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1. Filosofia e storia dell’Occidente, ἐπιστήμη della verità

p. 13-42


Texte intégral

La filosofia è l’anima in cui cresce la storia dell’Occidente

1Il titolo generale della lezione può dare l’impressione che si voglia fare troppo. C’è dentro, in qualche modo, la storia dell’Occidente e allora l’impressione è quella che vi sia un tentativo di stabilire una visione unitaria della storia dell’Occidente. Subito qui sorgono le difficoltà perché il concetto di visione unitaria è oggi uno tra i concetti più in crisi: si parla piuttosto di ispezione frammentaria di sezioni della cosiddetta realtà o della cosiddetta storia; oggi è considerato serio il discorso specialistico e, là dove la filosofia non è essa stessa specializzazione, è vista con diffidenza. Allora questa impressione può subito squalificare il senso che, direi abbastanza chiaramente, traspare dal titolo del primo argomento.

2Certamente qui s’intende parlare del senso unitario dell’Occidente. Ma, se sussiste l’atteggiamento di critica alla possibilità di un’ispezione unitaria di un settore così vasto del mondo qual è la storia dell’Occidente, se esiste questa critica, essa si rivolge a una precedente concezione, quella tradizionale, per la quale non soltanto sarebbe possibile parlare di una storia unitaria di un certo periodo storico di notevoli proporzioni, ma viene anche affermata la possibilità di unificare il tutto e cioè di considerare l’unità della totalità stessa della realtà. Non c’è bisogno di ricordare che il concetto teologico di Dio è quello che più esprime l’esigenza che le differenze siano raccolte all’interno di un’unità.

3Potremmo dunque fin da subito osservare che il senso unitario dell’Occidente è dato dal contrasto tra questi due opposti modi di pensare: da un lato si dice che non c’è un senso unitario, dall’altro lato si diceva, ma si dice sempre meno, che c’è un senso unitario. Allora il senso unitario – con un significato diverso da quello che l’espressione “senso unitario” ha nei due casi – è lo scontro tra questi due modi opposti di considerare la cosiddetta realtà: la concezione che potremmo dire olistico-unificatrice e la concezione frammentaristica, specializzantesi.

4È notevole come la specializzazione scientifica abbia un riscontro nel “frammento” anche dal punto di vista artistico. Oggi l’artista non crede più di poter guardare il mondo dall’alto, come per esempio nei romanzi dell’Ottocento, dove chi racconta sa tutto del protagonista: oggi il romanzo esprime quello che il romanziere crede di vedere nella breve sequenza che corrisponde alla sua vita.

5Siamo dunque dinanzi allo scontro tra questi due opposti modi di pensare. Io credo – e avremo modo di considerare a lungo questa espressione “io credo”, ma per ora usiamola – che un popolo sopravviva solo se conosce il senso del mondo in cui vive. Questo si riferisce anche al modo in cui è necessario che sia organizzata la scuola, dall’inizio fino alla fine: conoscere il senso del mondo in cui si vive significa conoscere la tensione che ho chiamato olistica, e la concezione frammetaristica della realtà, della storia.

6Oggi viviamo questa tensione. L’esempio più rilevante è lo scontro con la Chiesa Cattolica la quale, dopo la fine dell’Unione Sovietica, è rimasta probabilmente l’ultima istituzione che continua a tener ferma (come “istituzione”, non sul piano dell’individuo) la concezione unificatrice della realtà. Non a caso parlavo prima di Dio. Un popolo sopravvive se sa dove si trova, altrimenti è come lo struzzo che mette la testa nella sabbia. Credo che la scuola dovrebbe tenere conto di questo contenuto che è ineliminabile non solo presso le discipline di carattere umanistico, ma anche presso le discipline di carattere scientifico: lo scontro tra il passato e il presente. Ma in che cosa consiste questo scontro? È troppo poco infatti fermarsi alla constatazione che là c’è una concezione olistica e qui una concezione frammentaristica, specialistica.

7Una seconda osservazione, sempre a proposito del titolo, riguarda la funzione della filosofia. So bene che oggi la filosofia, soprattutto nel mondo anglosassone, è considerata come una specie di fiore all’occhiello della scienza, quando addirittura non si afferma che una filosofia che non si fondi sulla scienza è una cosa poco seria. La filosofia, e il linguaggio in cui essa si formula, è invece la cosa più seria, ma tanto seria – e qui è probabile che si vada a urtare la sensibilità di chi ha una diversa impostazione o di chi proviene da storie culturali diverse – da essere messa, in questo titolo, come prima rispetto alla storia dell’Occidente. Questo vuol dire, in senso essenzialmente non marxiano, che la filosofia è l’anima in cui cresce la storia dell’Occidente.

8Tutti sanno che la posizione marxiana è capovolta. Mi riferisco alla celebre tesi di Marx per cui non è la coscienza che determina l’esistenza, ma è l’esistenza che determina la coscienza4. Qui si sta invece dicendo che la coscienza filosofica determina quella concretezza, quella pesantezza, quella ricchezza di determinazioni che è la storia dell’Occidente. E certo è un impegno che mi prendo e che discuteremo. Ci possiamo accostare a questa tesi pretenziosa – che però vede la filosofia posta al rango che le compete – sfruttando quel celebre saggio di Heidegger La cosa, dove la “cosa” è il rapporto con la quadruplicità della terra, del cielo, dei divini e dei mortali5. Heidegger fa l’esempio della “brocca” che è in rapporto a questi fondamentali aspetti che le scienze dell’uomo ci dicono essere presenti fin dalla più antica forma di umanità. L’uomo sarebbe da sempre in rapporto alla terra, al cielo, al prossimo e al divino. Questa considerazione sulla “cosa” è certo molto adatta a essere riferita alla forma più arcaica dell’esistenza umana: si parla della “brocca”. Heidegger però non spinge a fondo la considerazione su ciò che accomuna questi quattro termini.

9Se diamo ascolto – e anche quest’espressione, come “io credo” sarà oggetto di considerazione – se diamo ascolto alle scienze antropologiche allora, anche se queste scienze non lo mettono in evidenza, abbiamo dinanzi gli elementi per poter dire che l’elemento comune di questi termini della “quadruplicità” sopra considerata è la loro variazione. Per quanto ci dicono, anche se in forma implicita, le scienze antropologiche, la variazione del mondo viene interpretata come trasformazione, come cosmogonia, come teogonia. Tutti questi termini alludono al fatto che non solo la “brocca”, se cade per terra, si infrange, ma nemmeno il cielo e i mortali e i divini e la terra sono esenti dall’effrazione. Sono essi stessi oggetto di produzione, di cosmogonia; e si parla addirittura di teogonia.

Il diventar altro e il mito

10Il variare del mondo è sin da principio interpretato come appunto un diventar altro non soltanto da parte della creta che diventa brocca, ma anche da parte del cielo, degli uomini, dei mortali, dei divini, della terra: tutto è un diventar altro.

11Anche qui, ancora una volta, se diamo ascolto alle scienze dell’uomo, la frantumazione del dio è la condizione dell’esistenza del mondo. Abbiamo un’eco di questa posizione, di quest’atteggiamento originario, per esempio in Dioniso. E sebbene creda che si debba distinguere il mito prefilosofico dal mito postfilosofico, occorre constatare che anche nel mito postfilosofico, in cui consiste quel grande fenomeno che è il cristianesimo, è presente la frantumazione del dio, una frantumazione che è espressa appunto dalla sua incarnazione, morte, trasfigurazione. Come Dioniso che continua a morire (ma sono frequenti i riscontri anche presso altre forme di religione), il dio è frantumato, è spezzato, perché, se così non fosse, il mondo non potrebbe essere. Per mondo si intende infatti ciò che, diventando altro, può essere in qualche modo dominato e, per dominare qualcosa, è necessario che non sia un monolite: è necessario che sia franto, che sia spezzato, che sia diviso.

12Incominciamo a intravedere una sorta di vicinanza tra quest’atteggiamento iniziale dell’uomo e quanto dicevo prima a proposito della specializzazione scientifica la quale considera razionalmente accettabile non ciò che pretende costituirsi come la totalità, ma ciò che è separato dalla totalità: solo ciò che è separato è infatti controllabile, manipolabile, dominabile. Solo la parte è dominabile. Quest’atteggiamento che vede la condizione del mondo nella frantumazione, nello squartamento del dio, è in consonanza con la volontà di potenza che definisce l’uomo, che definisce il mortale: per essere potenti bisogna aver che fare con parti separate le une dalle altre.

13Ho fatto quest’accenno al mito perché, con la filosofia, la cosa si potenzia e si potenzia in modo radicale. Prima di indicare questo potenziamento, vorrei invitar a riflettere sulla circostanza che, se tutte le “cose” – e quindi anche le grandi forme dell’“esser cosa”: terra, cielo, mortali, divini – sono un diventar altro, allora l’“esser cosa” come diventar altro, e cioè l’essenza del mito, guida l’intera storia dell’esistenza mitica, nel senso che ogni cosa si inscrive in questo senso dell’“esser cosa” come diventar altro. Molti sicuramente conoscono la distinzione fra tempo sacro e tempo profano. Nell’esistenza arcaica, il tempo sacro occupa pressappoco tutte le attività dell’uomo: non solo l’aspetto propriamente religioso che viene celebrato nella festa, ma anche il mangiare, l’accoppiamento, la caccia, il raccolto, la semina, la guerra. Sono tutti aspetti che rientrano nel sacro, che rientrano cioè in quell’atteggiamento per il quale la freccia colpisce il nemico, o la ruota consente il trasporto del carico solo in quanto è protetta dal divino. Intendo dire che l’“esser cosa” intesa come diventar altro, quindi come disponibilità rispetto all’azione dell’uomo, è il significato di fondo all’interno del quale cresce l’intera storia del mito.

14Qualcosa del genere, con l’accentuazione, con la radicalizzazione cui accennavo prima, accade per il pensiero filosofico. Proviamo allora a vedere questo primo punto dove si intende dire che, come nella storia del mito c’è un significato di fondo che sorregge ogni evento di questa storia – e che quindi è il terreno in cui cresce ogni evento di questa storia –, così, all’inizio della storia dell’Occidente, viene evocato un significato di fondo all’interno del quale cresce l’intera storia dell’Occidente. Questo significato di fondo non è una rottura rispetto al significato di fondo che è costituito dal mito ma, dicevo prima, ne è una radicalizzazione estrema.

