negativo in quanto negativo, allora questa seconda opposizione contiene la prima come individuazione di se stessa. Per semplificare le cose, si pensi al rapporto tra l’albero e l’abete: nella tradizione filosofica l’abete è un’individuazione dell’esser albero. Ci si orienta in questa prospettiva ma relativamente a un contenuto che è essenzialmente diverso. Altro è dunque l’opposizione universale di positivo e di negativo, dove positivo è il qualsiasi positivo considerato e negativo è il qualsiasi negativo considerato, altro è l’opposizione tra il microfono e la bottiglia che è l’opposizione tra un certo positivo e un certo negativo di quel positivo. Perché dico un certo negativo? Perché “non microfono” è la bottiglia, il tavolo, il pennarello… il nulla – che certamente si oppone al microfono in modo diverso da come la bottiglia, il tavolo, il pennarello… si oppongono al microfono81.
50C’è poi una terza figura dell’opposizione di positivo e di negativo che non è il positivo considerato in quanto positivo, ma il positivo considerato in relazione alla concretezza totale dei positivi. Il positivo considerato come concretezza totale è la totalità concreta dell’essente rispetto alla quale il rapporto tra microfono e bottiglia non è una individuazione ma è una parte: è cioè una parte della totalità del positivo.
51Se teniamo presenti queste considerazioni sul rapporto tutto-parte, ci troviamo allora nella condizione di risolvere l’aporia relativa all’ἔλεγχος (élenchos). A mio avviso questo è uno dei tratti decisivi di ciò che chiamo Destino.
52Si tratta di capire che l’ἔλεγχος (élenchos) è una individuazione dell’opposizione universale di positivo e di negativo. Se tale opposizione è pensata separatamente dall’ἔλεγχος (élenchos) – come dire che, da una parte sta l’opposizione, e dall’altra sta l’ἔλεγχος (élenchos) –, allora certamente si produce l’aporia che consideravamo prima per cui l’opposizione, che pretende essere fondamento, viene a essere fondata dall’ἔλεγχος (élenchos). Se però ci si rende conto che l’ἔλεγχος (élenchos) è una individuazione dell’opposizione universale di positivo e di negativo, allora l’ἔλεγχος (élenchos) non è più pensato separatamente e cioè successivamente rispetto all’opposizione, ma appare come ciò che è a essa cooriginario. In questo modo non si può più dire che il fondamento è fondato su un “che” d’altro che ne mostra l’innegabilità.
53Il punto su cui riflettere è dunque questo: l’ἔλεγχος (élenchos) è un’individuazione dell’opposizione universale di positivo e negativo. Cerchiamo di capire perché.
54Che cosa dice l’ἔλεγχος (élenchos)? L’abbiamo considerato in due modi diversi. Nella formulazione aristotelica che consente la ripresa della negazione la quale dice: «Io sì sono incontraddittoria, ma tutto il resto oltre a me può essere contraddittorio» (e qui Aristotele non replica); poi l’abbiamo considerato nella formulazione capace di replicare rispetto a quella ripresa. Che cosa dice l’ἔλεγχος (élenchos) aristotelico? Dice: «La negazione del determinato è un determinato» che significa: «La sequenza concettuale/linguistica in cui consiste la negazione è un determinato». Questa proposizione afferma l’identità del soggetto e del predicato, cioè afferma che quel determinato, che è la negazione, è un determinato. Ma proprio in quanto è l’affermazione di una certa identità, l’ἔλεγχος (élenchos), in questa formulazione aristotelica, è un’individuazione dell’opposizione universale di positivo e di negativo.
55Ci rimane da considerare l’opposizione di positivo e negativo come non soggiacente alla replica della negazione. E qui, a mio avviso, stiamo toccando il fondo del discorso speculativo. Si è detto che la negazione dell’identità di microfono e bottiglia presuppone, include, è costituita dalla differenza tra microfono e bottiglia. La negazione della differenza include cioè la differenza. Ora, questa stessa proposizione – la negazione della differenza include la differenza – è una proposizione identica nel senso che il predicato (“include la differenza”) è identico al soggetto (“la negazione della differenza”) ratione partis subiecti.
56Il soggetto è un intero semantico (“la negazione della differenza”) che include la “differenza” – un intero semantico di cui la “differenza” è parte. Diciamo perciò che c’è identità di soggetto e di predicato nel senso che il predicato è identico al soggetto non in virtù del soggetto in quanto il soggetto è preso nella sua interezza, ma in virtù del soggetto in quanto esso è includente quella parte che è il predicato. Dal punto di vista formale, quando si dice che “la negazione della differenza include la differenza”, si dice che la “differenza” è una parte del soggetto appunto perché il soggetto è “la negazione della differenza”. In virtù di che cosa il predicato è allora identico al soggetto? In virtù di una parte del soggetto, come se dicessi, per esempio: «Una figura piana è una figura». Anche qui abbiamo un’identità in cui il predicato è identico al soggetto ratione partis subiecti.
