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2. Senso e strutture dell’incontrovertibile nella prospettiva del Pensiero occidentale e nello sguardo del Destino

p. 43-71


Texte intégral

Figure della verità: identità, molteplicità, totalità, essere e nulla

1Si è fatto cenno alla struttura della storia dell’Occidente che ha la propria preistoria nel senso preontologico della “cosa” intesa come diventar altro. Si diceva che l’Occidente incomincia quando l’altro è pensato in modo radicale, cioè come l’assolutamente altro, l’assolutamente nulla. Si diceva inoltre che la filosofia segna l’inizio della storia dell’Occidente attraverso la costituzione di una rete di significati che si richiamano l’uno con l’altro.

2Quando il pensiero filosofico abbandona il mito, pensa l’identità del molteplice, l’identità dei diversi. Non semplicemente l’identità dei diversi, ciò che vi è di identico nei diversi, ma ciò che vi è di identico nella totalità dei diversi. L’identità dei diversi è infatti qualche cosa che è già presente nel mito, soltanto che il mito non può tracciare il confine assoluto dei diversi, cioè la totalità dei diversi, proprio perché non è quella rete di significati a cui sto accennando adesso. Già l’acqua di Talete non è l’elemento sensibile, ma è ciò che vi è di identico nei diversi e quindi anche nell’acqua sensibile. Il pensiero filosofico si solleva ben presto dall’identificazione in un elemento sensibile (come l’acqua o l’aria), inteso come identità dei diversi, alla coscienza che l’identità dei diversi non può essere un diverso. In effetti, anche se l’acqua di Talete non è l’acqua sensibile, è pur sempre un diverso e di lì a poco – siamo già ad Anassimandro – si dirà che l’identità dei diversi non può essere un diverso e cioè è un non-determinato: l’ἄπειρον (ápeiron). Anche qui c’è una scansione necessaria del pensiero filosofico che arriva infine a considerare che l’identità del diverso è ciò che non è un niente: l’essere.

3Questo concetto – che compare per la prima volta in Parmenide dove il rilevamento dell’identità dei diversi è insieme la cancellazione dei diversi – ha la sua formulazione più radicale nella figura aristotelica dell’ὂν ἦ ὀν (òn ê on) che invito a tener presente. La πρώτη ϕιλοσοϕία (próte philosophía) è la filosofia prima come scienza dell’ente in quanto ente, il che vuol dire (chiedo scusa se richiamo queste considerazioni elementari) che la πρώτη ϕιλοσοϕία (próte philosophía) considera l’ente non in quanto è in certo modo determinato, ma in quanto è ente: le proprietà che convengono all’ente in quanto è in certo modo determinato non convengono ad altri tipi di enti, mentre le proprietà che convengono all’ente in quanto ente convengono a ogni ente, sia mondano sia divino.

4Si è osservato che Aristotele è già in grado di parare i tentativi, come quelli effettuati dal neoplatonismo, di pensare ciò che sta al di là dell’essenza – tentativi che derivano da un grosso equivoco della lettura del testo platonico. Varrebbe infatti la pena di far vedere che, quando Platone dice “al di là di ciò che è”, ἐπέχεινα τῆς οὐσίας (epécheina tês ousías)27, non intende affatto andare “oltre l’ οὐσία (ousía), oltre l’essente, come invece crederà di poter fare Plotino, il quale, d’altra parte, se parla dell’Uno, non intende parlare del nulla28. Anche l’Uno rientra quindi in quella che Aristotele chiama “scienza dell’ente in quanto ente”: ἔστιν ἐπιστήμη τις ἦ τὸ θεωρεῖ τὸ ὂν ἦ ὀν (éstin epistéme tis ê theoreî tò òn ê on)29, c’è una certa scienza, una certa ἐπιστήμη (epistéme), che considera l’ente in quanto ente.

5La rete di significati di cui stiamo parlando è dunque una rete in cui i vari nodi si richiamano a vicenda. È una rete che si costituisce nei primi passi del pensiero filosofico, che per questo, dicevo, nasce grande. Pensare l’identità dei diversi significa pensare l’identità della totalità dei diversi, cioè di quella totalità che non lascia fuori di sé alcunché o, se si preferisce quest’altra formula, che lascia fuori di sé soltanto il nulla.

6Il tema dell’incontrovertibilità è essenzialmente legato al tema della totalità. Perché oggi la scienza, a buona ragione, considera se stessa come sapere ipotetico deduttivo, falsificabile? Per quello che dicevamo nella lezione precedente intorno al carattere specialistico del sapere scientifico. La considerazione della parte è costitutivamente aperta all’irruzione delle altre parti. La legislazione che regola il sussistere di una parte, per quanto ampia essa sia e per quanto sofisticata sia la legislazione, è inevitabilmente aperta alle altre possibili legislazioni del tutto che possono irrompere e falsificare quella che si credeva fosse la legislazione della parte. La considerazione del tutto è quindi inevitabilmente connessa al concetto di incontrovertibilità: non può esserci sapere incontrovertibile che non sia sapere del tutto e, viceversa, ogni sapere della parte è un sapere controvertibile che può essere smentito. Sono dunque intervenute le categorie dell’identico, del diverso, della totalità, dell’incontrovertibile, dell’essere, del nulla.

7Vorrei ora completare questo discorso sulla rete originaria del pensiero filosofico perché questo ci porta a dire qualcosa su quel tema della “morte di Dio” che ancora non abbiamo potuto toccare a sufficienza. Intendo riferirmi al tema della verità o dell’incontrovertibile – ed è ormai chiaro che ci sono sì molti modi di intenderlo, ma c’è anche qualche cosa di comune. Al di là delle differenze, è chiaro che il modo in cui l’incontrovertibile è inteso da Aristotele non è il modo in cui è inteso da Hegel, però c’è qualche cosa di comune ed è a questo comune che, innanzi tutto, bisogna guardare per poi certo dirimere la diversificazione e la storia della diversificazione. Ci riferiamo naturalmente alla verità così come si presenta nella storia dell’Occidente. Stiamo dicendo che lasciamo parlare il pensiero filosofico dell’Occidente ed è pleonastico dire dell’Occidente perché, un pensiero filosofico che non sia dell’Occidente, ritengo sia qualcosa di insostenibile. Ci sono certo le grandi sapienze mitiche dell’Oriente, ma la “rete” di cui stiamo parlando incomincia con l’Occidente, non c’è un altrove. Stiamo dunque lasciando parlare la voce dell’Occidente, ma stiamo anche scendendo all’implicito di questa voce, a ciò che questa voce non dice, pur essendo essenzialmente implicato da ciò che essa dice.

La verità come potenza, annientamento e previsione

8Il nodo che abbiamo finora lasciato da parte riguarda dunque la verità intesa come una struttura complessa, intesa cioè come potenza, come annientamento e come previsione. Le altre figure di cui abbiamo discorso prima – quelle dell’identità, della diversità, della totalità, dell’essere e del nulla – sono più alla superficie del discorso, e quindi più esplicite. Penso che il concetto di verità come potenza sia noto: veritas est potentia. Meno chiaro, e anzi tale da suscitare perplessità, è forse il concetto di verità come annientamento.

9Veritas est potentia. Perché? Ma perché è la legge. Se la verità è l’incontrovertibile (continuiamo a tener ferma per ora quest’accezione forte della verità), allora è la legge che non può essere violata da alcunché. La violazione di questa legge è l’impossibile, quindi la verità ha assoluta potenza sul tutto. Si trova frequentemente l’espressione veritas est potentia, per esempio in Tommaso d’Aquino. Si è detto che la verità sta sopra il tempo nel senso che non soggiace alle mutazioni introdotte dal tempo, ma regola ogni mutazione del tempo: regola ciò che il tempo fa via via venire innanzi. La verità è quindi la suprema potenza: è la legge che ha la potenza di impedire che l’impossibile esista, dove l’impossibile è appunto la negazione della verità. Quando parliamo di rete originaria del pensiero filosofico è chiaro che l’accento viene posto su ciò di cui abbiamo incominciato a parlare, e cioè il divenir altro: la rete epistemica consiste nel mostrare la legge che regola il tutto e quindi, innanzi tutto, il divenir altro delle cose.

10Posto che sia riuscito a indicare il senso della verità come potenza e come legge, rimane da chiarire il concetto di verità come previsione e, soprattutto, il concetto di verità come annientamento. Chi conosce la verità, che è la legge che domina il tempo, anticipa ogni tempo. Anticipa l’essenza di tutto ciò che può accadere nel tempo, precede la sostanza di tutto ciò che può accadere nel tempo. Se infatti ci fosse un tempo, sia pure lontanissimo, infinitamente lontano, che si facesse innanzi e volesse presentare una smentita della verità, la verità, in quanto potenza, mostrerebbe il carattere velleitario di questo tentativo. La verità è quindi previsione assoluta.

11Siamo abituati a credere che sia il pensiero scientifico ad aver introdotto il concetto di previsione, ma la scienza eredita tale concetto dalla filosofia. Poi, nel sapere scientifico, la previsione diventerà previsione ipotetica, fermo restando che dapprima intende essere previsione epistemica – ed è proprio in questi termini epistemici che la legge scientifica è intesa da Galileo a Einstein. Si prevede la totalità del tempo nella sua essenzialità. Questo non vuol dire che si conoscano anticipatamene tutti gli accadimenti che si faranno innanzi nel tempo, ma che si conosce anticipatamente l’essenza di tutti questi accadimenti, di tutti questi fenomeni: comunque si configurino, essi non potranno violare la legislazione che li tiene in vita, che li fa essere e senza di cui essi sarebbero nulla.