15Consideriamo le parole “essere” e “nulla”. Tali parole compaiono sì nel linguaggio preoccidentale, per esempio nel Rig Veda, ma non secondo quel significato radicale che viene portato alla luce dalla filosofia dove per “nulla” si intende “ciò che sta al di là della totalità dell’essente”. C’è una rete di significati per la quale è giusto dire che la filosofia nasce grande e per la quale accade che l’unificazione costituita dal mito – l’unificazione del mondo in cui si vive determinata dal senso reggente dell’“esser cosa” – sia presentata all’interno di una rete, appunto, dove innanzi tutto incomincia ad apparire il significato di “essere” e di “nulla”. Questo è importante perché, se si riflette sul concetto di diventar altro, portare all’estremo l’“esser altro” significa pensare l’“esser altro” come “nulla”.

16Se col nostro agire trasformiamo in qualche modo il mondo, la trasformazione è tanto più intensa quanto più si differenzia dal punto di partenza. La differenziazione estrema è il pervenire a quell’assolutamente altro che è l’esser nulla e cioè è l’esser altro rispetto a qualsiasi modo di “esser cosa” delle cose che costituiscono il tutto. Quindi, affinché si possa parlare di nulla, è necessario parlare di “tutto” e la filosofia nasce grande proprio (ma non solo) per questo e cioè perché pensa il tutto – e solo se si pensa il tutto si può pensare ciò che sta al di là di qualsiasi tratto del tutto.

17Il mio discorso sul significato di fondo dell’“esser cosa” nel mito era indeterminato perché il mito non pensa il tutto. Il mito pensa l’insieme delle cose. Sopra le cose c’è il divino. Ma, al di là di questo gruppo di cose sopra le quali c’è il divino, non c’è altro? È un’osservazione che va fatta anche a proposito dell’inizio del Vecchio Testamento perché la teologia successiva interpreterà il termine bārā’ dicendo che Dio “produsse”, “creò” tutte le cose. Sennonché in ebraico la parola bārā’ ha una gamma di significati ben più ampia. E poi, che cosa vuol dire “tutte le cose” nel testo ebraico già violentato dalla teologia successiva, la quale rende univoca quella polivocità di significati che è propria del bārā’? Che cosa vuol dire “tutte le cose”? Oltre alle cose che Jahvé produce, non potrebbero essercene altre? In effetti noi sappiamo che all’inizio del Vecchio Testamento si parla di molti “Elohim”, il che è una comprova dell’indeterminatezza di quel senso del “tutto” oltre il quale non c’è altro che il nulla. Intendo dire che nel mito non poteva esser presente quella radicalità del divenir altro perché non era presente né il senso radicale del tutto né il senso radicale del nulla a esso implicato.

18La prima osservazione che stiamo facendo riguarda allora la radicalità dell’altro che compare nel diventar altro che costituisce il senso originario dell’“esser cosa” – quel senso originario dell’“esser cosa” che abbiamo chiamato mitico, secondo quanto ci dicono le scienze antropologiche. La “cosa”, all’inizio del pensiero filosofico, viene pensata per la prima volta come ente, essente. La parola greca è τὸ ὅν ( ón). L’essente è ciò che costituisce quanto vi è di identico nella totalità delle cose. L’“esser cosa” è il diventar altro in quel modo assolutamente radicale che è il diventar nulla partendo dall’essere e il diventar essere partendo dal nulla. Vorrei sostenere – ma anche questa frase “vorrei sostenere” è una di quelle che dovremo considerare – che è questo significato a consentire di affermare che la filosofia è il terreno in cui cresce l’intera storia dell’Occidente, all’opposto di quanto viene pensato dalla teoresi marxiana.

19Qui potremmo cavarcela con l’osservazione che ogni aspetto del mondo è un ente, è un ὅν ( ón), è un qualche cosa che “è” e quindi non è un nulla. Non è quel nihil absolutum che per la prima volta i Greci portano esplicitamente alla luce6. Si tratta dunque di considerare la radicalità per cui l’esser nulla è l’assolutamente altro. Credo che qui il pensiero greco anticipi tutto quanto oggi noi diciamo sull’assolutamente altro. Si pensi, per esempio, a Karl Barth. Egli parla di un ganz Anderes, l’assolutamente altro. Nel libro V della Repubblica, Platone usa l’espressione τὸ μεδαμῆ ὅν (tò medanê ón), l’assolutamente niente7. Ma il ganz Anderes è così assolutamente altro da essere un nihil absolutum? O invece, come sembra leggendo le pagine di Barth, è addirittura il divino, anzi è l’eterno8? Ma si pensi anche al tema della differenza ontologica heideggeriana tra l’ente (la dimensione ontica: la brocca, il tavolo, il cielo…) e l’essere. L’essere, in quanto altro dall’ente, può essere considerato un nihil absolutum? È una domanda retorica perché in Kant e il problema della metafisica, Heidegger continuamente rileva la differenza tra l’essere e il nihil absolutum: l’essere non è il nihil absolutum9. Possiamo dunque asserire che il pensiero greco anticipa tutti questi tentativi di andare oltre l’“ontico” perché pensa ciò che autenticamente è l’assolutamente altro, ossia l’assolutamente nulla oltre il quale non ci può essere qualcosa che sia ancora più altro.

Il significato dell’essere cosa

20Questa era la premessa per arrivare a dire contra Marx (che è tutt’altro che un cane morto) che è la coscienza filosofica a determinare l’esistenza dell’Occidente. Il motivo, detto in poche battute, è che la “cosa” intesa come diventar altro, in questo senso radicale del diventar altro (da nulla a essere, da essere a nulla), è presente in ogni forma di esistenza, in ogni situazione storica, in ogni atteggiamento dell’uomo: la bottiglia, Dio, il cielo, la terra… Qualcuno potrebbe dire: «Ma Dio diventa altro?». Sì, perché già da sempre, se è il Dio cristiano, è diventato altro, perché già da sempre ha liberamente deciso di creare il mondo. Secondo la concezione cristiana, Dio è libero e cioè avrebbe potuto non creare il mondo: sarebbe potuto essere già da sempre diverso da come di fatto è stato. In questo senso, allora, il diventar altro è un esser già da sempre diventato altro. Per questo dico che ogni cosa, anche Dio, è un diventar altro o un poter diventar altro.

21C’è un vecchio adagio scolastico che dice nihil volitum quin praecognitum: non si vuole nulla che prima non stia dinanzi come scopo. Ho detto “scolastico” ma, se si sfoglia l’Etica a Nicomaco di Aristotele, si vede che è ampiamente sviluppato questo concetto per cui l’agire presuppone il τέλος (télos), lo scopo da realizzare: si agisce in relazione al τέλος (télos), allo scopo. Ma, da parte nostra, si tratta di tener presente che lo scopo è un modo dell’“esser cosa”. Se voglio aprire la finestra o tagliare un albero, non ho semplicemente che fare con la finestra chiusa, ma con un certo modo dell’“esser cosa” che si costituisce come finestra chiusa che mi propongo di aprire. Se voglio tagliare un albero, non ho semplicemente che fare con l’esser albero, ma con quel certo modo di “esser cosa” che è quell’albero che mi propongo di tagliare.

22La proposta teorica che sto facendo è che l’“esser cosa”, l’essere una qualche cosa – e ormai l’essere una qualche cosa vuol dire essere un ente – è inseparabile dalla specificità dell’esser cosa.

23Il contadino non sa nulla di quello che stiamo dicendo, però dice: l’albero… e la casa… e il fiume… e la donna… e la famiglia. Dice: questo… e quest’altro… e quest’altro ancora… e quest’altro ancora. Ma è un suo modo di dire “questa cosa” e “quest’altra cosa”: è un modo di aver dinanzi non soltanto l’esser albero, ma il suo differire dall’esser campo, dall’esser fiume, dall’esser pesce, dall’esser uccello, eccetera. Questo differire è il differire di questo certo modo di “esser cosa” da ogni altro modo di “esser cosa”. Dunque, si agisce in relazione al significato che ha lo scopo. Ma stiamo dicendo che ogni scopo – la finestra aperta, l’albero reciso – è un modo di “esser cosa”.

24Il matematico crede di essere libero da questo tipo di considerazioni. Però, se consultiamo l’assiomatizzazione che c’è nei Principia Mathematica di Russel dove si dice, per esempio, che “p” implica “p”, quel “p” è un certo “che”. Non c’è bisogno di usare la parola “cosa”, che è una delle tante parole che si usano per indicare ciò che essa indica. Ce ne sono tante di parole: i Greci parlano di πρᾶγμα (prâgma), di χρῆμα (chrêma)… le “cose”. Il matematico crede di poter prescindere dall’“esser cosa”, ma questa è una sua fede perché anche lui ha che fare con un “quid”: con quel “p” che indica una proposizione la quale implica, nel caso considerato, “p” e cioè implica se stessa. Anche qui, anche in questa sfera di astrattezza, è presente il senso dell’“esser cosa”, con quel carattere dell’“esser cosa” che abbiamo indicato e cioè il diventar altro. Se arretriamo dalla logica all’aritmetica e pensiamo, per esempio, agli assiomi di Peano, scopriamo che uno dei caratteri del numerico è la sua numerabilità, la sua crescita, il suo esser moltiplicabile, divisibile, sottraibile, cioè manipolabile, frazionabile: è un “che” che diventa altro.

25Quando il significato dell’“esser cosa” emerge all’inizio della storia dell’Occidente, accade che le azioni concrete dell’Occidente si riferiscano a questo senso che costituisce l’essenza del τέλος (télos) dell’agire. Tutto ciò che viene compiuto, viene compiuto in relazione a uno scopo che è ciò che si vuole realizzare attraverso la trasformazione. Citiamo ancora una volta Marx. Mi viene in mente, in questo momento, quella pagina straordinaria del libro primo del Capitale, dove Marx parla dell’Arbeit, cioè del lavoro, che poi corrisponde all’agire. È molto ampio il significato marxiano di lavoro. Marx è un grande aristotelico e dice che il lavoro è attività conforme a uno scopo (zweckmässige Tätigkeit), dove lo scopo (Zweck) è innanzi tutto, si dice in quelle pagine, ideell vorhanden, idealmente presente nella mente del lavoratore. Il lavoro consiste appunto nel trasformare lo scopo da idealmente presente in realmente presente.