57Se così stanno le cose, allora non solo la formulazione aristotelica dell’ἔλεγχος (élenchos) è un’individuazione dell’opposizione universale di positivo e di negativo, ma è un’identità anche la formulazione che non consente la replica da parte della negazione del primo principio: anche la formulazione che noi abbiamo usato, parlando della differenza tra microfono e bottiglia, è un’identità che però, in questo caso, si presenta come identità tra il predicato e una parte del soggetto. In quanto si presenta come questa forma di identità, è anch’essa un’individuazione dell’opposizione universale di positivo e negativo82.
58C’è dunque la βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) e c’è l’ἔλεγχος (élenchos). L’obiezione diceva che, se l’ἔλεγχος (élenchos) mostra l’innegabilità della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché), allora l’ἔλεγχος (élenchos) è il fondamento del fondamento, è il fondamento di ciò che, essendo fondamento, è l’infondabile. Ma se l’ἔλεγχος (élenchos) è individuazione dell’opposizione universale di positivo e di negativo, allora l’ἔλεγχος (élenchos) non sta là come un qualche cosa che, separato dalla βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché), la fonda, ma è appunto un’individuazione della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché), e il Destino è l’inclusione originaria dell’ἔλεγχος (élenchos) da parte della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché). Se non c’è questa inclusione originaria, non c’è lo stare del Destino che riesce a essere stante a differenza del tentativo epistemico di stare.
59Quanto abbiamo detto a proposito del microfono e della bottiglia consente anche di avere dinanzi l’ἔλεγχος (élenchos) della negazione dell’apparire. Si era detto che l’affermare semplicemente ciò che appare è un dogma, è una fede. Ma la struttura che abbiamo indicato è la stessa struttura che si costituisce in relazione alla negazione di ciò che appare. Se io dico: «Quel microfono e quella bottiglia non esistono», la negazione può costituirsi anche qui soltanto se la differenza tra quel microfono e quella bottiglia appare.
60Indicando l’ἔλεγχος (élenchos) della negazione dell’opposizione di positivo e negativo, abbiamo anche indicato l’ἔλεγχος (élenchos) della negazione del contenuto che appare83. Se la negazione della bottiglia non ha davanti la bottiglia non è una negazione della bottiglia. Per essere negazione della bottiglia, la bottiglia – o la fede nell’esistenza della bottiglia – deve apparire. La bottiglia è bottiglia soltanto se è un qualcosa che detiene un liquido che, versato in un bicchiere, mi disseta. Che tutto questo accada è un problema. Ma perché ci sia negazione della bottiglia, la bottiglia deve apparire. Dove deve apparire? Nella negazione. Se appare nella negazione, allora la negazione è costituita da ciò di cui la negazione intende essere negazione84.
Sviluppi tematici: intersoggettività e apparire
61La situazione intersoggettiva è il modo in cui più visibilmente Aristotele introduce la considerazione del primo principio e della negazione del primo principio. Egli personifica la negazione stabilendo un dialogo tra il filosofo che afferma il principio e colui che lo nega e che, se lo nega, o lo nega determinando la propria negazione oppure diventa simile a un tronco. Ma dicevamo, sollevandoci al di sopra della letterarietà del testo del libro quarto della Metafisica, che si deve prescindere dal consenso intersoggettivo perché l’esistenza stessa di tale contenuto è problematica.
62Il discorso che abbiamo fatto scende dunque al di sotto del rapporto intersoggettivo: non si preoccupa quindi, questo discorso, di quello che il negatore possa essere perché l’esistenza stessa del negatore è un problema. La situazione è il rapporto tra l’affermazione dell’opposizione del positivo e del negativo e la negazione. Che poi ci sia un’intersoggettività che debba o no a rimanere persuasa, questo è tagliato fuori a livello di fondamentalità. Che ci sia il non persuaso può anche essere ammesso ma, dal punto di vista dell’apparire che è la concretezza originaria, la negazione è messa nella condizione di trovarsi a essere negazione di se medesima. Perché mai un individuo dovrebbe essere persuaso? Si può lasciare benissimo in sospeso il discorso. Potrebbe non essere persuaso nessuno, ma quanto si sta dicendo fa sì che la negazione sia negazione di sé.
63Il fatto che nell’originario sia tagliato fuori il rapporto col prossimo non vuol dire che lo sviluppo dell’originario non abbia che fare col concetto di prossimo e con la coscienza che il prossimo ha del Destino. Non sto quindi dicendo che il prossimo non interessa, sto dicendo che l’originario si costituisce indipendentemente dal rapporto tra la verità e il prossimo.