12Ecco dunque la verità come potenza e come previsione: parlando di previsione del tempo si parla di previsione del divenire e cioè di previsione del divenir altro. Ora, di per sé, il divenir altro è la volontà di andare sempre oltre l’altro che il divenire ha di volta in volta raggiunto. Lo possiamo constatare anche nella nostra vita che è il voler andare sempre oltre, sempre al di là di ciò che riusciamo a essere, di ciò che riusciamo ad avere, di ciò che riusciamo a volere. Ma il divenire deve fare i conti con la verità come potenza, previsione, legge suprema, sicché la verità, proprio in quanto previsione, è il limite di quell’andar oltre che costituisce il diventar altro. Siamo così al centro della polemica che oggi anima il mondo relativamente, poniamo, all’ingegneria genetica. Fino a che punto si può andar oltre nella trasformazione dell’uomo? Fino a che punto si può andar oltre nella messa tra parentesi, o addirittura nella negazione, delle leggi morali? Il divenire come divenir altro è di per sé un oltrepassare: è un oltrepassare ogni limite. Ma, se la verità sta, e poiché la verità intende stare, segue allora che la verità è la legge contro cui la volontà di oltrepassare ogni limite sbatte la testa30.

13La formula del divenir altro non me la sono inventata io. Basta leggere Aristotele per incontrare continuamente quest’espressione: il divenire è divenir altro. Il non voler tener conto del limite è l’oltrepassare il limite. I Greci chiamano questa volontà di oltrepassare il limite ὕβρις (hýbris). C’è un frammento formidabile di Eraclito dove si dice che, se il sole oltrepassasse i limiti, μέτρα (métra), le Erinni, ἐπίκουροι τῆς Δίχης (epícouroi tês Díches), “ministre della giustizia”, lo rintraccerebbero31. Δίχη (Díche) è uno dei nomi della verità, dell’incontrovertibile. Il sole che oltrepassa i limiti è il divenire che intende non tener conto di alcuno sbarramento. L’oltrepassamento dei limiti è appunto l’oltrepassamento dei limiti imposti dalla verità. Ma la verità lascia che il divenire oltrepassi i propri limiti? Se lasciasse questo, non sarebbe più la legge che non può essere smentita. Quindi, se il divenire è, di per se stesso, la volontà di oltrepassare ogni limite, la verità è annientamento della volontà di oltrepassare il limite e cioè è annientamento di ὕβρις (hýbris), è annientamento dell’errore.

14Apro una parentesi. Si profila qui quel concetto per cui si dice che la verità deve annientare l’errore. Si dice che occorre distinguere tra l’errante e l’errore. Una delle tesi del buon costume religioso-politico (del religiosamente-politicamente corretto) è dire che noi combattiamo l’errore e non l’errante. Ma è chiaro che la buona salute dell’errante alimenta l’errore. Questo è uno dei problemi che noi oggi dobbiamo risolvere. Se si favorisce l’errante si favorisce l’errore, anche se ci si propone di eliminare l’errore ma non l’errante. Anche per quest’aspetto è quindi inevitabile che l’atteggiamento teocratico – non soltanto cristiano, ma islamico e di qualsiasi tipo – sia costretto ad annientare non solo l’errore, ma anche l’errante, per quel tanto appunto che l’errante alimenta l’errore. Se una società deve essere protetta, bisogna fare in modo che l’errore non la domini, che le leggi dello stato, per esempio, non siano leggi favorevoli all’errore. Si ha allora un bel dire che si combatte solo l’errore ma non anche l’errante. Che nella storia dell’Occidente la verità sia annientamento, questo ho tentato di indicarlo. Noi ci porteremo in una direzione dove l’annientamento dell’errore stesso significa l’annientamento della verità.

15Con ciò ho anticipato qualcosa che poi vedremo più da vicino e cioè che una verità che non sia negazione dell’errore non è una verità, così come una bontà che non sia negazione del male non è bontà. Perché non diciamo che il bambino è un santo ma che è innocente? Perché non lotta contro il male morale. Così non diciamo che una verità che ignori l’errore sia verità perché una siffatta verità sarebbe aperta alla possibilità che l’errore irrompa e la trovi come ciò che di per sé non nega l’errore. Una verità che non è in relazione all’errore è di per se stessa aperta alla possibilità che le cose stiano altrimenti. Dal punto di vista del pensiero cristiano, chi più conosce il male è Dio. Da questo punto di vista Dio conosce il male più di Lucifero perché, se Lucifero conoscesse il male più di Dio, la negazione di quel male sarebbe compiuta da Lucifero e non da Dio. Dio è il più profondo sperimentatore, conoscitore del male. Questo per dire come non sia poi così paradossale il concetto che ho anticipato: se si annienta l’errore, si annienta la verità.

Momenti della distruzione della tradizione

16Il concetto di verità come previsione fa sì che, proprio perché la verità domina il tempo e ne anticipa la sostanza, questa anticipazione sia – uso la formula e dopo la chiarisco – entificazione del nulla. Cerchiamo di capire questa formula che è capace di indicare la sostanza di quella distruzione della tradizione veritativo-epistemica a cui accennavo quando dicevo che la polemica laicistica, oggi per lo più in circolazione, non è in grado di togliersi d’attorno la grande tradizione dell’Occidente sicché c’è più l’esigenza, il desiderio di non avere che fare col discorso metafisico-epistemico. E alludevo all’inopportunità che, di questo grande episodio della distruzione della tradizione, si faccia un fantoccio, che lo si chiami “relativismo” essendo poi facile toglierlo di mezzo, magari usando l’argomento contro lo scettico. No, c’è qualche cosa di essenzialmente più radicale.

17Se vogliamo fare i nomi, i protagonisti di questa distruzione radicale della tradizione dell’Occidente sembreranno forse inusitati qui, abituati come siamo a fare le riverenze al pensiero d’oltralpe, d’oltreoceano. Due dei tre nomi che sto per citare riguardano proprio la cultura italiana. Uno è Gentile. Quando incomincio questo brevissimo elenco, dico che Gentile è la formulazione più rigorosa di questa distruzione del passato epistemico-veritativo32. Ma Gentile è preceduto, e in qualche modo oltrepassato, da Nietzsche, non per quanto riguarda il rigore, ma per quanto riguarda l’evocazione di una figura che in Gentile è problematico riscontrare: intendo riferirmi alla figura dell’eterno ritorno33. Dunque: Gentile, Nietzsche e poi quello che può sembrare più strano di tutti, cioè Leopardi. Dicevo, di Eschilo, che è un gigante del pensiero filosofico. Ebbene, Leopardi è un gigante del pensiero filosofico. È un gigante nel senso che, dal punto di vista cronologico, per primo mostra l’impossibilità di una conoscenza veritativa del tutto34.

18La formula che ho usato prima – entificazione del nulla – è in grado di esprimere ciò che, in modo specifico, si presenta e in Gentile e in Nietzsche e in Leopardi. In modo più implicito, ma comunque lontano dalla radicalità di questi nomi, potremmo aggiungere, per esempio, Dostoevskij, in qualche modo Bergson… Forse Peirce. Uso però al riguardo delle espressioni limitative e non nomino forse coloro che ci si aspetterebbe di sentir nominare, tra questi per esempio Heidegger. Quando Heidegger dice che solo un Dio ci può salvare35 o, riprendendo Hölderlin, afferma che gli dèi sono fuggiti36, si pone su un piano di apertura, di possibilismo rispetto al divino, che con Leopardi è chiuso definitivamente. Il “Coro di morti” di Leopardi, nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, incomincia dicendo: «Sola nel mondo eterna, morte, in te ogni cosa si posa»37. Non sto citando alla lettera. Ma che cos’è questa unicità dell’eterno? La morte, cioè la nullità di tutte le cose, cioè il loro avere come origine e come fine il nulla38. Non è questo il pensiero di Heidegger. Non dimentichiamo che Heidegger ha continuato a dire che l’analitica esistenziale lasciava aperti i problemi dell’immortalità dell’anima, dell’esistenza di Dio, della vita dell’al di là39. Ma tutto questo viene spazzato via dal discorso di Leopardi, di Nietzsche e di Gentile. Quando Gentile perde il figlio e gli chiedono se creda o no nell’immortalità dell’individuo, egli risponde di no – e ha perduto da pochi giorni il figlio. Questo per dire come la radicalità del discorso gentiliano non sia raggiunta dal possibilismo di un pensiero come quello di Heidegger o di Jaspers e nemmeno dal pensiero di Wittgenstein. Su Wittgenstein si potrebbe aprire una parentesi, ma appunto con quelle limitazioni che ho usato prima riferendomi, per esempio, a Bergson.

La critica al principio di non contraddizione

19Il discorso che stiamo svolgendo riguarda il modo in cui, all’interno della storia dell’Occidente, ossia all’interno del senso della “cosa” intesa come diventar altro, l’Occidente si libera dalla propria tradizione. Si tratterà successivamente di mettere in questione l’intera storia dell’Occidente.

20Oggi è frequente sentir criticare il principio di non contraddizione. E ci si richiama a Nietzsche che, come le logiche paraconsistenti, nega il principio di non contraddizione. Oppure, attraverso una pessima lettura, a Hegel. Si tratta però di una pessima lettura perché, quando Hegel nell’Introduzione della grande Logica enuncia il metodo dialettico, dice che tale metodo è una tautologia, intendendo che la tautologia, cioè il dire lo stesso, è l’incontrovertibile. Quindi, tutte le polemiche che Hegel rivolge alla tautologia hanno un significato diverso da questo fondamentale che riguarda il metodo dialettico – che è un dire lo stesso. Proviamo dunque a discutere questa disinvolta negazione del principio di non contraddizione da parte della cultura contemporanea.

21Stiamo dicendo che il senso del divenir altro è l’onnipresente. Non c’è azione ormai, non c’è pensiero che non tenga alla propria base il divenir altro delle cose. Quando si afferma che esiste un ente eterno, non lo si afferma perché l’ente è ente, ma perché è un certo ente privilegiato di cui, per certi motivi, si deve affermare l’eternità. Di quell’ente si dice che è eterno non in quanto ente, ma in quanto è un certo ente. Anche per l’intera tradizione metafisica, che adotta il concetto aristotelico di ἐπιστήμη (epistéme) come scienza dell’ente in quanto ente, l’ente non è eterno in quanto ente: in quanto ente è un divenir altro e cioè, ormai sappiamo, è un divenir nulla uscendo dal nulla.