26Accade che, un poco alla volta, nella storia dell’Occidente, il pensiero filosofico “trasborda” e cioè invade la cultura. Si provi a leggere Lucrezio o le tragedie di Seneca indipendentemente dal senso della “cosa” come diventar altro nel senso radicale che abbiamo visto! Quindi il pensiero filosofico è sovrabbondante e occupa, un poco alla volta, non soltanto la dimensione culturale, ma anche le istituzioni. Il diritto romano ha forti, essenziali legami con lo stoicismo, con la logica stoica, con il modo di pensare che la logica si porta dietro; e, a sua volta, la logica non può pensare indipendentemente dal senso dell’“esser cosa”. Ma voglio dire di più: si pensi alle istituzioni, e cioè non soltanto al diritto romano, ma all’esserci stesso di un Impero Romano, di una Chiesa cristiana e poi la formazione degli Stati nazionali, la formazione delle lingue moderne e poi i grandi fenomeni del Rinascimento, dell’Illuminismo, del Romanticismo, la Rivoluzione comunista, il Capitalismo. Diventa perfino banale l’osservazione che, alla base di tutta quest’enorme ricchezza di determinazioni che costituiscono la storia dell’Occidente, stia una semplicità che però è assolutamente determinante: la semplicità per cui l’estrema ricchezza e concretezza cresce appunto – era questa l’espressione che avevo usato prima: cresce – all’interno di questo significato dell’“esser cosa” sul quale per lo più oggi si pensa non valga la pena di riflettere.

27Al centro del nostro discorso sarà proprio questo significato che nasce, stando le scienze dell’uomo, sin dall’inizio e che oggi culmina in ciò che diciamo tecnica. La tecnica è la forma suprema di trasformazione delle “cose” intese appunto come disponibili al loro esser fatte diventar altro. Il senso dell’“esser cosa” è quindi il tratto che unifica la storia dell’Occidente – e questo sarebbe un primo tema da discutere rispetto a chi dicesse che non ha senso la considerazione totalizzante della storia dell’Occidente dacché la serietà scientifica impone la considerazione di parti isolate le une dalle altre.

Mito, storia dell’Occidente, filosofia

28Ritorniamo a quel concetto di rete di determinazioni a cui ho fatto cenno. La filosofia nasce grande, dicevamo, perché porta alla luce il senso dell’essere e del nulla. Il fatto che io parli dopo delle ulteriori determinazioni, non vuol dire che siano meno importanti; esse sono cooriginarie rispetto a ciò che in qualche modo sta all’origine del senso stesso della “cosa”. Per ora ci si sta profilando una situazione di questo tipo: immaginiamo di tracciare due tratti di una retta e cioè AB che rappresenta la storia del mito e BC che rappresenta la storia dell’Occidente. Noi non diciamo senz’altro che la coscienza è il fondamento dell’esistenza. Stiamo dicendo: c’è storia dell’Occidente perché la coscienza filosofica sta al fondamento dell’esistenza dell’Occidente, il che non implica che la coscienza sta comunque e in ogni caso alla base dell’esistenza.

29Dicevo che vi è una rete di determinazioni che fanno riferimento a ciò che origina il senso stesso della “cosa”. Ho iniziato osservando che la variazione del mondo viene interpretata dall’uomo arcaico come diventar altro. Ma la variazione del mondo vuol dire la variazione del mio corpo, dei miei pensieri, dei miei affetti, del prossimo. La variazione vuol dire l’andarsene via di ogni aspetto del mondo e l’andarsene via – con modalità che presto vengono chiamate dolore, sofferenza… – è ciò che, un poco alla volta, viene chiamato “morte”. Dolore e morte sono essenzialmente correlate al variare del mondo, al diventar altro delle cose: si muore e si soffre perché c’è un diventar altro delle cose. È qui che nasce il mito e poi la scienza. Lo dobbiamo dire anche a qualsiasi matematico, scienziato che fosse qui presente a interloquire con noi perché non si fa scienza così, per un puro gusto intellettuale. Nietzsche, che ripete su questo punto Eschilo, dice che la scienza nasce dalla paura10. Eschilo è ripetuto da Nietzsche, ma è innanzi tutto ripetuto da Aristotele.

30Ognuno ha i suoi luoghi preferiti. Io amo imprecare contro quel modo di tradurre la parola θαῦμα (thaûma) che è diventato dominante nella cultura non solo italiana, ma direi internazionale, per cui θαῦμα (thaûma) viene tradotto con “meraviglia” e allora, siccome Aristotele dice che la filosofia nasce da θαῦμα (thaûma), si dice la filosofia nasce dalla “meraviglia”: l’immagine è quella dello stato irenico dell’uomo intellettuale che, non vedendo che la diagonale è commensurabile al lato, si meraviglia. Qui è il linguaggio che incomincia a dire che le cose non stanno in questo modo. Già Platone parlava della filosofia come figlia del gigante Thaumante che è un semidio ctonio, cioè tutt’altro che sereno nella tranquillità del suo contemplare le cose. Se guardiamo sul vocabolario, θαῦμα (thaûma) vuol dire innanzi tutto “angosciato terrore”, paura. La filosofia, il sapere, nasce dalla paura, così come dalla paura nasce il mito. Vediamo dunque l’inadeguatezza del modo in cui viene intesa la potenza, la pregnanza del discorso aristotelico del primo libro della Metafisica. Aristotele dice che la filosofia conduce da θαῦμα (thaûma) – che ora, in attesa della conferma che ci darà il testo stesso, proviamo a intendere non semplicemente come meraviglia – allo stato opposto a θαῦμα (thaûma) e cioè alla felicità che è l’opposto dell’angosciato terrore per la morte, per il dolore. Si badi che si muore continuamente: passa un istante e quell’istante, come ogni istante che passa, secondo il modo di pensare che si basa sul senso dell’“esser cosa” come diventar altro, è un morire di quell’istante – e da qui, a dire che questo passare è un diventar niente di quell’istante, non c’è medio perché abbiamo già alluso alla radicalità del diventar altro da parte di ogni cosa e quindi da parte di ogni istante. Secondo il senso occidentale dell’“esser cosa”, noi continuiamo a morire ogni istante che passa: ogni nostro istante interno ed esterno muore via via, finché si morirà del tutto e allora si parlerà di morte in senso specifico.

31Ma torniamo al testo del libro primo della Metafisica. Dice Aristotele quasi parenteticamente: «Καὶ ὁ ϕιλόμυθος ϕιλόσοϕος πώς ἐστιν» (Kaì ho philómythos philósophos pós estin)11. Anche il ϕιλόμυθος (philómythos), e cioè l’amante del mito, è in qualche modo filosofo. Si insiste a dire che θαῦμα (thaûma) vuol dire lo stupore, la meraviglia di fronte alla diagonale che non si lascia misurare con il lato o di fronte all’eclisse di luna. Si è tradotto malamente quel termine come se esprimesse la meraviglia dell’uomo di fronte ai burattini: il riferimento sarebbe addirittura agli αὐτόματα (autómata) che, quando non si vedono le mani che li muovono, destano meraviglia. Quando poi si capisce che dietro c’è qualcuno che li muove, allora la meraviglia finisce. Ma αὐτόματα (autómata) in Aristotele non vuol dire “burattini” ma “le cose che si muovono da sole”. Come mai qualcosa si muove senza che mostri che cosa la fa muovere? Questo è già qualcosa di diverso dai burattini.

32Proviamo a capire l’espressione Καὶ ὁ ϕιλόμυθος ϕιλόσοϕος πώς ἐστιν (Kaì ho philómythos philósophos pós estin). L’amante del mito è colui che, immerso nel problema del dolore e della morte, non se ne sta nella quiete del contemplare e della sorpresa perché i conti non tornano. È in qualche modo filosofo perché anche l’amante del mito, dice il testo, è angosciato dalla morte da cui sono angosciati tutti, da cui siamo angosciati tuttora noi, uomini di questo secolo. È sempre la stessa angoscia a determinare il tentativo di difendersi dal dolore e dalla morte – e la difesa, innanzi tutto, è certo il mito.

33Perché diciamo che il mito è la difesa dal dolore e dalla morte? Non perché l’uomo mitico, vivendo all’interno della narrazione mitica – μύθος (mýthos) vuol dire “parola”, “racconto” che dice il senso del mondo –, creda di uscire dal dolore e dalla morte, ma nel senso che crede che il μύθος (mýthos) gli consenta di sopportare il dolore e la morte e gli prometta qualcosa che sorpassa il suo biologico morire. Il μύθος (mýthos) come racconto è rimedio perché già l’uomo mitico, se stiamo alle scienze che ci parlano di lui, sa che la morte e il dolore vengono, ma non sa quando vengono. C’è la mazzata del dolore sotto la quale l’uomo non reagisce: la subisce. Poi il dolore si attenua – parlo di dolore nel senso più ampio: psicologico e, sarei tentato di dire, innanzi tutto fisico – e allora l’uomo incomincia a pensare e a preoccuparsi che il dolore non ritorni. In questa pausa, tra una mazzata e l’altra, nasce il mito come rimedio, nel senso che, per l’uomo arcaico, il mito anticipa gli eventi futuri e lo assicura che gli eventi futuri saranno inscritti all’interno del rapporto che i divini hanno con i mortali, nel gioco tra terra e cielo. Il mito è cioè anticipazione, è previsione e, prevedendo, l’uomo mitico sopporta il dolore e la morte perché li inscrive all’interno di un senso unificante. Credo che molti di noi, o tutti, abbiamo avuto un’educazione cristiana e sappiamo bene cosa vuol dire l’atteggiamento cristiano di chi si mette nelle mani di Dio. Vuol dire: qualsiasi cosa mi accada, c’è Dio che mi protegge. E in questo atteggiamento che cosa si fa? Si anticipa la totalità del futuro. Qualsiasi cosa in futuro mi accadrà, il credente non fa eccezioni, mi accadrà nella situazione in cui c’è la protezione di Dio.

34Ma è proprio perché il mito nasce in relazione a ciò che più preme al mortale, è proprio per questo che il mito non può sopravvivere. Qui è bene che ci si intenda subito. Per mito intendo sia il mito prefilsofico sia il mito postfilosofico, intendo quindi anche il cristianesimo. Il mito non può sopravvivere perché è invenzione del significato, è volontà che il mondo abbia un certo significato, è fede che il mondo abbia un certo significato, una fede che magari dice: «Io sono ispirata da Dio». Ma anche questo “essere ispirata da Dio” fa parte della fede che dice: «Io sono ispirata… sono portata nell’uomo da parte di Dio».