64Mettiamo dunque da parte Emanuele Severino, ma anche Aristotele, Gesù Cristo, il bambino, l’idiota, eccetera. Perché? Ma perché il discorso che stiamo facendo prende le distanze, già lo accennavo, dal concetto di apparire come prodotto della mente di un individuo. Non è che l’apparire sia il risultato delle escogitazioni psico/cerebrali della mente di un tizio che pensa in un certo modo. No, il tizio singolo è, esso stesso, originariamente, il contenuto di un’interpretazione. Ma poi tutto il discorso che si fa sulla storia dell’Occidente è interpretazione di modo che quel discorso lo si può riproporre in termini di “storia ideale eterna”.
65Se ἄνθρωπος (ánthropos) significa “uomo”, se ἐόν (eón) significa “essente”e μὴ ἐόν (mè eón) significa “non essente”, se esiste qualcosa come un popolo greco, se esiste qualcosa come ciò che noi crediamo sia il significato del linguaggio greco, latino, se esiste qualcosa come grecità, latinità, Chiesa, Impero Romano, storia dell’Occidente, Illuminismo, Stati nazionali, eccetera, se esiste tutto questo… allora segue quel che abbiamo detto. Una “storia ideale eterna”, dunque, perché è sottoposta a quel “se”. Ma tutto questo è il contenuto di un’interpretazione che può essere benissimo smentibile. Qualcuno potrebbe dire: «Per me quello che tu chiami lingua greca non è la lingua greca, per me ἄνθρωπος (ánthropos) vuol dire “uno” o vuol dire “giraffa”, per me la lingua greca non esiste – esiste invece un insieme di segni dai quali possiamo prescindere dal punto di vista del calcolo del numero dei linguaggi esistenti a questo mondo…». Quindi, se quell’insieme di eventi è interpretato in un certo modo, allora segue che la storia dell’Occidente è storia della follia, segue anzi che la storia del mortale è storia della follia. Che questo sia, rimane un problema.
66Però c’è qualcosa come il ricordo: c’è il ricordo del mio essere stato quello che oggi diremmo nichilista e cioè un credente nell’ἐπαμϕοτερίζειν (epamphoterízein). Se questo ricordo è verità, allora per lo meno un nichilista c’è stato, uno che ha sbagliato radicalmente c’è stato e sono stato io. Che poi esista anche quel volume di erranti che chiamo storia dell’Occidente va provato perché, originariamente, è il contenuto di un’interpretazione.
67Quando affermo che l’apparire non mostra l’altrui “coscienza”, non intendo affermare l’impossibilità che l’altro esiste, tanto è vero che nel testo La Gloria si fonda l’affermazione dell’esistenza di una molteplicità infinita di cerchi dell’apparire85. Ma altro è fondare qualche cosa in base a un nesso logico, altro è constatare qualcosa. Come quando si dice che Dio non appare. Il metafisico (o almeno un certo tipo di metafisico, poniamo il tomista) sostiene che Dio non appare e cioè che non è un contenuto immediatamente presente. Questo non vuol dire che sia impossibile la fondazione dell’esistenza di Dio, ma che questa fondazione non porta Dio dall’al di là in cui, secondo il metafisico, necessariamente esiste, nell’al di qua dell’apparire. Appare il significato formale “Dio esiste”, ma non appare la concretezza che attribuiamo a Dio quando diciamo che “Dio esiste”. In questo senso affermo che l’apparire non mostra la coscienza altrui come coscienza empirica e tanto meno mostra una molteplicità di dimensioni trascendentali dell’apparire.
68Se poi per intenzionalità si intende il linguaggio altrui, allora va detto che è in base a un’interpretazione che chiamiamo “linguaggio” certi suoni. Non è che qui si sostenga qualche cosa che va contro il concetto di essente in quanto essente. Sto dicendo che l’essente è, propriamente, la fede nell’esistenza di un essente. Né qui si sposa la tesi che tutto è interpretazione. Appare dunque l’essente, ma l’essente è molto più complicato di quanto pensavano tanto Aristotele quanto Marx il quale credeva che le banche, le industrie e i lavoratori esistessero oggettivamente. No! Sono costruzioni teoriche dove però la fede nella loro esistenza è l’autentico essente.
69L’essente appare, ma come fede che interpreta un certo contenuto a cui si aggiunge, nell’interpretazione, una corona di significati che quel contenuto, di per sé, non implica necessariamente.
70L’apparire è certamente apparire di qualcosa. Ma il problema è che cosa mostra ciò che appare. Se stiamo al principio di tutti i principi di Husserl, dobbiamo dire che, per esempio in questo momento, appaiono degli eventi che si lasciano interpretare come interiorità umana e quindi in modo diverso da come si lasciano interpretare il “microfono” o la “bottiglia”. Ciò che si lascia interpretare come “interiorità umana” appare, ma appare in modo diverso da ciò che chiamiamo interiorità; che esso sia la visibilità dell’interiorità, questa è un’interpretazione, non è un nesso necessario: è volontà che quei certi eventi siano la visibilità di una coscienzialità altrui, di un altrui “esser uomo”.