22Posto dunque che questo è il concetto di ente e che ormai la “cosa” è l’ente che oscilla tra l’essere e il nulla (e questo è il divenire), chiedo: «Si può credere nel divenire, credendo che il cominciamento del divenire sia identico al risultato del divenire?». Si tratta intanto di capire che colui il quale dice che c’è il divenire, ma il punto di partenza è identico al punto d’arrivo, non può essere un fedele (un credente) nel divenire. C’è differenza tra il mio essere qui, ora, e il mio essere stato cinque ore fa a letto? Certo, se si critica il principio di non contraddizione, si afferma quest’identità tra il mio essere stato là e il mio esser qui. Ma si afferma il divenire?

23Tutta la storia del pensiero – e non solo filosofico –, quando afferma il divenir altro, afferma la differenza tra il cominciamento e il risultato. Aristotele parla del divenire in molti sensi: parla del divenire quantitativo, qualitativo, parla di generazione, di divenire sostanziale, di divenire accidentale. Però, anche qui, c’è qualche cosa di comune e la formula che ho usato sin dall’inizio è in grado di essere presente in ognuno di questi molti modi di intendere il divenire. La formula è questa: c’è divenire se c’è un divenir altro da ciò che inizialmente qualcosa è.

24Si pensi all’eterno ritorno di cui parla Nietzsche: è una sequenza in cui certamente tutto ritorna, ma è una sequenza fatta di episodi. Per Nietzsche l’accadimento del divenire è un necessario ritornare su di sé. Ma l’accadimento è una serie di eventi, non è un punto semantico: è tutta la mia vita, incominciando da quando sono nato a fin quando morirò, e ciò vuol dire che il contenuto dell’eterno ritorno non è il puro essere che sta all’inizio della Logica di Hegel, il semplice, il significato semplice.

25Chi dunque afferma il divenire, Nietzsche compreso, se parla di una serie di eventi, può pensare di un qualsiasi evento che il punto di partenza sia identico al punto di arrivo? Facciamo un altro esempio: consideriamo lo scontro tra due particelle. Negli acceleratori di particelle elementari, a un certo punto le particelle si scontrano: si annienta uno dei due protoni e poi c’è il sopraggiungere di una particella nuova. Se adesso io chiedessi a un fisico: «La situazione costituita dalle particelle prima dello scontro è identica alla situazione costituita dalle particelle che si scontrano?». Il fisico risponderebbe di no, direbbe che non sono due situazioni identiche. Se apriamo la traduzione italiana della teoria della relatività di Einstein, edizione Einaudi, leggiamo, a proposito del “tempo”, che si arriva a un concetto che non è ulteriormente analizzabile: è il concetto del prima e del poi. Dopodiché il discorso di Einstein va avanti, ma alla base c’è il prima e il poi. Ora, che cosa vuol dire il prima e il poi? Vuol dire, appunto, il diventar altro.

26Si potrebbe anche osservare che ciò che è autenticamente la “cosa”, si sottrae alle categorie del pensiero il quale cerca di catturare ciò che sfugge e di ridurlo ai propri parametri. Questo modo di pensare è essenzialmente legato a quella concezione dualistica di cui parlavamo e che presuppone un al di là di ciò che appare, mentre l’al di qua lo si intende, cartesianamente, come semplice intelletto (cogito) che ha il compito di gettare il ponte per arrivare al di là. Il discorso qui si sposta sulla tematica del rapporto pensiero-essere – e abbiamo già visto come il pensiero filosofico si sia dato da fare per mostrare l’arbitrarietà di un al di là che viene dogmaticamente affermato riducendo ciò che appare al rango di semplice dimensione intellettuale, soggettiva.

27La formula del divenir altro è comunque capace di dislocarsi sia (a) nella concezione realistica, per cui il divenire sta al di là del pensiero, sia (b) nella concezione cartesiana, per cui il divenire è ea omnia quatenus in nobis fiunt, sia (c) nella concezione kantiana, per la quale le categorie aristoteliche, compresa quella del divenir altro, vengono trasferite sul piano fenomenico.

28In ogni caso, chi crede nel divenir altro non può credere che il punto di partenza del divenire sia identico al punto di arrivo.

29Dunque, nonostante le critiche che oggi con troppa disinvoltura si rivolgono al principio di non contraddizione, chi crede nel divenire deve credere – quale che sia la forma di divenire in cui crede – nella differenza tra il cominciamento e il risultato del divenire.

L’entificazione del nulla

30Ma ancora non siamo arrivati in porto. Che cos’è il porto? È quella formula che avevo usato prima e che è ancora rimasta lì come un punto interrogativo: la verità è entificazione del nulla. Si tratta di capire perché l’esistenza dell’ejpisthvmh (epistéme), cioè l’esistenza dell’incontrovertibile, è entificazione del nulla.

31Cerchiamo di recuperare l’andamento del discorso, che ho avviato richiamando la rete originaria del pensiero filosofico, distinguendo tra ciò che il pensiero filosofico delle origini dice esplicitamente e ciò che è più implicito. Sul piano dell’assoluta esplicitezza c’è il concetto del divenire come divenir altro, come differenza tra il punto di partenza e il punto d’arrivo: tra cominciamento e risultato. L’espressione aristotelica è ἐκ τίνος […] εἰς τί (ek tínoseis tí)40. Chi afferma il divenire – quale che sia il divenire di cui si intende parlare –, afferma appunto la differenza tra l’ex quo e l’ad quem. Ma tutto questo era la premessa di una formula che avevo usato e che è rimasta ancora indecifrata: la verità come entificazione del nulla.

32Dopo avere enumerato le proprietà della rete originaria del pensiero filosofico – e cioè la verità come potenza, come previsione e come annientamento –, ho aggiunto che tale concetto di verità ci avrebbe consentito di vedere il pensiero essenziale di quei grandi protagonisti che, in modo diverso ma convergente, effettuano la distruzione della concezione epistemico-veritativa della tradizione occidentale. Ho fatto i nomi di Leopardi, Nietzsche, Gentile… e qualche altra variazione. Mi accingo allora a mostrare quest’essenza – anche se poi occorrerebbe un lavoro ermeneutico per far vedere come essa sia diversamente esposta in Leopardi, in Nietzsche e in Gentile i quali, pur avendo naturalmente dei versanti che non sono coincidenti, presentano tuttavia questo tratto decisivo in comune: la capacità di mettere fuori gioco la tradizione filosofica. Non è cosa da poco perché, se oggi il problema è come salvare l’uomo – e, per esempio, il cristianesimo dice che l’uomo si salva soltanto facendo ricorso ai valori del passato –, allora, se questa distruzione sta in piedi, l’attuale reviviscenza del pensiero religioso è una reviviscenza assimilabile a una foglia secca attaccata a un ramo. La foglia è ancora lì, attaccata al ramo, però è secca – posto che la distruzione che mi accingo a indicare è capace di mostrare l’essicazione di questa grande foglia che è la foglia della tradizione veritativo-epistemica.

33Ho anche incominciato a dire che, nonostante la disinvoltura con la quale oggi viene trattato il principio di non contraddizione, tuttavia anche coloro che, come Nietzsche, affermano il divenire in grande stile, proprio perché affermano la variazione e non affermano l’eterno (ossia ciò che non varia, il non variante), proprio per questo devono distinguere il punto di partenza dal punto d’arrivo del divenire: se non si distingue il punto di partenza e il punto d’arrivo, non c’è variazione, c’è eternità. Ma che cosa significa questo? Significa che, nonostante la negazione esplicita del principio di non contraddizione, sostanzialmente, in modo più o meno implicito, si afferma il principio di non contraddizione – e lo si afferma proprio in quanto si afferma la differenza tra il punto di partenza e il punto di arrivo.

34Se il divenire è oscillazione tra l’essere e il nulla, se è passaggio dal non essere all’essere e dall’essere al non essere – così è sempre stato inteso all’interno della tradizione occidentale –, allora il riconoscimento della differenza del punto di partenza e del punto d’arrivo è il riconoscimento della differenza tra l’essere e il nulla e cioè dell’impossibilità di identificare l’essere e il nulla41.

35Kant obietta ad Aristotele che si può formulare il principio di non contraddizione senza fare riferimento al tempo. Nel libro IV della Metafisica Aristotele non parla esplicitamente del tempo però, nel libro XI, afferma l’impossibilità che la stessa cosa sia e non sia nello stesso tempo. Kant dice che si può evitare il ricorso al tempo42: basta dire che “l’uomo giovane non è vecchio” perché il principio di non contraddizione sia liberato dalla dimensione della temporalità. Però Kant riconosce che l’uomo vecchio non è sempre stato vecchio e che l’uomo giovane non continua sempre a essere giovane. Quindi l’affermazione che “l’uomo giovane non è vecchio” solo apparentemente prescinde dal tempo perché, appunto, il giovane diventa vecchio e, sin tanto che l’uomo è giovane – e quindi, da capo, durante il tempo in cui l’uomo è giovane – non può essere vecchio.

36Il tentativo kantiano di mettere da parte il carattere temporale della formulazione aristotelica del principio di non contraddizione fallisce perché, anche per Kant, l’uomo non è sempre giovane, ma cambia e diventa vecchio: c’è un tempo in cui è giovane e un tempo in cui è vecchio. Nella formulazione del libro IV della Metafisica Aristotele dice che è impossibile che allo stesso convenga e non convenga lo stesso κατὰ τό αὐτό(katà tó autó) e cioè secondo lo stesso rispetto. Ma, uno degli aspetti del rispetto è appunto la temporalità e lo stesso Kant riconosce che il tempo dirime la contraddizione: non è infatti contraddittorio dire che l’uomo è giovane e vecchio, ma in tempi diversi.

37Dunque, se teniamo presente che il senso occidentale del divenire è l’affermazione dell’opposizione di essere e di nulla, sì che addirittura possiamo dire che la formulazione occidentale del principio di non contraddizione è la stessa espressione del divenire, allora incominciamo ad avvicinarci al chiarimento della formula che prima avevamo indicato e che era risultata un po’ strana e cioè che la verità intesa come incontrovertibilità assoluta, come legge, come potenza, come previsione, è la entificazione del nulla.