35Il mito non può resistere di fronte al dubbio crescente che l’uomo ha di fronte al μύθος (mýthos) che gli racconta il senso del mondo. Se prima il tempo sacro occupava tutto, occupava tutto nel senso dell’enumerazione che ho fatto prima delle fondamentali attività dell’uomo all’interno del tempo sacro, ora il tempo profano si allarga e lascia spazio al dubbio. Il rimedio non può essere affidato alla poesia, dove la poesia sia intesa in quel senso radicale per cui, nel Convivio di Platone, Diotima spiega a Socrate che ποίησις (poíesis) è innanzi tutto la produzione che, nel caso del mito, è produzione di senso: si vuole che il mondo abbia un senso. Tirate le somme – e qui mi rendo conto di contrarre un debito verso chi mi segue –, da ultimo ogni fede è un volere che il mondo abbia un certo senso.

Il conflitto tra le diverse forme di volere

36Questa forma di volontà – che è il mito – non può reggere di fronte all’emergere di una diversa forma di volontà che ora noi ascolteremo sentendo un verso dell’Agamennone di Eschilo nell’Inno a Zeus. L’Agamennone appartiene all’unica trilogia che ci sia rimasta della tragedia attica. Questo verso recita: «Il dolore che rende folli dev’essere cacciato dalla mente con verità», in greco: «Τὸ μάταν ἀπὸ ϕροντίδας ἄχθος χρὴ βαλεῖν ἐτητύμως» (Tò mátan apò phrontídas áchthos, chrè baleîn etetýmos).

37“Αχθος (áchthos) è il dolore. Chi conosce che cosa è il dolore nel testo di Eschilo, sa che il dolore ha tutte quelle qualità, quelle specificazioni che abbiamo prima indicato e soprattutto quella relativa alla morte. In questo verso è il Coro che sta parlando. Ormai Agamennone è arrivato, Clitemnestra si accinge a ucciderlo e il Coro commenta con la voce che per Eschilo è la voce della saggezza. Il Coro commenta dicendo: «Il dolore che rende folli dev’essere cacciato dalla mente con verità». Μάταν (mátan) è parola che io ho reso così: “che rende folli”. Si può anche dire: “che ci fa essere invano”, ma la versione migliore, anche perché suffragata dalla traduzione che ne danno Untersteiner o Ahrens, è, a mio avviso, quella che traduce μάταν (mátan) con l’espressione “che rende folli”, “che fa uscire di mente”. Ἀπὸ ϕροντίδας…ϕροντίς (apò phrontídas… phrontís) è la mente. E perché Eschilo dice “mente”? Perché un dolore di cui non si sia coscienti non è il nostro. Se il mio corpo soffre, ma io non me ne accorgo, non è un mio soffrire. Il soffrire è mio e pesa su di me solo se ne sono cosciente, solo se è, appunto, presente nella mente. Quindi non si tratta semplicemente di un’eliminazione biologica del dolore, si tratta di cacciarlo via dalla mente. Χρὴ (chrè) vuol dire “bisogna”: bisogna cacciar via dalla mente il dolore che rende folli. E perché bisogna? Perché altrimenti soccombiamo. Anche l’uomo del mito avrebbe potuto dire: «Χρὴ» e cioè bisogna che abbracciamo il mito perché altrimenti restiamo nel dolore che rende folli. Infine l’ultima parola – ἐτητύμως (etetýmos) –, che è la più importante in relazione a quanto mi propongo di mostrare. Abbiamo detto infatti che bisogna gettar via dalla mente il dolore che rende folli ma, appunto, bisogna gettarlo via ἐτητύμως (etetýmos) e cioè “con verità”12.

38Non a caso prima ho parlato di Eschilo come di un gigante all’altezza di Parmenide, all’altezza di Eraclito, un gigante del pensiero filosofico. Eschilo è pienamente consapevole del senso inaudito del concetto di verità dove “inaudito” vuol dire: non udito prima dal mito. Si ripeta, anche qui, che il mito, come usa la parola “non essere”, così certamente usa la parola “verità”, ma (come prima dicevamo del “non essere”) non in quel senso radicale che è usato dal pensiero filosofico. Il pensiero filosofico dice ἀλήθεια (alétheia) e ritorneremo su questa parola. Ἐτητύμως (etetýmos) è parola che è presente anche nel frammento otto di Parmenide. Noi diciamo “etimo”: l’etimo è ciò che in verità una parola è. Dunque, bisogna gettar via il dolore, che rende folli, ma con verità. Ecco, qui è la critica che il pensiero filosofico fa al mito e per questo prima dicevo che il mito non può sopravvivere.

39Certo, oggi noi viviamo all’interno di una rimonta del pur grande pensiero cristiano. Sembra che oggi il mondo non riesca a sopravvivere, o riesca difficilmente a sopravvivere, se non tiene presenti i valori cristiani. Però sono i valori cristiani del mito, cioè della fede. Ritorneremo su questo punto ma, se si imposta il rapporto tra i popoli come rapporto tra le fedi, allora ogni fede è un battere il pugno sul tavolo. Il cristiano dice: «Il mondo ha il senso che dico io, ha il senso cristiano». E l’islamico dice: «No! Il mondo ha il senso che dico io». Il buddista è meno pretenzioso, è meno prepotente (però sta diventando prepotente anche lui) e propone il proprio senso del mondo. Se si imposta il problema della salvezza futura di questo nostro mondo sulla base della fede, a un certo momento le fedi andranno alla ricerca di ciò che hanno in comune e, fino a un certo punto, qualche cosa di comune può emergere, per esempio il rispetto per l’uomo che è presente in ogni fede, anche se ci sarebbe da discutere sul modo in cui è presente nel cristianesimo o, per esempio, nell’induismo. Però, quando si arriva al sostanziale, ossia a ciò che una fede ha di specifico – per esempio, per il Cristianesimo, la cristicità –, allora lì non si può più parlare di ciò che le fedi hanno in comune, lì c’è lo scontro. E lo scontro tra fedi è, per definizione, lo scontro tra volontà di potenza. Perché dico per definizione? Ma perché la fede vuole che il mondo abbia un certo senso. Ed è inevitabile che la fede dia luogo a situazioni sociali, politiche, economiche, teocratiche perché la fede non transige di essere limitata da strutture giuridiche che la smentiscano.

40Dico, tra parentesi, che chi oggi accusa la Chiesa di essere teocratica, non tiene presente che la Chiesa fa il proprio mestiere in coerenza a ciò che la fede, in quanto fede, è. La fede è volere che il mondo abbia un senso. C’è allora un primo livello in cui le fedi si possono mettere d’accordo su ciò che hanno in comune, ma che non è lo specifico della fede. Là dove c’è lo specifico della fede, là c’è la contrapposizione. Se la contrapposizione si prolunga, a un certo momento la contrapposizione diventa guerra.

41È necessario, dicevamo, cacciare dalla mente il dolore “con verità”. La parola “verità”, che i Greci indicano con la parola ἀλήθεια (a-létheia), è più forte di quanto non dica la parola così esaltata da Heidegger, cioè “non-nascondimento”. Visto che abbiamo citato Eschilo, la proposizione che ho richiamato nel passo indicato è la protasi di un discorso che dice: «Se è necessario e poiché è necessario gettar via con verità dalla mente il dolore che rende folli, allora…». Nel testo greco il rapporto è inverso, è rovesciato, cioè la protasi viene dopo l’apodosi. Il testo greco dice: «Πάντ’ ἐπισταθμόμενος…» (pánt’epistathmómenos…). Teniamo per ora in sospeso questa espressione e proviamo a tradurre così l’apodosi, come fa Untersteiner: «Soppesando tutte le cose con adeguata misura, non posso pensare che a Zeus…», dove Zeus, se si leggono i frammenti di Eschilo, non è lo Zeus del mito, ma è l’aria, l’etere, l’acqua, il cielo… è l’identità del molteplice così come lo è il Dio di Eraclito, lo ἔν τὸ σοϕὸν (hèn tò sophòn): l’uno, il sapiente13.

42Πάντ’ ἐπισταθμόμενος (pánt’epistathmómenos…): in questa espressione compare la parola direi dimenticata da Heidegger e cioè la parola ἐπιστήμη (epistéme). Certo, a un filologo accorto come Untersteiner, non può non venire in mente che, alla lettera, státhme è la cordicella che si mette sulla pietra o sul legno perché siano tagliati con regolarità: è la regola del taglio. Ma io ho avuto la soddisfazione di vedere che un nostro illustre filologo dell’Università di Roma, Belardi, pur non facendo riferimento al sottoscritto, nel 1976 confermava la lettura che davo di ἐπιστήμη (epistéme) un quindicennio prima, quando scomponevo la parla ἐπιστήμη (epistéme) nei due elementi ἐπὶ (epí) e στήμη (stéme), che viene dalla radice indoeuropea “sta” la quale indica lo star sopra.

43Se si va a leggere il vocabolario, si trova che ἐπιστήμη (epistéme) significa “scienza”. Ma anche questa è una cattiva traduzione: “scienza” non rende la forza dell’ ἐπὶ-ἵστασθαι (epí-hístasthai), dello star sopra. Ma sopra che cosa? Ἐπίστήμα (Epístema) in greco vuol dire la prora della nave. La prora della nave fende i solchi, i flutti. Di per sé i flutti vorrebbero arrestare la prora della nave, ma è la prora che vince, che si impone sulla resistenza dei flutti.

44Ἐπιστήμη (epistéme) è lo star sopra il divenire delle cose che vorrebbero abbattere, travolgere, secondo la loro natura – che è la natura del divenir altro –, questo “stare” indicato appunto da στήμη (stéme). Il Greco incomincia a pensare che c’è un sapere che “sta” non perché è voluto, non perché è evocato dal μῦθος (mŷthos), che è fede, ma perché è non smuovibile, non smentibile, non controvertibile. Qui siamo in vista delle coste della filosofia non perché quanto dicevo prima non avesse che fare con la filosofia, ma nel senso che tutto quanto dicevo prima della filosofia ha senso filosofico soltanto all’interno dell’ ἐπὶ-στήμη (epí-steme). La stessa contrapposizione tra “essere” e “nulla” il pensiero filosofico iniziale la intende, nella sua potenza, all’interno dell’invenzione di questo significato e non come il semplice raccontare che c’è l’essere e che, al di là dell’essere, c’è il nulla.