71Arguiamo che certi eventi siano un “esser uomo” tanto che, dicevo altre volte, ormai la tecnica può costruire dei robot capaci di prestazioni più interessanti che non quelle di una gran parte degli esseri umani. Si tratta quindi della problematicità del rapporto tra ciò che appare e il significato addizionale che l’interpretazione istituisce in relazione a ciò che appare. Nel pensiero fenomenologico la distinzione tra questi due piani viene meno. È chiaro che appare la fede nel prossimo (la mia fede nell’esistenza del prossimo appare) ma, dall’apparire di questa fede all’apparire del prossimo, ne corre, laddove nel pensiero fenomenologico – e anche husserliano e heideggeriano – che sia manifesta la mia fede nel prossimo viene fatto in qualche modo coincidere con la manifestatività e cioè con l’apparire del prossimo86.
Sviluppi tematici: le forme della contraddizione
72Ci sono due tipi di contraddizione: uno è quello che chiamo contraddizione normale, che possiamo esprimere dicendo “A è non A”, “il tavolo è non tavolo”, “uno è non uno”. Il toglimento di questa contraddizione consiste nella negazione del contenuto che la costituisce. C’è poi un secondo tipo di contraddizione che a mio avviso viene troppo poco, o per niente affatto, presa in considerazione e che è ciò che nei “miei scritti” viene chiamato “contraddizione C”87. In che cosa consiste la contraddizione C che, dunque, non è la contraddizione normale?
73Il microfono è certamente in relazione alla totalità del proprio “altro” che lo definisce88. Però la totalità dell’“altro” è indeterminata – fermo restando che bisogna essere in grado di mostrare l’eccedenza della totalità rispetto a ciò che di essa si conosce89. In quanto la totalità dell’“altro” è indeterminata, ciò che viene chiamato “totalità” non è la totalità. Noi diciamo “il tutto dell’essente”, ma il tutto dell’essente sta dinanzi secondo un volume di determinazioni che non esaurisce il contenuto concreto della totalità dell’essente. In questo senso viene chiamato “totalità dell’essente” ciò che non è la totalità dell’essente. Anche questa è una contraddizione. Ma si tratta di una contraddizione completamente diversa dall’altra (e cioè dalla contraddizione normale) perché il toglimento della contraddizione C non consiste nel negare il semantema “totalità dell’essente”, ma nel concretarlo, nel renderlo concreto, di modo che non si esce da questa contraddizione sin tanto che la totalità dell’essente non è esaustivamente presente. Il punto è che la contraddizione C permane all’infinito perché la totalità concreta dell’essente (che è il toglimento già da sempre compiuto della totalità delle contraddizioni) è ciò che non può entrare nel cerchio finito dell’apparire del Destino.
74Questo microfono, il cui significato concreto (e cioè il cui esser sé non contraddittorio) è la totalità dell’essente, appare in relazione a una totalità indeterminata e quindi la posizione del microfono (come la posizione di ogni significato che sia posto senza che appaia il tutto concreto dell’essente) è una contraddizione, ma una contraddizione il cui toglimento si effettua col concretarsi delle determinazioni con cui questo microfono è in relazione.
75Quando ho parlato di differenza tra microfono e bottiglia, ho usato una forma semplice. La forma appropriata sarebbe: appare la differenza tra la fede che questo sia un microfono e la fede che questa sia una bottiglia, la differenza tra due differenti contraddizioni. Al proprio contenuto la fede dice: «Tu sei vero». In tal senso la fede è certamente contraddizione perché attribuisce al proprio oggetto il carattere della non controvertibilità – carattere che quell’oggetto, in quanto contenuto della fede, non mostra. Ma non ogni contraddizione ha lo stesso contenuto. Quando parlo di differenza tra microfono e bottiglia, intendo dunque dire la differenza tra la fede che questo sia un microfono e la fede che questa sia una bottiglia. Le due fedi sono sì, entrambe, contraddizioni, ma non hanno lo stesso contenuto e quindi sono differenti – e l’essente è la fede A, la fede B, la fede C… eccetera.
76La negazione dice: «Il microfono è la bottiglia». Supponiamo di avere che fare con una negazione matura. Essa dice: «La fede nel microfono è la fede nella bottiglia». Se non dice questo non è negazione. Se non appare la diversità tra fede nel microfono e fede nella bottiglia, la negazione che dice che la fede nel microfono è la fede nella bottiglia, non è una negazione dell’opposizione del positivo e del negativo.