38Il divenire, e quindi il tempo, è un distendersi dove il futuro è il non ancora e il passato è il non più, dove il non ancora vuol dire l’ancor nulla e il passato vuol dire l’ormai nulla. Questo è il senso del divenire sul quale l’ἐπιςτήμη (epistéme) intende stare e al quale intende dettare la propria legislazione. Ma – e siamo al dunque – proprio perché l’ ἐπιςτήμη (epistéme), e cioè la verità incontrovertibile, è previsione che anticipa la totalità del futuro e conserva sotto la propria dominazione/legislazione la totalità del passato, accade allora e inevitabilmente che il futuro e il passato, in quanto sottostanti alla legislazione della verità, siano trasformati in ascoltatori della verità, cioè in sottoposti alla legge della verità.

39Che cosa è dunque sottoposto alla legge della verità? Il futuro di cui, per altro, si afferma l’essere l’ancor nulla e il passato di cui si afferma l’essere l’ormai nulla. Ciò che, da un lato, è posto come nullità – il futuro e il passato – dall’altro lato, in quanto sottoposto alla legislazione della verità, è trasformato in un ascoltatore della verità, in un suddito della verità, cioè in qualcosa che non è l’assolutamente nulla ma è, appunto, un uditore, un non nulla. Se esiste una verità immutabile, se esiste un’eternità (l’eternità e della coscienza epistemica e del contenuto immutabile di questa coscienza), se esiste un Dio immutabile, allora è impossibile che esista il divenire – quel divenire che, d’altra parte, è affermato anche da coloro che affermano il Dio, l’ἐπιςτήμη (epistéme), la verità incontrovertibile43.

La distruzione di diritto della tradizione epistemica

40Riproponiamo adesso questo discorso col quale bisogna fare i conti e che non è semplicemente il discorso del relativismo. È un discorso che, in base alla fede nell’incontrovertibilità del divenir altro, afferma inevitabilmente l’opposto di quanto afferma la tradizione, la quale mostra che la condizione del divenire implica l’eterno.

41Se c’è un divenire, dice la tradizione, deve esistere un eterno. Qui si sta invece dicendo che, se c’è un eterno, non può esistere il divenire. Ma non è che ci si limiti ad affermarlo. Si mostra che l’esistenza dell’eterno occupa gli spazi del tempo in modo da rendere impossibile quel vuoto che è richiesto dal divenire.

42In altra occasione avevo scritto che posizioni del pensiero contemporaneo, come per esempio quella di Heidegger dove l’essere non è l’immutabile che anticipa, ma è il lasciar essere ciò che accade, hanno alle spalle una tradizione millenaria. Anche se l’associazione può sembrare impropria, si pensi all’atomismo per il quale il vuoto è il nulla e l’atomo è il pieno, l’essere. È il modo in cui l’atomismo ripensa l’eleatismo dicendo in sostanza che, se c’è divenire, ci deve essere il vuoto44. Lo capiamo anche dal punto di vista intuitivo/visivo. Se la stanza in cui ci troviamo fosse totalmente piena di mattoni, noi non potremmo muoverci. L’immagine è la metafora che chiarisce una situazione strutturale: ci possiamo muovere solo se c’è del vuoto. Questo anticipa Democrito: c’è movimento degli atomi solo se non c’è la compattezza parmenidea per la quale il vuoto non esiste. Per l’atomismo il vuoto è l’equivalente del nulla. Se non c’è il nulla, se il nulla è fuori campo, non ci può essere divenire: occorre il nulla affinché ci sia il divenire.

43Ma la verità, intesa come affermazione incontrovertibile di un ente immutabile, divino, è ciò che riempie tutti gli spazi del futuro e del passato. In quanto previsione del futuro e conservazione del passato (il quale non si slega dalla legislazione della verità), la verità riempie ogni vuoto. Se è intesa come conoscenza incontrovertibile dell’immutabile, la verità, riempiendo ogni vuoto, cancella la possibilità del divenire. Ma il divenire è l’evidenza incontrovertibile. Dunque è impossibile che esista un immutabile.

44Vediamo adesso come tutto questo viene detto da Nietzsche, che è un pensatore straordinario, ma che ha fatto di tutto per non farsi capire. In Così parlò Zarathustra, Nietzsche scrive in un linguaggio di “cattivo gusto”. È molto più lucido il Nietzsche di Aurora e degli scritti precedenti, anche se di valore speculativo molto inferiore. Così parlò Zarathustra è uno dei grandi classici del pensiero filosofico, e non solo filosofico, ma scritto in modo da ingenerare equivoci. Mi riferisco a quel capitolo Sulle isole beate dove Zarathustra fa questo discorso: «Se esistessero gli dei creatori, che cosa mi resterebbe da creare? Nulla. Dunque gli dei non esistono»45. Ora, detto così, può sembrare una battuta di un letterato in vena di fare filosofia. Però – e qui mi permetto di rinviare a quel mio libro intitolato L’anello del ritorno, dedicato appunto a Nietzsche – è tutt’altro che la battuta di un letterato46. Subito dopo il testo dice. «Se esistesse il “pieno”, il “satollo”, l’“imperituro”, l’“immutabile”, che cosa mi resterebbe da creare?».

45Per Platone, come per Nietzsche, la mia creatività è l’evidenza: io produco. La definizione platonica di produzione, di ποίησις (poíesis), è la seguente: la produzione è la αἰτία (aitía), la causa che fa passare qualsiasi cosa dal non essere all’essere, ἦ γάρ τοὶ ἐκ τοῦ μὴ όντος εἰς τὸ ὸν ἰόντι. ὁτῳοῦν αἰτία πᾶσά ἐστι ποίησις (ê gár toì ek toû mè óntos eis tò òn iónti otoioûn aitía pâsá esti poíesis)47. È il concetto di creatività. In quel passo del Convivio, Platone dice che tutti i produttori, δημιουργοί (demiourgoí), sono ποιηταί (poietaí) e cioè che tutti i produttori sottostanno al concetto di ποίησις (poíesis). Parla anche delle tecniche e dice che tutte le tecniche sono produttive. La produttività dell’umano è quindi l’aspetto più visibile del divenire.

46Nietzsche afferma che la mia creatività è evidente. Ma la mia creatività esige quel vuoto di cui parlavo prima: quel vuoto che non potrebbe esistere se esistesse il pieno che anticipa il futuro e che conserva il passato. Io sono creatore, produco, è evidente il mio diventar altro. Dunque non può esistere quell’immutabile che, riempiendo tutto il futuro e tutto il passato, impedisce quel nulla che consente all’uomo di essere creatore.

47Anche dal punto di vista religioso non credo che esista un cristiano il quale, pensando al suo Dio, lo pensi come un Dio che, di fronte all’accadimento degli eventi, si sorprende. Può essere sorpreso Dio in relazione a un qualsiasi evento? Dio non si sorprende, ma non perde di vista nemmeno la totalità del passato. Né c’è un regno futuro che si sottragga a Dio che, in quanto Dio cristiano, sta nella sfera del dio epistemico. Il Dio cristiano epistemico – e potremmo anche dire islamico epistemico e, in qualche modo, ebraico epistemico – occupa tutto il futuro, non si sorprende di alcunché del futuro e occupa tutto il passato, non si dimentica, non si lascia sfuggire alcunché, non lascia che alcunché sfugga alla propria legislazione. È appunto il “satollo” di cui parla Nietzsche, l’“imperituro”, il “pieno”, l’“immutabile”.

48Se esiste l’eterno è impossibile che esista quel divenir altro che, per tutto il pensiero occidentale, è l’evidenza indiscutibile, quell’evidenza che Platone esprime con la parola ἐπαμϕοτερίζειν (epamphoterízein). Mi riferisco al libro V della Repubblica e a quello che, a mio avviso, è uno dei passi più strabilianti a disposizione dell’uomo. Platone sta qui parlando degli enti del mondo che sono un μεταξύ (metaxú) e cioè qualcosa che “sta in mezzo” tra l’assolutamente essente, l’immutabile, τὸ εἰλικρινῶς ὅν (tò eilikrinôs ón) e l’assolutamente niente, il τὸ μεδαμῆ ὅν (tò medanê ón). Questi enti del mondo sono un ἐπαμϕοτερίζειν (epamphoterízein)48. Ci sono molti verbi greci che finiscono con ίζειν. Però sta di fatto che, in greco, ερίζ (éris) vuol dire dibattersi, lotta, guerra; ερίζειν (erízein) si presta perciò a essere inteso come il dibattersi. Si pensi a Eraclito: δίχηἔρις(díche… éris…) la giustizia è lotta49. Ἔρις, ερίζειν (éris, erízein) è dunque il dibattersi del μεταξύ (metaxú), cioè dell’ente mondano ἐπί τὰ ἀμϕότερα (epì tà amphótera), ossia “tra l’uno e l’altro”, dove i due contendenti sono quelli nominati prima: l’essere e il nulla50.

49La cosa, dice in questo passo Platone, (a) né è, (b) né non è, (c) né è entrambi, (d) né è nessuno dei due, οὔτ’εἶναι, οὔτε μή εἶναι, οὔτε ἀμϕότερα, οὔτε οὐδέτερον (oút’eînai, oúte mè eînai, oúte amphótera, oúte oudéteron)51. Perché la cosa mondana “non è”? Ma appunto perché diviene. Ciò che è, invece, è sottratto al divenire. Del microfono, del tavolo, dei monti, del cielo, delle cose del mondo, non si può quindi dire che “sono”. Bisogna aggiungere che “sono” non essendo stati ed essendo in procinto di non essere. Non si può dire nemmeno che le cose del mondo “non sono” simpliciter perché sono lì, appaiono (il concetto di ϕαίνεσθαι phaínesthai, connesso all’apparire, dovremo riprenderlo in considerazione). Né si può dire che “sono entrambi” – e questa è l’anticipazione platonica della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché) aristotelica. Non si può dire che noi “siamo” e “non siamo” qui: “noi” è un μεταξύ (metaxú) di cui non si può dire appunto che “sia” e “non sia”. E neppure si può dire che le cose “né siano”, “né non siano” perché appunto va detto che sono non essendo e che non sono essendo: è il gioco dell’oscillazione tra l’essere e il non essere.