45Poi si tratterà di vedere che cosa sia incontrovertibile. Ma l’essenziale è evocare, pensare il senso dell’incontrovertibile. A me piace fare questo esempio: è importante l’astronomia, ma ancora più importante dell’astronomia è che l’uomo, dalla situazione di quadrupede con la testa che guarda per terra, guardi il cielo – e cioè che il cielo si manifesti, che appaia il senso dell’incontrovertibile.

Incontrovertibilità della verità

46Quando i Greci parlano di “incontrovertibile” usano dunque la parola ἐπιστήμη (epistéme). Ma usano anche la parola ἀν-ὑποθετέον (an-hypothetéon), cioè il “non ipotetico”. Troviamo questa espressione in certi luoghi fondamentali, per esempio nel libro quarto della Metafisica di Aristotele, quando parla della βεβαιοτάτη ἀρχή (bebaiotáte arché), cioè del principium firmissimum, che poi verrà chiamato “principio di non contraddizione”. In βεβαιοτάτη (bebaiotáte) risuona il concetto di βάσις (básis) e l’ἀν ὑποθετέον (an-hypótheteon) non è una supposizione, ma l’incontrovertibile in senso assoluto. Un’altra espressione dell’incontrovertibile, che pure è frequente in Aristotele è οὐκ ἐνδέχεσθαι ἄλλως ἔχειν (ouk endéchesthai állos échein): incontrovertibile è ciò che non può essere diversamente14; non ciò che ora non può essere diversamente, ma fra un po’ sì; non ciò che qui, da noi, non può essere diversamente, ma altrove sì. Non ci può essere alcuna forza che trasformi l’incontrovertibile in controvertibile: nessun Dio onnipotente può rendere controvertibile l’incontrovertibile.

47Credo che qui sia opportuno un chiarimento perché spesso mi viene fatta quest’osservazione, e cioè di considerare la verità soltanto come incontrovertibilità. Si dice: «No, la verità ha un significato più ampio. C’è, per esempio, la verità morale, la verità storica, la verità religiosa, la verità artistica…». Penso che questo sia uno dei punti sui quali dovremo tutti sforzarci di vedere come stanno le cose perché si tratta di vedere se, per esempio, la verità religiosa sia incontrovertibile in quel senso radicale per cui si dice che incontrovertibile è ciò che niente riesce a scuotere: né cambiamento di tempo, né potenza divina, né potenza umana, né evoluzione.

48La verità religiosa ha questo carattere? Noi possiamo rispondere sentendo innanzi tutto che cosa dice di se stessa la verità religiosa prendendo ancora una volta in considerazione, per esempio, il cristianesimo, che è una delle forme più alte di autocoscienza della fede. Consideriamo la definizione della Lettera agli Ebrei dove si dice che la fede è argumentum non apparentium – il testo greco dice ἔλεγχος οὐ βλεπομένον (élenchos ou blepoménon)15. Gli apparentia corrispondono alle cose che appaiono e che sono appunto indicate dalla parola ἀλήθεια (alétheia), le cose manifeste. La fede è dunque argumentum non apparentium. Poi il testo prosegue dicendo «… e sostanza delle cose da sperare». Ma teniamoci sul primo tratto: la fede è l’argomento che rende ciò che non appartiene a ciò che appare – e cioè che non appartiene all’incontrovertibile – qualcosa che deve essere accettato. E guai se non fosse così perché la fede cristiana ha sempre rivendicato il carattere soprannaturale della rivelazione.

49Quando nei testi di Tommaso e poi su su, fino alle recenti encicliche, si parla di “ragione umana”, di razionalità umana, a che cosa si allude? Si allude all’ ἐπιστήμη (epistéme). Ho sempre avuto modo di compiacermi del fatto che la Chiesa cattolica (ma anche, in qualche modo, la Chiesa protestante) è oggi il luogo in cui maggiormente viene tutelato il significato dell’“epistéme”. Chi pensa di spogliare il cristianesimo dal suo basamento epistemico non vuole più il cristianesimo, vuole qualche cosa di diverso. Qualche esempio? La definizione teologica di creazione è creatio ex nihilo sui et subiecti: le cose sono create ex nihilo sui (ogni cosa è creata dal nulla di se stessa) et subiecti, che vuol dire dal nulla di una materia preesistente che sia manipolata da un demiurgo, così come il demiurgo platonico produceva le cose manipolando la terra madre, quella che poi Aristotele chiama la materia prima. Allora il concetto di creazione nel cristianesimo è essenzialmente debitore del concetto ontologico di nulla.

50Il discorso va per altro applicato anche alla scienza perché, quando la scienza parla di “Big Bang” come luogo originario in cui, a temperatura altissima, si ha il minimo di spazialità dell’oggetto cosmico (si parla addirittura di “punta di spillo”, di una punta di spillo a una temperatura inimmaginabile da cui si svilupperebbe poi l’intero universo), quando si esprime in questi termini, la scienza parla di un’origine dell’universo le cui forme inizialmente sono nulla: forme che si vanno esplicando e che torneranno a essere nulla con il fenomeno entropico, cioè l’impossibilità di lavoro – inteso non nel senso marxiano, ma nel senso di dislivello di temperatura che produce il divenir altro.

51In conclusione, quello che diciamo del cristianesimo, per quanto riguarda il debito rispetto alle categorie di fondo del pensiero greco, lo possiamo dire anche del pensiero scientifico e potremmo prolungare il discorso per tutto il resto, proprio per quanto abbiamo detto sul carattere reggente del senso greco della “cosa”.

52Argumentum non apparentium è dunque il senso della fede la quale dice: «Io voglio che ciò che non sta – ossia ciò che non appartiene agli apparentiastia». In proposito, chi volesse qualche chiarimento sul commento a questa definizione della fede, lo può trovare in Agostino e in Tommaso dove è chiarissimo che gli “apparentia” sono ciò che Tommaso chiama “scientia”, parola che viene usata per indicare appunto l’ ἐπιστήμη (epistéme)16. È la stessa fede cristiana a dire: «Io non sono scientia, cioè non sono ἐπιστήμη (epistéme), cioè non sono incontrovertibile» perché altrimenti, dice Dante, «mestier non era parturir Maria»17, ossia non ci sarebbe il carattere sovrannaturale della rivelazione. La rivelazione è un qualche cosa che, anche dal punto di vista dell’attuale magistero della Chiesa, la ragione umana non può raggiungere. Ma quale ragione? Quella ragione che, dallo stesso punto di vista della Chiesa, è la conoscenza incontrovertibile di ciò che sta.

53Ebbene, il punto sul quale prima dicevo valesse la pena di confrontarsi è che esistono certamente la verità morale, la verità religiosa, la verità estetica – su questo punto Gadamer era molto generoso: c’era tutta una fioritura di verità. Ma io domando: «Queste verità sono incontrovertibili?». Abbiamo visto che, per quanto riguarda la stessa autocoscienza della fede cristiana, essa si pone al di fuori dell’incontrovertibilità.

54Usiamo dunque pure la parola verità per indicare tante cose che ci stanno a cuore: l’amore della madre per il figlio, l’amore in generale, la verità morale, o il bello, la verità estetica. Ma queste situazioni sono incontrovertibili? È cioè possibile che una madre non ami il proprio figlio? È possibile che questo tipo di amore sia smentibile? Intendo dire che possiamo sì riservare la parola verità per indicare queste situazioni, ma esse non hanno il carattere dell’incontrovertibilità: una madre può non amare il proprio figlio. Anche se dispiace dirlo, la Passione secondo san Matteo di Bach può non essere un capolavoro. È una cosa che dispiace moltissimo dire, ma non abbiamo ancora in mano una qualche cosa che ci autorizzi a dire: «Ecco, questa è incontrovertibilmente la bellezza, qui l’arte è veramente ciò che intende essere». E questo sia detto per tutti gli altri usi della parola “verità”.

55Riconosciamo allora che, se vogliamo usare la parola “verità” per indicare queste situazioni emergenti, lo possiamo fare, ma sono situazioni che non sono l’incontrovertibile. Cioè tutto è controvertibile fuorché ciò che riesce a stare di contro alla sua negazione. Ecco il cielo che riesce a diventare astronomia. Prima dicevamo che la cosa più importante di qualsiasi astronomia è guardare il cielo. Dopo, il problema è: quale astronomia si addice al cielo? Che cos’è il contenuto incontrovertibile in tutta la cultura a partire da Adamo ed Eva fino a Einstein? Che cosa viene ritenuto tanto incontrovertibile che si crede che non valga nemmeno la pena di parlarne? È l’“esser cosa” come diventar altro. Dopodiché il pensiero greco radicalizza l’“altro” e lo intende come “nulla”.

56L’incontrovertibile non è ciò che è ora incontrovertibile, ma prima non lo era e tra un po’ non lo sarà più. È ciò che non può essere diversamente – nel presente, nel passato, nel futuro. Non é in un luogo, ma non in un altro, né è per opera di un’onnipotenza divina. È il contenuto che non può essere smentito. Per i Greci questo contenuto è l’affermazione che il mondo è retto da un Dio… che poi diventerà un Dio creatore. Questa è anche la “sostanza” dell’incontrovertibile che sarà ereditata dalla scienza: stando al pensiero filosofico e scientifico tradizionale, la verità non è dunque nel tempo, ma domina il tempo, contiene il tempo, è la “legge” del tempo: se la verità esiste (e per il greco e per l’uomo tradizionale esiste), non ci può essere un tempo che riesca a smentirla. La verità sta sopra (ἐπὶ-ἵστασθαι, epí-hístasthai) il divenire.

Certezza e verità

57Riprendiamo da un’altra angolatura la questione che ci siamo proposti: Che cosa significa verità? e appoggiamoci su questa definizione che risale ad Aristotele. Gli scolastici dicono che la verità è adaequatio intellectus et rei. Potremmo usare anche quest’altra espressione e dire che la verità è come stanno le cose, dove la “cosa” è la res così come sta. Nel De interpretazione Aristotele dice appunto che le parole sono simboli delle affezioni dell’anima (παθήματα τῆς ψυχῆς, pathémata tês psychês), e che le affezioni dell’anima sono immagini delle cose ossia di come stanno le cose18. Esiste allora una dialettica tra come stanno le cose e il conoscere come stanno le cose. Alludo alla dialettica di certezza e verità, indicata da Hegel, sulla quale vale forse la pena di ritornare. Al di là di ciò che appare e che, in quanto appare, appartiene alla certezza, in base a che cosa si afferma che esiste una verità? Questa è la domanda che fa Descartes . Di qui l’importanza di capire il discorso della filosofia moderna.