77S’è anche visto che l’ἔλεγχος (élenchos), relativamente alla negazione dell’identità degli identici, vale anche per il contenuto che appare. Se io nego l’esistenza di questo microfono, la mia negazione, per essere tale, deve presupporre l’apparire di questo microfono o, se vogliamo essere più precisi, deve presupporre l’esistenza della fede nell’esistenza di questo microfono. La verità, e cioè il Destino, vede che il cosiddetto microfono, come la bottiglia, sono il contenuto di una fede.
78La fede, in quanto fede, è una contraddizione che viene tolta non già concretando la fede, ma negando il contenuto della fede. Che cos’è infatti la fede? È dire al proprio contenuto: «Tu non sei negabile, tu sei assolutamente certo, non potrai diventare errore domani, non potevi essere errore ieri. Tu sei verità». Per essere autenticamente tale, la fede deve ereditare dal discorso filosofico il concetto e le determinazioni formali della verità: l’indubitabilità, l’innegabilità, l’incontroveritiblità, la metatemporalità, la definitività eccetera. Una fede che creda senza attribuire al creduto queste determinazioni è una fede arcaica, è la fede prefilosofica (e noi infatti abbiamo distinto il mito prefilosofico dal postfilosofico).
79Quando allora la fede cristiana dice di credere in Cristo, attribuisce a un non manifesto, cioè a un oscuro, cioè a un “non vero”, i tratti della verità. È come se si dicesse alla notte: «Tu sei il giorno». Attribuire ai non apparentia (è il testo evangelico che così si esprime90) i tratti della verità, questa non è una contraddizione C ma è una contraddizione normale91. Che venga il tempo in cui cadono i veli e si veda facie ad faciem, è quanto sostengo92, ma questo non è ancora quel tempo, a meno che il linguaggio che testimonia il Destino non sia in grado di far vedere qualcosa che attualmente questo linguaggio non sa far vedere.
Sviluppi tematici: sull’interpretazione
80Non tutto ciò che appare è contenuto di un’interpretazione. Ho parlato di un certo campo di oggetti relativamente ai quali bisogna dire che non sono microfono, bottiglia, eccetera, ma fede nel microfono, fede nella bottiglia. Ci sono però significati che non sono interpretazioni: “essere”, “non essere”, “divenire”, “negazione del divenire”, “negazione”… e tutto ciò che io chiamo “persintassi” ossia il complesso di significati che potremmo dire “trascendentali”93. Tutto quello che ho detto sulla necessità che la negazione sia l’apparire dei differenti, tutto questo non è interpretazione: è una persintassi che ha come contenuto certe determinazioni che sono fedi. I contenuti che io chiamo “iposintassi”, e cioè quelli che potremmo dire “empirici”, sono invece contenuti della fede. La fede è errore. Nel testo Studi di filosofia della prassi si ammette la possibilità che qualcosa che appare come “problema” venga verificato e appaia come “verità”94. Se però chiamiamo P la proposizione problematica, allora P, isolato dalla sua fondazione, ha un significato diverso da P in relazione alla fondazione. Quindi P isolato dalla sua fondazione – cioè P in quanto contenuto della fede – è comunque un errore95. Che poi tra questo errore e il non errore ci sia un elemento semantico in comune, questo è ciò che va affermato necessariamente ed è compito del pensiero determinare in che cosa consiste. Se infatti non ci fosse alcun elemento in comune, il discorso veritativo, che nega l’errore, parlerebbe d’altro e non dell’errore96.
81L’interpretazione cade su un contenuto. Affinché ci sia interpretazione è dunque necessario che il contenuto non sia a sua volta interpretazione et sic in indefinitum, perché altrimenti non ci sarebbe interpretazione di alcunché. Quindi, da ultimo, che può essere un “ultimo” a breve tragitto o a lungo tragitto, ci deve essere qualcosa che non si presenta come interpretazione: chiamiamolo “dato”97. Ma che cos’è questo “dato”?
82Il mondo, quello che si crede che sia il mondo (considerato qui nel senso che possiamo dire evangelico-sociologico), non sa nulla del Destino e, quando viene a saperne, alza le spalle. Che cosa crede il mondo? Il mondo crede nelle cose serie: crede nell’esistenza dei popoli, nella ricchezza, nei rapporti politici, economici, religiosi, nella scienza. Il Destino è lasciato fuori campo e, se viene accostato, viene accostato molto tangenzialmente rispetto al mondo o addirittura accantonato. Che cos’è allora questo mondo che si disinteressa del Destino? È il venire innanzi di eventi che sono eterni essi stessi perché eterno è anche l’errore. È il farsi innanzi di eventi i quali sono considerati isolatamente dal Destino: separati dal Destino essi vengono considerati come il tutto che sicuramente appare e con cui sicuramente l’uomo ha che fare. In una situazione di questo genere il Destino non viene neanche nominato.