50Il primo a parlare di “oscillazione” è Platone, non Heidegger. L’ἐπαμϕοτερίζειν (epamphoterízein) si può appunto tradurre con oscillazione. Sul vocabolario ἐπαμϕοτερίζειν è reso come “essere indecisi” ma, anche qui, al solito, la parola è molto più densa. L’essere indecisi è l’indecisione della cosa nel senso che la cosa va e viene: “è” non essendo stata ed “è” stando per non essere. Se così stanno le cose, allora il Dio immutabile che non si sorprende per nessun accadimento, e che conserva tutto ciò che è passato, rende impossibile l’ ἐπαμϕοτερίζειν (epamphoterízein), cioè rende impossibile quella nullità futura e quella nullità passata senza di cui non c’è appunto l’evidenza, il ϕαίνεσθαι (phaínesthai), l’apparire del divenire.

51Tutto ciò è la distruzione, o almeno un tentativo di accennare alla distruzione, della tradizione che è una distruzione di diritto. La foglia secca, dicevo prima, mostra di essere ben attaccata al ramo. Oggi noi possiamo pensare che soltanto i valori cristiani e i valori della tradizione possano salvare l’uomo. Però bisogna fare i conti con questa distruzione che si basa su quella stessa evidenza, su quella stessa creduta evidenza del divenire su cui si basano gli “amici di Dio”. In effetti, gli “amici di Dio” – del Dio cristiano epistemico – sono “amici di Dio” non perché non conoscono il mondo e vedono solo Dio, ma perché dicono: «Il divenire del mondo implica l’esistenza del Dio». L’evidenza del divenire è propria dell’intero arco del pensiero occidentale ed è sulla base di ciò che la tradizione riconosce come evidenza originaria – e cioè il divenir altro – che la distruzione della tradizione dice: «Se c’è il divenir altro, non ci può essere un eterno».

52Nella Teoria generale dello spirito come atto puro di Gentile c’è un passo molto significativo in proposito. Gentile dice che, propriamente, nella filosofia tradizionale il pensiero è “niente”, mentre il pensiero moderno chiede una piccola cosa e cioè che il pensiero sia “qualche cosa”. Soltanto che poi ci si rende conto che il pensiero è “tutto”52. Qui “pensiero” che cosa vuol dire? Vuol dire l’apparire del divenire ed è il modo più rigoroso in cui il divenir altro si prospetta.

53Prima parlavo di collocazioni, di dislocazioni del divenire. Ci sono quindi tutte le complicazioni sui vari sensi del divenire dovute alle diverse dislocazioni. Aristotele pensa il divenire come ciò che “è” anche indipendentemente dalla conoscenza umana. In seguito il divenire diventa contenuto del cogito. Poi diventa il contenuto del fenomeno: per Kant il divenire è la categoria fondamentale dell’analitica. E poi ancora, con Hegel, con l’idealismo, accade questo: l’identità di certezza e verità fa sì che la forma più concreta di divenire non sia più pensabile come ciò che sta “al di là” delle categorie mentali. L’idealismo ha infatti il merito di mostrare che l’affermazione di quell’“al di là” è un mero presupposto.

54Soffermiamoci adesso su questo punto perché il risultato del discorso è: il modo più rigoroso di intendere il divenire è il divenire come pensare. Ma il pensare è l’essere stesso, è il manifestarsi dell’essere in cui il pensiero è ciò senza di cui l’essere non è – e, viceversa, l’essere è ciò senza di cui il pensiero non è. Di quale essere stiamo parlando? Dell’essere dell’esperienza – e l’essere dell’esperienza è il divenire.

Apparire e apparenza

55Avevo prima richiamato l’espressione greca che nomina l’apparire: faivnesqai (phaínesthai). Vorrei adesso tentare di collegare il discorso sull’idealismo al discorso sull’apparire. È dall’inzio di queste lezioni che parliamo di “apparire”. Ma, a questo punto, bisogna incominciare a precisarne il concetto.

56Innanzi tutto l’apparire non è l’apparenza. L’apparire è la manifestazione, non è l’illusione, l’apparenza illusoria, ma è la manifestazione di un contenuto. Oggi il sapere scientifico considera il manifestare, l’aver presente, come una proprietà della mente e considera la mente come un prodotto dell’evoluzione, come un risultato esso stesso provvisorio, che declinerà – è uno dei luoghi comuni delle scienze biopsichiche e psichiatrico-neurologiche. È chiaro che, in questo modo, la mente è intesa come una cosa all’interno di un ben più ampio arco di eventi che è la storia del mondo: il mondo incomincia, incomincia il mondo inorganico poi quello organico, su su, fino a che viene alla luce l’uomo, la mente dell’uomo. Poi c’è il declino. Pensiamo al fenomeno dell’entropia. La mente è quindi intesa come cosa tra le cose, parte all’interno di un tutto infinitamente più ampio di questa parte.

57Ora, merito dell’idealismo – merito ripreso anche dalla fenomenologia di Husserl – e in particolar modo di Gentile, è l’accertamento dell’impossibilità che la mente sia cosa tra le cose, parte all’interno di un tutto. Nella cultura contemporanea c’è la tendenza a squalificare il cosiddetto trascendentalismo. Una volta, dire a qualcuno che era un metafisico era una specie di offesa. Oggi sembra che sia una specie di offesa parlare di trascendentale. Però bisogna fare i conti con il pensiero idealistico che viene così curiosamente riproposto, sia pure in termini “linguistici”, da gran parte della filosofia analitica contemporanea. Penso, per esempio, a Rorty e al discorso col quale Rorty tenta di accomunare il neopragmatismo all’insegna della negazione di un “al di là” del linguaggio53.

58Nell’atto in cui si dice: «Esiste un al di là della coscienza», in quest’atto stesso quell’“al di là” si presenta come un “al di qua”. È Fichte che incomincia a insistere su questo punto e cioè sulla contraddittorietà dell’an sich kantiano il quale non è un qualche cosa di “ignoto”, ma è “noto” e quindi non è un an sich, un “chiuso in sé” che ci volta le spalle, ma è un für uns, è un “per noi”, è un contenuto di coscienza: gli infiniti tempi futuri, gli infiniti tempi passati, sono tutti contenuti in ciò che invece dovrebbe essere, come mente, la parte contenuta in un tutto che la trascende. Quando allora si dice: «Ecco là la natura, oppure Dio, oppure il caos, oppure la cosa in sé, oppure la cristicità, ecco là ciò che sta al di là delle categorie pensanti», ecco che, in quest’atto stesso, quell’“al di là” è ricondotto nell’“al di qua” – che non è un chiudersi dentro l’“al di qua”, ma un permanere (la parola “mente” ha a che fare con la parola latina maneo) nell’apertura che è la coscienza. La totalità è contenuto della mente. Per questo Gentile afferma che, se la pretesa modesta del pensiero moderno è che il pensiero sia qualche cosa, poi è necessario affermare che sia tutto, perché il tentativo di andare oltre il pensiero è un tentativo fallito: quell’“al di là” è pensato. Si dirà – e qui è ancora Gentile a rilevarlo – che c’è l’ignoto. Ma l’ignoto non è poi così ignoto da non esser noto come ignoto. Anche l’ignoto non è quindi un puro an sich, ma è un für uns.

59Che cosa vuol dire questo discorso sull’idealismo? Che l’idealismo segna un punto di non ritorno da cui non si possono prendere le distanze? No, perché l’idealismo è il modo più coerente di pensare il diventar altro. Che cos’è l’atto di Gentile? L’atto di Gentile è appunto la coscienza intesa non come parte tra le parti, ma come orizzonte intrascendibile. La trascendentalità della coscienza vuol dire che la coscienza non è soltanto coscienza di “questa parte qui”, ma trascende il suo essere coscienza di “questa parte” – e trascende il suo esser coscienza di ogni parte. In questo senso è trascendentale. Considerazioni analoghe si trovano in Husserl. Però il pensiero idealistico, e soprattutto gentiliano, è il modo più coerente in cui si pensa il diventar altro delle cose.

60Il diventar altro non riguarda soltanto il contenuto della coscienza, ma anche il rapporto tra la coscienza e il proprio contenuto.

61Nella prospettiva aristotelica la coscienza rispecchia il proprio contenuto, non lo produce. Perché ci sia produzione occorre la prassi o la ποἰησις (poíesis). Quando poi, con Descartes, si incomincia a riflettere sull’impossibilità che “ciò che è” sia il cogitatum, allora quest’ultimo incomincia a diventare non ciò su cui la coscienza non ha potenza, ma ciò che è prodotto dalla coscienza. Il diventar altro cioè si allarga nel senso che, da diventar altro dei contenuti, diventa il diventar altro della coscienza. Il discorso diventa ancora più esplicito in Kant per il quale la coscienza viene pensata come produttrice del fenomeno. Poi, con l’idealismo, avviene il trionfo di questa produzione – che non vuol dire, come spesso si è equivocato, che prima esista la coscienza e poi l’essere, ma che il produrre è la cooriginarietà di coscienza e di essere.

La follia del divenir altro: aporetica dell’incontrovertibile

62A questo punto incomincia il discorso sulla messa in questione del diventar altro che ne rileva la “follia”.

63Per iniziare ad affrontare questo discorso, credo che la via più accessibile sia quella di considerare una qualsiasi elementare forma di diventar altro, per esempio la combustione della legna che diventa cenere. Se qui ci fosse uno scienziato, direbbe che la cenere non è il risultato della combustione perché il risultato include vari fattori: il calore, l’energia… A scanso di equivoci, si tenga presente che noi chiamiamo “cenere” l’insieme di questi fattori che costituiscono il risultato della combustione. C’è dunque la legna che diventa cenere.

64Intanto bisogna che sia chiaro il concetto di cominciamento e di risultato. Nella legna che diventa cenere, il risultato non è semplicemente l’incominciare a essere della cenere. L’affermazione che dice: «La legna diventa cenere» non è senz’altro equivalente all’affermazione che dice: «Della cenere incomincia a esistere». Questo non vuol dire che sia falso che della cenere incominci a esistere, ma vuol dire che l’affermazione: «Della cenere incomincia a esistere» non è identica all’affermazione: «La legna diventa cenere». Dire: «Della cenere incomincia a esistere» non è falso, ma non restituisce la totalità del significato dell’affermazione: «La legna diventa cenere». La gran questione sta nel capire il significato del “risultato” che è un “risultare da”. Chiediamoci dunque: «Che cosa c’è nel risultato? C’è soltanto la cenere? Il risultato è il semplice esserci della cenere?». Sarebbe come dire che il risultato consiste nell’incominciare a esserci della cenere mentre s’è detto che la cenere è il risultato del diventar cenere da parte della legna: il risultato è l’esser diventata cenere da parte della legna.