58Se noi per “verità” intendiamo il mondo come esiste e cioè come stanno le cose indipendentemente dalla conoscenza che l’uomo ne ha, allora l’exploit di gran genio di Descartes è questo e cioè che il mondo, in quanto conosciuto, è un cogitatum: non è come stanno le cose in se stesse, indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo. Questo mondo che ci si presenta e che, nel senso comune, è considerato come il mondo vero, in relazione a questa domanda di Descartes non è il mondo vero, ma è il mondo certo: è il mondo di cui si è certi, è il cogitatum, il pensiero, ea omnia, dice Descartes, quatenus in nobis sunt19. Tutto questo vasto mondo, che il senso comune considera come verità, è la certezza. E allora bisogna andare alla ricerca di come stanno le cose: è il lungo, formidabile transito costituito dalla filosofia moderna, da Descartes all’idealismo.

59Dire che la verità è come stanno le cose significa necessariamente conoscere come stanno le cose. Per sapere che le cose corrispondono alla conoscenza che l’uomo ha delle stesse, è inevitabile (ed è questa una delle grandi lezioni dell’idealismo) che si conosca come stanno le cose – e tale conoscenza può essere o controvertibile o incontrovertibile. Quindi, definire la verità “come stanno le cose” è ancora insufficiente. Per sapere che c’è corrispondenza tra la conoscenza e le cose è necessario che, a un certo momento, si conoscano le cose. Ma le cose potrebbero apparire illusoriamente. E allora, daccapo, qual è la categoria decisiva che dice come stanno le cose? È il come incontrovertibilmente stanno le cose.

60Questo per quanto riguarda la definizione di verità intesa come ciò che “è” indipendentemente dalla riflessione umana sulle cose. Facciamo allora qualche passo in avanti seguendo l’insegnamento della filosofia moderna perché il problema di Descartes è di sapere appunto come stanno le cose sul piano dell’essere formale. Quando Descartes parla di être objectif, la parola “oggettivo” è l’opposto di quello che intendiamo noi oggi: ciò che sta indipendentemente dai nostri giudizi. Descartes usa la terminologia scolastica per cui “oggettivo” vuol dire obiectum mentis. Nella terminologia cartesiana “oggettivo” è ciò che noi oggi diremmo il “soggettivo”, ossia le cose in quanto sono in noi: ea omnia quatenus in nobis sunt, et in nobis fiunt, et in nobis eorum conscientia est.

61Il grande lavorio della filosofia precritica (qui continuo a mobilitare la dialettica hegeliana, cioè il modo in cui Hegel vede la dialettica tra certezza e verità) è il problema del ponte: si cerca cioè di gettare un ponte che stabilisca l’adaequatio intellectus et rei – e sappiamo che è un ponte di difficile costruzione che ha impegnato Descartes, Malebranche, Spinoza, Leibniz e poi, in qualche modo, anche l’empirismo. Sennonché, dopo c’è Kant. E anche qui, più si resta esterni al pensiero filosofico, più se ne vede lo sviluppo come arbitrario; più ci si va dentro e più lo si vede come consequenziale. Kant rileva che il ponte non è una costruzione fisica sulla quale si possa marciare coi piedi e le gambe: il ponte è un processo conoscitivo, sicché chi, partendo dalla sponda della certezza, arriva alla sponda della verità, vi arriva conoscitivamente – e quindi il ponte è un ponte fittizio. Si crederà di arrivare al di là della certezza, ma non si sarà fatto che estendere dogmaticamente ciò che è contenuto della certezza. Di qui l’affermazione kantiana dell’impossibilità del ponte, il che vuol dire l’impossibilità della metafisica come conoscenza della “cosa in sé”. In questo caso “fisica” è l’obiectum mentis.

62L’idealismo ha questo merito sul quale ritorneremo: ha cioè rilevato che la stessa affermazione di una “cosa in sé”, risente dell’equivoco per cui si crede di poter attraversare il ponte. In base a che cosa, infatti, si afferma che esiste una “cosa in sé” al di là di ciò che appare? Di qui la formula di Hegel. Si parte da una situazione iniziale di identità di certezza e di verità: l’uomo greco pensa che quello che ha dinanzi sia il come stanno le cose, però insieme pensa che queste “cose” esistano indipendentemente dal saperle. Ma, se le “cose” esistono indipendentemente dal saperle, allora è inevitabile la domanda cartesiana che appunto chiede in base a che cosa siamo certi che il nostro sapere, il cogitatum, corrisponda alla verità. Ed è inevitabile la posizione kantiana la quale esclude la possibilità di sapere come stanno le cose. Ed è inevitabile anche l’idealismo che esclude la stessa affermazione “della cosa in sé”.

63La formula hegeliana è quindi: 1) identità iniziale di certezza e verità; 2) differenza tra certezza e verità: si tratta di vedere come dalla certezza si arrivi alla verità; 3) ripristinata identità di certezza e verità, per cui ciò che il pensiero pensa è come stanno le cose – e le cose stanno così come il pensiero le pensa20. Non a caso Hegel dice che era molto meglio l’antica metafisica, la quale faceva coincidere le categorie del come stanno le cose con le categorie del pensiero, che non la moderna concezione dell’intelletto che naufraga o si limita alla conoscenza dei fenomeni.

64Fin qui l’idealismo: la certezza è verità. Ma ancora non basta, perché adesso viene fuori la domanda più importante: «In base a che cosa affermiamo incontrovertibilmente ciò che appare?». Non basta dire che ciò che appare è fonte legittima di conoscenza – il principio di tutti i principi. Ci si deve ancora chiedere: «In base a che cosa è incontrovertibile l’affermazione di ciò che appare?». Si aggiunga che l’apparire dei contenuti nei loro nessi – per esempio l’apparire dell’interpretazione il cui contenuto è il nostro star qui seduti – è la forma originaria del “giudizio”. Il giudizio che dice come stanno le cose è allora una forma derivata di verità perché viene quando ormai il “giudizio” autentico è già stato dato: per sapere che un certo giudizio dice come stanno le cose, è necessario che le cose appaiano così come stanno.

Incontrovertibilità e interpretazione

65Insistiamo ancora sulla rete di determinazioni che soggiacciono al carattere dell’incontrovertibilità. Ho incominciato dicendo che oggi è considerata seria l’attività specialistica, non seria la riflessione totalizzante. Pensiamo a un filosofo come Derrida ed ecco l’enfasi delle differenze, l’incommensurabilità delle cose tra di loro: è l’enfasi stessa che vediamo nella specializzazione scientifica, nel “frammento” che oggi caratterizza l’arte, ma che vale sul terreno politico economico21.

66Consideriamo dunque le differenze e lasciamo stare per il momento l’identità delle differenze sulla quale (forse non ho abbastanza insistito) appoggia il proprio corpo la filosofia. Dopo ritorneremo su questo concetto; teniamo per ora ferme le differenze. Direi che in Italia (ma poi anche nel mondo) il clima culturale è prevalentemente su questo versante della cura per le differenze. Allora: la finestra è una differenza, Torino è una differenza, la biro è una differenza, Dio è una differenza, gli Stati Uniti sono una differenza… ma – qui scandisco la banalità – le differenze non sono forse identiche nell’esser differenze? E allora il bando all’identità è un bando relativo. È il discorso che facevamo prima a proposito di un’interpretazione unitaria della storia dell’Occidente. Qui però abbiamo fatto un salto qualitativo perché stiamo dicendo che i Greci evocano il senso dell’identità delle differenze. Cosa vuol dire? Vuol dire che essi vanno oltre il mito anche perché vedono che, per quanto distanti siano le cose tra di loro (distanti nello spazio, nel tempo, nel gusto, nel giudizio eccetera…), sono tutte abitatrici del tutto, stanno tutte nel tutto, abitano il tutto, sono identiche in questo loro abitare il tutto. Questo è il concetto di identità che regge il concetto di totalità, perché la totalità delle differenze è possibile solo se le differenze hanno un qualche cosa di identico: se fossero incommensurabili, non le si potrebbe racchiudere in una unità.

67Oggi è fiorente ciò che una volta veniva chiamato “nominalismo”, e qui mi riferisco soprattutto ai filosofi della scuola analitica per cui l’identità delle differenze è una questione verbale, linguistica, ma linguistica nel senso deteriore, cioè è un nome, è una convenzione. Eppure c’è questo protoargomento per cui l’eliminazione dell’identità delle differenze non può essere eseguita: chi intende eseguirla non la esegue perché è costretto a intendere le differenze come identiche nel loro essere differenze.

68È giunto il momento di mettere in chiaro che tutto quanto abbiamo detto sulla storia del mito, sulla storia dell’Occidente – e poi sulla tecnica, di cui abbiamo fatto qualche cenno, e quanto diremo sulla “morte di Dio” – ebbene, tutto questo non appartiene all’incontrovertibile. Qui dobbiamo soffermare la nostra attenzione.

69È nota l’affermazione di Nietzsche che non esistono fatti ma interpretazioni22. Popper cita Kant come colui che, per primo, ha inteso il fattuale come interpretato dalle strutture a priori del soggetto: è la prima forma di interpretazione. Popper – che riconosce il contributo di Kant, ma non cita mai Nietzsche, il quale diceva appunto che non esistono fatti ma interpretazioni – traduce dicendo che ogni fatto è carico di teoria e che le teorie sono ipotetiche, cioè non sono incontrovertibili23.

70Ebbene, tutto il discorso che abbiamo fatto sulla storia dell’Occidente è una interpretazione. Ma, a questo punto, dobbiamo anche prendere le distanze dal modo in cui questa frase viene pronunciata nella cultura contemporanea, dove si arriva perfino a dire che tutto è interpretazione – e che è un’interpretazione anche dire che tutto è interpretazione.

71Si dice: tutto ciò che appare è non incontrovertibile, è controvertibile – e quindi appare all’interno di forme di volontà che appunto gli conferiscono un senso. La Sinngebung di Husserl, per esempio, è un conferimento di senso a ciò che appare. Con questo, l’ermeneutica crede di aver chiuso i conti con l’incontrovertibile. Qui troviamo un secondo nodo da tener presente e che, come importanza, equiparerei a quello che avevo toccato prima parlando di identità delle differenze, giacché ogni differenza è identica nell’esser differenza.