83Quest’insieme di significati pratico-teorici, che è il mondo, è ciò che chiamo terra isolata98. Ma questo vuol dire che c’è un sopraggiungente su cui cade la rete dell’isolamento, un sopraggiungente che viene avvolto dalla rete dell’isolamento e al quale si dice: «Tu sei l’unicamente presente. Tu sei la cosa seria». Questo sopraggiungente su cui cade la rete dell’isolamento è ciò che potremmo chiamare la terra vista nello sguardo del Destino, la terra come appare autenticamente nello sguardo del Destino99.
84Prima dicevamo che, da ultimo, l’interpretazione deve cadere su qualche cosa e ci chiedevamo su che cosa cade da ultimo l’interpretazione. Ebbene, da ultimo l’interpretazione è l’interpretazione della terra che appare nello sguardo del Destino. Oltre all’interpretazione c’è dunque la pura terra in quanto non isolata dal Destino. Quali siano i contorni di questa pura terra è il da decifrare. Ma che ci sia è ciò che deve essere affermato. Aggiungiamo anche questo: se teniamo fermo che l’essente in quanto essente è eterno, allora è eterno anche quest’errore che è la fede in questo microfono. Se ogni essente è eterno, allora la relazione tra ogni essente e ogni altro essente è necessaria, cioè nessun essente, errore o verità che sia, può sottrarsi alla relazione con tutti gli altri essenti. Ma c’è di più. Non solo nessun essente può sottrarsi a tale relazione in quanto è essente, ma non può sottrarvisi nemmeno in quanto è questo certo essente: questa fede nel microfono o questa fede nella bottiglia. Il che vuol dire che il sottrarsi di questo certo essente dalla sua relazione con tutti gli altri certi essenti provoca una contraddizione determinata che si sa che c’è, e che è necessario che ci sia, ma che è da decifrare: di questo certo essente si sa che non solo è genericamente contraddittorio considerarlo come separato da tutti gli altri, ma è anche specificamente contraddittorio considerarlo separatamente da tutti gli altri in quanto è quel certo essente. La decifrazione è l’attualmente assente, è il destinato ad apparire100.
85Possiamo dire anche così: il linguaggio che attualmente testimonia il destino non è in grado di decifrare questa – per altro necessariamente esistente – contraddizione specifica che riguarda questo microfono o questa bottiglia.
Congruenze?
86C’è chi parla di affinità del discorso sul Destino rispetto alla cultura orientale. Che la psicologia dell’Oriente sia disponibile a questo discorso più di quanto non sia quella occidentale, proiettata verso la dominazione della tecnica, questo si può concedere. Ma si tratta di psicologia, non di concettualità.
87Se stiamo all’interpretazione che di Parmenide hanno dato quelli che avevano più motivo di conoscerlo – cioè Platone, Aristotele… e poi Hegel che si basa su Platone e Aristotele –, per Parmenide l’essere (il positivo) è il semplice, ossia ciò che è privo di parti, mentre il molteplice, ossia la casa, la stanza, i popoli, le stelle… è δόξα (dóxa). Nella cultura orientale la parola corrispondente a δόξα è “maia”: “illusione”. Proprio in questa congruenza che c’è tra la δόξα parmenidea e “maia”, l’illusione di cui parla l’Oriente, qui sta il punto di maggiore vicinanza tra Oriente e Occidente. Con Parmende l’Occidente dice: «Il molteplice è illusione». E tuttavia, se c’è qualcosa che il Destino rifiuta nel modo più radicale, è proprio questa affermazione dell’illusorietà del molteplice. Il Destino è infatti la rivendicazione dell’eternità di tutto e quindi anche della sensibilità, della materialità, della corporeità. Anche la resurrezione del corpo è troppo poco perché presuppone la morte del corpo.
88Ci sono parecchi scritti che parlano di congruenza tra il “mio” discorso e quello di Spinoza. Sopra dicevo che la tesi kantiana del carattere sintetico dei giudizi esistenziali è una riproposizione della tesi platonica dell’ἐπαμϕοτερίζειν (epamphoterízein) e della tesi tomistica della distinzione tra essenza ed esistenza. Se sfogliamo l’Etica di Spinoza, vediamo che i “modi” discendono necessariamente dalla “sostanza”, ma discendono come ciò che non è necessariamente; vediamo cioè che i “modi” della “sostanza” sono tali che la loro essenza è sinteticamente connessa con la loro esistenza101. Vale un po’ quanto si diceva a proposito dell’analogia con la teoria della relatività: può sembrare che essa dica qualche cosa di simile a ciò che dice il Destino, però c’è la diversità di logiche. A maggior ragione la diversità va rimarcata rispetto alla posizione di Spinoza perché, per lui, resta fermo il concetto di essenza (di determinazione) come non connessa necessariamente con l’esistenza. Che qualcosa si produca necessariamente non vuol dire che non esca dal nulla, ma vuol dire che il processo dell’uscire dal nulla è un qualcosa di inevitabile, di necessario. Sul piano della fondazione logica siamo quindi distanti da Spinoza tanto quanto lo siamo da Kant e da Platone.