65Se nel risultato si guarda soltanto “l’esser cenere”, che della cenere ci sia non implica di per se stesso che la legna è diventata cenere. Il risultato del divenir altro è l’esser diventata cenere da parte della legna e cioè il risultato è l’esser cenere della legna. Messa in termini diretti questo vuol dire che il risultato è: «La legna è cenere» o anche: «La non cenere è cenere». Se noi dicessimo che il cerchio è quadrato avremmo qualche cosa da eccepire. Ebbene, qui si tratta di capire che il “risultato” è la contraddittoria identità dei diversi.

66Siamo con ciò arrivati in porto? No, perché a questo punto il pensiero filosofico non si accontenta e dice: «E perché non ci si può contraddire?»54. Ma, se noi lasciamo in sospeso questo punto, cioè la messa in questione del principio di non contraddizione, allora il concetto del diventar altro è appunto la follia per cui i diversi sono i non diversi, la follia per cui il risultato è costituito dall’identità dei non identici.

67Possiamo rinforzare questo discorso contestualizzandolo. Dal punto di vista occidentale, aristotelico, hegeliano, einsteiniano, qualcuno potrebbe dire: «Ma così ti sei fatta una strada comoda, perché è certo che la legna diventa cenere, ma diventa cenere perché si annienta la specificità della legna». È solo in quanto la specificità della legna si annienta che può incominciare a diventare cenere di modo che, nel discorso di prima, ci si sarebbe dimenticati niente di meno che dell’ontologia. Non è che la legna divenga cenere – così replica l’Occidente – ma è perché c’è un annientamento della specificità della legna che ci può essere un diventare cenere da parte della legna. Il processo concreto è l’annientamento della specificità della legna.

68A questo punto Aristotele parlerebbe della perdita, da parte di una materia, della forma che la costituisce come legna e del permanere della materia che assume un’altra forma, che in questo caso sarebbe l’esser cenere. Per Aristotele questo sarebbe un divenire sostanziale. L’Occidente replica quindi in questi termini ossia introducendo la categoria ontologica dell’essere e del niente. Replica dicendo che è la specificità della legna a diventare niente e che, solo a questa condizione, può incominciare a essere quella diversa specificità che è l’esser cenere. Sennonché, questa replica non toglie la follia dell’identità dei non identici, ma la moltiplica. Quando infatti si dice che, affinché la legna possa diventare cenere, è necessario che la specificità della legna divenga niente, si cade in quella forma estrema del divenir altro in cui il qualcosa diventa niente. Il passaggio dalla legna alla cenere sarebbe interrotto dal transito che va dalla legna all’esser niente. Ma questo è un transito in cui il risultato è l’esser niente della specificità della legna55.

69Ripetiamo qui, allora, in relazione a questo carattere ontologico del risultato, quanto dicevamo prima. Per poter diventare cenere, la legna diventa niente. In questo caso, il niente della specificità della legna è il risultato di questa forma ontologica del divenire. Ma chiediamoci ancora: «Nel risultato c’è soltanto l’esser niente? O c’è l’esser niente della legna?». E ancora di più: «È il niente che è diventato niente, o è la legna che è diventata niente?».

70Poiché c’è differenza tra un niente che diventa niente – volendo insistere sulla formula, potremmo dire che è una proposizione insignificante – e la legna che diventa niente, allora il risultato di questo diventare non è semplicemente l’esser niente. Come prima dicevamo che il risultato del diventar cenere non è il semplice incominciare a esistere della cenere, così ora diciamo che il risultato del diventar niente non è il semplice niente, ma è la legna che è diventata niente: la legna che, essendo diventata niente, costituisce un risultato. E come lo esprimeremo questo risultato? Lo esprimeremo dicendo che il risultato è la legna che è niente56.

71In questo caso non soltanto c’è l’identificazione di due diversi positivi – la legna e la cenere che sono due positivi –, ma c’è addirittura l’identificazione del positivo e dell’assolutamente negativo: nel risultato c’è la legna che è niente. Per questo prima dicevo che il modo, in cui il pensiero dell’Occidente potrebbe replicare al discorso che abbiamo fatto inizialmente sul diventar legna da parte della cenere, moltiplica la follia. Dicevo così perché è pur sempre la legna a diventare cenere – e qui vi è già una identificazione dei non identici – ma poi, con la replica, c’è quell’identificazione dei non identici che sono la positività della legna e il suo esser niente57.

72Lasciamo per ora da parte la messa in questione del dogma del principio di non contraddizione – il principio di non contraddizione nella storia dell’Occidente è un dogma. Se, per il momento, mettiamo tra parentesi la necessità di esser già fuori da questo dogma, allora, se il diventar qualcosa d’altro da parte di qualcosa è l’identificazione dei non identici, dobbiamo dire che l’identificazione dei non identici è il nulla, è l’impossibile, è ciò che non può essere.

73Che cos’è allora la volontà? E che cos’è la vita? Che cos’è l’uomo? Tutte queste categorie cambiano di significato. Come abitatori dell’Occidente noi pensiamo che la volontà sia il volere che le cose divengano altro. Ma il divenir altro delle cose è l’impossibile sicché, a essere follia, è appunto questa volontà che crede di poter far diventar altro le cose. Ma è chiaro che questo discorso, proprio perché apre una prospettiva diversa da quella dell’Occidente, solleva un insieme di difficoltà, la prima delle quali la enuncio subito. Si potrebbe dire: «Ma come? La volontà è follia? Voglio che il microfono si sposti ed ecco che il microfono si è spostato. Dov’è la follia della volontà?». Certamente questi problemi dovranno essere presi di petto. Ma c’è ancora un’ulteriore difficoltà. Si dice che il diventar altro è follia. Ma il diventar altro non è forse l’evidenza? Non è ciò che appare? Non dovremo allora dire che vera follia è proprio questa presunzione di porre come impossibile quel diventar altro che invece è l’evidenza?

74Il discorso è dunque venuto allo scoperto ma, a questo punto, incomincia il rilevamento della concretezza di questo discorso che è follia esso stesso, se non è in grado di rispondere a queste domande. Ho esemplificato con il concetto di volontà. Qui stiamo sostenendo che la volontà è impossibile, non alludendo semplicemente a un qualche carattere morale della volontà per cui diciamo alla volontà buona e no alla volontà cattiva. Qui stiamo sostenendo che la volontà in quanto volontà è follia. Ma lo stiamo dicendo anche in un senso del tutto diverso da quello di Schopenhauer il quale vuole sì uscire dalla volontà, credendo però che la volontà sia capace di trasformare il mondo. Schopenhauer è un grande sostenitore del divenir altro e della capacità della volontà di trasformare il mondo.

75Questa è la proposta di un insieme di problemi che, nella loro concretezza, chiamo appunto l’aporetica dell’incontrovertibile, l’aporetica del fondamento.

L’eternità dell’ente e la teoria della relatività

76Il risultato linguistico più rilevante non l’abbiamo ancora detto. Se il divenir altro è l’impossibile, allora l’essente non è altro da sé, non diventa altro e cioè è eterno, intendendo per eterno l’impossibilità del diventar altro. L’eternità della materia, l’eternità dell’energia o l’eternità di Dio sovrastano il contingente e il caduco (e si potrebbe parlare anche dell’anima immortale che sovrasta la caducità del corpo). Ma sono tutte figure teologiche che riservano l’eternità a un Dio invidioso che si tiene l’eternità tutta per sé. A essere eterno è invece ogni essente. Un essente è questo nostro stare qui. Ma, siccome continuiamo a muoverci, un essente è anche lo stato immediatamente precedente e poi l’istante successivo. Io continuo a muovere queste mani e poi c’è un continuo movimento: c’è un continuo sopraggiungere di essenti dove lo stato del nostro “star qui” include quei monti che sono là, include i pensieri che abbiamo in testa in questo momento, include il cielo, include lo stato attuale dell’essente, tutti gli stati precedenti e tutti gli stati successivi.

77Quando si arriva a questo punto, che è certamente paradossale58, a me piace rilevare che la teoria della relatività afferma proprio l’equipotenza di futuro, presente e passato: per la teoria della relatività il futuro, come il passato, non sono meno reali del presente – un modo molto semplificato di esporre la teoria della relatività. Allora si potrebbe dire: «Ecco lì un alleato». Purtroppo no! La teoria della relatività non può essere un alleato. Perché? Prima di tutto perché essa non afferma l’eternità di tutte le cose in base al processo concettuale linguistico che qui è venuto fuori, ma l’afferma in base a un calcolo ipotetico che è quindi falsificabile – oggi c’è qualcuno che incomincia a mettere in discussione la teoria della relatività. La consonanza è quindi di carattere tematico. Quando Popper discuteva con Einstein, lo chiamava Parmenide e diceva a Einstein: «Per te, Parmenide, tutti gli eventi del mondo sono come fotogrammi avvolti nella bobina, quindi “sono”». Un notevole allievo di Hilbert, Weyl, diceva che il mondo non “accade” ma ”è”. Popper scrive un libro su Parmenide e sostiene che la fisica contemporanea è “parmenidea”59. Ma non è così, intanto perché la logica della fisica non è la logica, il λὀγος (lógos), che qui sta emergendo. Inoltre l’eternità dei fotogrammi è l’eternità del “cronotopo” quadridimensionale, laddove noi parliamo dell’eternità dell’essente in quanto essente, cioè di ogni tipo di essente e quindi anche di questo mio pensiero fugace relativo alla neve là sui monti – anche questo è un eterno.