72Dal punto di vista classico della tradizione esistono le finestre, i tavoli, gli uomini, il prossimo. Da tempo sappiamo – se vogliamo stare a Popper, per lo meno da Kant, ma il discorso sarebbe da approfondire – che invece ciò che appare è oggetto di una Sinngebung, di un’interpretazione. Il tavolo o la finestra non sono certamente ciò che il Greco, o anche Hegel, potevano pensare; e neppure esistono le banche e le fabbriche come pensa Marx quando parla delle forme economiche oggettivamente esistenti: le banche, la lotta di classe. Tutto questo è certo da correggere e da intendere nel senso che le banche, i tavoli, la lotta di classe… il prossimo, sono contenuti di interpretazione, sono essenti che sono contenuti di interpretazione. Ma non dovremo allora dire che l’interpretazione è l’autentico essente che appare?

73Ecco il tratto che vorrei sottolineare: il concetto di “essente” non viene vanificato dal suo essere contenuto dell’interpretare. L’autentico concetto di essente che viene pressoché ignorato nella cultura contemporanea, sia di radice analitica sia di radice ermeneutica, è ciò che appare nell’interpretazione, è l’interpretazione stessa. Quindi qualcosa come una storia dell’Occidente è un campo sterminato di essenti che, come prima ho detto, è contenuto di un’interpretazione. Ma l’interpretazione appare, cioè l’interpretazione è l’autentico essente che appare.

74Ma noi stiamo parlando di apparire con troppa disinvoltura. Che cosa vuol dire apparire? Sembra che, per il fatto che qualcosa appaia, i conti siano chiusi. Ma perché ciò che appare non può essere negato? Husserl dice: il principio di tutti i principi è il principio della fenomenologia per cui qualcosa è contenuto di un’affermazione vera nella misura in cui appare. Ma perché non si può negare ciò che appare? Perché non posso dire di “no” alla stessa interpretazione che appare? Invito a passare dal concetto (ingenuo) naturalistico dei Greci, per cui l’ente è quello che ormai noi sappiamo essere il contenuto di un’interpretazione, al concetto per cui l’autentico essente è l’interpretazione: il tavolo è un’interpretazione, il prossimo è un’interpretazione.

75Potremmo certo dire che l’interpretazione è interpretazione di qualcosa. Però il qualcosa che viene interpretato e rispetto a cui diciamo per esempio – per citare un testo di Maurizio Ferraris24 – che quella “cosa” lì è un “gatto”, non è ciò che intendiamo con la parola “gatto”, cioè felino capace di mangiare, di digerire, di graffiare. Tutto questo carico di significati appartiene infatti alla volontà che quel certo evento, che certo ci dev’essere e che possiamo chiamare “fatto” o “dato” da interpretare, sia un “gatto”. Ma quel “fatto” o “dato”, distinto dalle categorie interpretanti, non è il “gatto”. Inoltre ciò che chiamiamo “fatto” o “dato” può essere a sua volta il risultato di un’interpretazione. Il neopositivismo pensava di cavarsela riducendo l’insieme dell’interpretare agli Erlebnisse, ai dati vissuti elementari. Ma gli stessi Erlebnisse, come ormai sanno le scienze neurologiche, si presentano a loro volta come interpretazioni di “fatti” ancora più elementari. L’interpretazione cade dunque su qualcosa che, in questa situazione, non è a sua volta un interpretare altro. Ma ciò non esclude che quel “fatto” o “dato” su cui non si discute, e che è investito dalle categorie interpretanti, possa presentarsi esso stesso come un’interpretazione di qualcosa che attualmente non appare.

76Per interpretazione intendo quindi la volontà che aggiunge a quello che prima abbiamo chiamato il fatto/dato un cumulo più o meno ampio di significati: è la volontà che quel certo evento significhi, per esempio, “gatto”. Se definiamo l’interpretazione come la volontà di addizionare, di aggiungere un significato a ciò che è “dato”, allora la verità come contenuto della interpretazione diventa un voluto, cioè diventa una fede e non può essere l’incontrovertibile. Ma, se la verità è anche il non incontrovertibile – se la verità è ciò che può essere smentito –, allora è bene non chiamare verità l’incontrovertibile25.

La verità dell’ ἐπιστήμη è destinata a morire

77L’impressione che ho potuto dare con quanto detto sopra è quella di un sostenitore dell’incontrovertibile. Sennonché l’intero senso dell’incontrovertibile, l’intero modo in cui l’incontrovertibile è apparso lungo la storia dell’Occidente, è destinato a tramontare ed è destinato a tramontare per opera di personaggi come Nietzsche.

78Ho insistito sul senso dell’ ἐπιστήμη (epistéme) e ne ho tessuto l’elogio perché oggi manca la sensazione che, allontanandoci dal passato, ci si allontani dagli “dèi”, cioè da qualche cosa di grandioso. Oggi si crede di poter liquidare Dio, la verità, l’incontrovertibile, in quattro e quattr’otto, laddove invece bisognerebbe fare i conti con quell’incontrovertibile e quindi con quella tradizione epistemica alla quale, a mio avviso, appartiene anche un filosofo come Pareyson, se non altro per il modo in cui valorizza Schelling – e cioè secondo quel modo per cui Dio non ha i caratteri dell’eternità, ma è il risultato di una scelta che sarebbe potuta non esserci, dove l’amore vince sull’odio, l’essere vince sul non essere. Questo nulla originario, che è insieme possibilità da cui emerge Dio, appartiene ancora alla tradizione epistemica: è un diverso modo (non ortodosso nel senso della teologia cattolica) di concepire il divino, più vicino a un Dio inteso sine glossa, come per esempio si intende la Bibbia sine glossa quando si dice che Dio si adira o si pente di aver creato l’uomo.

79Posso quindi aver dato l’impressione di aver valorizzato l’incontrovertibile della tradizione. Ma mi sono preoccupato di mostrare che ciò che siamo destinati ad abbandonare è qualche cosa di grandioso; per questo ho usato la parola “dèi” intendendo riferirmi alla tradizione epistemica che sta alla base della stessa storia della tradizione occidentale.

80Tuttavia, la verità dell’ ἐπιστήμη (epistéme) è destinata a morire. Per sapere la morte di qualcuno, bisogna nondimeno sapere che cos’è questo qualcuno, chi è questo qualcuno che muore. Si tratta di qualcosa di straordinariamente grande e potente rispetto al quale, continuo a dirlo, il laicismo contemporaneo fa la figura di una bigotteria altrettanto ingenua della bigotteria di carattere religioso. Con questo non voglio dire che la religione sia bigotta, che non ci siano forme non bigotte della religione. Ci sono, e le conosciamo tutti, altissime forme di religiosità. Ma c’è quel bigottismo religioso che ha il suo pendant nel bigottismo laicista che oggi crede di potere liquidare la tradizione in due battute. Si fa presto a dire: «Dio non c’è, Dio è morto». Lo stesso Nietzsche rimproverava gli animali che lo seguivano dicendo: «Trasformate il mio discorso in una canzoncina da organetto»26. Oggi, per lo più, il laicismo è su questo piano.

81Fa dispiacere vedere Ratzinger discutere con Habermas e poi vedere i media che si esaltano per questo confronto. Mi riferisco al dialogo intercorso tra i due qualche anno fa, quando Ratzinger era ancora cardinale. Habermas dice: «Noi che ci poniamo in una prospettiva postmetafisica…» e di qui procede. Ma questo vuol dire: «Noi che liquidiamo ogni atteggiamento epistemico…» e quindi anche ogni teologia che sorregga il cristianesimo e che lo sorregga nel modo in cui Ratzinger crede. Dopodiché Ratzinger crede di essere d’accordo con Habermas, ma è un dialogo tra sordi. Non dico che Habermas sia un laicista bigotto. C’è da augurarsi che nelle Università occidentali ci siano tanti Habermas. Però, anche in questo dialogo con Ratzinger, ha creduto che fosse lecito sbarazzarsi della metafisica senza tuttavia spiegare il perché lasciava da parte la metafisica, cioè quell’atteggiamento che è strettamente intrecciato al senso dell’ ἐπιστήμη (epistéme).

Filosofia e scienza

82Stiamo ora arretrando secondo una richiesta di rigore ulteriore. Perché non possiamo negare ciò che appare? Rispetto a questo tipo di discorso, la scienza volta le spalle, anzi, alza le spalle. È il momento di chiarire maggiormente il rapporto tra filosofia e scienza. Da dove parte infatti qualsiasi costruzione teorica ma, di più, qualsiasi attività pratica dell’uomo, qualsiasi esperienza religiosa, artistica, eccetera? Qual è dunque il punto di partenza della scienza se non appunto l’apparire del mondo? Soltanto che dell’apparire del mondo la scienza si disinteressa. Si appoggia con le spalle alla manifestazione del mondo, ma solo vi si appoggia, non volta la testa per guardare che cos’è ciò su cui si appoggia. Il pensiero filosofico, sin dal principio, guarda invece che cos’è ciò su cui la scienza si appoggia.

83La scienza però ha anche la pretesa di dire alla filosofia quali sono gli inevitabili presupposti della filosofia. Merita di essere considerata sul serio l’affermazione di Gadamer che non c’è filosofia senza pregiudizi. Il discorso del pregiudizio – la filosofia implica dei pregiudizi – è uno dei molti modi di negare l’incontrovertibile. I pregiudizi sono molti e l’intento è quello di dire che la coscienza, e quindi la coscienza filosofica, non ha i caratteri dell’incontrovertibilità cartesiana, ma ha anche qui, alle proprie spalle, qualche cosa di più originario che viene di volta in volta elencato.

84Uno dei modi della negazione è appunto questo gadameriano che dice quanto sia impossibile fare filosofia senza pregiudizi, il che significa: la filosofia non è incontrovertibile. L’espressione “morte di Dio” allude in generale alla critica che il pensiero e la cultura moderna, soprattutto degli ultimi duecento anni, rivolge al concetto di incontrovertibilità.

85L’affermazione di Gadamer è forse la meno conosciuta perché ci sono altre ben più sostanziose affermazioni della dipendenza della coscienza filosofica da qualche cosa di più originario. Tutti si sono imbattuti in queste forme. Proviamo a enumerarle. Innanzi tutto Marx, per il quale non c’è una coscienza filosofica autonoma che presuma potersi porre indipendentemente dal modo in cui l’uomo lavora, dai cosiddetti rapporti di produzione. Questo è uno dei modi di mostrare la dipendenza dell’incontrovertibile da una dimensione più originaria.