Notes de bas de page
65 In relazione alla forma ontologica del divenire, gli scritti Oltre il linguaggio e Tautótes considerano il divenire come un processo in cui il risultato è un risultare dal cominciamento del processo stesso. In Essenza del nichilismo si considera invece la situazione in cui l’essente è niente, quando ancora non è, e torna ad essere niente, quando non è più – nella persuasione che l’essere sia nel tempo. È questa la situazione che viene ora presa in esame. In ogni caso, si tratta di due modi diversi, ma complementari, di significare quell’originaria identità con sé dell’essente che include l’eternità dell’essente. [N.d.C.].
66 Cfr. Platone, Teeteto, 190 b-c.
67 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Dialettica trascendentale, lib. II, cap. III, sez. IV.
68 Cfr. Tommaso, De ente et essentia, cap. V.
69 Cfr. E. Severino, La filosofia futura, Milano, Rizzoli, 1989, parte sesta.
70 Sulla distinzione tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche, cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., capp. VI-VII e Id., Tautótes, cit., capp. IX-XIX.
71 Cfr. Aristotele, Metafisica, 4, 1005 b 12-1006 a 26.
72 Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., parte aggiunta; Id., Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005, parte prima, capp. I-III e parte seconda, cap. V.
73 «Riguardo ai sillogismi dialettici bisogna partire da premesse fondate sull’opinione» (Aristotele, Primi Analitici, I, 46 a 10).
74 Cfr. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Adelphi, 20083, cap. IV.
75 Bisogna distinguere tra (a) rapporto tra principio e negazione e (b) rapporto tra principio ed ἔλεγχος (élenchos). Sono due cose diverse. Quanto al rapporto (a) tra principio e negazione, stiamo dicendo che la verità non vive se non è negazione dell’errore. Nella prospettiva aristotelica, la βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) è il fondamento dell’ἐπιστήμη (epistéme), ma il modo accidentale in cui Aristotele considera la negazione rispetto al principio inquina l’incontrovertiblità del principio stesso perché non lo pone in relazione alla negazione – o lo pone in relazione alla negazione in senso intersoggettivo. La seconda relazione, quella (b) tra principio ed ἔλεγχος (élenchos), è altra cosa perché la relazione tra verità ed errore è diversa dalla relazione tra verità e confutazione dell’errore. Ho dunque distinto, da un lato, il carattere franante della posizione aristotelica per quanto riguarda il rapporto con la negazione, dall’altro lato ho preso in considerazione il rapporto del principio di non contraddizione con l’ἔλεγχος (élenchos) rilevando, anche qui, l’aporeticità della situazione che emerge col discorso aristotelico. L’aporeticità può essere espressa così: «Se il principio è l’originario – e se la relazione del principio con la confutazione della negazione del principio è ciò che fa emergere l’originarietà del principio –, non assistiamo forse a una fondazione del fondamento, cioè a una fondazione dell’infondabile?». Si tratta di capire che siamo già da sempre all’interno dell’oltrepassamento di questo momento aporetico. Il linguaggio deve, per forza, dire una cosa dopo l’altra, ma il risolvimento delle aporie che via via si presentano è il risolvimento linguistico di un risolvimento già originariamente e totalmente eseguito – perché altrimenti il fondamento non sarebbe fondamento.
76 Il linguaggio è leggermente impreciso perché dà una personificazione a ciò che non è una persona.
77 Cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., parte terza; Id., La Gloria, Milano, Adelphi, 2001, cap. XI.
78 L’ἔλεγχος (élenchos) non è una ripetizione dell’identità perché, in tal caso, consisterebbe nel dire: «L’identità esiste. Negazione, io ti ripeto che l’identità esiste!». L’ἔλεγχος (élenchos) consiste invece nel rilevare che, per dire che i differenti sono identici (e cioè che non esiste la differenza dei differenti), la negazione deve avere dinanzi la differenza perché, se non l’avesse dinanzi, non sarebbe negazione. Ma, se ha dinanzi la differenza, è negazione di ciò da cui essa, negazione, è costituita.