78Il richiamo della teoria della relatività serve a far capire che è il caso di andar cauti nel guardare con eccessiva sorpresa la tesi dell’eternità del tutto perché, in qualche modo, questa formidabile cosa che è la teoria della relatività afferma – relativamente al mondo fisico – che già tutti i fotogrammi “sono” e si tratta di proiettarli. A questo punto Popper diceva: «Va bene, ma allora la proiezione, cioè la macchina di proiezione, è o non è un fotogramma? La macchina proietta e fa girare il fotogramma ma non sottostà alla regola del fotogramma». Al che Einstein non sapeva rispondere. Ma perché non sapeva rispondere? Perché non aveva a disposizione quella categoria che è l’apparire trascendentale.

79Qual è, infatti, la conseguenza che immediatamente scaturisce da quanto abbiamo detto? Non che non esiste il variare del mondo. Qualcuno mi ha obiettato che io sosterrei follemente che non esiste variazione. No! La variazione esiste, ma va intesa secondo un criterio diverso da quello del divenir altro. Se usciamo da questa fondamentale interpretazione alterante di ciò che appare – cioè da quella strada per la quale il variare è inteso come divenir altro –, allora che cosa può essere il variare? Che cosa può essere il venire innanzi degli essenti? Non può essere che il sopraggiungere, nell’apparire trascendentale, degli eterni. Ogni istante che si presenta è il farsi innanzi e il comparire di un eterno60.

L’albeggiante testimonianza del Destino

80Ormai ha incominciato a farsi sentire ciò che chiamo Destino: già questo affermare l’identità di ogni essente è il tratto centrale del Destino. Sennonché il linguaggio che parla del Destino non è affatto sicuro di farsi capire – e non è nemmeno sicuro di avere degli interlocutori. Anche quando rispondiamo e diciamo: «Sì, siamo d’accordo» oppure «No! non siamo d’accordo», l’essere d’accordo e il non essere d’accordo è un’ipotesi. Allora, prima di tutto, il linguaggio che parla del Destino non è il Destino: è gravato dalla problematicità del parlare, del testimoniare. Chi sa se quello che dico è capito? Chi sa che cosa sono io che credo di parlare? Chi sa che cos’è il pubblico che ascolta? Tutto questo non è certo risolto per il fatto che si afferma che tutto è eterno. Questi sono problemi che andrebbero accostati in seguito e rimangono ancora allo stato di radicale, sia pure provvisoria, instabilità. Sì, parliamo, crediamo di interloquire. Ma se crediamo di risolvere i problemi degli uomini col dialogo, il tentativo è destinato a fallire. Prima di tutto perché impostiamo il discorso della salvezza dell’uomo sul piano del dialogo tra individui – e gli individui non sono il Destino. L’accordo possibile tra individui è come il casuale stare in carreggiata da parte di un carro non guidato che, per un po’ di tratto, non esce di strada, ma è inevitabile che vi esca perché l’accordo tra individui non è l’accordo veritativo: è l’espressione di due forme di volontà di potenza che decidono di andare d’accordo. Dopodiché la decisione di andare d’accordo si scontra perché o le due si fondono in una oppure, se sono diverse, combattono secondo il combattimento cui sono destinate le fedi. Non possiamo cercare di saltare al di là della nostra situazione in cui sporge appena, albeggiando, il linguaggio che testimonia il Destino, ma le opere della volontà restano tutte lì, incominciando dal fatto che io voglio restare io, che voglio rispondere, che voglio avere ragione, che voglio parlare: queste sono opere della non verità.

81Sta albeggiando un cenno che indica un’alternativa radicale rispetto alla sapienza del mortale, un’alternativa che si mostra come l’autenticamente incontrovertibile – e che non è una volontà di uscire dalla volontà. Ci troviamo allora in una essenziale contraddizione: da un lato c’è il dito che indica la luna, dove la luna è il Destino e il dito è il linguaggio; dall’altro lato c’è il permanere nella follia perché non è che, per il fatto che si indica la luna, si è nella luna o non esiste altro che la luna. No, c’è la terra che crede di essere più importante della luna, c’è la continuazione della vita degli uomini, dello scontro tra gli uomini. La situazione è quindi quella di una contraddizione essenziale tra il Destino e la persuasione di tutti noi (me compreso, si capisce) che il mondo sia trasformabile – e cioè il continuare a permanere nella follia la quale non è tolta di mezzo dal fatto che c’è quest’albeggiante indicazione della luna.

82Nei libri del sottoscritto – ma che quei testi siano stati scritti da me è anch’essa un’ipotesi linguistica – si parla di “contrasto”, di “contesa” tra Destino e isolamento della terra dal Destino61. Che cos’è la “terra”? È tutto ciò che si fa innanzi62. Tra ciò che si fa innanzi ci sono le cose terresti, ma anche le cose celesti perché «fides ex auditu»63, diceva san Paolo: secondo l’Occidente, non è che Dio ci stia sempre dinanzi, ma noi incominciamo a sentir parlare di Dio. Ne sentiamo parlare dalla voce della madre, e poi della famiglia, e poi della società. Dio si fa innanzi, così come adesso si fanno innanzi quelle montagne che ieri non vedevamo. Quindi “terra” vuol dire: tutto ciò che si fa innanzi e che noi, abitatori dell’Occidente, crediamo che sia un divenir altro.

83La contrapposizione tra teismo e ateismo è la contrapposizione tra due forme diverse, anche se opposte, di gestire il divenir altro. Ateisti sono certo Nietzsche e Leopardi, i quali negano Dio ma non per un’opzione, per un’esigenza, per una problematicità di fondo. Lo so che può dar fastidio questa formula, ma loro dimostrano l’inesistenza di Dio: data la premessa del divenir altro, allora la dimostrazione dell’inesistenza di Dio è inevitabile. A questo punto subentra però quel dito che indica la luna il quale dice: «Sia gli amici di Dio, sia i nemici di Dio, hanno la stessa anima perché gli amici di Dio credono che il divenir altro abbia bisogno di un demiurgo, di un creatore, di un produttore, mentre l’ateo dice che il mondo è a caso: ohne Warum [senza perché]».

84Qui certo Heidegger coglie il cuore della situazione: non c’è un “perché” del mondo, c’è un accadimento casuale64. Ma Heidegger non va oltre. Noi possiamo andare oltre mostrando che ciò che viene dal nulla non può avere spiegazione perché, se avesse spiegazione, non verrebbe dal nulla: se ci fosse una spiegazione, ciò che viene dal nulla sarebbe un non nulla. Ciò che viene dal nulla è quindi l’assolutamente casuale, l’assolutamente imprevedibile, l’assolutamente senza “perché”. Ateismo e teismo hanno la stessa anima. Il discorso che mette in questione il divenir altro liquida sia la concezione teistica sia la concezione atea.

Notes de bas de page

27 Platone, Repubblica, 509 b.

28 Cfr. E. Severino, Destino della necessità, Milano, Adelphi, 1980, cap. I, nota 2.

29 Aristotele, Metafisica, 4, 1, 1003 a 20-21.

30 Che il divenire sia un annientamento e un uscire dal nulla è ciò che afferma tutto l’Occidente: è il pensiero dell’Occidente a intridere l’essere di nulla, a mettere il nulla nelle ossa dell’essere. Non solo in filosofia, ma anche in letteratura. Apriamo un qualsiasi romanzo contemporaneo e vediamo questa presenza del nulla: siamo in mezzo al nulla, siamo intrisi di nulla, siamo caduchi, effimeri, temporali, finiti.
Si potrebbe pensare di mettere tra parentesi la categoria del nulla sostituendola col concetto di trasformazione. Ma trasformare vuol dire che una materia assume una forma diversa da quella che aveva prima. Si consideri il principio scientifico della conservazione dell’energia la quale assume forme via via diverse: prima la materia ha la forma A, poi ha la forma B. Chiediamo adesso alla scienza: «Quando la materia assume la forma B, che ne è della forma A?». In principio il discorso scientifico dice: «No, io mi interesso d’altro». Però, se ci si mette a pensare e ci si porta al livello del discorso filosofico, bisogna dire che la forma A è diventata niente perché, se non fosse diventata niente, non ci sarebbe stata la trasformazione che istituisce la forma B. Questo tentativo di rendere meno pericoloso il nulla col concetto di trasformazione, di cambiamento, eccetera, è il lavoro che ha fatto il pensiero filosofico sin dall’inizio. Ma anche dal punto di vista dell’evoluzione, in senso scientifico, la trasformazione dell’energia implica che le forme precedenti dell’universo non siano ancora qui davanti, esistenti. E allora che ne è di queste forme? La scienza dice: «Non sono più». E che cosa vuol dire che non sono più? Vuol dire: «Sono un ormai nulla».

31 Cfr. Eraclito, fr. 94.

32 Cfr. E. Severino, Gli abitatori del tempo, Bologna, Armando Editore, 19962, cap. 3; Id., Oltre il linguaggio, Milano, Adelphi, 20072, parte seconda.

33 Cfr. E. Severino, L’anello del ritorno, Milano, Adelphi, 1999.

34 Cfr. E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990; Id., Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1998.

35 Cfr. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», a cura di A. Marini, Parma, Guanda 1987.

36 Cfr. Id., A che poeti?, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2002.

37 «Sola nel mondo eterna, a cui si volve | Ogni creata cosa, | In te, morte, si posa | Nostra ignuda natura» (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie).

38 Che cosa vede il genio poetico di cui parla Leopardi? Vede la nullità assoluta delle cose. La poesia illude, dice Leopardi, fa credere che sia qualcosa ciò che invece non è. Ma illude l’immaginazione, non l’intelletto. Forse oggi è rimasto il cinematografo a darci quest’illusione e a stabilire qualche momento di empatia rispetto a ciò che il film propone. Credo comunque che oggi vada restringendosi il gruppo sociale che ancora respira e vive di fronte all’opera d’arte. Forse ciò accade ancora per le masse davanti alla musica pop.

39 «Con la determinazione esistenziale dell’essenza dell’uomo, nulla è ancora deciso circa l’esserci di Dio, o il suo non esserci, e così pure sulla possibilità o impossibilità degli Dei […]. Non ci si cura del fatto che, fin dal 1929, in Vom Wesen des Grundes, si può leggere quanto segue: “Con l’interpretazione ontologica dell’esserci come essere-nel-mondo, non si è ancora deciso nulla, né in senso positivo, né in senso negativo, circa la possibilità di un essere in rapporto con Dio”» (M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo).