86Ma sono diversi i condizionamenti della coscienza filosofica che vengono indicati e spesso in conflitto tra di loro. Si pensi, per esempio, alla Wissenssoziologie, a Scheler, a Mannheim e poi tutta la scuola che vi si ricollega, per cui la coscienza filosofica dipende dal tipo di società in cui si vive: l’intellettuale, e tanto più il filosofo, non è autonomo. Non si può cioè costruire una coscienza incontrovertibile la quale non debba fare i conti con il tessuto sociale.

87Ma ancora, il linguaggio, tema sul quale torneremo con particolare attenzione. Noi pensiamo, ma pensiamo all’interno del linguaggio, e il linguaggio è storico, e la storicità è per ciò stesso controvertibilità. La parola è condizionata storicamente, ma il significato è all’interno della parola. Ergo… Anche il linguaggio allora condiziona e determina la pretesa di autonomia dell’incontrovertibile.

88E poi l’inconscio, il grande tema della psicoanalisi. La coscienza, dice Freud, è la punta di un Eisberg dove ciò che non è coscienza, ciò che non è mente, determina il costituirsi della mente. Ma oggi di che cosa si parla soprattutto? Di condizionamento cerebro-biologico della mente: la mente è una funzione del cervello così come la digestione è una funzione dello stomaco. È il cervello quindi, cioè qualche cosa di materialmente determinato, a provocare il costituirsi del mentale.

89Le critiche all’incontrovertibile si stanno facendo oggi sempre più consistenti. Guardiamole un poco più da vicino. Il cervello, il linguaggio, la società, il lavoro e potremmo aggiungere ancora altri modi, come il pregiudizio, sono tutte forme del diventar altro, sono situazioni di in-stabilità cioè di non-epistemicità: l’instabilità linguistica, l’instabilità economica. Tutti questi, che sono i condizionamenti, sono forme di trasformazione delle cose, cioè di quella trasformazione rispetto alla quale la coscienza filosofica, qual è prospettata dal pensiero greco e poi su su fino a Hegel, cioè la coscienza filosofica dell’incontrovertibile, è dipendente – e quindi è soltanto una presunzione quella di poter pensare l’incontrovertibile.

90C’è un’ulteriore osservazione che vorrei fare a proposito del concetto di condizionamento. Lo so che, per esempio, Davidson insiste sul concetto di causa ma, dopo quanto è stato detto a proposito del concetto di causa – pensiamo solo a Hume –, la causa può essere intesa come connessione necessaria tra causa ed effetto? Si parla di condizionamenti della mente. Ma che cosa vuol dire condizionamento? Vuol forse dire che, dato l’elemento condizionante “C”, l’effetto “F” potrebbe non prodursi? Quando si parla di elemento condizionante messo nelle condizioni di condizionare, quando si parla di questa connessione, che è una connessione causale, s’intende forse dire che l’elemento condizionante in atto può non esser seguito da ciò che abbiamo chiamato “F”? No, perché altrimenti non ci sarebbe condizionamento. Condizionamento vuol dire: data la situazione ottimale, posta cioè la condizione nella situazione di essere condizione, l’effetto è una conseguenza necessaria della condizione.

91Come prima si diceva che non è possibile pensare il concetto di differenza senza vedere nelle differenze l’identità del loro essere differenze, così ora emerge un concetto di nesso necessario – le varie forme del condizionamento – che permane nell’atto stesso in cui, in ognuno dei casi di condizionamento, si intende metter in questione l’incontrovertibilità della mente e cioè l’esistenza di nessi necessari.

92Mi permetto di ripetere questo concetto. Abbiamo tra le mani l’evocazione greca dell’incontrovertibile. Stiamo muovendoci oltre questa evocazione che va dai Greci fino a Hegel e, potremmo dire, fino a Einstein, perché Einstein condivide ancora il concetto epistemico della scienza. Ma, nel frattempo, c’è tutto un insieme di atteggiamenti antiepistemici e quindi negativi rispetto all’incontrovertibile – atteggiamenti che ho incominciato a nominare sin dalla prima battuta di quanto ho detto facendo riferimento alla specializzazione scientifica – che presumono mostrare la condizionatezza della mente filosofica la quale appunto pretende di essere incontrovertibile. E l’incontrovertibilità non è una situazione, direbbe Aristotele, semantico - non apofantica, ma semantico-apofantica: l’incontrovertibilità è l’affermar qualcosa di qualcosa, cioè è un nesso necessario. Mettendo in questione l’incontrovertibile, si intende allora mettere in questione l’esistenza di nessi necessari, giacché, scrive Aristotele all’inizio del De interpretatione, se uno pronuncia la parola “cavallo”, non gli si può dire che ha sbagliato o che ha ragione. Gli si può dire che ha sbagliato se afferma che «il cavallo è la luna» oppure che ha ragione se afferma che «il cavallo è un quadrupede». È per questo che ci deve essere il semantico-apofantico, cioè il nesso predicazionale, affinché ci sia il nesso necessario.

93Ebbene, parlare di incontrovertibile significa parlare dell’incontrovertibilità del semantico-apofantico. Ma noi abbiamo prima avanzato un insieme di considerazioni volte a mostrare la condizionatezza del piano dell’incontrovertibilità del semantico-apofantico e cioè dell’incontrovertibilità di nessi necessari. Si dice: «C’è il linguaggio, c’è l’economia, c’è l’impulso, c’è l’istinto, c’è il cervello, c’è l’inconscio, c’è il pregiudizio che condizionano l’incontrovertibile». Ma, mettendoci poi a considerare il concetto di condizionamento ed escludendo che il condizionamento sia una giustapposizione casuale tra “C” e “F” – una giustapposizione per cui capita soltanto che, essendoci la cosiddetta condizione, ci sia il cosiddetto effetto –, abbiamo visto che tutte queste forme, che indicano la condizionatezza della dimensione dell’incontrovertibile, sostengono quel tipo di nesso causale che dovrebbe essere tolto di mezzo qualora si togliesse di mezzo l’incontrovertibilità che costituisce la mente epistemico-filosofica.

Notes de bas de page

4 «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma, al contrario, è il loro essere sociale che determina la loro coscienza» (K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione, trad. it. B. Spagnolo Vigorita, Roma, Newton Compton, 1976, p. 31).

5 Cfr. M. Heidegger, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976. «Nell’offerta della bevanda consacrata si dispiega l’essere della brocca versante come il versare che offre […]. Nell’offerta del versare permangono insieme terra e cielo, i mortali e i divini. Questi quattro, uniti di per se stessi, sono reciprocamente connessi» (pp. 114-115)

6 Dico esplicitamente perché noi sappiamo che, per esempio, anche in Omero l’espressione μὴ ὅντες ( óntes) è ricorrente. I μὴ ὅντες ( óntes) sono i morti, ma l’esser morto, per Omero, ha un significato relativo, come per le ancor più antiche civiltà: i morti sono coloro che si sono allontanati da questa nostra vita, ma che possono ritornare. Il nulla non ha cioè quella perentorietà che incomincia a comparire con Parmenide e con Eschilo – che è uno dei grandi pensatori, dei grandi padri della filosofia occidentale.

7 Cfr. Platone, Repubblica, 477 a. Vedi anche Sofista, 237 b 7: «Noi abbiamo osato pronunciare espressioni come l’assoluto non essere».

8 Nel commento alla Lettera ai Romani, compare evidentissima la contrapposizione tra il tempo e l’eterno. Quindi questo ganz Anderes non è così “altro” dall’essente se addirittura è l’eterno. Può essere l’eterno senza essere l’essente? Allora il ganz Anderes rientra in quella contrapposizione di ente e nulla alla quale alludevo.

9 Ero molto amico di Gadamer e ricordo di aver discusso con lui della differenza ontologica di Heidegger. Gadamer non ha molto insistito su questo punto, ma in quell’occasione mostrava di condividere il concetto di differenza ontologica di Heidegger. Anche a lui posi le stesse domande che formulo qui.

10 Cfr. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, “I Quattro grandi errori”, trad. it. con testo originale a fronte a cura di G. Brianese e C. Zuin, Bologna, Zanichelli, 2006, pp. 87-91.

11 Aristotele, Metafisica, 1, 2, 982 b 18-19.

12 Cfr. E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano, Adelphi, 20052.

13 «Quanto è unico e solo sapiente non vuole e vuole esser detto col nome di Zeus» (Eraclito, fr. 32).

14 Cfr. Aristotele, Analitici Posteriori, I, 2, 71 b 9 sgg.; Id., Metafisica, 5, 1015 a 33-35.

15 «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Lettera agli Ebrei, 11,1).

16 Cfr. Tommaso, Quaestio De fide aa. 1, 2, 9.

17 «State contenti, umana gente, al quia; | ché, se potuto aveste veder tutto, | mestier non era parturir Maria» Dante, Purgatorio, III, vv. 37-39.

18 Cfr. Aristotele, De interpretatione, I.

19 Cfr. R. Descartes, Principi di filosofia, parte prima, cap. 9.

20 Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, parr. 26-83.

21 Quando gli Stati Uniti hanno inventato la bomba al neutrone, hanno inventato un tipo di bomba il cui uso potesse essere delimitato in modo da non coinvolgere il mondo in una guerra totale. Il carattere di specializzazione riguarda cioè anche questi fenomeni di carattere pratico-politico-economico: alla base stava la fede che, qualora fosse scoppiata la guerra tra le due superpotenze, si sarebbe potuto localizzare lo scontro come conflitto specialistico. È lo stesso concetto di specializzazione che troviamo nella scienza ed è in questo clima culturale di enfasi delle differenze che ho citato Derrida, ma avrei potuto citare molti altri.

22 Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, fr. 7[60]; Id., La volontà di potenza, fr. 30 (9[40]).

23 Cfr. K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, trad. it. M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1970; Id., Congetture e confutazioni, trad. it. G. Pancaldi, Bologna, il Mulino, 1972 (in particolare il saggio “La scienza: congetture e confutazioni”); Id., Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad. it. A. Rossi, Bologna, Armando, 19832 (in particolare, i capp. 1 e 4).

24 M. Ferraris, Non ci sono gatti, solo interpretazioni, «Annuario Filosofico Europeo», Diritto, giustizia e interpretazione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Bari, 1998.

25 Che cosa vuol dire, infatti, Auschwitz? Vuol dire: “Tu non ci sei e ti tratto come ciò che non è”. Non stiamo facendo un po’ di accademia. No, ogni violenza al mondo è un trattare qualcosa, per esempio l’uomo, come non incontrovertibilmente uomo.

26 Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, III, «Il convalescente».

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