79 Se non apparisse la differenza, apparirebbe la dualità dei nomi che non sarebbero più “nomi di”, ma sarebbero “cose”. Questo è uno dei punti che, rispetto alle filosofie del linguaggio, bisogna tener fermi: se non c’è la cosa, non c’è la parola. La parola è “parola di”. Se anche ciò di cui la parola è parola è una parola, tuttavia la parola parlante è sempre differenziata dalla parola parlata. Il rapporto tra la parola e la cosa è quindi necessario che ci sia anche se, come vogliono Derrida e certi filosofi del linguaggio, la parola parla sempre di parole e non c’è una dimensione extralinguisitca. Se non apparisse la differenza tra la bottiglia e il microfono, ma apparissero due “parole”, apparirebbero due “cose” differenti. Ma allora il discorso si ripeterebbe a proposito di queste due “cose” differenti che non sarebbe il caso di chiamare parole.
80 Cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide (par. 6) e Poscritto (nota), in Id., Essenza del nichilismo, cit.
81 Si badi a non separare da una parte il discorso sull’essente e, dall’altra, il discorso sul microfono, sulla bottiglia, sul tavolo, sul pennarello… come accade nella logica hegeliana dove l’apparato categoriale viene considerato indipendentemente dalle determinazioni empiriche. Non è questo il discorso che stiamo facendo. Quando qui parliamo di essente, intendiamo un qualsiasi essente: il microfono, la bottiglia, il tavolo, il pennarello… il pelo della barba, i miei sentimenti, il cielo… Il microfono è un certo modo di esser essente e non si può né considerare il microfono separatamente dall’essente, perché altrimenti il microfono sarebbe nulla, né considerare l’essente separatamente dagli essenti (dalle determinazioni particolari), perché altrimenti l’essente sarebbe l’esser essente di nulla.
82 Cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit. e Poscritto, cit. Per ulteriori approfondimenti sulle figure dell’ἔλεγχος (élenchos), cfr. E. Severino, Tautótes, cit., capp. XXIV-XXVII.
83 Il discorso si riferisce anche a come i mortali sono sempre vissuti, ossia trattando ciò che hanno davanti come nulla. La negazione dice: «Non esiste bottiglia». Sappiamo che questo discorso non è innocente perché è quello che porta a dire: «Tu, uomo, non esisti e quindi ti faccio fuori».
84 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. XII.
85 Cfr. E. Severino, La Gloria, cit., cap. V.
86 Cfr. E. Severino, La Gloria, cit., cap. V, par. IV.
87 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. VIII; Id., Fondamento della contraddizione, cit., cap. IV.
88 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. X.
89 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., capp. XI e XIII; Id., Il sentiero del Giorno (par. XX), in Essenza del nichilismo, cit.
90 Si richiami la definizione di fede contenuta nella Lettera agli Ebrei 11,1 dove si dice che la fede è argumentum non apparentium.
91 Sul tema della contraddizione della fede, cfr. E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., cap. IV; Id., Destino della necessità, cit., cap. XI; Id., Pensieri sul cristianesimo, Milano, Rizzoli, 19952, capp. VII-XI.
92 Cfr. E. Severino, La Gloria, cit., capp. III e XII; Id., Oltrepassare, Milano, Adelphi, 2007, capp. IX e X.
93 Cfr. E. Severino, La Gloria, cit., par. X.
94 Cfr. E. Severino, Studi di filosofia della prassi, Milano, Adelphi, 19842, primo studio, parte seconda, cap. I.
95 Per errore intendo il non incontrovertibile, cioè il negabile. Tra l’incontrovertibile e il controvertibile non c’è medio. Tutto ciò che non è il Destino è dunque negabile. In quanto negabile è errore. Il negabile è infatti ciò che può essere negato, ciò che deve essere negato. Ciò che deve essere negato non è improprio chiamarlo errore – fermo restando che, tra il contenuto dell’errore e il contenuto della verità, ci deve essere qualche cosa di comune.
96 Un elemento in comune deve esserci non soltanto tra le determinazioni iposintattiche ma anche, e innanzi tutto, tra le determinazioni persintattiche che si costituiscono all’interno dell’errore (anche il nichilismo parla infatti di “essere”, di “non essere”… che sono determinazioni persintattiche) e le determinazioni persintattiche che si costituiscono all’interno della verità. Cfr. E. Severino, Oltrepassare, cit., cap. II, par. II e cap. V, par. IV.
97 Cfr. E. Severino, La filosofia futura, cit., parte quinta.
98 Ne La Gloria e in Oltrepassare si sostiene che l’isolamento della terra (che oggi costituisce il mondo cosiddetto serio che non vuol sentir nulla del destino) è destinato a “tramontare”.
99 Cfr. E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Essenza del nichilismo, cit.; Id., Destino della necessità, cit., cap. XII.
100 Cfr. E. Severino, Tautótes, cit., cap. XX; Id., Oltrepassare, cit., cap. IX, par. VI.
101 Cfr. B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, I, Assioma VII e Prop. 24; II, Assioma I.
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Volontà, destino, linguaggio
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