40 Cfr. Aristotele, Metafisica, 11, 12, 1068 a 29-30.

41 Aristotele dice che ciò che si genera è il non essente, γίγνεται τὸ μὴ ὅν (ghíghnetai tò mè ón; Metafisica, 11, 11, 1067 b 31-32), e il suo generarsi è il suo diventare essente. Affermare il divenire in senso ontologico significa necessariamente affermare l’opposizione di essere e di nulla anche da parte di coloro che, sul piano dell’esplicitezza, credono di poter negare il principio di non contraddizione. Si apre allora un compito interessante, ma che qui non possiamo svolgere, e cioè di capire quali sono i motivi per i quali, in superficie, viene negato quel principio che sostanzialmente viene accettato per il fatto stesso che si afferma il divenire. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 19812, cap. IX; Id., Gli abitatori del tempo, cap. II, par. I; Id., Tautótes, Adelphi, Milano 1995, capp. III-VI; Id., L’anello del ritorno, cap. IV.

42 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Analitica Trascendentale, lib. II, cap. II, sez. I.

43 Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., cap. II.

44 Cfr. E. Severino, Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, 2008, parte terza, VIII.

45 Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montanari, Milano, Adelphi, 1983, parte seconda, Sulle isole beate.

46 Cfr. E. Severino, L’anello del ritorno, cit., capp. I e II.

47 Platone, Convivio, 205, b-c.

48 Platone, Repubblica, 479 c.

49 Cfr. Eraclito, fr. 80.

50 Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., cap. I.

51 Platone, Repubblica, 479 c.

52 Cfr. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Bari, Laterza, 1924, cap. I, par. 4.

53 Certo, si parla qui della mente e non del linguaggio, ma il discorso è parallelo. Per il momento mettiamo da parte il discorso sul linguaggio e teniamo presente il discorso sulla mente intesa anche dal pensiero filosofico, ma oggi soprattutto dal pensiero scientifico, come parte tra le parti: l’inizio del mondo, gli innumerevoli tempi trascorsi, i tempi futuri. Sennonché questi tempi sono pensati, appaiono, sono contenuti della coscienza.

54 Quest’affermazione è il pendant di ciò che si diceva a proposito del contenuto dell’apparire: «Perché si deve affermare ciò che appare?».

55 Supponendo pure che la materia sia eterna, il punto è che la forma non è un nulla. Il cessare di esistere da parte della forma è l’equivalente della legna che diventa cenere: la forma, che è un positivo, cessa di esistere, diventa nulla. Abbiamo allora un divenir altro in cui il risultato è: la forma – il “non nulla” – è diventata “nulla”, è identica al “nulla”.
Penso che dovremo ripetere queste cose al rallentatore più volte, perché la pretesa alternativa rispetto a questo discorso è di porsi al di fuori del modo in cui il “mortale” pensa. Le conseguenze sono grosse. Per esempio, per quanto riguarda il concetto di volontà, siamo ancora ai primi passi del ribaltamento che si produce con quell’alternativa che non è il prodotto di un individuo. Su questo vorrei aggiungere che, ciò che chiamiamo incontrovertibile, non può essere il prodotto mentale di uno che entra nella testa degli altri perché, se fosse il prodotto mentale di uno, risentirebbe della contingenza, della finitezza, della limitatezza di quell’uno. È un equivalente del fatto che dalla non verità non si può andare alla verità; è un modo di dire che non c’è quel diventar altro che è il diventare verità da pare della non verità. Spesso mi sento dire: “Lei come la pensa?”. Ma io, come Emanuele Severino, sono un individuo, sono un errante. Quella domanda – “Lei come la pensa” – si colloca nella prospettiva di credere che la verità sia il risultato di un viaggio, o nella prospettiva in cui si crede che la verità sia il prodotto mentale di un individuo, sia pure Aristotele. Ma non è così: la verità, come incontrovertibile, non è un prodotto, anche perché, dire che la verità è un prodotto, sarebbe come dire che la legna diventa cenere. Questo è importante perché resta rovesciata la prospettiva dell’antropologia tradizionale – che è espressa per esempio da Tommaso, o da Kierkegaard, o da Marx – secondo la quale è l’uomo a pensare. Anche qui Nietzsche aveva fiuto perché diceva che noi siamo vittime delle nostre abitudini grammaticali per cui, se c’è il pensare, ci deve essere un soggetto (un “chi” pensa) diverso dal pensare. Nella filosofia contemporanea c’è in circolazione qualche cosa che intravede, sia pure dal punto di vista dell’alienazione, della follia, che non si dovrebbe dire: «Io penso», ma: «Pensa» come si dice: «Piove». Pensa… il pensiero pensa. Che poi il mio autentico “io” sia questo pensiero che pensa vuol dire allora che noi siamo infinitamente di più di quello che crediamo di essere.

56 Cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., parte prima, I; Id, Tautótes, cit., capp. I-II.

57 Il pensiero ontologico crede di poter sostenere il passaggio dalla legna, che è un qualcosa, alla cenere, che è pure un qualcosa, dicendo che la specificità di quel positivo che è la legna si annulla proprio per poter consentire alla legna di diventare quell’ulteriore positivo che è la cenere. Ma, in questo modo, viene reduplicata o moltiplicata l’assurdità dell’identificazione dei diversi perché nel primo tratto – la legna che diventa nulla – si ha l’estremizzazione dell’identificazione all’altro. L’identificazione tra due positivi è infatti meno radicale dell’identificazione del positivo con l’assolutamente negativo. In questo modo di pensare dell’Occidente, la cenere è una specificità che incomincia a essere quando la legna diventa cenere: se la legna può diventare cenere diventando nulla, la cenere a sua volta incomincia a essere uscendo dal proprio nulla, dal proprio non essere. Dire che prima non c’era ancora la cenere vuol dire che, prima, la cenere era nulla. Nella stessa Logica di Hegel manca l’esplicitazione del nihil absolutum – il che non vuol dire che Hegel non abbia pensato il nihil absolutum, ma non lo struttura all’interno dello sviluppo dialettico. Quando parliamo della legna e della cenere, parliamo di ciò che Hegel chiamerebbe “Dasein”. L’“essere” della prima triade è il “puro essere” – Hegel crede che si tratti dell’“essere” di Parmenide. Il “nulla” è quella stessa indeterminatezza che è il “puro essere”. Qui ci troviamo in quella dimensione che avrebbe dato parecchio da fare ai critici di Hegel come Trendelenburg, Gentile e altri, ma che non corrisponde al divenire concreto rispetto al quale Hegel parlerebbe piuttosto di “Dasein” che è l’esserci dell’essente. A conferma di quanto si diceva sulla convinzione hegeliana di stare nella tautologia (e non nella negazione ingenua del principio di non contraddizione), Hegel dice che, a proposito dell’essere determinato, non è la stessa cosa che una cosa sia o non sia. Fermo restando il grosso problema della consistenza della prima triade, il discorso andrebbe dunque impostato, per quanto riguarda Hegel, con la categoria del “Dasein”, dove appunto si afferma che il finito è finito in quanto è destinato a non essere – il che rientra in pieno in quella concezione del divenir altro che abbiamo preso in considerazione per mostrarne l’essenziale follia.

58 Il termine παράδοξον (parádoxon) è molto bello: παράδοξον (parádoxon) è ciò che sta al di là della δὀξα (dóxa), cioè dell’opinione, ma anche dell’opinione filosofica. Vale la pena di dire che anche la scienza è paradossale: quale paradosso maggiore, rispetto al senso comune, è quello di dire che il sole sta fermo mentre siamo noi che ruotiamo? Si pensi a Moore, che è un filosofo del senso comune, della δὀξα (dóxa). Però altro è lo stare immersi nella δὀξα (dóxa), altro è porre la δὀξα (dóxa) come verità. Anche la filosofia del senso comune non è senso comune.

59 Cfr. K. Popper, Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, a cura di A. F. Petersen, Casale Monferrato, Piemme, 1998.

60 Si noti a proposito di questi temi che il modo in cui Nietzsche legge Eraclito è profondamente alterante perché Eraclito non è l’eraclitismo del tutto scorre. Per Eraclito c’è una struttura immutabile che è il Dio. Si consideri il frammento 50 dove si dice: «Non è dando ascolto a me, ma al λὀγος (lógos), che è saggio affermare che tutte le cose sono uno, ἕν πάντα εἶναι (hèn pánta eînai)». Ebbene questo “uno”, questo ἕν, è lo ἕν τό σοϕόν (hèn tò sophón), cioè il Dio. In Nietzsche tutto questo viene soppresso: viene valorizzato quel modo di intendere Eraclito che dimentica niente meno che i μέτρα (métra) di cui parlavamo, e cioè quello ἕν τό σοϕόν (hèn tò sophón) che è il Dio, l’eterno, quel mondo che nessuno degli dei e degli uomini fece ma che, dice Eraclito, con misura si accende e con misura si spegne. I grandi possono fare anche grandi errori. Ma, stando all’eraclitismo, se c’è un atteggiamento produttivo è proprio quello dell’artista che, a un certo momento nella storia dell’arte dell’Occidente, si sentirà capace di sostituire la creazione divina. Per Heidegger, la Gelassenheit, il “lasciar essere”, è l’atteggiamento non produttivo che conviene e all’artista e all’uomo che non si lasciano catturare dalla prevaricazione della tecnica. E tuttavia ciò che è “lasciato essere” per Heidegger è proprio il divenir altro. Il contemplare non è il produrre. Se però la contemplazione contempla il divenir altro e la produzione, allora questa contemplazione è la matrice della volontà di potenza perché crede nel divenir altro: per poter essere potenti bisogna infatti credere nel divenir altro. Ma è proprio questo che costituisce la forma originaria della violenza e dell’omicidio: il pensare che le cose siano un diventar altro e cioè che siano nulla.

61 Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., cap. XII.

62 Cfr. E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Id., Essenza del nichilismo, Milano, Adelphi, 20052.

63 Rm 10,17.

64 Cfr. M. Heidegger, Der Satz vom Grund, Pfullingen, Neske, 1957, pp. 68-80.

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